Rassegna stampa 17 febbraio 2016 - Anica

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Rassegna stampa 17 febbraio 2016 - Anica
Rassegna stampa
   17 febbraio 2016

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INDICE

ANICA - ANICA CITAZIONI
   16/02/2016 www.repubblica.it_solidarieta 14:56                                       5
   "Più denaro in busta paga i lavoratori di cinema e tv nell'anno della rivoluzione"

ANICA - CINEMA
   17/02/2016 La Repubblica - Nazionale                                                 8
   Spotlight, in sala con il monsignore "Tutti i cardinali vedano questo film"

   17/02/2016 La Stampa - Nazionale                                                     10
   Law e Firth illuminano "Genius" Elogio di chi sta un passo indietro

   17/02/2016 Il Messaggero - Nazionale                                                 12
   "Genius", inno all'amicizia

   17/02/2016 Avvenire - Nazionale                                                      14
   La Chicago in guerra nella favola moderna di Spike Lee

   17/02/2016 Il Giornale - Nazionale                                                   15
   «Il segreto del mio film? Svelare la vita nascosta di chi ci è più vicino»

   17/02/2016 Libero - Nazionale                                                        17
   La sfida tra Batman e Superman è una minaccia per gli altri eroi

   17/02/2016 Il Manifesto - Nazionale                                                  19
   Se la realtà sale sul palco

   17/02/2016 Il Manifesto - Nazionale                                                  21
   «Chicago è una zona di guerra»

   17/02/2016 Il Manifesto - Nazionale                                                  23
   Il sogno americano è infranto

   17/02/2016 Il Tempo - Nazionale                                                      25
   Star Wars, il futuro è già iniziato

   17/02/2016 Il Tempo - Nazionale                                                      27
   Nastro d'argento a Gianfranco Rosi

   17/02/2016 CHI                                                                       28
   Eddie REDMAYNE SONO PRONTO PER FARE il bis
17/02/2016 F                                                                        31
   In America ci sono più single che sposate. E Hollywood scopre un nuovo filone: si
   può essere felici anche da sole

   17/02/2016 Oggi                                                                     33
   George Clooney «Faccio l'idiota in gonnella»

   17/02/2016 Vanity Fair                                                              35
   L`IMPORTANTE NON E PARTECIPARE

   17/02/2016 La Repubblica - Bari                                                     38
   Un docufilm sui nuovi pugliesi "Prof e sportivi non solo disperati"

   17/02/2016 La Stampa - Cuneo                                                        40
   I vent'anni di musica dei Marlene Kuntz da oggi nei cinema

   17/02/2016 La Stampa - Cuneo                                                        41
   Il regista quindicenne cerca attori e comparse

ANICA - TELEVISIONE
   17/02/2016 Corriere della Sera - Nazionale                                          43
   Rai, concorrenti all'attacco «Ora regole sulla pubblicità» E parte l'accusa di
   dumping

   17/02/2016 Il Fatto Quotidiano                                                      45
   Freccero e Sanguineti, viaggio alla fondazione dell ' Impero

ANICA WEB - ANICA WEB
   16/02/2016 www.corrierecomunicazioni.it 17:25                                       48
   Vivendi in trattativa con Cattleya, avanti sui contenuti
ANICA - ANICA CITAZIONI

1 articolo
16/02/2016 14:56                                                                                            diffusione:7
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  "Più denaro in busta paga i lavoratori di cinema e tv nell'anno della
  rivoluzione"
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  [ IL CONTRATTO] PER IL SETTORE UNA NUOVA LEGGE, UN FONDO E L'AVVIO DELLA FASE
  SPERIMENTALE DELL'ACCORDO COLLETTIVO CHE MANCAVA DAL 1999. AL TAVOLO DELLA
  TRATTATIVA C'ERA MARIO FUSANI (STUDIO GF LEGAL): "ECCO COME CAMBIANO LE REGOLE"
  Milano S corrono i titoli d'inizio per una nuova stagione del cinema italiano. Almeno è quanto si augurano gli
  operatori dell'industria audiovisiva che in questi giorni accolgono due novità: la legge varata dal governo
  per il rilancio del settore e l'avvio della fase sperimentale del contratto nazionale per gli addetti alle troupes
  cinema e tv. Il nuovo fondo dedicato al cinema e all'audiovisivo parte con una soglia minima di dotazione
  importate: circa 400 milioni di euro ricavati da una quota dell'11% del gettito Iva e Ires di chi utilizza
  contenuti, come Tv, distributori cinematografici e provider telefonici. Si tratta di un meccanismo di
  autofinanziamento che promette, nelle intenzioni del ministro alla cultura Dario Franceschini, di aumentare
  le risorse a disposizione del 60%. Se l'impianto della riforma funzionerà, ci saranno occasioni di lavoro in
  più per quella platea di addetti che lavora sui set di cinema e Tv. Per tutto questo personale, fatto di tecnici
  e maestranze, i prossimi sei mesi saranno cruciali. E saranno il test di prova del nuovo contratto di lavoro
  delle troupes, il cui rinnovo mancava dal 1999. Il protocollo di intesa è stato firmato a fine gennaio dai
  sindacati di categoria Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom
  Uil e dalle associazioni datoriali di lavoro Anica, Apt, Ape. Ad assistere la trattativa c'era Mario Fusani dello
  studio Gf legal, incaricato, per conto di Anica, di trovare soluzione tecniche e giuridiche ai problemi che
  gravano da tempo sul settore, ovvero quelle misure compensative per i lavoratori dello spettacolo in
  materia di pensioni e indennità di disoccupazione; l'adozione di nuove modalità organizzative e di flessibilità
  per rendere più competitivo il settore anche in campo internazionale; e la costituzione di nuove relazioni
  industriali, ispirate al modello partecipativo attraverso la bilateralità. «Visto il carattere di profonda
  innovazione si parte con un test di sei mesi - spiega l'avvocato Mario Fusani -Durante questo periodo l'ente
  bilaterale Asforcinema avrà il compito di monitoraggio, invitando così le parti a segnalare eventuali
  malfunzionamenti del nuovo impianto normativo in modo tale da poi correggerli in corso d'opera». Gli
  operatori del settore hanno vissuto sino ad oggi ai margini estremi del territorio fatto di sabbie mobili della
  precarietà. «Il set del cinema e della tv concentrano l'attività in pochi giorni di intenso lavoro. La durata
  media delle riprese di un film è di poche settimane. Agli addetti viene chiesta una grande flessibilità». Fino
  a oggi, in mancanza di un quadro normativo adeguato, la flessibilità richiesta è stata compensata con il
  fenomeno di ore lavorate in nero e la conseguente difficoltà a raggiungere 120 giorni lavorativi a fini
  previdenziali. Nasce così l'idea di estendere la settimana lavorativa da 38 a 66 ore, nella quale oltre la 38
  esima ora lavorativa ogni sessanta minuti in più in cui si presta servizio verranno conteggiati nella banca
  ore, tornando utili ai fini del montante contributivo. Nell'ottica di rendere il comparto più vicino agli standard
  europei, l'orario di lavoro sarà individuale e non collettivo e comprenderà anche una sesta giornata
  lavorativa. «Il nuovo impianto normativo - spiega Mario Fusani - prevede sacrifici e flessibilità ma in cambio
  ci sono aumenti in busta paga e il riconoscimenti a fini previdenziali ». In base alle nuove tabelle gli
  incrementi retributivi dalla 39esima ora in poi crescono dall'85 fino al 200%. Maggiorazioni in vista anche
  per i lavoratori giornalieri, con aumenti previsti del 25%. (ch.ben.) Mario Fusani dello studio Gf legal, era
  stato incaricato, per conto di Anica, di trovare soluzioni tecniche e giuridiche ai problemi che gravano da
  tempo sul settore dell'audiovisivo

