Il problema dei social network : i "deep fake" ed il video falso postato da Donald Trump
←
→
Trascrizione del contenuto della pagina
Se il tuo browser non visualizza correttamente la pagina, ti preghiamo di leggere il contenuto della pagina quaggiù
Il problema dei social network : i "deep fake" ed il video falso postato da Donald Trump ROMA – Uno spettro ha inseguito Hillary Clinton per tutta la campagna elettorale del 2016: quello di Bengasi. La città libica che agli occhi dei suoi detrattori è diventata il simbolo di tutto il marcio rappresentato dalla candidata, diffondendosi sotto forma di teoria cospiratoria in grado di farsi meme. In realtà a distanza di anni Bengasi è diventato un esempio di offuscamento politico perfetto: il riferimento era agli attacchi contro soldati americani avvenuti tra l’11 e il 12 settembre 2012, che costarono la vita a quattro statunitensi, e per i quali vennero accusati Barack Obama all’epoca Presidente degli Stati Uniti d’ America ed Hillary Clinton, suo Segretario di Stato . Infatti nessuna indagine trovò e portò alla luce qualsiasi tracce di negligenza sul loro operato, ma la storia continuò a diffondersi, sospesa tra il vero ed il falso. Lo stesso genere di “fake news” su Benghazi è ritornata in una sua applicazione e variabile più attuale, realizzata su misura dei social network ed i loro algoritmi. Questa volta al centro della questione c’è Nancy Pelosi, la speaker della Camera degli Stati Uniti , di origini molisane, un’altra donna avversaria di Trump, e tra le persone che potrebbero mettere in moto la macchina dell’impeachment contro il presidente Trump. Da qualche mese i media si divertivano a notare quanto fosse facile per la Pelosi fare deragliare Trump, spesso costringendolo a scivoloni pubblici (come quella volta che gli fece affermare che lo shutdown del Governo sarebbe stata un’idea sua e solo sua, come se fosse un vanto). Le cose sono cambiate la scorsa settimana, quando ha cominciato a circolare tra i circuiti della destra americana, un filmato che è stato retwittato dal commander-in-chief in persona. E il video, pur essendo palesemente falso, è rimasto ancora lì, online su Facebook e Twitter, destinato a offuscare il nome di Nancy Pelosi nel suo futuro. La versione originale del filmato mostra la speaker parlare al microfono, mentre la versione proposta dall’amministrazione Trump, è stata invece rallentata abbastanza al punto tale da da farla sembrare un po’ ubriaca.
Un effetto video-digitale che era già venuto alla luce nell’esilarante spot Apple di Jeff Goldblum, modificato per farlo sembrare sbronzo, ma ecco che, nel 2019, fa tranquillamente capolino in un articolo sulla politica estera, a dimostrazione della squallida evoluzione dei nostri eventi. Ormai non costituisce più notizia che un filmato contraffatto sia stato messo online, chiaramente non siamo così ingenui, così come non fa neanche notizia, purtroppo, che un presidente come Donald Trump l’abbia subito fatta propria e “legittimata” (a voler essere cinici). La vera novità e notizia è costituita dal comportamento social network, che sull’onda degli svariati scandali che hanno interessato Facebook e non soltanto, negli ultimi anni hanno avviato programmi contro le fake news. A metà maggio proprio Facebook ha presentato un report sulla trasparenza in cui ha confessato (senza vergognarsi dei precedenti omessi controlli) di aver cancellato in sei mesi 1,3 miliardi di account falsi e di bot . “Questo è solo l’inizio”, ha detto Guy Rosen, che si occupa di sicurezza per l’azienda: “Le persone possono segnalare molti più tipi di contenuti”. Quando l’ ex sindaco di New York Rudolph Giuliani ora avvocato di Trump, ha scoperto il video-fakenews della Pelosi e lo ha ritwittato, da quel momento il video è passato dal profilo “ufficiale” del Presidente Trump a quello della Casa Bianca (che lo ha persino ritwittato) e quindi migrato anche su Facebook, insieme alle strumentali dichiarazioni di Donald Trump su “Crazy Nancy” e la millantata (non reale) follia della speaker della Camera degli Stati Uniti. Se dovessimo dare credibilità ai responsabili della sicurezza di Facebook, asterebbe segnalarlo e la clip sparirebbe dal social network, ma allora ci si chiede: come mai quel video-fakenews è ancora online, visto che YouTube ha cancellato e rimosso immediatamente il contenuto? Facebook ha fatto quello che fa sempre in questi casi: spendersi in una spiegazione piuttosto contorta. Monika Bickert, che si occupa di counterterrorism per il social network, ha spiegato alla Cnn che l’azienda, cioè Facebook “sa che il video è falso” ma che lo ha lasciato online, anche se “abbiamo drasticamente ridotto la circolazione di quel contenuto”. Incredibile se non paradossale il motivo? “Pensiamo sia importante che le persone possano decidere a che cosa credere”. Difficile capire quante persone siano state danneggiate da quel video, ma Facebook li ha ignorati e calpestati tutti: sia chi trova inquietante quella millantata “riduzione” della diffusione del contenuto, e quelli che invece hanno a cuore… la realtà. E la correttezza dell’informazione.
Da mesi negli USA i repubblicani e la destra radicale americana denunciano un’ipotetica campagna di “silenziamento” politico parte di Facebook e Twitter, accusate di essere di sinistra. Una campagna è arrivata fino al Senato, e che riguarda molto da vicino i “trumpiani“. Se l’azienda agisse per cancellare quella che è palesemente una vecchia bufala propagandistica aggiornata ai tempi nostri, paradossalmente farebbe un assist alla Casa Bianca, dimostrando in qualche modo le sue paranoie di censura. Ma forse questa è l’ultima cosa di cui Facebook ha bisogno, di questi tempi. Una cosa è certa. Ormai bisogna credere solo a quello che si vede con i propri occhi. Di persona. Lo speech integrale di Carole Cadwalladr al TED Il giorno dopo il voto sulla Brexit, quando la Gran Bretagna si è svegliata con lo choc di scoprire che stavamo davvero lasciando l’Unione Europea, il mio direttore al quotidiano Observer, mi ha chiesto di tornare nel Galles meridionale, dove sono cresciuta, e scrivere un reportage. E così sono arrivata in una città chiamata Ebbw Vale.
