Il problema dei social network : i "deep fake" ed il video falso postato da Donald Trump

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Il problema dei social network : i "deep fake" ed il video falso postato da Donald Trump
Il problema dei social network : i
"deep fake" ed il video falso
postato da Donald Trump
ROMA – Uno spettro ha inseguito Hillary Clinton per tutta la campagna
elettorale del 2016: quello di Bengasi. La città libica che agli occhi
dei suoi detrattori     è diventata il simbolo di tutto il marcio
rappresentato dalla candidata, diffondendosi sotto forma di teoria
cospiratoria in grado di farsi meme. In realtà a distanza di anni
Bengasi è diventato un esempio di offuscamento politico perfetto: il
riferimento era agli attacchi contro soldati americani avvenuti tra
l’11 e il 12 settembre 2012, che costarono la vita a quattro
statunitensi, e per i quali vennero accusati Barack Obama all’epoca
Presidente degli Stati Uniti d’ America ed Hillary Clinton, suo
Segretario di Stato .

Infatti nessuna indagine trovò e portò alla luce qualsiasi tracce di
negligenza sul loro operato, ma la storia continuò a diffondersi,
sospesa tra il vero ed il falso.

Lo stesso genere di “fake news” su Benghazi è ritornata in una sua
applicazione e variabile più attuale, realizzata su misura dei social
network ed i loro algoritmi. Questa volta al centro della questione
c’è Nancy Pelosi, la speaker della Camera degli Stati Uniti , di
origini molisane, un’altra donna avversaria di Trump,         e tra le
persone    che   potrebbero     mettere     in  moto    la   macchina
dell’impeachment contro il presidente Trump. Da qualche mese i media
si divertivano a notare quanto fosse facile per la Pelosi fare
deragliare Trump, spesso costringendolo a scivoloni pubblici (come
quella volta che gli fece affermare che lo shutdown del Governo
sarebbe stata un’idea sua e solo sua, come se fosse un vanto).

Le cose sono cambiate la scorsa settimana, quando ha cominciato a
circolare tra i circuiti della destra americana, un filmato che è
stato retwittato dal commander-in-chief in persona. E il video, pur
essendo palesemente falso, è rimasto ancora lì, online su Facebook e
Twitter, destinato a offuscare il nome di Nancy Pelosi nel suo futuro.

La versione originale del filmato mostra la speaker parlare al
microfono, mentre la versione proposta dall’amministrazione Trump, è
stata invece rallentata abbastanza al punto tale da da farla sembrare
un po’ ubriaca.
Il problema dei social network : i "deep fake" ed il video falso postato da Donald Trump
Un effetto video-digitale che era già venuto alla luce nell’esilarante
spot Apple di Jeff Goldblum, modificato per farlo sembrare sbronzo, ma
ecco che, nel 2019, fa tranquillamente capolino in un articolo sulla
politica estera, a dimostrazione della squallida evoluzione dei nostri
eventi.

Ormai non costituisce più notizia che un filmato contraffatto sia
stato messo online, chiaramente non siamo così ingenui, così come non
fa neanche notizia, purtroppo, che un presidente come Donald Trump
l’abbia subito fatta propria e “legittimata” (a voler essere cinici).
La vera novità e notizia è costituita dal comportamento social
network, che sull’onda degli svariati scandali che hanno interessato
Facebook e non soltanto, negli ultimi anni hanno avviato programmi
contro le fake news. A metà maggio proprio Facebook ha presentato un
report sulla trasparenza in cui ha confessato (senza vergognarsi dei
precedenti omessi controlli) di aver cancellato in sei mesi 1,3
miliardi di account falsi e di bot . “Questo è solo l’inizio”, ha
detto Guy Rosen, che si occupa di sicurezza per l’azienda: “Le persone
possono segnalare molti più tipi di contenuti”.

Quando l’ ex sindaco di New York Rudolph Giuliani ora avvocato di
Trump, ha scoperto il video-fakenews della Pelosi e lo ha ritwittato,
da quel momento il video è passato dal profilo “ufficiale” del
Presidente Trump a quello della Casa Bianca (che lo ha persino
ritwittato) e quindi migrato anche su Facebook, insieme alle
strumentali dichiarazioni di Donald Trump su “Crazy Nancy” e la
millantata (non reale) follia della speaker della Camera degli Stati
Uniti.

Se dovessimo dare credibilità     ai responsabili della sicurezza di
Facebook, asterebbe segnalarlo e la clip sparirebbe dal social
network, ma allora ci si chiede: come mai quel video-fakenews è
ancora online, visto che YouTube ha cancellato e rimosso
immediatamente il contenuto? Facebook ha fatto quello che fa sempre in
questi casi: spendersi in una spiegazione piuttosto contorta. Monika
Bickert, che si occupa di counterterrorism per il social network,
ha spiegato alla Cnn che l’azienda, cioè Facebook “sa che il video è
falso” ma che lo ha lasciato online, anche se “abbiamo drasticamente
ridotto la circolazione di quel contenuto”. Incredibile se non
paradossale il motivo? “Pensiamo sia importante che le persone possano
decidere a che cosa credere”.

Difficile capire quante persone siano state danneggiate da quel video,
ma Facebook li ha ignorati e calpestati tutti: sia chi trova
inquietante quella millantata “riduzione” della diffusione del
contenuto, e quelli che invece hanno a cuore… la realtà. E la
correttezza dell’informazione.
Il problema dei social network : i "deep fake" ed il video falso postato da Donald Trump
Da mesi negli USA i repubblicani e la destra radicale americana
denunciano un’ipotetica campagna di “silenziamento” politico parte di
Facebook e Twitter, accusate di essere di sinistra. Una campagna è
arrivata fino al Senato, e che riguarda molto da vicino i “trumpiani“.
Se l’azienda agisse per cancellare quella che è palesemente una
vecchia bufala propagandistica aggiornata ai tempi nostri,
paradossalmente farebbe un assist alla Casa Bianca, dimostrando in
qualche modo le sue paranoie di censura. Ma forse questa è l’ultima
cosa di cui Facebook ha bisogno, di questi tempi.

Una cosa è certa. Ormai bisogna credere solo a quello che si vede con
i propri occhi. Di persona.

Lo speech integrale di Carole
Cadwalladr al TED
Il giorno dopo il voto sulla Brexit, quando la Gran Bretagna si è
svegliata con lo choc di scoprire che stavamo davvero lasciando
l’Unione Europea, il mio direttore al quotidiano Observer, mi ha
chiesto di tornare nel Galles meridionale, dove sono cresciuta, e
scrivere un reportage. E così sono arrivata in una città chiamata Ebbw
Vale.
Il problema dei social network : i "deep fake" ed il video falso postato da Donald Trump
Eccola (mostra la cartina geografica). È nelle valli del Galles
meridionale, che è un posto abbastanza speciale. Aveva questa sorta di
cultura di classe operaia benestante, ed è celebre per i cori di voci
maschili gallesi, il rugby e il carbone. Ma quando ero adolescente, le
miniere di carbone e le fabbriche di acciaio chiusero, e l’intera area
ne è rimasta devastata. Ci sono tornata perché al referendum della
Brexit era stata una delle circoscrizioni elettorali con la più alta
percentuale di voti per il “Leave”. Sessantadue per cento delle
persone qui hanno votato per lasciare l’Unione Europea. E io volevo
capire perché.