ANICA - ANICA CITAZIONI - Rassegna Stampa 17/02/2016 - 17/02/2016                                                      5
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  15 febbraio 2016

ANICA - ANICA CITAZIONI - Rassegna Stampa 17/02/2016 - 17/02/2016                   6
ANICA - CINEMA

18 articoli
17/02/2016                                                                                                diffusione:289003
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 INTERVISTA IL RACCONTO
 Spotlight, in sala con il monsignore "Tutti i cardinali vedano questo film"
 PAOLO RODARI

 Spotlight, in sala con il monsignore "Tutti i cardinali vedano questo film" LA VALLETTA. Passano i titoli di
 coda ma nessuno si alza. Dopo un po' è monsignor Charles Scicluna, arcivescovo di Malta, pm della
 Congregazione per la Dottrina delle Fede (Cdf) negli anni degli scandali della pedofilia nel clero (dal 2002 al
 2012), a rompere il silenzio: «Questo film lo devono vedere tutti i vescovi e i cardinali, soprattutto i
 responsabili delle anime, perché devono capire che è la denuncia che salverà la Chiesa, non l'omertà»,
 dice.
  I 128 minuti di Il caso Spotlight - il film che ripercorre l'inchiesta con la quale, tra il 2001 e il 2002, il Boston
 Globe rivelò gli abusi su minori ad opera di sacerdoti della diocesi nordamericana - sono un tuffo in anni
 duri per Scicluna e i suoi collaboratori. In sala c'è anche Anthony Randazzo, sacerdote australiano, che ai
 tempi lavorava all'ex Sant'Uffizio sui casi di lingua inglese. «Ricordiamo tutti i nomi citati nel film», dicono.
 Avevate a che fare direttamente coi preti incriminati? «No. Ci interfacciavamo con i vescovi. Abbiamo
 incontrato più volte le vittime». Cosa dicevate loro? «Le ascoltavamo. Loro stesse, del resto, desiderano
 soltanto essere ascoltate, così che poi si possa fare giustizia nella verità e nella carità».
  Sono 600 gli articoli che nel 2002 il Globe pubblicò in merito.
  Nel dicembre dello stesso anno il cardinale Law, allora arcivescovo di Boston, diede le dimissioni e si
 trasferì a Roma. L'inchiesta scoperchiò un male ramificato: furono 249 i sacerdoti accusati pubblicamente
 di abusi. Nel 2008 le vittime arrivarono a 1.476. «I numeri fanno impressione», ammette Scicluna. «Ma la
 forza di questo film non sono i numeri, quanto una parola chiave: omertà. Il film mostra come l'istinto, che
 era purtroppo presente nella Chiesa, di proteggere la buona fama, fosse del tutto sbagliato. Non c'è
 misericordia senza giustizia».
  In mezzo al film, una frase significativa. La pronuncia il capo investigativo del Globe, Walter Robinson
 (interpretato da Michael Keaton). Dice: «Ci vuole un intero villaggio per fare crescere un bambino. E ci
 vuole un intero villaggio per abusare dello stesso bambino». «In sostanza Robinson - spiega Scicluna -
 capisce che non si sarebbero potuti verificare questi crimini senza complicità. Il bambino viene abusato da
 un adulto, in questo caso da un prete, certo. Ma colpevoli sono anche altri, coloro che sanno e non parlano.
 E complici, nei casi di Boston, sono state tante persone, anche i giornalisti». Cioè? «È il film a svelarlo. A
 un certo punto il gruppo che investiga ha una crisi. È quando Robinson ricorda che dieci anni prima il
 Globe, venuto a conoscenza degli abusi commessi da padre James Porter, relegò la notizia in una nota
 sulle pagine locali. E il responsabile di quella cosa fu lo stesso Robinson». L'inchiesta del Globe uscì il 6
 gennaio del 2002. Proprio in quel mese Scicluna venne chiamato dall'allora cardinale Ratzinger alla Cdf per
 aiutare in un caso penale. «Quando arrivai, le nuove leggi procedurali per questi delitti più gravi c'erano già,
 diramate da San Giovanni Paolo II nel 2001. Ricordo che quattro mesi dopo l'uscita del Globe il Santo
 Padre convocò tutti i cardinali statunitensi. Disse loro: "Non c'è posto nel sacerdozio e nella vita religiosa
 per preti o religiosi che abusano di minori".
  Fu l'inizio di un nuovo tempo per la Chiesa». Eppure, ancora oggi, non tutti i pedofili vengono denunciati.
 «È un gravissimo errore - dice Scicluna - . Fu Ratzinger a dirci che non bisognava guardare al fenomeno
 come semplicemente a un peccato, ma come a un delitto e a un crimine insieme».
  Nel 2011, alcuni media accusarono Ratzinger di aver coperto. «Erano accuse infondate e ingiuste. I casi
 venivano gestiti a livello delle diocesi locali. Negli anni '60 e '70 molti vescovi basavano le loro decisioni
 sulla tesi, del tutto inadeguata, che questi crimini erano dovuti a condizionamenti ambientali. E così, al
 posto di denunciare i colpevoli, li spostavano di parrocchia in parrocchia... ma i predatori rimanevano tali

ANICA - CINEMA - Rassegna Stampa 17/02/2016 - 17/02/2016                                                                  8
17/02/2016                                                                                             diffusione:289003
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 ovunque. Ratzinger ogni venerdì presiedeva una riunione della Cdf chiamata "Congresso" in cui venivano
 spiegati i casi e si aprivano i processi. Tutti vedevamo la sua sofferenza, tanto che spesso non riusciva
 nemmeno a parlare. Gli usciva dalla bocca soltanto un "Mah...". Era sdegnato e insieme profondamente
 colpito. Nel 2005 tenne le meditazioni nella famosa Via Crucis in cui denunciò la sporcizia presente nella
 Chiesa».
  Era il 2010 quando Scicluna tenne un'omelia in San Pietro divenuta famosa. «L'inferno è più duro per i
 preti pedofili», titolarono i giornali. All'interno della Chiesa vi fu chi lo criticò. Parole troppo dure, dissero.
 «Ricordo la mia angoscia leggendo quei titoli. Nell'omelia avevo semplicemente citato Gregorio Magno che
 disse che chi, consacrato a Dio, rovina gli altri con la parola e l'esempio sarebbe stato meglio se fosse
 morto "quand'era nello stato laicale", perché la sua "pena infernale" lo avrebbe "tormentato" in modo "più
 tollerabile". Io non ho le chiavi dell'inferno. Credo invece fermamente nella misericordia di Dio per tutti,
 anche per i colpevoli. Dico soltanto che la base della misericordia nella giustizia è la verità».
 www.vatican.va https://www.bostonglobe.com/ PER SAPERNE DI PIÙ
 Foto: Chi si occupa delle anime deve capire che sarà la denuncia a salvare la Chiesa e non l'omertà Fu
 Ratzinger a dirci di guardare al fenomeno non come a un peccato ma come a un delitto e un crimine
 ACCUSATORE Monsignor Charles Scicluna, pm vaticano dal 2002 al 2012 LA PELLICOLA Una scena del
 film "Il caso Spotlight": racconta l'inchiesta con cui il Boston Globe rivelò gli abusi sui minori dei sacerdoti
 Usa