Eccola (mostra la cartina geografica). È nelle valli del Galles meridionale, che è un posto abbastanza speciale. Aveva questa sorta di cultura di classe operaia benestante, ed è celebre per i cori di voci maschili gallesi, il rugby e il carbone. Ma quando ero adolescente, le miniere di carbone e le fabbriche di acciaio chiusero, e l’intera area ne è rimasta devastata. Ci sono tornata perché al referendum della Brexit era stata una delle circoscrizioni elettorali con la più alta percentuale di voti per il “Leave”. Sessantadue per cento delle persone qui hanno votato per lasciare l’Unione Europea. E io volevo capire perché. Quando sono arrivata sono rimasta subito sorpresa perché l’ultima volta che era stata ad Ebbw Vale era così (mostra la foto di una fabbrica chiusa). E ora è così. (mostra altre foto). Questo è un nuovissimo college da 33 milioni di sterline che è stato in gran parte finanziato dall’Unione Europea.
E questo nuovo centro sportivo fa parte di un progetto di rigenerazione urbana da 350 milioni di sterline, finanziato dall’Unione Europea. E poi c’è questo tratto stradale da 77 milioni di sterline, e una nuova linea ferroviaria e una nuova stazione, tutti progetti finanziati dall’Unione Europea. E non è che la cosa sia segreta. Perché ci sono grossi cartelli ovunque a ricordare gli investimenti della UE in Galles.
Camminando per la città, ho avvertito una strana sensazione di irrealtà. E me ne sono davvero resa conto quando ho incontrato un giovane davanti al centro sportivo che mi ha detto di aver votato per il Leave, perché l’Unione Europea non aveva fatto nulla per lui. E ne aveva abbastanza di questa situazione. E in tutta la città le persone mi dicevano la stessa cosa. Mi dicevano che volevano riprendere il controllo, che poi era uno degli slogan della campagna per la Brexit. E mi dicevano che non ne potevano più di immigranti e rifugiati. Erano stufi. Il che era abbastanza strano. Perché camminando per la città, non ho incontrato un solo immigrato o rifugiato. Ho incontrato una signora polacca che mi ha detto di essere l’unica straniera in paese. E quando ho controllato le statistiche, ho scoperto che Ebbw Vale ha uno dei più bassi tassi di immigrazione del Galles. E quindi ero un po’ confusa, perché non riuscivo a capire da dove le persone avessero preso le informazioni su questo tema. Anche perché erano i tabloid di destra a sostenere questa tesi, ma questo è una roccaforte elettorale della sinistra laburista.
Ma poi, quando è uscito il mio articolo, questa donna mi ha contattato. Mi ha detto di abitare a Ebbw Vale e mi ha detto di tutto quella roba che aveva visto su Facebook durante la campagna elettorale. Io le ho chiesto, quale roba? E lei mi ha parlato di roba che faceva paura, sull’immigrazione in generale, e in particolare sulla Turchia. Allora ho provato a indagare, ma non ho trovato nulla. Perché su Facebook non ci sono archivi degli annunci pubblicitari o di quello ciascuno di noi ha visto sul proprio “news feed”. Non c’è traccia di nulla, buio assoluto. Questo referendum avrà un profondo effetto per sempre sulla Gran Bretagna, lo sta già avendo: i produttori di auto giapponesi che vennero in Galles e nel nord est offrendo un lavoro a coloro che lo avevano perduto con la chiusura delle miniere di carbone, se ne sono già andati a causa della Brexit. Ebbene, l’intero referendum si è svolto nel buio più assoluto perché si è svolto su Facebook. E quello che accade su Facebook resta su Facebook. Perché soltanto tu sai cosa c’era sul tuo news feed, e poi sparisce per sempre, ma così è impossibile fare qualunque tipo di ricerca. Così non abbiamo idea di quali annunci ci siano stati, di quale impatto hanno avuto, o di quali dati personali sono stati usati per profilare i destinatari dei messaggi. O anche solo chi li ha pagati, quanti soldi ha investito, e nemmeno di quale nazionalità fossero questi investitori.
Mark Zuckerberg, Ceo di Facebook Noi non lo possiamo sapere ma Facebook lo sa. Facebook ha tutte queste risposte e si rifiuta di condividerle. Il nostro Parlamento ha chiesto numerose volte a Mark Zuckerberg di venire nel Regno Unito e darci le risposte che cerchiamo. Ed ogni volta, lui si è rifiutato. Dovete chiedervi perché. Perché io e altri giornalisti abbiamo scoperto che molti reati sono stati compiuti durante il referendum. E sono stati fatti su Facebook. Questo è accaduto perché nel Regno Unito noi abbiamo un limite ai soldi che puoi spendere in campagna elettorale. Esiste perché nel diciannovesimo secolo le persone andavano in giro con letteralmente carriole cariche di soldi per comprarsi i voti. Per questo venne votata una legge che lo vieta e mette dei limiti. Ma questa legge non funziona più. La campagna elettorale del referendum infatti si è svolto soprattutto online. E tu puoi spendere qualunque cifra su Facebook, Google o YouTube e nessuno lo saprà mai, perché queste aziende sono scatole nere. Ed è esattamente quello che è accaduto. Noi non abbiamo idea delle dimensioni, ma sappiamo con certezza che nei giorni immediatamente precedenti il voto, la campagna ufficiale per il Leave ha riciclato quasi 750 mila sterline attraverso un’altra entità che la commissione elettorale aveva giudicato illegale, e questo sta nei referti della polizia. E con questi soldi illegali, “Vote Leave” ha scaricato una tempesta di disinformazione. Con annunci come questi (si vede un annuncio che dice che 76 milioni di turchi stanno per entrare nell’Unione Europea). E questa è una menzogna. Una
menzogna assoluta. La Turchia non sta per entrare nell’Unione Europea. Non c’è nemmeno una discussione in corso nella UE. E la gran parte di noi, non ha mai visto questi annunci perché non eravamo il target scelto. E l’unico motivo per cui possiamo vederli oggi è perché il Parlamento ha costretto Facebook a darceli. Forse a questo punto potreste pensare, “in fondo parliamo soltanto di un po’ di soldi spesi in più, e di qualche bugia”. Ma questa è stata la più grande frode elettorale del Regno Unito degli ultimi cento anni. Un voto che ha cambiato le sorti di una generazioni deciso dall’uno per cento dell’elettorato. E questo è soltanto uno dei reati che ci sono stati in occasione del referendum. C’era un altro gruppo, che era guidato da quest’uomo (mostra una foto), Nigel Farage, quello alla sua destra è Trump. E anche questo gruppo, “Leave EU”, ha infranto la legge. Ha violato le norme elettorali e quelle sulla gestione dei dati personali, e anche queste cose sono nei referti della polizia. Quest’altro uomo (sempre nella stessa foto), è Arron Banks, è quello che ha finanziato la loro campagna. E in una vicenda completamente separata, è stato segnalato alla nostra Agenzia Nazionale Anticrimine, l’equivalente del FBI, perché la commissione elettorale ha concluso che era impossibile sapere da dove venissero i suoi soldi. E anche solo se la provenienza fosse britannica. E non entro neppure nella discussione sulle menzogne che Arron Banks ha detto a proposito dei suoi rapporti segreti con il governo russo. O la bizzarra tempestività degli incontri di Nigel Farage con Julian Assange e il sodale di Trump, Roger Stone, ora incriminato, subito prima dei due massicci rilasci di informazioni
