CONFIMI Rassegna Stampa del 10/09/2018

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CONFIMI Rassegna Stampa del 10/09/2018
CONFIMI
  Rassegna Stampa del 10/09/2018

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INDICE

CONFIMI
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CONFIMI WEB
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SCENARIO ECONOMIA
  10/09/2018 Corriere della Sera - Nazionale                                              5
  «Si perdono consumi e 40 mila posti di lavoro L'online crescerà ancora»

  10/09/2018 Corriere della Sera - Nazionale                                              7
  Tria a Cernobbio rassicura i mercati

  10/09/2018 Corriere della Sera - Nazionale                                              9
  «Sì alla pace fiscale per i più deboli Per l'Irpef obiettivo 15% in 3 anni»

  10/09/2018 Corriere della Sera - Nazionale                                              11
  La crescita che rallenta e i dubbi sul futuro: «Se il Pil va giù il debito rischia di
  esplodere»

  10/09/2018 Corriere L'Economia                                                          12
  Poltrone che scottano, le spine di Tim

  10/09/2018 Corriere L'Economia                                                          14
  Ma dov'è finita la lotta all'evasione?

  10/09/2018 Corriere L'Economia                                                          17
  WELFARE I miei consigli (non richiesti) a Salvini cambiare si può ma niente
  riforme spezzatino

  10/09/2018 Corriere L'Economia                                                          19
  Grandi opere i soldi ci sono non buttiamoli via

  10/09/2018 Corriere L'Economia                                                          21
  La Maggioranza e le troppe nostalgie (sbagliate)

  10/09/2018 Il Sole 24 Ore                                                               22
  Gioco d'anticipo verso la pace fiscale

  10/09/2018 Il Sole 24 Ore                                                               25
  Con la flat tax più benefici al Centro-Nord e agli over 40
10/09/2018 La Repubblica - Nazionale                                             28
  Di Maio: "Entro l'anno domenica e festivi con i negozi chiusi"

  10/09/2018 La Repubblica - Affari Finanza                                        30
  LE PORTE CHIUSE E QUELLE APERTE

  10/09/2018 La Repubblica - Affari Finanza                                        31
  La soglia magica e le scelte del governo quel 3% che divide gli economisti

  10/09/2018 La Repubblica - Affari Finanza                                        37
  La fuga dei capitali

  10/09/2018 Il Messaggero - Nazionale                                             39
  Reddito di cittadinanza, spunta il piano per il rinvio a metà 2019

SCENARIO PMI
  10/09/2018 Corriere della Sera - Nazionale                                       42
  Leonardo e la spinta alle pmi

  10/09/2018 Corriere L'Economia                                                   43
  Quanto vale il passaggio generazionale

  10/09/2018 La Repubblica - Torino                                                44
  Le botteghe artigiane per rilanciare le periferie

  10/09/2018 La Repubblica - Affari Finanza                                        46
  "Dal Nord al Sud noi manager a caccia di soft skill"

  10/09/2018 ItaliaOggi Sette                                                      48
  Le imprese tornano in salute

  10/09/2018 ItaliaOggi Sette                                                      50
  Come funziona il Fondo di garanzia

  10/09/2018 Il Fatto Quotidiano                                                   51
  Il fragile miracolo dei Paesi di Visegrad dipende soprattutto dal settore auto
SCENARIO ECONOMIA

16 articoli
10/09/2018                                                                               diffusione:222170
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 L'intervista
 «Si perdono consumi e 40 mila posti di lavoro L'online crescerà
 ancora»
 Gradara: è il secondo giorno per incassi
 Lorenzo Salvia