Quando sono arrivata sono rimasta subito sorpresa perché l’ultima
volta che era stata ad Ebbw Vale era così (mostra la foto di una
fabbrica chiusa). E ora è così. (mostra altre foto). Questo è un
nuovissimo college da 33 milioni di sterline che è stato in gran parte
finanziato dall’Unione Europea.
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E questo nuovo centro sportivo fa parte di un progetto di
rigenerazione urbana da 350 milioni di sterline, finanziato
dall’Unione Europea. E poi c’è questo tratto stradale da 77 milioni di
sterline, e una nuova linea ferroviaria e una nuova stazione, tutti
progetti finanziati dall’Unione Europea. E non è che la cosa sia
segreta. Perché ci sono grossi cartelli ovunque a ricordare gli
investimenti della UE in Galles.
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Camminando per la città, ho avvertito una strana sensazione di
irrealtà. E me ne sono davvero resa conto quando ho incontrato un
giovane davanti al centro sportivo che mi ha detto di aver votato per
il Leave, perché l’Unione Europea non aveva fatto nulla per lui. E ne
aveva abbastanza di questa situazione. E in tutta la città le persone
mi dicevano la stessa cosa. Mi dicevano che volevano riprendere il
controllo, che poi era uno degli slogan della campagna per la Brexit.
E mi dicevano che non ne potevano più di immigranti e rifugiati. Erano
stufi.

Il che era abbastanza strano. Perché camminando per la città, non ho
incontrato un solo immigrato o rifugiato. Ho incontrato una signora
polacca che mi ha detto di essere l’unica straniera in paese. E quando
ho controllato le statistiche, ho scoperto che Ebbw Vale ha uno dei
più bassi tassi di immigrazione del Galles. E quindi ero un po’
confusa, perché non riuscivo a capire da dove le persone avessero
preso le informazioni su questo tema. Anche perché erano i tabloid di
destra a sostenere questa tesi, ma questo è una roccaforte elettorale
della sinistra laburista.
Il problema dei social network : i "deep fake" ed il video falso postato da Donald Trump
Ma poi, quando è uscito il mio articolo, questa donna mi ha
contattato. Mi ha detto di abitare a Ebbw Vale e mi ha detto di tutto
quella roba che aveva visto su Facebook durante la campagna
elettorale. Io le ho chiesto, quale roba? E lei mi ha parlato di roba
che faceva paura, sull’immigrazione in generale, e in particolare
sulla Turchia. Allora ho provato a indagare, ma non ho trovato nulla.
Perché su Facebook non ci sono archivi degli annunci pubblicitari o di
quello ciascuno di noi ha visto sul proprio “news feed”. Non c’è
traccia di nulla, buio assoluto.

Questo referendum avrà un profondo effetto per sempre sulla Gran
Bretagna, lo sta già avendo: i produttori di auto giapponesi che
vennero in Galles e nel nord est offrendo un lavoro a coloro che lo
avevano perduto con la chiusura delle miniere di carbone, se ne sono
già andati a causa della Brexit. Ebbene, l’intero referendum si è
svolto nel buio più assoluto perché si è svolto su Facebook. E quello
che accade su Facebook resta su Facebook. Perché soltanto tu sai cosa
c’era sul tuo news feed, e poi sparisce per sempre, ma così è
impossibile fare qualunque tipo di ricerca. Così non abbiamo idea di
quali annunci ci siano stati, di quale impatto hanno avuto, o di quali
dati personali sono stati usati per profilare i destinatari dei
messaggi. O anche solo chi li ha pagati, quanti soldi ha investito, e
nemmeno di quale nazionalità fossero questi investitori.
Il problema dei social network : i "deep fake" ed il video falso postato da Donald Trump
Mark Zuckerberg, Ceo di Facebook

Noi non lo possiamo sapere ma Facebook lo sa. Facebook ha tutte queste
risposte e si rifiuta di condividerle. Il nostro Parlamento ha chiesto
numerose volte a Mark Zuckerberg di venire nel Regno Unito e darci le
risposte che cerchiamo. Ed ogni volta, lui si è rifiutato. Dovete
chiedervi perché. Perché io e altri giornalisti abbiamo scoperto che
molti reati sono stati compiuti durante il referendum. E sono stati
fatti su Facebook.

Questo è accaduto perché nel Regno Unito noi abbiamo un limite ai
soldi che puoi spendere in campagna elettorale. Esiste perché nel
diciannovesimo secolo le persone andavano in giro con letteralmente
carriole cariche di soldi per comprarsi i voti. Per questo venne
votata una legge che lo vieta e mette dei limiti. Ma questa legge non
funziona più. La campagna elettorale del referendum infatti si è
svolto soprattutto online. E tu puoi spendere qualunque cifra su
Facebook, Google o YouTube e nessuno lo saprà mai, perché queste
aziende sono scatole nere. Ed è esattamente quello che è accaduto.

Noi non abbiamo idea delle dimensioni, ma sappiamo con certezza che
nei giorni immediatamente precedenti il voto, la campagna ufficiale
per il Leave ha riciclato quasi 750 mila sterline attraverso un’altra
entità che la commissione elettorale aveva giudicato illegale, e
questo sta nei referti della polizia. E con questi soldi illegali,
“Vote Leave” ha scaricato una tempesta di disinformazione. Con annunci
come questi (si vede un annuncio che dice che 76 milioni di turchi
stanno per entrare nell’Unione Europea). E questa è una menzogna. Una
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menzogna assoluta. La Turchia non sta per entrare nell’Unione Europea.
Non c’è nemmeno una discussione in corso nella UE. E la gran parte di
noi, non ha mai visto questi annunci perché non eravamo il target
scelto. E l’unico motivo per cui possiamo vederli oggi è perché il
Parlamento ha costretto Facebook a darceli.

Forse a questo punto potreste pensare, “in fondo parliamo soltanto di
un po’ di soldi spesi in più, e di qualche bugia”. Ma questa è stata
la più grande frode elettorale del Regno Unito degli ultimi cento
anni. Un voto che ha cambiato le sorti di una generazioni deciso
dall’uno per cento dell’elettorato. E questo è soltanto uno dei reati
che ci sono stati in occasione del referendum.