riservate da parte di Wikileaks, entrambi favorevoli a Donald Trump. Ma quello che posso dirvi è che la Brexit e l’elezione di Trump sono strettamente legati. Ci sono dietro le stesse persone, le stesse aziende, gli stessi dati, le stesse tecniche, lo stesso utilizzo dell’odio e della paura. Questo è quello che postavano su Facebook. E non riesco neanche a chiamarlo menzogna perché ci vedo piuttosto il reato di instillare l’odio (si vede un post con scritto “l’immigrazione senza assimilazione equivale a un’invasione”). Non ho bisogno di dirvi che odio e paura sono stati seminati in rete in tutto il mondo. Non solo nel Regno Unito e in America, ma in Francia, Ungheria, Brasile, Myanmar e Nuova Zelanda. E sappiamo che c’è come una forza oscura che ci collega tutti globalmente. E che viaggia sulle piattaforme tecnologiche. Ma di tutto questo noi vediamo solo una piccola parte superficiale. Io ho potuto scoprire qualcosa solo perché ho iniziato a indagare sui rapporti fra Trump e Farage, e su una società chiamata Cambridge Analytica. E ho passato mesi per rintracciare un ex dipendente, Christopher Wiley. E lui mi ha rivelato che questa società, che aveva lavorato sia per Trump che per la Brexit, aveva profilato politicamente le persone per capire le paure di ciascuno di loro, per meglio indirizzare dei post pubblicitari su Facebook. E lo ha fatto ottenendo illecitamente i profili di 87 milioni di utenti Facebook. C’è voluto un intero anno per convincere Christopher a uscire allo scoperto. E nel frattempo mi sono dovuta trasformare da reporter che raccontava storie a giornalista investigativa. E lui è stato straordinariamente coraggioso, perché Cambridge Analytyca è di proprietà di Robert Mercer, il miliardario che ha finanziato Trump, e che ci ha minacciato moltissime volte per impedire che pubblicassimo tutta la storia. Ma alla fine lo abbiamo fatto lo stesso.
E quando eravamo al giorno prima della pubblicazione abbiamo ricevuto un’altra diffida legale. Non da Cambridge Analytica stavolta. Ma da Facebook. Ci hanno detto che se avessimo pubblicato la storia, ci avrebbero fatto causa. E noi l’abbiamo pubblicata. Facebook, stavate dalla parte sbagliata della storia in questa vicenda. E lo siete quando vi rifiutate di dare le risposte che ci servono. Ed è per questo che sono qui. Per rivolgermi a voi direttamente, dei della Silicon Valley… Mark Zuckerberg…. E Sheryl Sandberg, e Larry Page e Sergey Brin e Jack Dorsey, ma mi rivolgo anche ai vostri dipendenti e ai vostri investitori. Cento anni fa il più grande pericolo nelle miniere di carbone del Galles meridionale era il gas. Silenzioso, mortale e invisibile. Per questo facevano entrare prima i canarini, per controllare l’aria. In questo esperimento globale e di massa che stiamo tutti vivendo con i social network, noi britannici siamo i canarini. Noi siamo la prova di quello che accade in una democrazia occidentale quando secoli di norme elettorali vengono spazzate via dalla tecnologia. La nostra democrazia è in crisi, le nostre leggi non funzionano più, e non sono io a dirlo, è un report del nostro parlamento ad affermarlo. Questa tecnologia che avete inventato è meravigliosa. Ma ora è diventata la scena di un delitto. E voi ne avete le prove. E non basta ripetere che in futuro farete di più per proteggerci. Perché per avere una ragionevole speranza che non accada di nuovo, dobbiamo sapere la verità. Magari adesso pensate, “beh, parliamo solo di alcuni post pubblicitari, le persone sono più furbe di così, no?”. Se lo faceste vi risponderei: “Buona fortuna, allora”. Perché il referendum sulla Brexit dimostra che la democrazia liberale non funziona più. E voi l’avete messa fuori uso. Questa non è più democrazia – diffondere bugie anonime, pagate con denaro illegale, dio sa proveniente da dove. Questa si chiama “sovversione”, e voi ne siete gli strumenti. Il nostro Parlamento è stato il primo del mondo a provare a chiamarvi a rispondere delle vostre azioni, ma ha fallito. Voi siete letteralmente fuori dalla portata delle nostre leggi. Non solo quelle britanniche, in questa foto nove parlamenti, nove Stati, sono rappresentati, e Mark Zuckerberg si è rifiutato di venire a rispondere alle loro domande. Quello che sembrate ignorare è che questo storia è più grande di voi. È più grande di ciascuno di noi. E non riguarda la destra o la sinistra, il Leave o il Remain, Trump o no. Riguarda il fatto se sia possibile avere ancora elezioni libere e corrette. Perché, stando così le cose, io penso di no. E così la mia domanda per voi oggi è: è
questo quello che volete? È così che volete che la storia si ricordi di voi? Come le ancelle dell’autoritarismo che sta crescendo in tutto il mondo? Perché voi siete arrivati per connettere le persone. E vi rifiutate di riconoscere che la vostra tecnologia ci sta dividendo. La mia domanda per tutti gli altri è: è questo che vogliamo? Che la facciano franca mentre noi ci sediamo per giocare con i nostri telefonini, mentre avanza il buio? La storia delle valli del Galles meridionale è la storia di una battaglia per i diritti. E quello che è accaduto adesso non è semplicemente un incidente, è un punto di svolta. La democrazia non è scontata. E non è inevitabile. E dobbiamo combattere, dobbiamo vincere e non possiamo permettere che queste aziende tecnologiche abbiano un tale potere senza controlli. Dipende da noi: voi, me, tutti noi. Noi siamo quelli che devono riprendere il controllo. Fake news o make news? di Federico Bagnoli Rossi* Il problema legato al diffondersi in rete delle fake news è di estrema attualità, ora più che mai, se considerato anche alla stregua di un’altra tematica, riguardante la possibile approvazione della cosiddetta Direttiva Copyright. La questione ha acceso il dibattito perché, a seconda da che lato la si guardi, si plaude allo sforzo normativo o lo si etichetta come intento repressivo di un mezzo che non può essere imbavagliato. Come sappiamo, internet è ormai divenuto talmente potente e importante che, come rovescio della medaglia, è in grado di inglobare e