 ROMA«Come diceva Sergio Marchionne, la politica decide e le aziende si adeguano. Ma a
 patto che le decisioni vengano prese sulla base di dati oggettivi». E non sarebbe così?
 «Quando si dice che i negozi aperti la domenica rovinano le famiglie si entra nel campo della
 sociologia. Piuttosto parliamo degli effetti sui consumi, sui posti di lavoro e sugli investimenti.
 Avevamo già chiesto un incontro al ministro Luigi Di Maio ma finora non siamo riusciti a
 parlare con lui. Spero ne avremo occasione». Claudio Gradara è il presidente di
 Federdistribuzione, associazione delle aziende di un settore che va dai centri commerciali agli
 ipermercati.
 Perché è contro lo stop?
 «I motivi sono diversi. La domenica è diventato il secondo giorno per incasso dopo il sabato.
 Chiudere avrebbe un effetto negativo sui consumi, già fermi».
 Quanto scenderebbero?
 «Difficile essere precisi ma ricordo che la liberalizzazione aveva fatto segnare un aumento
 dell'1% per i prodotti alimentari e del 2% per i non alimentari. I posti di lavoro a rischio, per
 l'intero settore, sarebbero tra i 30 e i 40 mila mentre sugli investimenti abbiamo già i primi
 segnali di grandi gruppi che, prima di andare avanti, vogliono capire come finirà questa
 storia».
  La Chiesa, con monsignor Giancarlo Maria Bregantini, dice che lo stop sarebbe una «grazia di
 Dio».
 «Capisco, la Chiesa ha le sue sensibilità. Ma non condivido perché una società moderna ha
 bisogno di servizi e sono 12 milioni gli italiani che fanno acquisti la domenica».
 I piccoli commercianti appoggiano lo stop. Loro faticano di più ad aprire la domenica. E anche
 il loro è un settore importante, che in più contribuisce a tener vivi i nostri centri storici.
 «Certo ma anche qui partiamo dai numeri. Dal 2012, i piccoli esercizi che hanno chiuso sono
 l'1,9%: non mi pare una ecatombe considerando la crisi degli ultimi anni. E poi non è con il
 ritorno al passato che ci si può difendere».
 Cosa intende?
 «Chiudere la domenica farebbe crescere ancora di più il commercio online. Un settore che già
 corre di suo e che ha grandi vantaggi rispetto alla rete di vendita fisica, sia dei piccoli sia dei
 grandi, non solo sul fisco ma anche sugli orari, sui saldi, su tante cose».
 In realtà una delle proposte in discussione prevede lo stop domenicale anche per il commercio
 online.
 «È un segnale positivo. Ma, al di là degli annunci, dal punto di vista tecnico mi pare difficile da
 realizzare».
  © RIPRODUZIONE RISERVATA
 Il profilo
 Claudio Gradara, 61 anni, fino al 2017 è stato
 ad di Pam Panorama.

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 Dal 2018 guida Federdistribu-zione, succedendo a Giovanni
 Cobolli Gigli

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 Il titolare dell'Economia: inutile cercare 2 o 3 miliardi per le riforme se ne perdiamo 3 o 4 sui
 mercati per lo spread
 Tria a Cernobbio rassicura i mercati
 Giuliana Ferraino