ANICA - CINEMA - Rassegna Stampa 17/02/2016 - 17/02/2016                                                               9
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                                                                                                                            La proprietà intellettuale è riconducibile alla fonte specificata in testa alla pagina. Il ritaglio stampa è da intendersi per uso privato
 Personaggi
 Law e Firth illuminano "Genius" Elogio di chi sta un passo indietro
 A Berlino i due inglesi nel film sullo scrittore Tom Wolfe e l'editor Perkins Realmente esistito, contribuì alla
 grandezza di Fitzgerald e Heming way
 FULVIA CAPRARA

 La Berlinale s'illumina d'immenso, con i due divi Colin Firth e Jude Law, mattatori di Genius , il film
 d'esordio dell'autore teatrale 53enne Michael Grandage, dedicato all'incontro cruciale tra il celebre editor
 newyorkese Max Perkins (Firth) e lo scrittore Tom Wolfe (Law). Faccia a faccia tra due attori che si
 dividono perfettamente la scena, da una parte Firth, re dell'understatement, dall'altra Law, campione di
 genio e sregolatezza, il film è un inno alla meravigliosa avventura dello scrivere, all'imprescindibile fatica di
 cui si nutrono le opere destinate alla gloria, all'importanza degli incontri umani, senza i quali, nella maggior
 parte dei casi, il talento rischierebbe di non venire alla luce. Le strade di Perkins e Wolfe s'incrociano per la
 prima volta nel 1929, in una New York ingrigita dalla crisi dove la miopia degli editori cui ha già proposto
 mille volte, senza successo, il suo primo romanzo, blocca lo sviluppo delle sue doti straordinarie. Irruente,
 fluviale, disordinato come le pagine su cui trascrive il fiume delle emozioni, Wolfe irrompe nella vita di
 Perkins, lavoratore indefesso e affettuoso padre di famiglia, cambiandola per sempre: «Non è la prima volta
 - osserva Firth - che mi capita di interpretare personaggi di poche parole, in qualche modo repressi. Nel
 rapporto con l'autore che sta per spiccare il volo verso il successo, io sono quello che sta un passo indietro,
 ma non direi che questo mi rende meno eroico. Anzi. Senza persone come Perkins, gli obiettivi non
 potrebbero essere raggiunti, e poi allora, a differenza di oggi, non c'erano tanti modi per mettersi in
 mostra». Allo scrittore stupito della sua fiducia, Perkins risponde asciutto: «Il mio lavoro, il mio unico lavoro,
 è mettere buoni libri in mano ai lettori». Non a caso, prima di Wolfe, erano passati tra le mani del maestro
 dell'editing i testi di Scott Fitzgerald (Guy Pearce) e Ernest Hemingway (Dominic West): «Ho fatto molte
 ricerche per il film - racconta Law -, leggendo le lettere e i libri di Wolfe sono rimasto profondamente colpito
 dal suo incessante desiderio di spingersi oltre e di creare nuove forme di espressione». La prima vittima di
 questa ricerca totalizzante è la compagna Aline Bernstein (Nicole Kidman), ricca e bellissima, che per lui ha
 abbandonato tutto e ora rischia di perderlo. La seconda è Perkins, l'uomo che lo ha aiutato a realizzare i
 propri sogni e che è diventato per lui come un padre: «Una delle grandi sfide del film osserva Law - stava
 anche nel riuscire a celebrare queste due persone, la loro abilità intellettuale, il ritmo brillante dei loro
 scambi». Sceneggiato da John Logan e realizzato grazie ai suggerimenti di Sam Mendes, che ha
 incoraggiato Grandage a compiere il salto dal palcoscenico al set, Genius è anche un omaggio all'epoca
 delle carte e delle penne, delle macchine da scrivere e dei faldoni, un corredo in via di sparizione che
 riempie molte sequenze, accrescendo un vago senso di rimpianto per l'epoca in cui poteva succedere che
 l'autore di Angelo, guarda il passato discutesse animatamente durante una cena con quello del Grande
 Gatsby . «Ho cercato di scoprire il personaggio di Perkins - spiega Firth -, e questo è stato il punto di
 partenza per tornare a esplorare la letteratura di quel periodo, ho anche riletto tutti i romanzi di Fitzgerald e
 me ne sono di nuovo innamorato. Ho capito poi che cosa significhi esattamente fare l'editing di un libro.
 Perkins voleva preservare l'integrità dei testi di Tom, una cosa ben diversa e molto più complicata del
 ripulire semplicemente un manoscritto». c
 Ho letto tutto Wolfe: una delle sfide del film stava nel riuscire a celebrare lui e Perkins, il suo editor,
 la loro abilità intellettuale, il ritmo brillante dei loro scambi Jude Law In «Genius» è lo scrittore Tom
 Wolfe
 Studiando il mio personaggio sono tornato a esplorare la letteratura di quel periodo, ho riletto tutti i
 romanzi di Fitzgerald e me ne sono di nuovo innamorato Colin Firth In «Genius» ha la parte del celebre
 editor Max Perkins

ANICA - CINEMA - Rassegna Stampa 17/02/2016 - 17/02/2016                                                              10
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 Foto: Qui sotto, da sinistra: Colin Firth, 55 anni, e Jude Law, 43 anni, protagonisti di «Genius», il film di
 Michael Grandage presentato ieri alla Berlinale; nel cast c'è anche Nicole Kidman
 Foto: BRITTA PEDERSEN/EPA

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 Alla Berlinale, Jude Law e Colin Firth parlano del loro ruolo nel film sul rapporto tra lo scrittore Thomas
 Wolfe e il suo editore IL FESTIVAL
 "Genius", inno all'amicizia
 Ilaria Ravarino