fagocitare qualsiasi cosa. Si è pertanto resa necessaria una regolamentazione del settore per tutelare i contenuti culturali e le opere di ingegno da quel far west che è diventato il web, dove ognuno può mettere in rete ciò che vuole, spesso senza l’autorizzazione di chi detiene i diritti di quel determinato contenuto. La faccenda è molto complessa e coinvolge tutti i soggetti che operano sul wed, per esempio, i motori di ricerca danno agli utenti la possibilità di reperire con facilità informazioni e contenuti in rete. Tra questi, anche contenuti culturali e di intrattenimento che sono stati caricati senza le necessarie autorizzazioni da parte dei titolari dei diritti. Ma chi c’è dietro quel testo, quell’articolo o quell’opera audiovisiva a cui riusciamo ad accedere gratuitamente in pochi secondi? Una persona, o un gruppo di persone che, a seconda dell’opera, può essere qualificato come editore, autore o altro ma, che in tutti i casi, sono titolari dei diritti di sfruttamento di quell’opera, essendone i produttori o i creatori. Ebbene proprio in questo senso si è deciso d’intervenire. Ci si è accorti che, a fronte dei ricavi mastodontici prodotti dai colossi del web, molto poco veniva corrisposto a coloro che, quel web,
lo riempiono di contenuti: notizie, opere e quant’altro sia frutto dell’ingegno umano. L’utente medio è spesso poco interessato a questo tipo di problematiche perché le sente distanti in quanto non afferiscono con la sua vita personale o il suo lavoro. Ma come vi sentireste se per un lavoro che avete eseguito non veniste remunerati? E se quel lavoro venisse sfruttato da altri in cambio di un’utilità a loro vantaggio? Non vi sentireste in qualche modo defraudati di qualcosa che vi spetta di diritto quale riconoscimento del lavoro svolto? Su questo tema si è dibattuto anche in ambito europeo e le istituzioni sovranazionali sono state chiamate a dirimere i nodi della questione mediante l’avvio di una trattativa che, lungi dall’essere di semplice risoluzione, ha come scopo ultimo l’approvazione di un testo normativo (direttiva) applicabile direttamente a tutti gli Stati membri, e vincolando gli stessi nel risultato da raggiungere, con libera scelta a discrezione del Legislatore nazionale circa i mezzi e gli strumenti legislativi necessari per ottenere detto risultato. Le trattative, che inizialmente sembravano essersi arenate in quanto il testo oggetto della trattativa non trovava i favori di molti dei Paesi membri coinvolti, lasciando spazio a lacunose interpretazioni che spesso e volentieri avrebbero potuto arrecare più danni che vantaggi, sembrano essere destinate alla definitiva approvazione. C’è da dire però che lungo il percorso non pochi sono gli ostacoli che si frappongono in vista della conclusione degli accordi, essendo molteplici gli interessi in gioco. Vi è di più. Il rischio di licenziare un testo di cui non si conoscono i limiti di applicazione, dato il novero di false notizie che gravitano attorno all’argomento, può costituire un serio pericolo, non solo per gli addetti ai lavori, ma anche per gli utenti finali, con evidenti ripercussioni negative
sia per l’ industria dei contenuti che del web. E non a caso si fa riferimento al concetto di rischio o di pericolo, quando si parla di notizie che girano in rete, legate a qualsivoglia argomento. Il nocciolo della questione è proprio questo, ovvero il labile confine che c’è tra il riportare una notizia, adempiendo al dovere di cronaca in maniera retta e corretta, e generare una fake news, ovvero un’informazione in grado di storpiare una vicenda, per renderla certamente più appetibile all’utente, sacrificando però il diritto dell’utente ad essere informato correttamente sull’altare del sensazionalismo da bar. Ad esempio, proprio sul testo della Direttiva, molto è stato detto e scritto, il più delle volte travalicando il confine del diritto di cronaca e naufragando miseramente nel mare aperto delle fake news. Si è scritto per esempio, e correttamente, sulle posizioni contrastanti dei diversi Paesi membri, con particolare riferimento alla Francia e alla Germania circa la possibilità di corrispondere o meno una remunerazione a favore degli editori e degli autori per i collegamenti ai loro contenuti, la cosiddetta “link tax”che nonostante l’appellativo fuorviante, non corrisponde assolutamente a una tassa, e la necessità di un controllo preventivo da parte delle maggiori piattaforme (Google, YouTube, etc) riguardo i contenuti caricati su di esse, frettolosamente bollato come “censura” o “bavaglio della rete“. Tale diatriba apre la strada a una questione ben più ampia e, se vogliamo, pregiudiziale rispetto al fatto se sia dovuta o meno una remunerazione per un qualcosa che viene condiviso in rete e sfruttato dai grandi operatori del web. La questione, se possibile, è certamente
più complessa e delicata. Per quanto possa essere condivisibile la posizione espressa dall’uno o dall’altro Paese, è innegabile che ci si trovi di fronte a una vera e propria emergenza riguardante una corretta informazione, e ciò dovrebbe avere una preminenza assoluta su tutto il resto poiché ne costituisce la naturale premessa. Della serie: come posso essere in grado di formare un pensiero oggettivo, corretto e scevro da qualsiasi pregiudizio riguardo una particolare tematica, quando molte delle notizie che parlano di quella questione, sono false? La domanda seguente potrebbe essere: l’utente medio è messo nelle condizioni di poter informarsi su qualcosa in maniera corretta ed esaustiva? La risposta, senza timore di smentita alcuna, è NO. In particolare, ciò che ci è dato sapere, mediante l’utilizzo dei sistemi informativi a nostra disposizione, risulta inquinato da una matassa di notizie che con l’informazione vera hanno poco a che fare. Si tratta dell’annosa questione circa la massiccia presenza in rete delle cosiddette fake news, vero vulnus della nostra epoca sempre più digitale. Un virus che, partendo dal web, si annida pian piano nelle nostre menti, contorcendo e distorcendo la visione della realtà delle cose, spesso ben diversa da come ci viene presentata. La stessa Direttiva Copyright è finita in questo frullatore di notizie che centrifuga i dati restituendo all’utente ciò di cui non avrebbe davvero bisogno: ovvero notizie confezionate ad hoc, a proprio uso e consumo a seconda della corrente di pensiero o dello schieramento politico cui si appartiene. Considerate le spaccature interne create dal dibattito, sia nei partiti politici che tra aventi diritto, cittadini, istituzioni ecc, sarebbe forse meglio procedere a una revisione totale di ciò che i Paesi membri si apprestano a votare? Non è dato saperlo. Allora, prima ancora di discutere sulla regolamentazione dei contenuti che vengono offerti sul web, andrebbe rivista l’intera struttura della rete stessa, dal punto di vista dell’informazione. Prima di capire se un contenuto messo in rete debba essere o meno remunerato, limitando (è un dato di fatto e innegabile) in caso positivo la circolazione del contenuto stesso, andrebbe effettuata una sorta di scrollatura di tutta quella filiera di informazioni che creano nebbia, che diradano la visuale e confondono il cittadino, il lavoratore, colui che esprime le proprie idee con un voto e che con il voto indirizza la guida politica del Paese. Perché va ricordato, prima che internauti, siamo cittadini e tutto ciò che passa dalla rete, ha una ripercussione sulle nostre vite, prima ancora che sulle nostre scelte. Sì perché il web è un’immensa struttura, ancorché immateriale, fatta di precise fondamenta. Queste fondamenta sono pericolanti perché non hanno un’intelaiatura in grado di sostenerle e, se non si