 DALLA NOSTRA INVIATA
 CERNOBBIO Dopo il cambiamento di passo (e di toni) del vice premier Matteo Salvini,
 l'intervento di Giovanni Tria era il più atteso al Forum Ambrosetti di Cernobbio, per avere la
 conferma dal ministro dell'Economia che la prossima legge di Stabilità si muoverà dentro i
 vincoli di bilancio europei. E Tria ha subito voluto rassicurare manager e imprenditori riuniti
 sul lago di Como, ma soprattutto i mercati. «Tutte le regole vanno rispettate», ha affermato.
 «E' inutile cercare 2 o 3 miliardi nel bilancio dello Stato per finanziare le riforme, se ne
 perdiamo 3 o 4 sui mercati finanziari a causa del rialzo dello spread».
  Quindi: le promesse del governo Lega-Cinquestelle saranno mantenute, ma nell'arco di una
 legislatura, con le coperture finanziarie e non in deficit spending», dice Tria spiegando che la
 manovra sarà «equilibrata» e le riforme «graduali», perché «non si può fare tutto subito». Il
 governo non punterà su una sola riforma, ma reddito di cittadinanza, flat tax e revisione della
 legge Fornero sulle pensioni andranno di pari passo. «E' importante quello che si fa
 quest'anno, ma anche nel quinquennio, perché è fondamentale agire sulle aspettative, è su
 queste che si muovono i mercati», dice parlando da economista.
   Però bisogna «invertire il percorso, partire dalla crescita e ridurre il gap con il resto
 d'Europa». Invece «da 10 anni l'Italia cresce circa un punto in meno della media europea. Le
 ultime previsioni della Commissione indicano un leggero rallentamento dell'economia italiana
 all'1,3% nel 2018 e all'1,1% nel 2019, più o meno lo stesso rallentamento della crescita
 media europea, che l'anno prossimo sarà del 2,1%», dice Tria. E vorrebbe «già nel 2019»
 accorciare di «mezzo punto» le distanze.
   Come? Rendendo il Paese più attraente attraverso riforme strutturali, inclusa «la
 semplificazione e la riduzione della pressione fiscale», che è uno dei punti su cui ha insistito
 anche la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, definendo «inaccettabile e
 eccessiva» in particolare la tassazione sul lavoro, perché l'occupazione è «la più stringente
 emergenza nazionale». Ma anche rilanciando gli investimenti pubblici (negli ultimi 10 anni
 crollati del 30% e del 50% a livello locale) e privati. «I fondi sono già disponibili, abbiamo
 circa 150 miliardi di risorse», quello che manca è la capacità di valutare e dare il via libera ai
 progetti, anche per l'assenza di uffici tecnici competenti, denuncia il ministro, auspicando il
 ritorno di «una sorta di Genio civile».
 In agosto i mercati non hanno creduto agli obiettivi e agli impegni del governo. «Ora dalle
 dichiarazioni si passerà ai fatti e sono convinto che lo spread scenderà», ha concluso Tria.
 Vedremo se sarà riuscito a convincere gli investitori.
  © RIPRODUZIONE RISERVATA
 Le regole
 Il ministro dell'Economia Giovanni Tria ha chiuso il Forum Ambrosetti. Sulla manovra ha
 assicurato che si procederà mantenendo «equilibrio» tra i vari capitoli che la compongono
 Reddito di Cittadinanza, Flat Tax, superamento della Fornero, investimenti procederanno di
 pari passo, gradualmente, con un primo passo, con coperture che non poggiano sul deficit
 spending. Arrivano invece dall'interno del bilancio e da quello che si riuscirà a concordare con
 l'Ue Lunedì il premier Giuseppe Conte incontra il presidente del consiglio europeo Donald

SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/09/2018                                                           7
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 Tusk. «Le regole vanno rispettate», ha detto Tria
 Foto:
  Sul lago di Como Il ministro dell'Economia, Giovanni Tria, ieri ha chiuso il Forum Ambrosetti.
 Qui durante una pausa dei lavori del convegno che è a porte chiuse
 Foto:
 La presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati

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 La manovra Intervista
 «Sì alla pace fiscale per i più deboli Per l'Irpef obiettivo 15% in 3
 anni»
 Il sottosegretario Siri: cartelle saldabili con aliquote variabili in relazione al reddito
 Mario Sensini