C’era un altro gruppo, che era guidato da quest’uomo (mostra una
foto), Nigel Farage, quello alla sua destra è Trump. E anche questo
gruppo, “Leave EU”, ha infranto la legge. Ha violato le norme
elettorali e quelle sulla gestione dei dati personali, e anche queste
cose sono nei referti della polizia. Quest’altro uomo (sempre nella
stessa foto), è Arron Banks, è quello che ha finanziato la loro
campagna. E in una vicenda completamente separata, è stato segnalato
alla nostra Agenzia Nazionale Anticrimine, l’equivalente del FBI,
perché la commissione elettorale ha concluso che era impossibile
sapere da dove venissero i suoi soldi. E anche solo se la provenienza
fosse britannica. E non entro neppure nella discussione sulle menzogne
che Arron Banks ha detto a proposito dei suoi rapporti segreti con il
governo russo. O la bizzarra tempestività degli incontri di Nigel
Farage con Julian Assange e il sodale di Trump, Roger Stone, ora
incriminato, subito prima dei due massicci rilasci di informazioni
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riservate da parte di Wikileaks, entrambi favorevoli a Donald Trump.
Ma quello che posso dirvi è che la Brexit e l’elezione di Trump sono
strettamente legati. Ci sono dietro le stesse persone, le stesse
aziende, gli stessi dati, le stesse tecniche, lo stesso utilizzo
dell’odio e della paura.

Questo è quello che postavano su Facebook. E non riesco neanche a
chiamarlo menzogna perché ci vedo piuttosto il reato di instillare
l’odio (si vede un post con scritto “l’immigrazione senza
assimilazione equivale a un’invasione”).

Non ho bisogno di dirvi che odio e paura sono stati seminati in rete
in tutto il mondo. Non solo nel Regno Unito e in America, ma in
Francia, Ungheria, Brasile, Myanmar e Nuova Zelanda. E sappiamo che
c’è come una forza oscura che ci collega tutti globalmente. E che
viaggia sulle piattaforme tecnologiche. Ma di tutto questo noi vediamo
solo una piccola parte superficiale.

                                           Io ho potuto scoprire
qualcosa solo perché ho iniziato a indagare sui rapporti fra Trump e
Farage, e su una società chiamata Cambridge Analytica. E ho passato
mesi per rintracciare un ex dipendente, Christopher Wiley. E lui mi ha
rivelato che questa società, che aveva lavorato sia per Trump che per
la Brexit, aveva profilato politicamente le persone per capire le
paure di ciascuno di loro, per meglio indirizzare dei post
pubblicitari su Facebook. E lo ha fatto ottenendo illecitamente i
profili di 87 milioni di utenti Facebook. C’è voluto un intero anno
per convincere Christopher a uscire allo scoperto. E nel frattempo mi
sono dovuta trasformare da reporter che raccontava storie a
giornalista investigativa. E lui è stato straordinariamente
coraggioso, perché Cambridge Analytyca è di proprietà di Robert
Mercer, il miliardario che ha finanziato Trump, e che ci ha minacciato
moltissime volte per impedire che pubblicassimo tutta la storia. Ma
alla fine lo abbiamo fatto lo stesso.
E quando eravamo al giorno prima della pubblicazione abbiamo ricevuto
un’altra diffida legale. Non da Cambridge Analytica stavolta. Ma da
Facebook. Ci hanno detto che se avessimo pubblicato la storia, ci
avrebbero fatto causa. E noi l’abbiamo pubblicata.

Facebook, stavate dalla parte sbagliata della storia in questa
vicenda. E lo siete quando vi rifiutate di dare le risposte che ci
servono. Ed è per questo che sono qui. Per rivolgermi a voi
direttamente, dei della Silicon Valley… Mark Zuckerberg…. E Sheryl
Sandberg, e Larry Page e Sergey Brin e Jack Dorsey, ma mi rivolgo
anche ai vostri dipendenti e ai vostri investitori. Cento anni fa il
più grande pericolo nelle miniere di carbone del Galles meridionale
era il gas. Silenzioso, mortale e invisibile. Per questo facevano
entrare prima i canarini, per controllare l’aria. In questo
esperimento globale e di massa che stiamo tutti vivendo con i social
network, noi britannici siamo i canarini. Noi siamo la prova di quello
che accade in una democrazia occidentale quando secoli di norme
elettorali vengono spazzate via dalla tecnologia.

La nostra democrazia è in crisi, le nostre leggi non funzionano più, e
non sono io a dirlo, è un report del nostro parlamento ad affermarlo.
Questa tecnologia che avete inventato è meravigliosa. Ma ora è
diventata la scena di un delitto. E voi ne avete le prove. E non basta
ripetere che in futuro farete di più per proteggerci. Perché per avere
una ragionevole speranza che non accada di nuovo, dobbiamo sapere la
verità.

Magari adesso pensate, “beh, parliamo solo di alcuni post
pubblicitari, le persone sono più furbe di così, no?”. Se lo faceste
vi risponderei: “Buona fortuna, allora”. Perché il referendum sulla
Brexit dimostra che la democrazia liberale non funziona più. E voi
l’avete messa fuori uso. Questa non è più democrazia – diffondere
bugie anonime, pagate con denaro illegale, dio sa proveniente da dove.
Questa si chiama “sovversione”, e voi ne siete gli strumenti.

Il nostro Parlamento è stato il primo del mondo a provare a chiamarvi
a rispondere delle vostre azioni, ma ha fallito. Voi siete
letteralmente fuori dalla portata delle nostre leggi. Non solo quelle
britanniche, in questa foto nove parlamenti, nove Stati, sono
rappresentati, e Mark Zuckerberg si è rifiutato di venire a rispondere
alle loro domande.

Quello che sembrate ignorare è che questo storia è più grande di voi.
È più grande di ciascuno di noi. E non riguarda la destra o la
sinistra, il Leave o il Remain, Trump o no. Riguarda il fatto se sia
possibile avere ancora elezioni libere e corrette. Perché, stando così
le cose, io penso di no. E così la mia domanda per voi oggi è: è
questo quello che volete? È così che volete che la storia si ricordi
di voi? Come le ancelle dell’autoritarismo che sta crescendo in tutto
il mondo? Perché voi siete arrivati per connettere le persone. E vi
rifiutate di riconoscere che la vostra tecnologia ci sta dividendo. La
mia domanda per tutti gli altri è: è questo che vogliamo? Che la
facciano franca mentre noi ci sediamo per giocare con i nostri
telefonini, mentre avanza il buio?

La storia delle valli del Galles meridionale è la storia di una
battaglia per i diritti. E quello che è accaduto adesso non è
semplicemente un incidente, è un punto di svolta. La democrazia non è
scontata. E non è inevitabile. E dobbiamo combattere, dobbiamo vincere
e non possiamo permettere che queste aziende tecnologiche abbiano un
tale potere senza controlli. Dipende da noi: voi, me, tutti noi. Noi
siamo quelli che devono riprendere il controllo.

Fake news o make news?
di Federico Bagnoli Rossi*

                                         Il problema legato al
diffondersi in rete delle fake news è di estrema attualità, ora più
che mai, se considerato anche alla stregua di un’altra tematica,
riguardante la possibile approvazione della cosiddetta Direttiva
Copyright.

La questione ha acceso il dibattito perché, a seconda da che lato la
si guardi, si plaude allo sforzo normativo o lo si etichetta come
intento repressivo di un mezzo che non può essere imbavagliato.