interviene a protezione della base, il rischio di un collasso sarà sempre più imminente. L’intelaiatura sono le regole e i principi cui tutti noi dovremmo uniformarci per una pacifica convivenza in rete. Ma se queste regole sono inquinate dalla presenza di notizie false, create ad hoc per destare il sensazionalismo che tanto piace al populista di turno, va da sé che l’intero complesso è viziato dal suo interno, finendo prima o poi d’implodere su di sé. Non da ultimo va ricordata la campagna di disinformazione che ha coinvolto Wikipedia, il famoso portale enciclopedico, aggregatore di notizie. Si paventava di una sua possibile penalizzazione se fosse stata approvata la Direttiva Copyright, con un vespaio di polemiche, sollevate da chi era pronto a cavalcare l’onda lunga del populismo mediatico e del sensazionalismo. Come si è tenuto a precisare in corso d’opera, la possibile approvazione della normativa europea sul Diritto d’Autore non recherà alcun danno al portale in questione, né tantomeno comporterà una restrizione all’utilizzo di meme. Questo perché, essendo Wikipedia un’enciclopedia digitale che non persegue scopi commerciali, è esclusa dal novero delle piattaforme oggetto di regolamentazione da parte della disciplina europea. Questo breve ma significativo passaggio, serve a chiarire la pericolosità insita in una fake news, quando anche il pericolo di qualcosa che non si conosce a fondo, che non si approfondisce o, come spesso accade, neanche si legge, costituisce terreno fertile per costruire falsità e rivendicazioni che nulla hanno a che vedere con i reali interessi in gioco. Insomma, non importa che venga inviato un messaggio fuorviante e non attinente alla realtà, l’importante è creare scalpore, confezionare una notizia ad hoc in grado di suscitare sdegno in chi la legge e che solitamente non va oltre quell’alone mediatico cucito attorno alla notizia stessa, che ostacola la presa di coscienza su un fatto, impedendo una corretta consapevolezza e informazione su ciò che accade. Il percorso come si evince, si rivela tutt’altro che scevro da ostacoli, costituiti appunto dalle fake news di cui il web è disseminato e che occorrerebbe disinnescare per evitare il peggiore dei mali che attanaglia la nostra epoca: la disinformazione acuta.
*Segretario Generale FAPAV (Federazione per la Tutela dei Contenuti Audiovisivi e Multimediali) Mediaset vince causa contro Facebook: “Violati diritto d’autore e diffamazione” di Giovanna Rei ROMA -Lo annuncia il Gruppo Mediaset: “Facebook è stata condannata dal Tribunale di Roma per violazione del diritto d’autore e per diffamazione, illeciti commessi ospitando link non autorizzati sulle pagine della propria piattaforma“. Una sentenza, per la prima volta del genere in Italia, avviata dal gruppo del biscione, che ha avviato la causa contro la piattaforma americana di social networking, con “un contenzioso dal valore economico modesto ma cruciale nei principi che intendeva tutelare e dai risvolti delicati per il precedente che crea“. Piersilvio Berlusconi Per il gruppo Mediaset guidato da Piersilvio Berlusconi, si tratta di una “svolta nella giurisprudenza italiana a tutela del copyright“.
Questi, in sintesi i fatti secondo quanto ricostruita dall’azienda di Cologno Monzese. “Nel 2012, utenti anonimi aprono una pagina Facebook dedicata a un cartoon trasmesso da Italia Uno, Kilari. Alcuni link della pagina conducevano da un lato a contenuti tutelati da diritto d’autore illecitamente caricati su You Tube, dall’altro a pesanti insulti e commenti denigratori indirizzati all’interprete della sigla della serie animata. Nonostante numerose diffide, Facebook ha scelto negli anni di non rimuovere i contenuti e i link incriminati costringendo Mediaset a ricorrere alla Magistratura. E oggi, con la sentenza n. 3512/2019 del Tribunale di Roma, i giudici hanno condannato Facebook sia per diffamazione che per violazione del diritto di autore“. “La decisione è la prima a riconoscere in Italia la responsabilità di un social network per una violazione avvenuta anche solo attraverso il cosiddetto “linking”, ovvero la pubblicazione di link a pagine esterne alla propria piattaforma, recependo in questo modo anche da noi l’ormai consolidata giurisprudenza europea in materia di violazioni del copyright”. A tal proposito, Mediaset “auspica che la direttiva europea sul diritto d’autore nel digitale – oggetto nei giorni scorsi dell’accordo del trilogo – venga approvata per dare un quadro definitivo alla difesa dei contenuti, frutto dell’ingegno e della creatività degli editori“. “Stiamo esaminando la decisione del Tribunale di Roma – ha comunicato un portavoce italiano dell’azienda statunitense -. Facebook prende molto seriamente la difesa del diritto d’autore e negli ultimi anni abbiamo investito molte risorse per sviluppare, grazie anche alla collaborazione e ai commenti dell’industria creativa, numerose funzionalità e strumenti per aiutare i detentori di diritti a proteggere la loro proprietà intellettuale. Questo include canali di segnalazione dedicati, team che operano 24 ore su 24, 7 giorni su 7, per rivedere le segnalazioni, e strumenti sofisticati per identificare i contenuti protetti da copyright ancor prima che vengano segnalati. Continueremo a lavorare con l’industria dei contenuti e a investire in nuovi strumenti a tutela del diritto d’autore”. Basta con le fake news. Fermiamole ! di Antonello de Gennaro
Quotidianamente ognuno di noi utilizzando i socialnetwork,e quello che è ancora peggio sfogliando le pagine della carta stampata o navigando nel web si imbatte nelle più svariate vergognose fake news. Cioè notizie false. I lettori non vengono risparmiati da una fabbrica delle falsità, un autentica spazzatura a cielo aperto, che purtroppo spesso e volentieri viene spacciata, confusa ed interpretata come informazione. Il caso più vergognoso è quello dei giorni scorsi, quando una migrante, Josephine, è stata salvata dalla Open Arms dopo aver trascorso quarantotto ore, cioè due giorni in acqua in balia del mare e delle onde dell’oceano. Immediatamente è partita l’ennesima campagna di odio razziale, dietro la quale si nascondono fronde politiche ben note ed identificate. Una vera e propria campagna”social” di odio razziale. L’hanno accusata di essere un’attrice ( !!!) e persino che il suo fortunoso salvataggio in mare aperto era tutta una finzione, e persino che le foto da cui si vedeva dello smalto sulle unghie delle sue mani, era la prova che si trattava di un falso salvataggio. Lo smalto, come spiegato dalla Ong e da una giornalista che era a bordo al momento del salvataggio, è stato soltanto una “coccola” a Josefa. Una distrazione creata ad hoc per farle passare il tempo mentre, sdraiata sul ponte della nave della Ong, si riprendeva dal trauma.