 La critica letteraria, negli anni venti, stravedeva per lui. Al suo secondo romanzo Thomas Wolfe era già «il
 James Joyce d'America», il suo genio paragonato a quello Walt Withman, i suoi libri preferiti a quelli di
 Fitzgerald o Hemingway nei salotti bene della New York del primo Novecento. E quando nel 1930 Sinclair
 Lewis accettò il Nobel alla letteratura, il primo mai assegnato a un americano, lo dedicò proprio a lui, «il più
 grande scrittore vivente». A quasi ottant'anni dalla sua morte, avvenuta dopo 38 anni di genio, polemiche
 ed eccessi, il regista teatrale Michael Grandage ha portato ieri alla Berlinale il primo film mai dedicato alla
 carriera dell'autore de Il fiume e il tempo , titolato semplicemente Genius . Un progetto in cantiere per 16
 anni, basato sulla biografia del curatore editoriale di Wolfe, Max Perkins, e realizzato da un team più british
 che americano: Jude Law nei panni di Wolfe, Colin Firth in quelli di Perkins e Nicole Kidman nella parte
 della donna amata dallo scrittore. «Gli americani hanno fatto fare la Thatcher a un'attrice americana,
 perché non dovremmo far interpretare Wolfe a un attore inglese?» aveva detto il regista prima della
 Berlinale, sottolineando l'approccio libero con cui intendeva confrontarsi con la vita dell'artista. «Della storia
 di Wolfe mi interessa soprattutto il rapporto padre-figlio che ha avuto con Perkins - ha raccontato ieri al
 festival, dove il film è stato presentato in concorso - Mi piaceva l'idea di affrontare con i miei attori un lavoro
 intenso sui loro personaggi, come si fa a teatro». Sorvolando dunque sia sugli aspetti più strettamente
 privati di Wolfe (il rapporto con la famiglia, la morte del fratello, le malattie) sia sulle polemiche che ne
 segnarono la carriera (come le gravi accuse di antisemitismo ricevute per Il fiume e il tempo ), Grandage
 mette a fuoco un solo tema: la storia dell' amicizia tra uno scrittore talentuoso e il suo editore, altrettanto
 geniale. «Perkins lavorava dietro le quinte, era attento a non comparire nemmeno nei credits dei romanzi
 che pubblicava - ha raccontato Firth - perché riteneva che il suo lavoro fosse semplicemente quello di
 aiutare gli altri ad esprimere il proprio talento. Era integro, puro moralmente. Voleva rimanere invisibile. Una
 scelta quasi incomprensibile per noi che viviamo in un'epoca in cui siamo tutti ossessionati dall'apparire, dal
 postare su Facebook e Instagram come dei veri malati di esibizionismo». ENERGIE Perkins, che fu editore
 anche di Fitzgerald e Hemingway, rimase vicino a Wolfe anche quando, poco prima della morte, lo scrittore
 gli voltò le spalle. Per Law «Perkins e Wolfe erano due persone geniali, animate da energie completamente
 diverse. La sfida, per noi attori, è stata quella di calibrare le nostre interpretazioni come se ci muovessimo
 su una partitura musicale. La sceneggiatura è giocata sul ritmo». Per prepararsi al ruolo Law e Firth hanno
 potuto attingere anche a manoscritti originali annotati da Perkins, avvalendosi della consulenza di un editor
 professionale: «Rileggendo i suoi romanzi e le sue lettere, mi ha colpito il desiderio di Wolfe di cercare una
 voce originale per lasciar fluire i suoi pensieri. Tentava di spingersi sempre in nuove direzioni, come se la
 verità del suo cuore cercasse la strada migliore per esprimersi il più onestamente possibile». Pur accolto
 con un breve applauso al termine della proiezione, il film è stato accusato di una certa leggerezza nel
 trattare i personaggi femminili che hanno segnato la vita dei due uomini: «Non ci sono tante donne nel film
 perché, purtroppo, al tempo non venivano pubblicate - si è difeso il regista - ma è la realtà dei fatti, e grazie
 al cielo oggi le cose sono cambiate». E sulla performance di Firth, che consegna al cinema l'ennesimo
 ruolo da uomo elegante e compassato, è stato lo stesso attore a scherzare: «Non è la prima volta che mi
 fanno interpretare un uomo così, vero? Fosse per me io mi libererei degli abiti eleganti che mi mettono
 addosso e reciterei anche col bikini maschile. Detto ciò, credo di saper trovare tante sfumature nello stesso
 personaggio. Gli uomini repressi sono molto interessanti da recitare. È bello quando un carattere rimane
 inespresso, c'è del mistero. Del resto comunicare è difficile per chiunque, è per questo che le anime più
 sensibili lo fanno attraverso la scrittura o la poesia».

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 Foto: Colin Firth e Jude Law in una scena di "Genius"
 Foto: IL CAST Accanto, da sinistra Colin Firth, Jude Law, Laura Linney e Guy Pierce protagonisti del film
 "Genius" in concorso alla Berlinale
 Foto: IL PROTAGONISTA: «PERKINS LAVORAVA DIETRO LE QUINTE AIUTÒ HEMINGWAY E
 FITZGERALD A DIVENTARE GRANDI»

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 Cinema. AGORÀ spettacoli
 La Chicago in guerra nella favola moderna di Spike Lee
 Il regista porta al Festival di Berlino "Chi-raq", per denunciare con irriverenza e drammaticità la mattanza
 criminale che in quindici anni ha provocato oltre 7mila vittime. In "Genius" di Grandage l'America degli anni
 30 con la storia dell'editor dei geni letterari Max Perkins
 ALESSANDRA DE LUCA

 Tra le strade di Chicago si muore come in guerra. Muoiono uomini e donne di gang criminali, uccisi da
 gangster rivali. Muoiono i bambini raggiunti da pallottole fuori controllo in una battaglia metropolitana che in
 quindici anni conta 7356 vittime. Quasi tremila più che in Iraq e cinquemila più che in Afghanistan. Un
 numero impressionante che ha spinto il regista americano Spike Lee a imbracciare la macchina da presa e
 denunciare una guerra fratricida responsabile di tante morti nella capitale dell'Illinois, o "Killinois". Il suo
 nuovo film, Chi-raq , (una sintesi di Chicago e Iraq), in concorso ieri a Berlino, è una versione moderna e
 provocatoria della Lysistrata di Aristofane, con tanto di coro affidato all'attore Samuel L. Jackson. L'azione
 si sposta dunque dall'antica Grecia all'America di oggi, ma la storia rimane sostanzialmente uguale: con la
 complicità di molte altre donne stanche della mattanza, la giovane protagonista organizza uno sciopero
 molto speciale, che finirà per infiammare gli animi di altri paesi del mondo. Nessuna di loro si concederà al
 proprio marito prima che i leader delle gang rivali non abbiano firmato un trattato di pace e deposto le armi.
 Per lo più recitato in rima, con andamento musicale rap, il film, ricco di trovate, alterna danze e momenti
 irriverenti (che hanno fatto infuriare il sindaco di Chicago) a sequenze drammatiche, emotivamente forti,
 come quella del sermone del prete della chiesa locale (l'unico bianco della comunità, interpretato da John
 Cusack) che punta il dito contro la società americana ostaggio della National Rifle Association (per un
 ragazzo è più facile acquistare un'arma che un computer) e contro un'amministrazione iniqua che
 condanna i neri alla povertà, alla malattia, alla violenza, a una vita scandita dalla colonna sonora di mitra e
 pistole. E a chi lo ha accusato di fare dell'ironia sul sangue che scorre per le strade dell'America, il regista
 risponde ricordando Il dottor Stranamore di Kubrick, che rideva della minaccia atomica. La favola moderna
 di Lee lascia spazio a un lieto fine ricco di speranza, ma le ultime parole che campeggiano gigantesche
 sullo schermo sono un invito che arriva forte e chiaro: Wake Up , ovvero, svegliatevi! E se il tema
 disperatamente attuale dei neri e degli immigrati trattati come carne da macello in un paese che li manda a
 morire sui campi di battaglia è al centro anche di Soy nero di Rafi Pitts, storia di un messicano alla ricerca
 di un'identità, una cittadinanza e un posto nel mondo, Genius , opera prima di Michael Grandage, ci porta
 decisamente altrove, nell'America degli anni Trenta. Contando su un cast stellare - Colin Firth, Nicole
 Kidman, Jude Law, Laura Linney, Guy Pearce - il film rievoca la storia dell'editor letterario Max Perkins che
 portò al successo scrittori leggendari come Ernst Hemingway, Scott Fitzgerald e Thomas Wolf. Ed è proprio
 sul turbolento rapporto con quest'ultimo che si concentra il film, capace di mettere in scena un affascinate
 processo creativo attraverso lo scontro di due personalità, quella di uno scrittore tutto genio e sregolatezza,
 e quella della sua "guida", uomo onesto e composto (nella realtà decisamente meno paterno e paziente),
 integro e schivo, deciso a mettere il proprio talento al servizio di quello degli altri pur di regalare al mondo i
 capolavori che tutti abbiamo imparato a conoscere e amare.
 Foto: IL REGISTA. Spike Lee