Come sappiamo, internet è ormai divenuto talmente potente e importante
che, come rovescio della medaglia, è in grado di inglobare e
fagocitare qualsiasi cosa. Si è pertanto resa necessaria una
regolamentazione del settore per tutelare i contenuti culturali e le
opere di ingegno da quel far west che è diventato il web, dove ognuno
può mettere in rete ciò che vuole, spesso senza l’autorizzazione di
chi detiene i diritti di quel determinato contenuto.

La faccenda è molto complessa e coinvolge tutti i soggetti che operano
sul wed, per esempio, i motori di ricerca danno agli utenti la
possibilità di reperire con facilità informazioni e contenuti in rete.
Tra questi, anche contenuti culturali e di intrattenimento che sono
stati caricati senza le necessarie autorizzazioni da parte dei
titolari dei diritti. Ma chi c’è dietro quel testo, quell’articolo o
quell’opera audiovisiva a cui riusciamo ad accedere gratuitamente in
pochi secondi? Una persona, o un gruppo di persone che, a seconda
dell’opera, può essere qualificato come editore, autore o altro ma,
che in tutti i casi, sono titolari dei diritti di sfruttamento di
quell’opera, essendone i produttori o i creatori. Ebbene proprio in
questo senso si è deciso d’intervenire.

Ci si è accorti che, a fronte dei ricavi mastodontici prodotti dai
colossi del web, molto poco veniva corrisposto a coloro che, quel web,
lo riempiono di contenuti: notizie, opere e quant’altro sia frutto
dell’ingegno umano. L’utente medio è spesso poco interessato a questo
tipo di problematiche perché le sente distanti in quanto non
afferiscono con la sua vita personale o il suo lavoro. Ma come vi
sentireste se per un lavoro che avete eseguito non veniste remunerati?
E se quel lavoro venisse sfruttato da altri in cambio di un’utilità a
loro vantaggio? Non vi sentireste in qualche modo defraudati di
qualcosa che vi spetta di diritto quale riconoscimento del lavoro
svolto?

Su questo tema si è dibattuto anche in ambito europeo e le istituzioni
sovranazionali sono state chiamate a dirimere i nodi della questione
mediante l’avvio di una trattativa che, lungi dall’essere di semplice
risoluzione, ha come scopo ultimo l’approvazione di un testo normativo
(direttiva) applicabile direttamente a tutti gli Stati membri, e
vincolando gli stessi nel risultato da raggiungere, con libera scelta
a discrezione del Legislatore nazionale circa i mezzi e gli strumenti
legislativi necessari per ottenere detto risultato. Le trattative, che
inizialmente sembravano essersi arenate in quanto il testo oggetto
della trattativa non trovava i favori di molti dei Paesi membri
coinvolti, lasciando spazio a lacunose interpretazioni che spesso e
volentieri avrebbero potuto arrecare più danni che vantaggi, sembrano
essere destinate alla definitiva approvazione.

C’è da dire però che lungo il percorso non pochi sono gli ostacoli che
si frappongono in vista della conclusione degli accordi, essendo
molteplici gli interessi in gioco. Vi è di più. Il rischio di
licenziare un testo di cui non si conoscono i limiti di applicazione,
dato il novero di false notizie che gravitano attorno all’argomento,
può costituire un serio pericolo, non solo per gli addetti ai lavori,
ma anche per gli utenti finali, con evidenti ripercussioni negative
sia per l’ industria dei contenuti che del web. E non a caso si fa
riferimento al concetto di rischio o di pericolo, quando si parla di
notizie che girano in rete, legate a qualsivoglia argomento.

Il nocciolo della questione è proprio questo, ovvero il labile confine
che c’è tra il riportare una notizia, adempiendo al dovere di cronaca
in maniera retta e corretta, e generare una fake news, ovvero
un’informazione in grado di storpiare una vicenda, per renderla
certamente più appetibile all’utente, sacrificando però il diritto
dell’utente ad essere informato correttamente sull’altare del
sensazionalismo da bar. Ad esempio, proprio sul testo della Direttiva,
molto è stato detto e scritto, il più delle volte travalicando il
confine del diritto di cronaca e naufragando miseramente nel mare
aperto delle fake news.

Si è scritto per esempio, e correttamente, sulle posizioni
contrastanti dei diversi Paesi membri, con particolare riferimento
alla Francia e alla Germania circa la possibilità di corrispondere o
meno una remunerazione a favore degli editori e degli autori per i
collegamenti ai loro contenuti, la cosiddetta “link tax”che nonostante
l’appellativo fuorviante, non corrisponde assolutamente a una tassa, e
la necessità di un controllo preventivo da parte delle maggiori
piattaforme (Google, YouTube, etc) riguardo i contenuti caricati su di
esse, frettolosamente bollato come “censura” o “bavaglio della rete“.

Tale diatriba apre la strada a una questione ben più ampia e, se
vogliamo, pregiudiziale rispetto al fatto se sia dovuta o meno una
remunerazione per un qualcosa che viene condiviso in rete e sfruttato
dai grandi operatori del web. La questione, se possibile, è certamente
più complessa e delicata. Per quanto possa essere condivisibile la
posizione espressa dall’uno o dall’altro Paese, è innegabile che ci si
trovi di fronte a una vera e propria emergenza riguardante una
corretta informazione, e ciò dovrebbe avere una preminenza assoluta su
tutto il resto poiché ne costituisce la naturale premessa.

Della serie: come posso essere in grado di formare un pensiero
oggettivo, corretto e scevro da qualsiasi pregiudizio riguardo una
particolare tematica, quando molte delle notizie che parlano di quella
questione, sono false? La domanda seguente potrebbe essere: l’utente
medio è messo nelle condizioni di poter informarsi su qualcosa in
maniera corretta ed esaustiva? La risposta, senza timore di smentita
alcuna, è NO. In particolare, ciò che ci è dato sapere, mediante
l’utilizzo dei sistemi informativi a nostra disposizione, risulta
inquinato da una matassa di notizie che con l’informazione vera hanno
poco a che fare. Si tratta dell’annosa questione circa la massiccia
presenza in rete delle cosiddette fake news, vero vulnus della nostra
epoca sempre più digitale. Un virus che, partendo dal web, si annida
pian piano nelle nostre menti, contorcendo e distorcendo la visione
della realtà delle cose, spesso ben diversa da come ci viene
presentata.

La stessa Direttiva Copyright è finita in questo frullatore di notizie
che centrifuga i dati restituendo all’utente ciò di cui non avrebbe
davvero bisogno: ovvero notizie confezionate ad hoc, a proprio uso e
consumo a seconda della corrente di pensiero o dello schieramento
politico cui si appartiene. Considerate le spaccature interne create
dal dibattito, sia nei partiti politici che tra aventi diritto,
cittadini, istituzioni ecc, sarebbe forse meglio procedere a una
revisione totale di ciò che i Paesi membri si apprestano a votare? Non
è dato saperlo. Allora, prima ancora di discutere sulla
regolamentazione dei contenuti che vengono offerti sul web, andrebbe
rivista l’intera struttura della rete stessa, dal punto di vista
dell’informazione.