Per fortuna i volontari ed i giornalisti che si trovavano a bordo della nave salvataggio, hanno confermato che era tutto vero, che non si trattava di una finzione, comprovando e dimostrando che la storia era vera, ridicolizzando e neutralizzando l’ennesima fake news. Questo episodio cari amici e lettori è l’ennesima prova che è arrivato il tempo di iniziare a porre un freno a questo fenomeno, ad alzare un muro contro la disinformazione “pilotata”, a smontare questa catena di bugie dilaganti e vergognose. Fra i soccorritori dell’Ong Proactiva Open Arms che hanno salvato a largo della Libia una donna, Josephine, ed hanno anche recuperato i cadaveri di un’altra donna e di un bambino, c’era anche Marc Gasol, una “star” del basket spagnolo, giocatore in America nel campionato Nba coi Grizzlies e stipendio da oltre 20 milioni di dollari l’anno. A rivelarlo è stato lo stesso giocatore trentatreenne pubblicando sul suo account Twitter una foto in cui ha scritto di provare “frustrazione, rabbia e tanta impotenza”. E noi la pensiamo come lui. Occorre però un impegno, una maggiore attenzione e collaborazione anche da parte dei lettori, degli utenti
dei social network che troppo spesso danno sfogo alla propria rabbia e frustrazione, alimentando, condividendo e quindi diffondendo queste notizie false. Occorre riflettere ed informarsi prima di condividere per istinto (la maggior parte sbagliato) una notizia, così come anche chi fa informazione per professione, deve sempre riscontare, verificare le notizie prima di scriverle e pubblicarle rendendole di dominio pubblico. occorre più impegno da parte delle Forze dell’ ordine e della magistratura. Ma è necessario anche un impegno serio da parte del Governo che deve porre in essere leggi più severe prendendo ad esempio il governo federale tedesco che l’anno scorso ha dato il via libera al progetto di legge che prevede multe fino a 50 milioni di euro in cui incorreranno i giganti del web come Facebook, YouTube e Twitter se non saranno in grado di cancellare o comunque rendere inaccessibili minacce e commenti offensivi e diffamanti, incitazioni all’odio o a reati penali. I social media sono responsabili se le loro piattaforme vengono sfruttate per fake news e calunnie. E’ una battaglia difficile che si può vincere. Che si deve vincere. Ma è possibile farlo soltanto tutti assieme in nome di una civiltà sin troppo spesso ignorata e calpestata. Noi siamo pronti a farlo. e vogliamo avervi tutti al nostro fianco. Il predominio dei socialnetwork sulla televisione: arriva Instagram TV ROMA – Proprio nel giorno in cui Instagram ha annunciato di aver superato la soglia simbolica del miliardo di utenti, ha deciso di lanciare il proprio guanto di sfida a You Tube e non solo, dando il via a una nuova rivoluzione nel settore dei media: IGTV cioè Instagram Tv. Come dicevamo, è una specie di canale televisivo progettato per sfidare YouTube e i media tradizionali, già sotto pressione per i molteplici servizi di streaming offerti da Netflix e Amazon Prime Video. IGTV è stata progettata per consentire agli utenti di poter pubblicare filmati ben più lunghi del solo minuto possibile, fino ad ora. Da alcuni giorni infatti, è possibile caricare sul socialnetwork, dei video della durata massima un’ora che iniziano appena l’applicazione viene accesa, proprio come una tv.
I DISPOSITIVI I contenuti vengono riprodotti solo a schermo intero – a differenza del concorrente YouTube – e soprattuto in 9:16, cioè in verticale. Una caratteristica tecnica che definisce il predominio ormai definitivo degli smartphone e tablet sui computer fissi ma sopratutto sulle tv . La rivoluzione è stata voluta proprio dal socialnetwork rilevato da Mark Zuckerberg nel 2012, il cui utilizzo inizialmente era stato “pensato” come di una piattaforma dedicata esclusivamente alle foto, ha iniziato la sua scalata al miliardo di utenti consentendogli di pubblicare video da 60 secondi. Dopo solo 24 ore i filmati caricati erano già 1,5 milioni: un vero e proprio boom. A seguire sono arrivate le “Dirette” e le “Stories” aprendo nuove possibilità, soprattutto pubblicitarie. LA SFIDA A GOOGLE . Instagram Tv rappresenta la vera e propria sfida lanciata da Zuckerberg a YouTube ed agli eterni rivali di Google. La pubblicazione di video più lunghi su IGTV conseguirà una presenza di mini-spot da circa mezzo minuto dalla resa elevatissima in termini di monetizzazione pubblicitaria. Basti pensare che la spesa totale per gli annunci video online solo negli Usa, secondo eMarketer, vale circa 18 miliardi di dollari e si stima aumenterà fino a 27 miliardi nel 2021. Si prevede comunque che Instagram creerà un’opzione di monetizzazione per i creators di IGTV, in cui saranno incluse le quote di entrate pubblicitarie. Infatti oltre che “a liberare la creatività”, come dichiarato daMark Zuckerberg cofondatore di Instagram nel corso della presentazione
tenuta a San Francisco mercoledì scorso, con IGTV si punta a intercettare la cosiddetta “Generazione YouTube“, quella composta dagli adolescenti dai 13 ai 17 anni. Ragazzi nativi digitali e social addicted, che vivono lontani dai televisori e quando li accendono lo fanno esclusivamente per riprodurre video o giocare ai videogame. È su di loro che Instagram e gli altri social puntano davvero, perché più permeabili ai messaggi pubblicitari e più presenti online. Gli utenti, soprattutto i più giovani, manifestano gran parte della propria attenzione a questa forma di contenuti utilizzabili in qualsiasi momento, in mobilità, e con la possibilità di interagire con i creatori. Tendenza confermata da una recente indagine di GlobalWebIndex: il tempo speso ogni giorno guardando contenuti sui social supera in media di 20 minuti quello dedicato alla visione di programmi offerti dalla televisione, e diventa addirittura un’ora e mezzo nella fascia dei più giovani . Per questo motivo, secondo alcune anticipazioni “ufficiose”, anche Facebook starebbe lavorando per rafforzare l’esperienza video sul social. TELEGIORNALI Il colosso di Menlo Park starebbe collaborando al momento in ottica anti fake news con diverse reti televisive per produrre dei notiziari originali. Si tratterebbe di veri e propri telegiornali pubblicati in rete sull’applicazione Watch: una costola di Facebook dedicata esclusivamente ai video, attiva negli Stati Uniti dall’estate scorsa. Un nuovo ennesimo capitolo della sfida tecnologico tra Facebook Inc. e Alphabet la holding a cui fa capo l’impero Google iniziata con la creazione del social Google Plus e continuata con la spartizione del mercato pubblicitario, dove Google Adwords e Facebook Ads hanno trovato al momento un precario equilibrio. Un futuro terreno di scontro potrebbe essere lo streaming musicale: YouTube ha da poco