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 Paolo Genovese l'intervista »
 «Il segreto del mio film? Svelare la vita nascosta di chi ci è più vicino»
 Parla il regista di «Perfetti sconosciuti», in cui sette amici «condividono» i cellulari. Un successo di pubblico
 e di critica: «Ho visto una coppia sfasciarsi perché lei ha preso il telefono di lui...»
 Pedro Armocida

 È raggiante Paolo Genovese. Non solo e non tanto perché il suo ultimo film Perfetti sconosciuti ha intrigato
 più di mezzo milione di spettatori da quando è uscito nello scorso fine settimana facendolo balzare
 immediatamente al primo posto del botteghino con 3,6 milioni di incassi ma soprattutto per la felice
 accoglienza tra la critica e il passaparola tra il pubblico. D'altronde il soggetto del film, con i cellulari che
 improvvisamente diventano dispositivi di svelamento delle nostre vere vite, è particolarmente azzeccato.
 «Tutto nasce da un fatto reale anche un po' banale - spiega il regista che quest'estate compirà 50 anni -
 quando ho visto sfasciarsi una coppia perché lei ha preso in mano il cellulare di lui. Mi è sembrato un punto
 di partenza perfetto perché avevo voglia di fare un film sulla vita segreta delle persone, su ciò che
 nascondiamo. Ecco allora il nostro gioco in cui sette amici mettono sul tavolo le loro coscienze tecnologiche
 e tutti ascoltano e leggono i messaggi degli altri». C'è un posto vuoto a tavola. «E non a caso è
 apparecchiato. E' per lo spettatore che è l'ottavo partecipante». Poi ogni tanto si esce in terrazza e c'è
 l'eclisse di luna. «Nel momento di massimo dramma la luna è nera, la luce viene risucchiata dal buio, in
 quel momento i personaggi stanno nel loro cono nero. Nascosti con i loro segreti». Il film finisce sul ponte
 davanti a piazzale delle Belle Arti a Roma, dove si vedeva «La terrazza» di Scola. «E' una citazione che
 purtroppo è diventata un triste omaggio. Scola è un punto di riferimento, anche per capirsi sul termine
 "commedia". Perché c'è confusione, un distinguo va fatto tra commedia, dove si riflette, e film comico, dove
 si ride». La sceneggiatura è scritta a dieci mani... «Un po' come accadeva nella commedia all'italiana che ci
 piace e con cui siamo costretti a fare i conti. A quel tempo gli sceneggiatori cenavano anche insieme e
 c'era un grande scambio di idee. Per questo ho chiamato quattro amici per cercare di raccontare in maniera
 trasversale personaggi di classi, ceti e stereotipi diversi». Che però hanno in comune tanti segreti. «E' però
 importante dire che nel film ciò che non conosciamo delle persone più care non è necessariamente
 negativo, non si parla solo di corna. A volte non abbiamo il coraggio di dire certe cose, anche solo "ti voglio
 bene". Ecco, per esempio, la telefonata tra una figlia e il padre con la moglie che non sapeva di un rapporto
 così stretto tra i due». Il cast del film, con Giuseppe Battiston, Anna Foglietta, Marco Giallini, Edoardo Leo,
 Valerio Mastandrea, Alba Rohrwacher, Kasia Smutniak, è impressionante. Come li ha scelti? «E' stato un
 processo curioso. Quando, alle riunioni di sceneggiatura, utilizzavamo i nomi di fantasia dei personaggi ci
 impicciavamo. Così abbiamo provato a immaginare un attore per ogni ruolo. Poi la fortuna è stata che tutti
 hanno accettato di fare il film». Rispetto al suo fortunato esordio, 14 anni fa con Incantesimo napoletano in
 coppia con Luca Miniero (il regista di Benvenuti al Sud ), oggi che cosa è cambiato? «Ricordo allora una
 totale libertà di espressione. Facemmo un film per raccontare tutto ciò che volevamo senza pensare al
 pubblico, agli incassi. Necessariamente, quando vai avanti, iniziano i condizionamenti, le aspettative, le
 asticelle si alzano. Il pubblico è fondamentale, l'emozione di una sala piena è impagabile, però l'importante
 è non fare mai cose di cui non sei convinto solo perché pensi che piacciano agli spettatori». Lei si è
 laureato in Economia e commercio e ha girato decine di spot. Come è arrivato al cinema? «Se è per questo
 ho lavorato anche in una società finanziaria, ho fatto il reporter. Certo il mio percorso non è stato quello
 canonico passando dal Centro Sperimentale. Però con il senno di poi, visto che il mio lavoro è raccontare
 storie, posso dire che tutte quelle esperienze mi hanno aiutato». Qual è la cosa più sorprendente della sua
 carriera? « Immaturi . E' stato un film di successo, è entrato un po' nell'immaginario, insomma è un'opera
 che resterà nel tempo. Ebbene era il film che nessuno mi voleva far fare». Dirigerebbe mai Checco Zalone
 così come ha fatto con Aldo, Giovanni e Giacomo? «Non sarei adatto, lui e Gennaro Nunziante sono nati

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 insieme, sono un monoblocco. Checco è un personaggio dirompente, diverso da tutto e tutti». C'è un attore
 e un'attrice con cui vorrebbe lavorare? «Elio Germano e Jasmine Trinca, straordinari».
 Le frasi
 IL CAST
 L'abbiamo scritto in cinque E subito abbiamo immaginato gli attori adatti per ogni ruolo
 LA CARRIERA
 "Immaturi" ormai è un po' entrato nell'immaginario collettivo. Eppure nessuno voleva farmelo fare
 3,6 Uscito lo scorso weekend, «Perfetti sconosciuti» è al primo posto con 3,6 milioni di euro di incassi
 Foto: COMMEDIA Nel cast di «Perfetti sconosciuti» Smutniak, Giallini, Foglietta, Battiston, Mastandrea,
 Rohrwacher, Leo

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 PALADINI CONTRO
 La sfida tra Batman e Superman è una minaccia per gli altri eroi
 La megaproduzione da 400 milioni della Dc Comics punta a battere tutti i record Ma i rivali della Marvel non
 tremano: già 150 milioni raccolti con «Deadpool»
 GIUSEPPE POLLICELLI