Prima di capire se un contenuto messo in rete debba essere o meno
remunerato, limitando (è un dato di fatto e innegabile) in caso
positivo la circolazione del contenuto stesso, andrebbe effettuata una
sorta di scrollatura di tutta quella filiera di informazioni che
creano nebbia, che diradano la visuale e confondono il cittadino, il
lavoratore, colui che esprime le proprie idee con un voto e che con il
voto indirizza la guida politica del Paese. Perché va ricordato, prima
che internauti, siamo cittadini e tutto ciò che passa dalla rete, ha
una ripercussione sulle nostre vite, prima ancora che sulle nostre
scelte. Sì perché il web è un’immensa struttura, ancorché immateriale,
fatta di precise fondamenta. Queste fondamenta sono pericolanti perché
non hanno un’intelaiatura in grado di sostenerle e, se non si
interviene a protezione della base, il rischio di un collasso sarà
sempre più imminente.

                                            L’intelaiatura sono le
regole e i principi cui tutti noi dovremmo uniformarci per una
pacifica convivenza in rete. Ma se queste regole sono inquinate dalla
presenza di notizie false, create ad hoc per destare il
sensazionalismo che tanto piace al populista di turno, va da sé che
l’intero complesso è viziato dal suo interno, finendo prima o poi
d’implodere su di sé. Non da ultimo va ricordata la campagna di
disinformazione che ha coinvolto Wikipedia, il famoso portale
enciclopedico, aggregatore di notizie. Si paventava di una sua
possibile penalizzazione se fosse stata approvata la Direttiva
Copyright, con un vespaio di polemiche, sollevate da chi era pronto a
cavalcare l’onda lunga del populismo mediatico e del sensazionalismo.

Come si è tenuto a precisare in corso d’opera, la possibile
approvazione della normativa europea sul Diritto d’Autore non recherà
alcun danno al portale in questione, né tantomeno comporterà una
restrizione all’utilizzo di meme. Questo perché, essendo Wikipedia
un’enciclopedia digitale che non persegue scopi commerciali, è esclusa
dal novero delle piattaforme oggetto di regolamentazione da parte
della disciplina europea. Questo breve ma significativo passaggio,
serve a chiarire la pericolosità insita in una fake news, quando anche
il pericolo di qualcosa che non si conosce a fondo, che non si
approfondisce o, come spesso accade, neanche si legge, costituisce
terreno fertile per costruire falsità e rivendicazioni che nulla hanno
a che vedere con i reali interessi in gioco.

Insomma, non importa che venga inviato un messaggio fuorviante e non
attinente alla realtà, l’importante è creare scalpore, confezionare
una notizia ad hoc in grado di suscitare sdegno in chi la legge e che
solitamente non va oltre quell’alone mediatico cucito attorno alla
notizia stessa, che ostacola la presa di coscienza su un fatto,
impedendo una corretta consapevolezza e informazione su ciò che
accade. Il percorso come si evince, si rivela tutt’altro che scevro da
ostacoli, costituiti appunto dalle fake news di cui il web è
disseminato e che occorrerebbe disinnescare per evitare il peggiore
dei mali che attanaglia la nostra epoca: la disinformazione acuta.
*Segretario Generale FAPAV (Federazione per la Tutela dei Contenuti
Audiovisivi e Multimediali)

Mediaset vince causa contro
Facebook: “Violati diritto d’autore
e diffamazione”
di Giovanna Rei

ROMA -Lo annuncia il Gruppo Mediaset: “Facebook è stata condannata
dal Tribunale di Roma per violazione del diritto d’autore e per
diffamazione, illeciti commessi ospitando link non autorizzati sulle
pagine della propria piattaforma“. Una sentenza, per la prima volta
del genere in Italia, avviata dal gruppo del biscione, che ha avviato
la causa contro la piattaforma americana di social networking, con
“un contenzioso dal valore economico modesto ma cruciale nei principi
che intendeva tutelare e dai risvolti delicati per il precedente che
crea“.

Piersilvio Berlusconi

Per il gruppo Mediaset guidato da Piersilvio Berlusconi, si tratta di
una “svolta nella giurisprudenza italiana a tutela del copyright“.
Questi, in sintesi i fatti secondo quanto ricostruita dall’azienda di
Cologno Monzese. “Nel 2012, utenti anonimi aprono una pagina Facebook
dedicata a un cartoon trasmesso da Italia Uno, Kilari. Alcuni link
della pagina conducevano da un lato a contenuti tutelati da diritto
d’autore illecitamente caricati su You Tube, dall’altro a pesanti
insulti e commenti denigratori indirizzati all’interprete della sigla
della serie animata. Nonostante numerose diffide, Facebook ha scelto
negli anni di non rimuovere i contenuti e i link incriminati
costringendo Mediaset a ricorrere alla Magistratura. E oggi, con la
sentenza n. 3512/2019 del Tribunale di Roma, i giudici hanno
condannato Facebook sia per diffamazione che per violazione del
diritto di autore“.

“La decisione è la prima a riconoscere in Italia la responsabilità di
un social network per una violazione avvenuta anche solo attraverso il
cosiddetto “linking”, ovvero la pubblicazione di link a pagine esterne
alla propria piattaforma, recependo in questo modo anche da noi
l’ormai consolidata giurisprudenza europea in materia di violazioni
del copyright”. A tal proposito, Mediaset “auspica che la direttiva
europea sul diritto d’autore nel digitale – oggetto nei giorni scorsi
dell’accordo del trilogo – venga approvata per dare un quadro
definitivo alla difesa dei contenuti, frutto dell’ingegno e della
creatività degli editori“.

“Stiamo esaminando la decisione del Tribunale di Roma – ha comunicato
un portavoce italiano dell’azienda statunitense -. Facebook prende
molto seriamente la difesa del diritto d’autore e negli ultimi anni
abbiamo investito molte risorse per sviluppare, grazie anche alla
collaborazione e ai commenti dell’industria creativa, numerose
funzionalità e strumenti per aiutare i detentori di diritti a
proteggere la loro proprietà intellettuale. Questo include canali di
segnalazione dedicati, team che operano 24 ore su 24, 7 giorni su 7,
per rivedere le segnalazioni, e strumenti sofisticati per identificare
i contenuti protetti da copyright ancor prima che vengano segnalati.
Continueremo a lavorare con l’industria dei contenuti e a investire in
nuovi strumenti a tutela del diritto d’autore”.

Basta con le fake news. Fermiamole
!
di Antonello de Gennaro
Quotidianamente ognuno di noi utilizzando i socialnetwork,e quello che
è ancora peggio sfogliando le pagine della carta stampata o navigando
nel web si imbatte nelle più svariate vergognose fake news. Cioè
notizie false. I lettori non vengono risparmiati da una fabbrica delle
falsità, un autentica spazzatura a cielo aperto, che purtroppo spesso
e volentieri viene spacciata, confusa ed interpretata come
informazione.