annunciato il lancio della nuova piattaforma Music, entrando di fatto nel mercato dominato da Spotify e Amazon. Ed ancora una volta, tutti si aspettano la prossima mossa da Mark Zuckerberg. Scandalo Datagate: la psicosi dei nomi falsi e delle foto di repertorio per difendersi dal “grande fratello” di Paolo Campanelli Il “Datagate”, come è stato soprannominato dalla stampa americana, ha scatenato reazioni in giro per il mondo, ma come spesso accade in questi casi, la maggior parte delle persone crede di sapere di che cosa si parli, mentre la realtà è nettamente differente. Il cuore del problema riguarda le scorse elezioni amministrative americane, nettamente differenti da quelle nostrane, e su come i politici si facessero pubblicità, e si può riassumere su come, utilizzando i dati raccolti dal gruppo di Cambridge Analytica, alcuni politici avrebbero avuto vantaggi scorretti su altri, in quanto potevano investire in campagna elettorale in aree specifiche anziché su tutto il territorio. L’utente medio di Facebook però, è convinto che non usare il proprio nome, non indicare la propria età e negare l’amicizia a tutti quegli amici che potrebbero rivelare la sua identità sia una difesa impenetrabile, per difendersi dall’essere schedato in ogni momento, ogni luogo, ogni gabinetto. E questa si chiama “psicosi“,
principalmente perché non sono quelle le informazioni che sono coinvolte: quelli che questi sistemi prendono in analisi, e che hanno portato a questa situazione sono i Metadati. Un metadato (dal greco μετὰ “oltre, dopo” e dal latino datum “informazione“), letteralmente “(dato) oltre un (altro) dato“, è un’informazione che descrive un insieme di dati. I metadati rappresentano un metodo sistematico per la descrizione delle risorse informative e per migliorarne l’accesso e la gestione I metadati nascono come strumento per semplificare il lavoro dei bibliotecari, si trattava infatti di schede ordinate per genere che riportavano le posizioni dei libri sugli scaffali, permettendo così di trovare in pochi minuti un libro nella orami così lontana era analogica. Con la nascita del digitale, il termine “Metadato” è andato a indicare tutta una serie d’informazioni normalmente non visibili, o comunque non immediatamente evidenti, che riguardano file e pagine web. Con i metadati si può facilmente sapere se un’immagine è originale o rielaborata, quando un documento di testo è stato modificato l’ultima volta, quanto a lungo un utente è rimasto su di una pagina web, quanto spesso una pagina sia visitata, se si è arrivati ad un sito direttamente o tramite link da altri siti e molto altro.
I metadati sono estremamente utili per i gestori dei siti che offrono servizi, come Amazon o Youtube, per concentrarsi sul migliorare il servizio stesso, per i ricercatori e per chi fa informazione, per poter comprendere una determinata situazione on-line o per comprendere quali sono le notizie più di tendenza che il pubblico cerca e quelle che non interessano. Tuttavia, sfuggendo completamente alla psicosi, questi dati sono significativi solo quando sono in grande numero e indipendenti dall’utente effettivo. Non è importante chi ha letto una notizia, è importante quanti lo hanno fatto e quanto a lungo sono rimasti sulla pagina (paragonabile a “quanto della notizia hanno letto”) Differente è l’uso “ad personam” dei metadati: questa specifica branca di metadati è quella che influisce, in maniera più o meno efficace, sulle funzioni dedicate direttamente all’utente specifico, ad esempio la lista di video consigliati su Youtube, influenzata da i video visti recentemente, o i banner pubblicitari su alcuni siti. Questi dati sono tutt’altro che precisi, continuando a offrire le stesse scelte per lungo tempo anche quando l’attenzione dell’utente si è spostata da tempo o paradossalmente, quando la ricerca originale si consuma nella stessa, ma i banner continuano a proporre per mesi e mesi gli stessi risultati . per esempio, essere costretti ad utilizzare il sito di un’agenzia funebre che usa queste pubblicità tende purtroppo a far vedere altre pubblicità di offerte su bare e loculi per lunghi periodi. L’uso dei metadati è autorizzato da parte dell’utente come clausola di iscrizione nelle condizioni d’uso di ogni social network, che ogni
utente deve accettare per potersi iscrivere, e in modo più limitato, da cookie utilizzati dalla stragrande maggioranza di siti per vari fini, che ora sono presentati agli utenti quando si connettono ad un sito per la prima volta. La questione centrale di questo scandalo è centrata su come Facebook abbia ceduto determinati metadati, violando le sue stesse norme di Privacy, inconsapevolmente, almeno sulla carta; la paura è che altre organizzazioni abbiano avuto accesso a questi dati significativi, se non tramite Facebook, via altri social network come Instagram, Twitter o Tumblr (quest’ultimo a sua volta impegnato in una caccia alle streghe contro hacker russi al momento dello scandalo). Cambridge Analytica ha raccolto dati specifici, relativi alle elezioni americane, e indiscrezioni non confermate affermano anche riguardo alla Brexit; vi sono congetture che alcuni partiti italiani abbiano avuto la possibilità di utilizzare simili mezzi, ma nessuna prova tangibile all’atto pratico, ne effettive azioni intraprese durante le ultime campagne elettorali che alzino sospetti al riguardo In conclusione, a nessuno interessano i dati sul pensiero politico dell’italiano medio in rete, poichè come più volte abbiamo indicato noi del Corriere del Giorno, la propaganda politica all’italiana si basa su altro, ed è molto più pericoloso un hacker quasi improvvisato che utilizza comuni virus, che un Grande Fratello intenzionato a tenere d’occhio la nostra cultura YouTube: i nuovi rischi della