 ROMA «L'obiettivo è avviare il contratto di governo, dalla flat tax, alla pace fiscale, alla quota
 100 per le pensioni, in un'ottica di legislatura. Non si può fare tutto in un anno. Il nostro
 impegno è quello di portare l'Irpef al 15% nel giro di tre anni» spiega Armando Siri,
 sottosegretario alle Infrastrutture e consigliere economico di Matteo Salvini, alla vigilia del
 vertice della Lega sulla manovra di bilancio 2018.
 Le attese create in campagna elettorale sono alte.
 «Daremo subito un segnale molto forte ai titolari delle partite Iva applicando un'imposta
 piatta. Stiamo valutando le soglie, potrebbero essere il 15% fino a 65 mila e il 20% per la
 parte eccedente, fino a 100 mila euro. Fino a 65 mila euro sarebbe un'imposta forfettaria che
 assorbirebbe tutto, anche l'Iva».
 A chi si applicherebbe?
 «Professionisti, artigiani, società di persone, snc, sas, le srl cosiddette "in trasparenza". Un
 milione e mezzo di soggetti, due milioni con il tetto a 100 mila euro».
 Ci sarà anche lo sgravio dell'Ires sugli utili reinvestiti dalle società di capitali?
 «Vogliamo ridurre l'aliquota al 15% per chi reinveste i profitti in beni strumentali, posti di
 lavoro, o li destina all'aumento del capitale fino a un milione di euro. Ed estenderemo il
 regime, per tre anni, alle imprese che riportano la produzione in Italia, a prescindere dalla
 dimensione».
 E l'Irpef?
 «Stiamo valutando l'opportunità, l'impatto, la spesa. Ragioniamo su come procedere: se
 ridurre l'aliquota sul primo scaglione subito, o immaginare qualcosa di più importante dopo».
 Ridurre la prima aliquota dal 23 al 22% costa 6 miliardi e porterebbe meno di dieci euro lordi
 al mese nelle tasche di ciascuno.
 «Per questo consideriamo l'opportunità di intervenire più incisivamente tra un anno. Deve
 essere un intervento ben percepibile. Il traguardo è il 15% entro tre anni».
 Come si fa la pace fiscale dopo due rottamazioni delle cartelle Equitalia?
 «Dobbiamo dare la possibilità a chi oggi viene considerato "inesigibile" di saldare il proprio
 debito con una piccola somma. Le cartelle potranno essere saldate pagando un'aliquota
 variabile, del 6, il 10 o il 25% a seconda dell'entità del debito e del reddito del debitore. Ci
 sono 750 miliardi di euro di questi crediti inesigibili, che si considerano tali ma solo nelle
 condizioni date. Se cambiamo queste condizioni, le rendiamo più favorevoli, la gente
 pagherebbe. Un prezzo ragionevole per recuperare dignità: qui parliamo di persone inseguite
 dal Fisco che non possono avere conti correnti, o un bancomat, che si devono nascondere».
 Riguarderà anche il contenzioso? Che gettito prevedete? Taglierete le accise?
 «Sì, e quindi anche chi finora non ha potuto rottamare le cartelle. Io mi aspetto ben di più dei
 5 o 6 miliardi di gettito che vengono fuori usando gli attuali algoritmi ministeriali. E ci
 permetteranno di dare un segnale sulle accise».
 Per gli enti titolari dei crediti, come i comuni, quei 750 miliardi da riscuotere sono una posta
 attiva. Se li eliminiamo si apriranno buchi enormi di bilancio.

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 «Oggi funziona così, ma non si possono considerare attive delle partite inesigibili. Dobbiamo
 decidere se i bilanci sono veri o sono falsi».
 Anche il bilancio dello Stato incorpora gli aumenti dell'Iva che poi vengono continuamente
 rinviati.
 «È vero. Il nostro deficit strutturale non è dello 0,9%, ma dell'1,7%, perché ci dobbiamo
 mettere sopra anche 13 miliardi di Iva. Sarebbe il caso di fare un'operazione trasparenza,
 mettendo in chiaro che l'Iva non l'aumenteremo, incorporandola nel deficit».
 Si andrebbe oltre il 2%.
 «Arriveremmo poco sopra, uno o due decimali, ma avremmo fatto pulizia, e da lì, poi,
 potremo ridurre questo deficit. Sfruttando anche la maggior crescita dovuta alla riduzione
 delle tasse. Solo sgombrare dal campo gli aumenti Iva migliora la crescita di 0,3 punti, noi
 crediamo che con la nostra manovra, e già con questo primo sgravio sulle partite Iva, si possa
 arrivare ad oltre mezzo punto».
  © RIPRODUZIONE RISERVATA
  Fonte: The EuropeanHouse - Ambrosetti Corriere della Sera Crescita e conti pubblici 2018 1,5
 1,2 1,2 1,3 1,1 1,1 1,4 1 2019 (dati in%) Leattese sul Pil 0 0,3 0,6 0,9 1,2 1,5 Tesoro (Def di
 aprile) Fondo monetario Moody's Commissione europea Leprevisioni delDef DEBITO/PIL (dati
 in%) DEFICIT (dati in%) 130,8 128 -1,5 -1,0 -0,5 0 -1,6 -0,8 132,2% 130,9% 136,7%
 141,7% 144,6% 146,5% 2018 2019 2020 2021 2022 2023 Lo scenario del debito con una
 recessione moderata (PIL -1,5% nel 2020)
 Partite Iva
 Il consigliere economico di Matteo Salvini, Armando Siri, ha spiegato che il governo vuole
 dare subito un segnale molto forte ai titolari delle partite Iva applicando un'imposta piatta.
 «Stiamo valutando le soglie - ha detto - potrebbero essere il 15% fino a 65 mila e il 20% per
 la parte eccedente, fino a 100 mila euro. Fino a 65 mila sarebbe un'imposta forfettaria che
 assorbirebbe tutto»
 Foto:
  Carroccio
 Il senatore della Lega Armando Siri (47 anni), teorico della flat tax. È sottosegretario alle
 Infrastrutture

SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/09/2018                                                      10
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 Lo scenario
 La crescita che rallenta e i dubbi sul futuro: «Se il Pil va giù il debito
 rischia di esplodere»
 Federico Fubini

 CERNOBBIO La volatilità stavolta ha giocato a favore della carta italiana. La scorsa settimana,
 quando si è fatto più esplicito l'impegno dei leader del governo a tenere il deficit sotto
 controllo, i rendimenti dei titoli di Stato sono scesi in fretta. È probabile che gli acquisti si
 spieghino anche con il tentativo precipitoso di alcuni investitori di chiudere posizioni
 speculative al ribasso. Ma comunque sia andata, il sollievo di questi ultimi giorni non scioglie
 alcuni dubbi di fondo sulla tenuta del debito pubblico italiano. Ieri al Forum Ambrosetti di
 Cernobbio Carlo Cottarelli, ex commissario alla «spending review» e oggi animatore
 dell'Osservatorio sui conti pubblici dell'Università Cattolica di Milano, ha provato a mettere
 ordine in questi interrogativi. Il suo è un esercizio essenziale, perché riguarda la direzione del
 Paese nei prossimi anni e le trappole nascoste sul suo cammino.
 Il primo dubbio riguarda lo scenario in cui la ripresa continui e la Banca centrale europea,
 interrompendo gli attuali interventi sui mercati, alzi gradualmente i tassi d'interesse dell'1%
 entro il 2021 o anche un po' prima. In questo caso l'Italia può reggere: mantenendo l'attuale
 surplus primario di bilancio (ossia prima di pagare gli interessi sul debito) attorno all'1,5% del
 prodotto lordo, con una crescita dell'1,3% e un'inflazione all'1,7%, il debito pubblico
 scenderebbe comunque.
 Ma che accade se invece verso il 2020 si propagasse all'Europa e all'Italia una recessione,
 magari partita dagli Stati Uniti? Certo la Bce manterrebbe bassissimi i tassi, ipotizza Cottarelli,
 ma non è detto che all'Italia basti. Anche solo con una caduta dell'economia dello 0,5% nel
 2020, con l'attuale surplus primario di bilancio all'1,5% del Pil il debito esploderebbe quasi al
 138% nel 2021 e anche oltre se la recessione fosse più profonda (vedi grafico sopra). A quel
 punto gli investitori fuggirebbero dai titoli italiani e il Paese sarebbe di nuovo esposto ad
 attacchi speculativi in grado di danneggiare anche le banche, molto esposte sul debito dello
 Stato.
 Per questo Cottarelli, un ex dirigente del Fondo monetario internazionale, ritiene che il
 governo dovrebbe prendersi una sorta di «polizza assicurativa»: alzare il surplus primario
 almeno al 3,5% del Pil. Quel cuscinetto in bilancio può proteggere il Paese stabilizzando
 comunque il debito anche in recessione. Secondo Cottarelli, lo si può costruire se si congela
 da subito il volume finanziario della spesa pubblica finché c'è ancora la ripresa.
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 La parola
 Debito pubblico
 Il debito pubblico è il debito dello Stato che si crea quando le spese sono superiori alle
 entrate. Per finanziarsi lo Stato emette titoli, obbligazioni del Tesoro, che sono messi all'asta e
 vengono acquistati a un certo tasso di interesse annuo. In base al Trattato di Maastricht tra
 debito pubblico e Pil degli Stati dell'Unione Europea deve stare al di sotto del 60%
 L'ipotesi
 Per Carlo Cottarelli il governo dovrebbe prendersi una sorta di «polizza assicurativa» in caso
 di scenari avversi: alzare il surplus primario almeno al 3,5% del Pil

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  Poltrone che scottano, le spine di Tim
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  Dalla rete ai conti, tutti i dossier di Telecom, il gruppo guid