                                Il caso più vergognoso è quello dei
giorni scorsi, quando una migrante, Josephine, è stata salvata dalla
Open Arms dopo aver trascorso quarantotto ore, cioè due giorni in
acqua in balia del mare e delle onde dell’oceano. Immediatamente è
partita l’ennesima campagna di odio razziale, dietro la quale si
nascondono fronde politiche ben note ed identificate. Una vera e
propria campagna”social” di odio razziale. L’hanno accusata di essere
un’attrice ( !!!) e persino che il suo fortunoso salvataggio in mare
aperto era tutta una finzione, e persino che le foto da cui si vedeva
dello smalto sulle unghie delle sue mani, era la prova che si trattava
di un falso salvataggio.

Lo smalto, come spiegato dalla Ong e da una giornalista che era a
bordo al momento del salvataggio, è stato soltanto una “coccola” a
Josefa. Una distrazione creata ad hoc per farle passare il tempo
mentre, sdraiata sul ponte della nave della Ong, si riprendeva dal
trauma.
Per fortuna i volontari ed
i giornalisti che si trovavano a bordo della nave salvataggio, hanno
confermato che era tutto vero, che non si trattava di una finzione,
comprovando e dimostrando che la storia era vera, ridicolizzando e
neutralizzando l’ennesima fake news. Questo episodio cari amici e
lettori è l’ennesima prova che è arrivato il tempo di iniziare a porre
un freno a questo fenomeno, ad alzare un muro contro la
disinformazione “pilotata”, a smontare questa catena di bugie
dilaganti e vergognose.

Fra i soccorritori dell’Ong Proactiva Open Arms che hanno salvato a
largo della Libia una donna, Josephine, ed hanno anche recuperato i
cadaveri di un’altra donna e di un bambino, c’era anche Marc
Gasol, una “star” del basket spagnolo, giocatore in America nel
campionato Nba coi Grizzlies e stipendio da oltre 20 milioni di
dollari l’anno. A rivelarlo è stato lo stesso giocatore trentatreenne
pubblicando sul suo account Twitter una foto in cui ha scritto di
provare “frustrazione, rabbia e tanta impotenza”. E noi la pensiamo
come lui.

                             Occorre però un impegno, una maggiore
attenzione e collaborazione anche da parte dei lettori, degli utenti
dei social network che troppo spesso danno sfogo alla propria rabbia e
frustrazione, alimentando, condividendo e quindi diffondendo queste
notizie false. Occorre riflettere ed informarsi prima di condividere
per istinto (la maggior parte sbagliato) una notizia, così come anche
chi fa informazione per professione, deve sempre riscontare,
verificare le notizie prima di scriverle e pubblicarle rendendole di
dominio pubblico. occorre più impegno da parte delle Forze dell’
ordine e della magistratura.

Ma è necessario anche un impegno serio da parte del Governo che deve
porre in essere leggi più severe prendendo ad esempio il governo
federale tedesco che l’anno scorso ha dato il via libera al progetto
di legge che prevede multe fino a 50 milioni di euro in cui
incorreranno i giganti del web come Facebook, YouTube e Twitter se non
saranno in grado di cancellare o comunque rendere inaccessibili
minacce e commenti offensivi e diffamanti, incitazioni all’odio o a
reati penali. I social media sono responsabili se le loro piattaforme
vengono sfruttate per fake news e calunnie.

E’ una battaglia difficile che si può vincere. Che si deve vincere. Ma
è possibile farlo soltanto tutti assieme in nome di una civiltà sin
troppo spesso ignorata e calpestata. Noi siamo pronti a farlo. e
vogliamo avervi tutti al nostro fianco.

Il predominio dei socialnetwork
sulla televisione: arriva Instagram
TV
ROMA – Proprio nel giorno in cui Instagram ha annunciato di aver
superato la soglia simbolica del miliardo di utenti, ha deciso di
lanciare il proprio guanto di sfida a You Tube e non solo, dando il
via a una nuova rivoluzione nel settore dei media: IGTV cioè Instagram
Tv. Come dicevamo, è una specie di canale televisivo progettato per
sfidare YouTube e i media tradizionali, già sotto pressione per i
molteplici servizi di streaming offerti da Netflix e Amazon Prime
Video. IGTV è stata progettata per consentire agli utenti di poter
pubblicare filmati ben più lunghi del solo minuto possibile, fino ad
ora. Da alcuni giorni infatti, è possibile caricare sul socialnetwork,
dei    video della durata massima un’ora che iniziano appena
l’applicazione viene accesa, proprio come una tv.
I DISPOSITIVI I contenuti vengono riprodotti solo a schermo intero – a
differenza del concorrente YouTube – e soprattuto in 9:16, cioè in
verticale. Una caratteristica tecnica che definisce il predominio
ormai definitivo degli smartphone e tablet sui computer fissi ma
sopratutto sulle tv . La rivoluzione è stata voluta proprio dal
socialnetwork rilevato da Mark Zuckerberg nel 2012, il cui utilizzo
inizialmente era stato “pensato” come di una piattaforma dedicata
esclusivamente alle foto, ha iniziato la sua scalata al miliardo di
utenti consentendogli di pubblicare video da 60 secondi. Dopo solo 24
ore i filmati caricati erano già 1,5 milioni: un vero e proprio boom.
A seguire sono arrivate le “Dirette” e le “Stories” aprendo nuove
possibilità, soprattutto pubblicitarie.

LA SFIDA A GOOGLE . Instagram Tv rappresenta la vera e propria sfida
lanciata da Zuckerberg a YouTube ed agli eterni rivali di Google. La
pubblicazione di video più lunghi su IGTV conseguirà una presenza di
mini-spot da circa mezzo minuto dalla resa elevatissima in termini di
monetizzazione pubblicitaria. Basti pensare che la spesa totale per
gli annunci video online solo negli Usa, secondo eMarketer, vale circa
18 miliardi di dollari e si stima aumenterà fino a 27 miliardi nel
2021. Si prevede comunque che Instagram creerà un’opzione di
monetizzazione per i creators di IGTV, in cui saranno incluse le quote
di entrate pubblicitarie.

Infatti oltre che “a liberare la creatività”, come dichiarato daMark
Zuckerberg cofondatore di Instagram   nel corso della presentazione
tenuta a San Francisco mercoledì scorso, con IGTV si punta a
intercettare la cosiddetta “Generazione YouTube“, quella composta
dagli adolescenti dai 13 ai 17 anni. Ragazzi nativi digitali e social
addicted, che vivono lontani dai televisori e quando li accendono lo
fanno esclusivamente per riprodurre video o giocare ai videogame. È su
di loro che Instagram e gli altri social puntano davvero, perché più
permeabili ai messaggi pubblicitari e più presenti online.

Gli utenti, soprattutto i più giovani, manifestano gran parte della
propria attenzione a questa forma di contenuti utilizzabili in
qualsiasi momento, in mobilità, e con la possibilità di interagire con
i creatori. Tendenza confermata da una recente indagine di
GlobalWebIndex: il tempo speso ogni giorno guardando contenuti sui
social supera in media di 20 minuti quello dedicato alla visione di
programmi offerti dalla televisione, e diventa addirittura un’ora e
mezzo nella fascia dei più giovani . Per questo motivo, secondo alcune
anticipazioni “ufficiose”, anche Facebook starebbe lavorando per
rafforzare l’esperienza video sul social.