 Non si placa la fame di supereroi del cinema americano. Aumenta anzi di anno in anno, tanto da
 interessare ormai un numero sempre più elevato di personaggi inguainati in costumi variopinti. Il tutto per la
 soddisfazione di un pubblico vasto e trasversale, e con una significativa componente femminile. Un
 pubblico che, in tutto il mondo, dimostra di apprezzare moltissimo queste pellicole piene di dinamismo, che
 spaziano con disinvoltura dal genere avventuroso a quello fantascientifico. Se la regina di questo tipo di
 produzioni è stata finora la Marvel (a cui appartengono, fra gli altri, i diritti di Spider-Man , dei Vendicatori e
 degli X-Men ), la sua storica concorrente DC Comics prepara da tempo un contrattacco in grande stile che
 adesso è in procinto di essere sferrato. Un capitolo fondamentale nella lunga competizione fra le più
 importanti sigle dell'editoria a fumetti americana - competizione dietro cui si cela oggi lo scontro fra due
 colossi dell'industria cinematografica come la Warner Bros (proprietaria della DC Comics) e la Disney
 (detentrice della Marvel) verrà scritto il prossimo 23 marzo, quando, in Italia (due giorni dopo sarà la volta di
 Usa e Cina), uscirà nelle sale il kolossal Batman vs Superman , che vedrà fronteggiarsi quelli che sono i
 personaggi dei fumetti più famosi e riconoscibili del pianeta. Non è ancora dato sapere se il film in
 questione, diretto dallo specialista Zack Snyder (che ha al suo attivo altri tre «cinecomics»: 300 , Watchmen
 e L'Uomo d'Acciaio ), batterà dei record anche per ciò che concerne gli incassi, ma è già sicuro che si
 tratterà, con i suoi 400 milioni di costo, del lungometraggio più caro di sempre. «Ero alla ricerca di un
 Batman che fosse anche fisicamente imponente, forse perché io sono il contrario, sono alto 1,70», ha
 dichiarato Snyder, intervistato da Marco Giovannini per la rivista Ciak , spiegando le ragioni che lo hanno
 indotto a scegliere Ben Affleck per impersonare l'Uomo Pipistrello. «Ben è 1,92 e con gli stivali diventa
 addirittura 1,98». Decisamente di più del pur alto interprete di Superman. «Henry Cavill è 1,85 e Batman
 doveva pareggiare il fatto che, pur non avendo superpoteri come Superman, fosse lo stesso in grado di
 atterrarlo». Discorsi sulla statura a parte, la scelta di Affleck rappresenta comunque una sfida, dato che Ben
 ha già vestito i panni di un supereroe in uno dei titoli più brutti e di minor successo del filone superomistico,
 il fallimentare Daredevil diretto da Mark Steven Johnson nel 2003. Nella vicenda narrata dal film di Snyder,
 in cui un Batman stanco e demotivato decide di tornare in pista poiché considera un pericolo per la società
 l'attivismo da giustiziere dell'extraterrestre Superman, sono coinvolti - sulla scorta di quanto sperimentato
 dalla Marvel con i Vendicatori - anche vari altri personaggi della scuderia DC , tutti facenti parte del
 supergruppo chiamato Justice League (di cui sono già in produzione due film, entrambi con Zack Snyder
 alla regia): Flash , Aquaman , Cyborg e, finalmente, una donna, la mitica Wonder Woman , l'amazzone
 creata nel 1941 dal teorico del femminismo Moulton Marston e famosa soprattutto grazie al telefilm degli
 anni Settanta con l'attrice Lynda Carter. A interpretare Wonder Woman, con un costume rinnovato per
 l'occasione, sarà la bella Gal Gadot, israeliana classe 1985, già vista in tre capitoli della saga di Fast &
 Furious . Restando in argomento di supereroine targate DC , su Premium Action (piattaforma Mediaset
 Premium) andrà prossimamente in onda la prima stagione (ma altre ne sono previste) della teen series
 Supergirl , in cui gli abiti del corrispettivo femminile dell' Uomo d'Acciaio sono vestiti dalla giovane e
 biondissima Melissa Benoist. La Marvel, dal canto suo, ha diverse frecce al proprio arco per replicare alla
 DC , non solo sul fronte dei characters maschili (da Deadpool - che dal 12 febbraio a ieri ha incassato negli
 Usa 150 milioni di dollari, battendo il precedente record di 93 milioni in quattro giorni appartenente a
 Cinquanta sfumature di grigio - a Doctor Strange ) ma anche su quello dei personaggi donna: tutto, però,
 lascia supporre che le attenzioni si concentreranno di qui a breve sul recente fenomeno Ms. Marvel ,

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 ragazzina con i superpoteri che ha la particolarità di essere di origine pakistana e di fede islamica. Perfetta
 per gli attuali tempi multiculturali.
 Foto: CLASSICI DEL FUMETTO AMERICANO
 Foto: Una scena tratta da Deadpool: la storia del fumetto della Marvel arriva domani nei cinema italiani. A
 sinistra Batman e Superman, supereroi della Dc Comics

ANICA - CINEMA - Rassegna Stampa 17/02/2016 - 17/02/2016                                                       18
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 Avi Mograbi parla del suo nuovo film «Between Fences», ambientato Berlinale • in un centro di detenzione
 in Israele in cui sono rinchiusi i rifugiati eritrei e sudanesi
 Se la realtà sale sul palco
 «L'obiettivo era narrare le storie dei profughi ma non sotto forma di testimonianza, piuttosto riproponendo le
 situazioni che avevano vissuto. La ricreazione dei fatti, dei sentimenti di qualcuno permette di arrivare a un
 sentimento di verità»
 Cristina Piccino BERLINO