  Un'incompiuta. Il destino non è mai stato clemente con Tim. Dopo sei passaggi di proprietà e
  aver visto passare decine di amministratori delegati, il gruppo telefonico si ritrova a navigare
  a vista in una situazione in cui servirebbe una mappa concettuale più che una bussola per
  trovare la direzione. Amos Genish ci ha provato con il piano DigiTim, ma la strategia non
  riesce a convincere il mercato.
  Da quando il manager ha presentato il suo piano a marzo, il titolo Tim ha perso oltre il 30% in
  Borsa tornando ai livelli di cinque anni fa. Certo, il mercato ha la sua responsabilità, ma Tim
  fa storia a sé e forse più che la pressione competitiva a determinare questo avvitamento
  hanno contribuito altri fattori come i conflitti in consiglio, il gioco sotterraneo di Elliott e
  Vivendi per stabilire chi comanda in Tim e una certa «disattenzione» di Genish. Il quale, un
  po' perché non parla italiano e un po' perché a Roma passa solo alcuni giorni alla settimana,
  non è riuscito a costruire un team coeso e focalizzato sulle azioni da compiere per avviare la
  svolta. Ora ha deciso di nominare Alex Bolis, americano di nascita ma padre italiano, alle
  investor relations, capo dello staff per fare da raccordo con il team. In questa situazione
  dicono che l'uomo forte in Corso Italia sia Fulvio Conti, presidente senza deleghe ma con un
  network formidabile e una conoscenza profonda, anche se un po' datata, del gruppo
  telefonico.
   Lo «stabilizzatore»
  Di certo Conti sta prendendo molto sul serio il suo ruolo di «stabilizzatore» ed è già riuscito a
  difendere una volta Genish dalle critiche di alcuni consiglieri, che avevano chiesto di mettere
  all'ordine del giorno un impegno formale del manager a portare avanti alcune azioni del piano.
  Ed è tornato a difenderlo anche lo scorso fine settimana da Cernobbio, definendolo «the right
  man», l'uomo giusto. Ma i risultati tardano ad arrivare e il ceo di Tim si ritrova di nuovo
  accerchiato. Anche Vivendi, che dopo aver investito oltre 3 miliardi in Tim ha accumulato una
  minusvalenza potenziale di 1,5 miliardi e vuole una svolta, ad là della difesa d'ufficio (Genish
  è un suo manager) si sarebbe convinta che serve un avvicendamento. Ma non ha la forza per
  mandare via Genish, se non con dimissioni spontanee o tramite un'assemblea (la richiesta di
  revoca del consiglio e la nomina di un nuovo board potrebbe arrivare in autunno), mentre può
  farlo Elliott che ha la maggioranza in consiglio e quindi anche i numeri per poi insediare un
  manager di sua fiducia alla guida di Tim. Per il momento ogni azione in tal senso è stata
  respinta da Conti per evitare scossoni a una società già destabilizzata.
  La scelta sarebbe quasi sicuramente interna. Luigi Gubitosi, che siede nel board, resta sempre
  il candidato numero uno. Ma ora che si è liberato Alfredo Altavilla, per 18 anni numero due di
  Sergio Marchionne in Fca, c'è anche una valida alternativa. Non risultano al momento
  proposte formali, ma solo cauti sondaggi in attesa che si definisca meglio la posizione di
  Genish.
  Nel frattempo l'ex presidente e ceo di Vivendi, rimasto in consiglio, Arnaud de Puyfontaine, si
  è messo in movimento per trovare sponde politiche in vista di un ribaltone. De Puyfontaine ha
  incontrato diverse persone legate alle forze di governo, ma a quanto risulta il pressing non ha
  avuto esito. È anche vero che il manager non ha scelto il momento migliore, visto lo stato dei
  rapporti tra i governi italiano e francese. Ma non demorde.