babysitter televisiva di Paolo Campanelli Grazie a lettori portatili di dvd, tablet, smartphone e simili, un bambino può distrarsi anche in situazioni più “dinamiche” rispetto al salotto di casa, e il pronto accesso alla connessione internet mette a disposizione l’intero catalogo di video in rete a loro disposizione; per questo YouTubeKids nasce come una sezione più adatta ai pargoli rispetto al resto della piattaforma video YouTube: controlli più stretti sui contenuti, niente commenti, un interfaccia più chiara e semplice da usare e video di filastrocche o cartoni raggiungibili da ogni pagina. Sfortunatamente,YouTube ha un lato non immediatamente visibile all’utente: il fatto che sia possibile guadagnare soldi sui propri video tramite un processo chiamato Monetizzazione, che si basa principalmente sul supporto di sponsor direttamente a YouTube (ed è la causa di tutte quelle pubblicità che di tanto in tanto appaiono). Per un Creato Content, le persone che fanno video, spesso con impegno e costanza, è ciò che ha trasformato un passatempo in un lavoro a tempo pieno, basti ricordare lo youtuber italiano Favij e che nel suo periodo di maggior successo guadagnava ogni mese quanto un chirurgo plastico, una frazione di centesimo alla volta per ogni persona che guardava i suoi video. E dove ci sono i soldi, ci sono anche persone senza scrupoli che vogliono prenderli senza faticare. Idealmente, a vegliare sui contenuti ci sarebbero una serie di Bot che intercettano video sospetti, e un team di persone a coadiuvarne l’effetto e assicurarsi che i casi più difficili vengano risolti in maniera corretta. La realtà è ben differente, come chiunque abbia mai provato a contattare un qualsiasi essere umano che ci lavori. Questo
ha fatto si che, mantenendosi all’interno di determinati parametri di metadati (dati invisibili ad un’utente ma su cui i programmi di analisi di un sito lavorano), è possibile caricare su YouTube qualsiasi video in barba alle regole e averlo li fino a che una persona reale non prende in mano la situazione. In origine, si trattava di semplici giochi creati col programma Flash e impossibili da perdere, di pessima qualità e talvolta disgustosamente grafici, ma sempre fatti con personaggi famosi, principalmente della Disney, o di serie collegate a giocattoli per bambine. Sale parto, sedie del dentista, studi di podologhi, sale di veterinari… ogni scusa era buona per usare materiale di bassa qualità e allo stesso tempo sorprendentemente definito. Successivamente, con l’esplosione degli smartphone e la relativa evoluzione nel “parcheggiare i pargoli davanti alla televisione”, questi “creatori” si accorsero che i genitori, pur di far stare tranquilli i bambini quando fuori in pubblico, utilizzavano YouTube per accedere a cartoni animati, con un risultato prevedibile A differenza dei giochi, le animazioni in flash non richiedono alcun ulteriore imput oltre a premere play, rendendoli molto più facili da creare. Come prevedibilmente accade in situazioni in cui l’animazione è il centro della questione, la situazione è stata presa sottogamba fino a he non si è arrivati agli estremi: originate come storielle con giocattoli con Elsa e Spiderman come protagonisti, fino ad arrivare ai video in questione; sono lunghe sequenze di scenette, che essendo scollegate possono durare anche ore (e i video più lunghi sono più remunerativi), prive di senso logico spesso anche all’interno della scenetta stessa e inevitabilmente con terribili animazioni. Nella maggior parte dei casi, si tratta di personaggi Disney, ma anche serie correlate con giocatoli come Barbie, MyLittlePony o Transformers o altre serie più di tendenza con i pargoli, doppiati in inglese o senza reali dialoghi così da poterli caricare su più canali, con nomi e tag improbabili in modo da risultare correlato a più ricerche anche non correlate. Talvolta alcuni video utilizzano altri metodi d’animazione, per esempio stop motion e plastilina, ma i risultati sono gli stessi. Questi video oltre ad avere contenuti più grafici, tipo pustole, carie o ferite in abbondanza, spesso mettono i personaggi in posizioni chiaramente equivoche, con parziali nudità, riferimenti sessuali più specifici, violenza gratuita o autolesionismo. Quest’ultima tipologia è stato quel che ha fatto esplodere la notorietà di questi video, quando una madre, controllando se il proprio figlio fosse ancora interessato, ha notato Peppa Pig che imprecava prima di tracannare un gallone di varecchina. Più recentemente, stanno emergendo video in Live Action (e quindi con persone vere, seppur truccate) con simili contenuti, che nascono come mezzo per aggirare i genitori che hanno
intuito il rischio dei cartoni già descritti, ma che continuano a cadere negli stessi tranelli, in una sorta di “Melevisione del perverso” Ma una grande colpa risiede anche in YouTube stesso: tralasciando il fattore parodistico di alcuni contenuti, che possono contenere violenza o doppi sensi particolarmente pesanti (ma opportunamente segnalati) pensati per un pubblico più vasto e cresciuto, se non più maturo, YouTube è il far west digitale del copyright, con video che sono rimossi per 8 secondi di musica, con altri che contengono il brano completo che rimangono, nudità esplicite spacciate per video di medicina, canali che scaricano e reinseriscono lo stesso video di altri sotto loro nome, nessun controllo se chi richiede la rimozione possiede effettivamente i Diritti, e sistemi automatici che attaccano tutti i contenuti all’interno di determinati parametri (quest’ ultimo ironicamente, ha recentemente colpito Nintendo, che si è vista il suo canale ufficiale destinato all’area di Taiwan bloccato per copyright). L’unica vera arma che YouTube possiede, è l’abuso della Demonetizzazione dei video, ma ad oggi, i risultati sono deludenti, per usare un eufemismo. Ovviamente esistono canali completamente sicuri, ad esempio molti youtuber fanno recensioni di giocattoli, streaming di videogiochi o “overanalizzano” film, ma li è un altro discorso totalmente, che fa capo a come youtube, preso passivamente, sia come una televisione con centinaia e centinaia di canali che trasmettono programmi differenti e non come la Rai ai tempi del bianco e nero che era l’unica a trasmettere determinati contenuti a determinati orari. Simile è la questione dei commenti risaputamene terribili e non adatti ad un pubblico compreso tra i 2 e i 95 anni, e ancor peggio nei canali specificatamente italiani, ma su quello, il sito in se ha poca e nessuna colpa. La soluzione, come sempre in questi casi risiede nell’attenzione dei genitori, nell’uso degli strumenti a loro disponibili per prendere precauzioni e nell’assicurarsi che quel che si vuole far vedere sia adatto ai pargoli prima di premere play. In pratica, di essere genitori degni di questo nome. Scenette create nel minimo della spesa pecuniaria, talvolta persino senza un reale intervento umano : i video più recenti possono superare le analisi automatiche di Youtube, e quindi essere trattati come video “normali” ed essere inseriti in playlist e video consigliati.
Puoi anche leggere