 La proiezione era sold out da giorni, l'incontro col pubblico è stato lungo , acceso, caloroso. Avi Mograbi è
 inesauribile, Between Fences, il suo nuovo film che dopo il Forum aprirà il prossimo marzo il festival
 Cinéma du Reel, segna un passaggio nel suo cinema. Per la prima volta non si parla di medioriente
 attraverso il conflitto tra Israele e Palestina, e lui, Avi, non è il protagonista narratore della storia. Anche se
 la società israeliana è molto presente tra le mura del centro di detenzione in cui sono rinchiusi per mesi i
 rifugiati, eritrei, sudanesi che vogliono vivere in Israele, e che invece trovano solo ostilità e pregiudizi
 protagonisti del suo film. Gli uomini sono detenuti, le donne e i bimbi no, cercano di sopravvivere con lavori
 miseri, e ogni tre mesi devono rinnovare il visto. «Between Fences» ha una struttura abbastanza diversa
 rispetto ai tuoi film precedenti ma anche qui la realtà prende forma attraverso una messinscena, forse
 ancora più esplicita visto che siamo in un laboratorio teatrale. All'origine del film c'è il lavoro di Chen Alon,
 che è un regista teatrale impegnato con le comunità più oppresse, con i palestinesi con gli israeliani attivisti
 per la pace, lui stesso è in un'organizzazione che lotta contro il conflitto israelo-palestinese... L'obiettivo del
 film era narrare le storie dei profughi ma non sotto forma di testimonianza, piuttosto ricreando le situazioni
 che avevano vissuto per renderle più vivide e accessibili. È molto diverso se su un palcoscenico qualcuno
 racconta un fatto o se invece vediamo ciò che è accaduto. La ricreazione dei fatti, dei vissuti di ciascuno
 permette di arrivare a un sentimento di verità. Non ho mai utilizzato nei miei film delle interviste con i
 protagonisti, penso che non siano interessanti. Tutto quanto accade in quella stanza arriva dalla realtà, poi
 la macchina da presa seleziona determinati passaggi. E le singole storie come quella di Howard, il soldato
 che vuole fuggire, diventano universali. Cosa ti ha portato a questo lavoro con cui sposti anche l'attenzione
 dalla società israeliana e dal conflitto palestinese? Pure se Israele nelle mura del centro di detenzione si
 profila nelle sue contraddizioni con una certa forza. Il progetto del film comincia da un'esigenza precisa, far
 conoscere al pubblico israeliano la condizione dei rifugiati cercando di creare un'empatia con loro. Mi
 sembrava possibile costruire un sentimento comune a partire dall'esperienza della fuga, delle persecuzioni
 che appartengono alla memoria degli israeliani. Poi ho cambiato idea. Uno dei riferimenti principali è
 divenuto Cesare deve morire il film dei fratelli Taviani. È molto diverso, ma quando l'ho visto ho capito che
 dovevo lavorare creando un testo, e che le riflessioni su questo potevano essere la materia del film. Non in
 forma di documentario ma, appunto, di messinscena. Questo mi permetteva di aprire un confronto con la
 memoria recente dei rifugiati, con le loro esperienze. Li ho lasciati parlare mentre io sono diventato un
 testimone. E queste storie che il gruppo recita e rimette in scena sono condivise tra tutti. È stato un
 processo molto lungo anche perché non erano attori eppure riuscivano sempre a creare una dimensione
 comune. A un certo punto facciamo il gioco dell'attenzione, a turno ognuno doveva salire sulla sedia e
 rimanerci conquistando l'attenzione degli altri. È una rappresentazione del potere, è stato subito chiaro, e
 così tutti sono saliti interpretando un dittatore. Sono loro che hanno scelto il contenuto e il gioco è divenuto
 universale anche se sul momento nessuno sapeva cosa avrebbe fatto l'altro. A parte pochi momenti,
 quando filmi appena fuori dal centro di detenzione, rimani interamente in un unico spazio vuoto,
 un'astrazione che rende le storie ancora più forti. È un magazzino vicino al centro che è diventato il nostro
 teatro di posa. A volte al mattino, quando arrivavamo, dovevamo pulire perché ci dormivano i soldati e
 trovavamo bottiglie ovunque Un teatro di posa è come un limbo, non appartiene alla vita reale ma è uno
 spazio altro in cui si possono adattare per un periodo le esperienze più diverse. Al gruppo di rifugiati si sono

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 poi aggiunti degli israeliani, anche se abbiamo cercato di mantenere un equilibrio per non rischiare la
 prevalenza israeliana sugli altri. Dicevi che all'inizio avevi pensato a un parallelo tra la condizione degli
 ebrei e quella degli africani arrivati in Israele. Perché poi hai cambiato? Quando ho cominciato questo
 lavoro ero sconcertato. Mi sembrava impossibile che le persone intorno a me non capissero la situazione
 dei profughi, pensavo che quel «parallelo» potesse farli sentire più vicini. Poi ho capito che non avrebbe
 funzionato. E così dal medio oriente il film si è spostato a una condizione più generale, che riguarda
 l'Europa, e che da noi però è inaspettata. Lo stato ebraico per definizione prevede il predominio di un solo
 gruppo etnico, gli altri i palestinesi, che sono originari della terra sono stati cacciati. Si può essere ebrei e
 democratici ma i profughi nelle nostre strade vengono visti come degli infiltrati, non si capisce perché
 vogliono stare in Israele. A un certo punto però i rifugiati interpretano dei cittadini israeliani razzisti e però
 anche loro non credono a questo scambio. Hanno ragione. Non possono mettersi al nostro posto e noi non
 possiamo metterci al loro. Se ci pensi una frase come «mettiti al mio posto» si dice infinite volte. E può
 funzionare in una discussione, nelle cose di tutti i giorni, ma non in una situazione come questa. Si possono
 capire molte cose razionalmente, e però averle vissute è molto diverso. Posso capire il trauma di una
 donna che è stata violentata ma non conoscere il suo dolore. Così io posso capire la condizione di
 qualcuno come Howard, però alla fine io parto e vado in giro nel mondo coi miei film mentre lui rimane nel
 centro di detenzione.
 Foto: AVI MOGRABI
 Foto: DUE SCENE DA «BETWEEN FENCES» DI AVI MOGRABI

ANICA - CINEMA - Rassegna Stampa 17/02/2016 - 17/02/2016                                                             20
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 INCONTRI · Spike Lee e il suo atto accusa contro la lobby delle armi. E la battaglia contro l'Academy
 «Chicago è una zona di guerra»
 Giovanna Branca

 Ogni giorno negli Stati uniti muoiono una media di 99 persone per colpa delle armi da fuoco». Le statistiche
 sono riportate da Spike Lee alla conferenza stampa per la presentazione del suo ultimo film , Chi-Raq ,
 evento speciale alla Berlinale. «La città di Chicago è come una zona di guerra - aggiunge John Cusack,
 uno dei protagonisti - dall'inizio del 2016 lì sono morte 90 persone». Il titolo Chi-raq istituisce infatti un
 collegamento fra la città dell'Illinois - dilaniata dalle guerre tra gang- e l'Iraq, dove hanno perso la vita oltre
 4500 soldati americani, in un film che è un fiero atto d'accusa contro la politica americana sulle armi e in
 fatto di uguali diritti per tutti. «Il nome Chi-raq non l'ho inventato io, è stato coniato dai rappers locali»,
 spiega Spike Lee. Un titolo disapprovato dal sindaco della città Rahm Emanuel, che ha chiesto a Lee di
 cambiarlo perché, ricorda il regista, avrebbe danneggiato il turismo e lo sviluppo economico. «Mentre
 facevamo le riprese però la città era invasa dai turisti. Il punto è che, come nel titolo del romanzo di
 Dickens, A Tale of Two Cities , si tratta della storia di due città: solo il sud e l'ovest sono poveri, violenti e
 pericolosi», nell'ambito di una metropoli dove ancora è palpabile la segregazione razziale. Nella Chi-raq di
 Spike Lee, John Cusack è un prete cattolico che ha scelto di stare in quelle zone, e nei suoi sermoni
 fortemente politicizzati - Spike Lee li chiama «Sermon Manifesto» - invita i fedeli a «fare la cosa giusta»:
 denunciare gli assassini e deporre le armi. Il riferimento è a un vero prete del south-side di Chicago, padre
 Pfleger, «un bianco cattolico che predica per un gregge di soli neri», dice il regista. E aggiunge John
 Cusack: «È un veterano del movimento per i diritti civili degli anni Sessanta, esponente di una chiesa che
 seguiva i vangeli in modo nuovo, politico e radicale». All'ispirazione reale se ne aggiunge però anche una
 cinefila: il padre Barry interpretato da Karl Malden in Fronte del porto , che predicava contro i sindacati
 controllati della mafia e che sosteneva la necessità per la chiesa di «stare nelle strade», ricorda Lee. A
 pochi giorni dagli Academy Award, al regista di Fa la cosa giusta viene anche chiesto cosa pensi dei
 risultati della sua chiamata al boicottaggio contro questi Oscar «troppo bianchi». «Io non ho mai dato inizio
 a un boicottaggio - specifica subito lui - io e mia moglie abbiamo semplicemente detto che non saremmo
 andati». Le ragioni sono risapute: «Questo è il secondo anno in cui l'Academy non candida neanche un
 afroamericano, e soprattutto per quanto riguarda le performance degli attori trovo che ne siano state
 ignorate molte che erano eccezionali». Eppure Spike Lee sembra soddisfatto di ciò che è accaduto: «Se
 non avessimo lanciato la polemica l'Academy non avrebbe fatto tutti quei cambiamenti che sono stati
 annunciati». La strada però è sempre in salita dato che, come fa notare il regista, il vero problema non sono
 gli Oscar ma i «gatekeepers», i guardiani: quei pezzi da novanta degli Studios cinematografici e della tv che
 «siedono in una stanza e decidono cosa si farà e cosa no. E loro, come i votanti dell'Academy, sono tutti
 uomini bianchi». Lee cita una ricerca per cui nel 2046 negli Stati uniti saranno i cittadini bianchi a trovarsi in
 minoranza: «anche se queste persone non credono nella diversità - dice il regista - so che credono
 fermamente nel dollaro, per cui si dovranno rendere conto che così facendo rischiano a breve di andare
 falliti». In merito alle elezioni presidenziali di novembre, John Cusack si chiede se «Bernie Sanders non
 verrà schiacciato dalla macchina elettorale di Hillary Clinton, la favorita dell'establishment», chiarendo
 subito la sua preferenza per il candidato democratico alternativo. Anche se «qualora il candidato
 repubblicano fosse Donald Trump voterò per chiunque propongano i democratici». Lee invece ci tiene a
 dirsi soddisfatto degli anni della presidenza di Obama che una volta, racconta, ha invitato lui e la moglie alla
 Casa Bianca: «Io pensavo fosse una leggenda, ma c'è davvero un uomo che segue il Presidente ovunque
 con una valigetta ammanettata alla mano. Al suo interno ci sono dei pulsanti che, conoscendo la giusta
 combinazione, potrebbero spazzarci via tutti in questo istante. Vi immaginate se una cosa del genere
 finisse nelle mani di Donald Trump?».