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   L'idea sulla fibra
  Intanto qualcosa ha ripreso a muoversi. Genish ha avviato la scorsa settimana l'iter di vendita
  di Sparkle con l'invito alle banche, ma trattandosi di un dossier strategico per il governo la
  pratica richiederà tempo e il via libera di Palazzo Chigi. È ripartito anche il processo di vendita
  di Persidera, la società dei multiplex digitali, mentre sulla rete si attende il via libera
  dell'AgCom al piano di societarizzazione.
  Nella mente di Genish la societarizzazione è un primo passo in vista di un possibile riassetto.
  Ma dietro le quinte è in corso un fitto lavorio per accelerare il processo di creazione di
  un'unica rete (cosa diversa dalla «rete unica») con Open Fiber, passando attraverso uno
  schema alternativo, ritenuto più semplice da attuare anche dal punto di vista regolatorio. Non
  sarebbe la rete ad essere scorporata da Tim ma il contrario, ossia le società prodotto,
  lasciando nel perimetro del gruppo solo l'infrastruttura. Così facendo la società per la rete
  nascerebbe già con un'azionariato diffuso, in cui c'è anche la Cassa depositi e prestiti
  (azionista al 4,7% di Tim) che vedrebbe il suo ruolo rafforzato dal passaggio successivo,
  ovvero la fusione con Open Fiber, di cui la Cassa ha il 50% (l'altro 50% è dell'Enel).
   Un'operazione del genere diluirebbe anche la quota di Vivendi. Ma per farla serve non solo un
  imprimatur istituzionale, ma anche un accordo tra Vivendi, Elliott e Cdp. Che al momento
  appare tutt'altro che a portata di mano.
   © RIPRODUZIONE RISERVATA
   Amos Genish Così in Borsa L'andamento di Telecom a un anno 0,455 0,529 0,614 0,699
  0,783 0,868 L'Ego 2017 2018 sett dic gen mag set 0,72 0,52
  La saga di Telecom
  Dopo l'uscita di Generali, Intesa e Mediobanca nel 2014-15 da Telco, il nocciolo blindato di
  azionisti, inizia la scalata della francese Vivendi che nel 2016 diventa primo socio. Amos
  Genish prende il posto di Carlo Cattaneo come ceo. Nell'aprile 2018 Cdp entra nel capitale. In
  maggio il socio Elliott scalza Vivendi e rinnova il consiglio, ma conferma Genish
  -40% In quattro mesi Il titolo Telecom Italia dal picco annuo del 20 aprile scorso (0,88 euro)
  al 7 settembre (0,53 euro)
  Foto:
  al vertice
  di Tim
  Foto:
   Telecom Italia
  Amos Genish,
  58 anni, amministratore delegato dal settembre 2017, riconfermato il
  17 maggio scorso

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  Politica Finanza il grande assente
  Ma dov'è finita la lotta all'evasione?
  Nel Contratto di governo si ipotizza il carcere per chi non paga le tasse ma poi si pianifica la
  pace fiscale, cioè l'ennesimo condono frustrante per gli onesti La flat tax dovrebbe fare il
  miracolo di semplificare il sistema e renderlo «amichevole» Lasciateci avere dei dubbi in un
  Paese con 80 miliardi di pagamenti in nero l'anno Meglio puntare sul futuro con più controlli
  digitali e incrociati
  di Ferruccio de Bortoli