TELEGIORNALI Il colosso di Menlo Park starebbe collaborando al momento
in ottica anti fake news con diverse reti televisive per produrre dei
notiziari originali. Si tratterebbe di veri e propri telegiornali
pubblicati in rete sull’applicazione Watch: una costola di Facebook
dedicata esclusivamente ai video, attiva negli Stati Uniti dall’estate
scorsa. Un nuovo ennesimo capitolo della sfida tecnologico tra
Facebook Inc. e Alphabet la holding a cui fa capo l’impero Google
iniziata con la creazione del social Google Plus e continuata con la
spartizione del mercato pubblicitario, dove Google Adwords e Facebook
Ads hanno trovato al momento un precario equilibrio. Un futuro terreno
di scontro potrebbe essere lo streaming musicale: YouTube ha da poco
annunciato il lancio della nuova piattaforma Music, entrando di fatto
nel mercato dominato da Spotify e Amazon. Ed ancora una volta, tutti
si aspettano la prossima mossa da Mark Zuckerberg.

Scandalo Datagate: la psicosi dei
nomi falsi e delle foto di
repertorio per difendersi dal
“grande fratello”
di Paolo Campanelli

                                           Il “Datagate”, come è stato
soprannominato dalla stampa americana, ha scatenato reazioni in giro
per il mondo, ma come spesso accade in questi casi, la maggior parte
delle persone crede di sapere di che cosa si parli, mentre la realtà è
nettamente differente. Il cuore del problema riguarda le scorse
elezioni amministrative americane, nettamente differenti da quelle
nostrane, e su come i politici si facessero pubblicità, e si può
riassumere su come, utilizzando i dati raccolti dal gruppo di
Cambridge Analytica, alcuni politici avrebbero avuto vantaggi
scorretti su altri, in quanto potevano investire in campagna
elettorale in aree specifiche anziché su tutto il territorio.

L’utente medio di Facebook però, è convinto che non usare il proprio
nome, non indicare la propria età e negare l’amicizia a tutti quegli
amici che potrebbero rivelare la sua identità sia una difesa
impenetrabile, per difendersi dall’essere schedato in ogni momento,
ogni luogo, ogni gabinetto. E questa si chiama “psicosi“,
principalmente perché non sono quelle le informazioni che sono
coinvolte: quelli che questi sistemi prendono in analisi, e che hanno
portato a questa situazione sono i Metadati.

                                           Un metadato (dal greco μετὰ
“oltre, dopo” e dal latino datum “informazione“), letteralmente
“(dato) oltre un (altro) dato“, è un’informazione che descrive un
insieme di dati. I metadati rappresentano un metodo sistematico per la
descrizione delle risorse informative e per migliorarne l’accesso e la
gestione

I metadati nascono come strumento per semplificare il lavoro dei
bibliotecari, si trattava infatti di schede ordinate per genere che
riportavano le posizioni dei libri sugli scaffali, permettendo così di
trovare in pochi minuti un libro nella orami così lontana era
analogica. Con la nascita del digitale, il termine “Metadato” è andato
a indicare tutta una serie d’informazioni normalmente non visibili, o
comunque non immediatamente evidenti, che riguardano file e pagine
web.

Con i metadati si può facilmente sapere se un’immagine è originale o
rielaborata, quando un documento di testo è stato modificato l’ultima
volta, quanto a lungo un utente è rimasto su di una pagina web, quanto
spesso una pagina sia visitata, se si è arrivati ad un sito
direttamente o tramite link da altri siti e molto altro.
I metadati sono estremamente utili per i gestori dei siti che offrono
servizi, come Amazon o Youtube, per concentrarsi sul migliorare il
servizio stesso, per i ricercatori e per chi fa informazione, per
poter comprendere una determinata situazione on-line o per comprendere
quali sono le notizie più di tendenza che il pubblico cerca e quelle
che non interessano. Tuttavia, sfuggendo completamente alla psicosi,
questi dati sono significativi solo quando sono in grande numero e
indipendenti dall’utente effettivo. Non è importante chi ha letto una
notizia, è importante quanti lo hanno fatto e quanto a lungo sono
rimasti sulla pagina (paragonabile a “quanto della notizia hanno
letto”)

Differente è l’uso “ad personam” dei metadati: questa specifica branca
di metadati è quella che influisce, in maniera più o meno efficace,
sulle funzioni dedicate direttamente all’utente specifico, ad esempio
la lista di video consigliati su Youtube, influenzata da i video visti
recentemente, o i banner pubblicitari su alcuni siti. Questi dati sono
tutt’altro che precisi, continuando a offrire le stesse scelte per
lungo tempo anche quando l’attenzione dell’utente si è spostata da
tempo o paradossalmente, quando la ricerca originale si consuma nella
stessa, ma i banner continuano a proporre per mesi e mesi gli stessi
risultati . per esempio, essere costretti ad utilizzare il sito di
un’agenzia funebre che usa queste pubblicità tende purtroppo a far
vedere altre pubblicità di offerte su bare e loculi per lunghi
periodi.

L’uso dei metadati è autorizzato da parte dell’utente come clausola di
iscrizione nelle condizioni d’uso di ogni social network, che ogni
utente deve accettare per potersi iscrivere, e in modo più limitato,
da cookie utilizzati dalla stragrande maggioranza di siti per vari
fini, che ora sono presentati agli utenti quando si connettono ad un
sito per la prima volta.

La questione centrale di questo scandalo è centrata su come Facebook
abbia ceduto determinati metadati, violando le sue stesse norme di
Privacy, inconsapevolmente, almeno sulla carta; la paura è che altre
organizzazioni abbiano avuto accesso a questi dati significativi, se
non tramite Facebook, via altri social network come Instagram, Twitter
o Tumblr (quest’ultimo a sua volta impegnato in una caccia alle
streghe contro hacker russi al momento dello scandalo).

Cambridge Analytica ha raccolto dati specifici, relativi alle elezioni
americane, e indiscrezioni non confermate affermano anche riguardo
alla Brexit; vi sono congetture che alcuni partiti italiani abbiano
avuto la possibilità di utilizzare simili mezzi, ma nessuna prova
tangibile all’atto pratico, ne effettive azioni intraprese durante le
ultime campagne elettorali che alzino sospetti al riguardo

In conclusione, a nessuno interessano i dati sul pensiero politico
dell’italiano medio in rete, poichè come più volte abbiamo indicato
noi del Corriere del Giorno, la propaganda politica all’italiana si
basa su altro, ed è molto più pericoloso un hacker quasi improvvisato
che utilizza comuni virus, che un Grande Fratello intenzionato a
tenere d’occhio la nostra cultura

YouTube: i nuovi rischi della
babysitter televisiva
di Paolo Campanelli

                                            Grazie a lettori portatili
di dvd, tablet, smartphone e simili, un bambino può distrarsi anche in
situazioni più “dinamiche” rispetto al salotto di casa, e il pronto
accesso alla connessione internet mette a disposizione l’intero
catalogo di video in rete a loro disposizione; per questo YouTubeKids
nasce come una sezione più adatta ai pargoli rispetto al resto della
piattaforma video YouTube: controlli più stretti sui contenuti, niente
commenti, un interfaccia più chiara e semplice da usare e video di
filastrocche o cartoni raggiungibili da ogni pagina.