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 Foto: SCENA DA «CHI-RAQ» A DESTRA LADY GAGA AI GRAMMY /FOTO LAPRESSE

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 IN GARA · «Soy nero» di Rafi Pitt girato tra Stati uniti e Messico
 Il sogno americano è infranto
 Nell'America delle armi e dei potenti gruppi economici è completamente immerso «Chi-Raq» di Spike Lee,
 ispirato molto liberamente a Lisistrata di Aristofane
 C.Pi.

 Icartelli sui muri dell'albergo divenuto residenza per i profughi dicono: «non gettare le immondizie qui»,
 annuncio bilingue tedesco e arabo, la macchina organizzativa tedesca dell'accoglienza non lascia nulla al
 caso. È solo un segno, uno dei tanti, di quell'attenzione che nella metropoli tedesca, e nel resto della
 Germania, si concentra sui migranti: discussioni, attivismo culturale ma anche scontro politico e
 strumentalizazione, quanto è accaduto a Colonia dice molto. Lo stesso vale per la Berlinale che nelle scelte
 artistiche del direttore Dieter Kosslick sostiene pienamente la politica merkeliana. Storie di migrazioni,
 esodi, confini scorrono questi giorni sugli schermi, è come se la questione dei migranti avesse cancellato
 tutto il resto, o quantomeno lo avesse stemperato; conflitti sociali, crisi economica, va tutto bene qui e pochi
 - come Volker Koepp nel suo Landstuck presentato al Forum - ci dicono che i temi sensibili sono anche
 molti altri. Rafi Pitt è pure lui un «migrante», è nato in Iran e durante la guerra Iran/Iraq è fuggito a Londra.
 Soy Nero è girato sul confine tra Stati uniti e Messico, un confine geografico, migliaia di chilometri di
 sbarramenti,pattuglie armate, morti quotidiani, e mentale, che i giovani messicani e non solo col sogno di
 «essere americani» si portano dietro anche quando riescono a attraversarlo. Così il protagonista che arriva
 a Los Angeles con l'obiettivo di trovare il fratello emigrato anni prima e di arruolarsi come altri in famiglia
 nell'esercito americano per avere la «green card». «Vuoi finire senza un braccio o morto come tuo cugino?
 » gli grida il fratello facendosi credere nella villa pacchiana di Beverly Hills re per una notte, quando
 ovviamente è solo uno della servitù. Nero arriva così in un deserto Afghanistan o Iraq poco importa
 continuando a ripetere «io sono americano» al sergente nero che lo chiama «tacos». Il resto è molta
 scrittura prevedibile e poca apertura (narrativa) seguendo uno schema pieno di buone intenzioni. A
 Chicago muore più gente che in Iraq, «Please pray 4 my city» scandisce il rapper Nick Cannon mentre i
 numeri delle statistiche ci informano che nel cuore dell'«America sono state uccise 7356 persone tra il 2001
 e il 2015 contro le 4424 in Iraq tra il 2003 e il 2011. Chi-Raq il nuovo film di Spike Lee (ne ha parlato già il 4
 dicembre 2015 su queste pagine Giulia D'Agnolo Vallan, ndr ) è invece completamente immerso nella sua
 realtà oggi, nell'America delle armi e dei potenti gruppi economici che ne controllano l'uso influenzando le
 scelte della politica, la grande sconfitta in fondo di Obama il cui ritratto nella galleria dei conservatori Bush,
 Condoleeza ecc, che decora l'ufficio del generale neppure c'è. Chi-raq non risparmia nulla, appassionato e
 feroce come il grido di una slam poetry combattente (ma senza spargere una goccia di sangue) mette sotto
 accusa la politica americana che spende miliardi di dollari nelle guerre e nelle ricostruzioni postbelliche,
 Iraq in testa, e non trova fondi per recuperare le sue periferie, per l'istruzione, per le sue classi povere.
 Armi, terribile ossessione manipolata strategicamente nella texture mentale dell'educazione, complici leggi
 che quasi ne aiutano la proliferazione. «No peace, no pussy», niente pace, niente figa. Di fronte l'ennesimo
 bambino morto ammazzato nella guerra tra gang, le donne african american anche le compagne dei
 gangster entrano in sciopero: se non si ferma la guerra tra bande loro non scoperanno più. Lee usa come
 riferimento, molto libero, la «Lisistrata» di Aristofane (è anche autore della sceneggiatura insieme a Kevin
 Wilmott), mescola musical, commedia, coreografie fiammeggianti, sermoni religiosi, il coro in versi affidato
 a Samuel Jackson per un film dentro alla comunità african american a cui comunque non risparmia le
 critiche, a cominciare dalla violenza interna nella guerra tra gang. Per questoq» è la scommessa forte di un
 cinema declinato al presente, che inventa la sua forma per starci dentro. Un cinema politico ma non
 conformista, che sa usare tutte le gradazioni e le temperature dell'immaginario per lanciare il suo grido
 senza nascondere responsabilità complici. Con coraggio e passione sempre più rari.

ANICA - CINEMA - Rassegna Stampa 17/02/2016 - 17/02/2016                                                             23
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