Sfortunatamente,YouTube ha un lato non immediatamente visibile
all’utente: il fatto che sia possibile guadagnare soldi sui propri
video tramite un processo chiamato Monetizzazione, che si basa
principalmente sul supporto di sponsor direttamente a YouTube (ed è la
causa di tutte quelle pubblicità che di tanto in tanto appaiono). Per
un Creato Content, le persone che fanno video, spesso con impegno e
costanza, è ciò che ha trasformato un passatempo in un lavoro a tempo
pieno, basti ricordare lo youtuber italiano Favij e che nel suo
periodo di maggior successo guadagnava ogni mese quanto un chirurgo
plastico, una frazione di centesimo alla volta per ogni persona che
guardava i suoi video. E dove ci sono i soldi, ci sono anche persone
senza scrupoli che vogliono prenderli senza faticare.

Idealmente, a vegliare sui contenuti ci sarebbero una serie di Bot che
intercettano video sospetti, e un team di persone a coadiuvarne
l’effetto e assicurarsi che i casi più difficili vengano risolti in
maniera corretta. La realtà è ben differente, come chiunque abbia mai
provato a contattare un qualsiasi essere umano che ci lavori. Questo
ha fatto si che, mantenendosi all’interno di determinati parametri di
metadati (dati invisibili ad un’utente ma su cui i programmi di
analisi di un sito lavorano), è possibile caricare su YouTube
qualsiasi video in barba alle regole e averlo li fino a che una
persona reale non prende in mano la situazione.

In origine, si trattava di semplici giochi creati col programma Flash
e impossibili da perdere, di pessima qualità e talvolta
disgustosamente grafici, ma sempre fatti con personaggi famosi,
principalmente della Disney, o di serie collegate a giocattoli per
bambine. Sale parto, sedie del dentista, studi di podologhi, sale di
veterinari… ogni scusa era buona per usare materiale di bassa qualità
e allo stesso tempo sorprendentemente definito. Successivamente, con
l’esplosione degli smartphone e la relativa evoluzione nel
“parcheggiare i pargoli davanti alla televisione”, questi “creatori”
si accorsero che i genitori, pur di far stare tranquilli i bambini
quando fuori in pubblico, utilizzavano YouTube per accedere a cartoni
animati, con un risultato prevedibile A differenza dei giochi, le
animazioni in flash non richiedono alcun ulteriore imput oltre a
premere play, rendendoli molto più facili da creare.

Come prevedibilmente accade in situazioni in cui l’animazione è il
centro della questione, la situazione è stata presa sottogamba fino a
he non si è arrivati agli estremi: originate come storielle con
giocattoli con Elsa e Spiderman come protagonisti, fino ad arrivare ai
video in questione; sono lunghe sequenze di scenette, che essendo
scollegate possono durare anche ore (e i video più lunghi sono più
remunerativi), prive di senso logico spesso anche all’interno della
scenetta stessa e inevitabilmente con terribili animazioni. Nella
maggior parte dei casi, si tratta di personaggi Disney, ma anche serie
correlate con giocatoli come Barbie, MyLittlePony o Transformers o
altre serie più di tendenza con i pargoli, doppiati in inglese o senza
reali dialoghi così da poterli caricare su più canali, con nomi e tag
improbabili in modo da risultare correlato a più ricerche anche non
correlate. Talvolta alcuni video utilizzano altri metodi d’animazione,
per esempio stop motion e plastilina, ma i risultati sono gli stessi.

Questi video oltre ad avere contenuti più grafici, tipo pustole, carie
o ferite in abbondanza, spesso mettono i personaggi in posizioni
chiaramente equivoche, con parziali nudità, riferimenti sessuali più
specifici, violenza gratuita o autolesionismo. Quest’ultima tipologia
è stato quel che ha fatto esplodere la notorietà di questi video,
quando una madre, controllando se il proprio figlio fosse ancora
interessato, ha notato Peppa Pig che imprecava prima di tracannare un
gallone di varecchina. Più recentemente, stanno emergendo video in
Live Action (e quindi con persone vere, seppur truccate) con simili
contenuti, che nascono come mezzo per aggirare i genitori che hanno
intuito il rischio dei cartoni già descritti, ma che continuano a
cadere negli stessi tranelli, in una sorta di “Melevisione del
perverso”

Ma una grande colpa risiede anche in YouTube stesso: tralasciando il
fattore parodistico di alcuni contenuti, che possono contenere
violenza o doppi sensi particolarmente pesanti (ma opportunamente
segnalati) pensati per un pubblico più vasto e cresciuto, se non più
maturo, YouTube è il far west digitale del copyright, con video che
sono rimossi per 8 secondi di musica, con altri che contengono il
brano completo che rimangono, nudità esplicite spacciate per video di
medicina, canali che scaricano e reinseriscono lo stesso video di
altri sotto loro nome, nessun controllo se chi richiede la rimozione
possiede effettivamente i Diritti, e sistemi automatici che attaccano
tutti i contenuti all’interno di determinati parametri (quest’ ultimo
ironicamente, ha recentemente colpito Nintendo, che si è vista il suo
canale ufficiale destinato all’area di Taiwan bloccato per copyright).

L’unica vera arma che YouTube possiede, è l’abuso della
Demonetizzazione dei video, ma ad oggi, i risultati sono deludenti,
per usare un eufemismo. Ovviamente esistono canali completamente
sicuri, ad esempio molti youtuber fanno recensioni di giocattoli,
streaming di videogiochi o “overanalizzano” film, ma li è un altro
discorso totalmente, che fa capo a come youtube, preso passivamente,
sia come una televisione con centinaia e centinaia di canali che
trasmettono programmi differenti e non come la Rai ai tempi del bianco
e nero che era l’unica a trasmettere determinati contenuti a
determinati orari.

Simile è la questione dei commenti risaputamene terribili e non adatti
ad un pubblico compreso tra i 2 e i 95 anni, e ancor peggio nei canali
specificatamente italiani, ma su quello, il sito in se ha poca e
nessuna colpa. La soluzione, come sempre in questi casi risiede
nell’attenzione dei genitori, nell’uso degli strumenti a loro
disponibili per prendere precauzioni e nell’assicurarsi che quel che
si vuole far vedere sia adatto ai pargoli prima di premere play. In
pratica, di essere genitori degni di questo nome.

Scenette create nel minimo della spesa pecuniaria, talvolta persino
senza un reale intervento umano : i video più recenti possono superare
le analisi automatiche di Youtube, e quindi essere trattati come video
“normali” ed essere inseriti in playlist e video consigliati.
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