  Corruzione ed evasione fiscale sono le due malattie endemiche della società e dell'economia
  italiane. Nel primo caso, le misure previste dal disegno di legge del ministro della Giustizia,
  Alfonso Bonafede sono il portato di una visione calvinista o giustizialista, a seconda dei punti
  di vista. Per certi versi necessaria in un Paese a bassa legalità come il nostro. A patto che la
  minaccia di dure sanzioni, rimanendo sulla carta, non si esaurisca in vacue grida manzoniane.
  È già accaduto. Inasprire le pene a volte è del tutto inutile. Colpisce invece che sul fronte
  dell'evasione fiscale prevalga un garantismo indulgente. Del resto, i destini della legge di
  Bilancio per il 2019 sono legati al successo della cosiddetta «pace fiscale». La prossima
  manovra economica è nelle mani dei tanti che - in lite o in arretrato con l'amministrazione
  tributaria - decideranno di aderire a quello che è, a tutti gli effetti, un condono.
   Il paradosso
   Italiani in ritardo (anche con qualche giustificazione) con il Fisco, che hanno paradossalmente
  più importanza politica - per il numero e il peso elettorale - dei molti contribuenti onesti.
  Questi ultimi accoglieranno gli sconti della «pace fiscale» (e non solo la cancellazione di
  sanzioni e interessi di mora) come una beffarda conferma di un'italica inclinazione allo scarso
  rispetto delle regole. Nessuno viene premiato per aver pagato tutto e nei tempi giusti. Anzi, in
  qualche caso è persino deriso. Chi paga le imposte paga troppo. Non va dimenticato, per
  esempio, che il total tax rate, l'insieme di tasse e contributi pagati da un'azienda è, in Italia,
  superiore al 60 per cento, seppur in discesa negli ultimi anni
  Dalla lettura del «Contratto per il governo del cambiamento» si evince il proposito battagliero
  di una lotta senza quartiere ai grandi evasori. Anche con il «carcere vero».
  I grandi evasori ci sono: persone fisiche, imprese, multinazionali. Ma forse non nella mitica
  proporzione e, soprattutto, non nella facile reperibilità cui pensano gli estensori del
  programma. Per la grande massa dei contribuenti vi è un' indispensabile attenzione alla
  semplificazione degli adempimenti, alla comprensione delle innegabili difficoltà moltiplicate
  dalla lunga crisi. Ovvero, l'abolizione degli studi di settore; il restyling del redditometro e non
  il suo superamento come inizialmente annunciato; lo spesometro che finirà con l'obbligo di
  fattura elettronica dal prossimo gennaio. Il recente «decreto dignità» ha tolto il meccanismo
  di split payment - che trattiene allo Stato l'Iva sulle forniture - per i soli professionisti. L'enfasi
  sull'evasione di necessità appare però eccessiva in un Paese con circa 80 miliardi di
  pagamenti in nero che sfuggono all'Iva e solo 34 mila persone fisiche che dichiarano un
  reddito superiore ai 300 mila euro l'anno.
   Il contrasto all'evasione, nel programma legastellato, è affidato soprattutto alla flat tax e
  all'insieme delle misure che dovrebbero garantire una «maggiore base imponibile tassabile».
  Un Fisco semplice, leggero e amichevole dovrebbe indurre una più elevata disciplina fiscale,
  una maggiore coscienza civile, una cittadinanza consapevole. Mah, lecito dubitarne. La flat tax
  sarà per ora limitata a una più realistica riduzione delle aliquote e all'estensione del regime
  forfettario per le partite Iva. Chi paga le più alte aliquote Irpef non ne sarà felice. «E la pace

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  fiscale - spiega il giurista Raffaello Lupi - garantirà un gettito apprezzabile solo se avrà la
  forma di un condono tombale come quello Berlusconi-Tremonti del 2002. Cioè interessi tutti,
  non solo chi ha un contenzioso. Ma è una misura screditata in sede europea». Oltre che
  fortemente diseducativa, aggiungiamo noi.
  Lupi è autore di un originale saggio L'Evasione, appena pubblicato da Castelvecchi, nel quale
  affronta gli aspetti storici e sociologici del rapporto tumultuoso fra gli italiani e il Fisco.
  Sostiene che sia sbagliato e dannoso politicamente colpevolizzare alcune categorie produttive.
  Critica i toni dei «moderni inquisitori antievasione». Demolisce la retorica del «fisco amico» ed
  è convinto che l'evasione sia più la conseguenza di una disfunzione pubblica che di una
  perversione privata. «Va rotto il troppo stretto cordone ombelicale tra controllo e
  accertamento. Oggi su 90 ispezioni 89 sono positive. Va ripreso il controllo valutativo del
  territorio. Vedo, controllo e poi punisco i peggiori, ma assisto e consiglio tutti gli altri».
  Ovviamente qui si aprirebbe il tema, assai delicato, della discrezionalità degli accertamenti.
   La situazione
  Nella sua relazione di fine mandato come direttore dell'Agenzia delle Entrate e presidente
  dell'Agenzia delle Entrate-Riscossione, Ernesto Maria Ruffini ha ricordato che nel 2017 sono
  stati recuperati, nella lotta all'evasione, 20,1 miliardi (+5,8%). Secondo quello che Ruffini ha
  detto in diverse audizioni parlamentari, il «residuo di magazzino» utile di Agenzia Entrate-
  Riscossione, erede di Equitalia, che riscuote anche per i comuni e per l'Inps, è di circa 50
  miliardi. Il 25 per cento costituito dall'Iva, imposta comunitaria. La «pace» per l'Iva è
  impraticabile essendo un'imposta comunitaria. A maggior ragione per gli arretrati Inps (14%).
  Restano grosso modo 30 miliardi che potrebbero dare un gettito intorno ai tre o poco più se si
  dovesse applicare una aliquota del 10%.
  Ma sarebbe importante, anche nell'analisi di Ruffini - che ha passato in questi giorni le
  consegne al suo successore, il generale della Guardia di Finanza Antonino Maggiore --liberare
  l'arretrato. E concentrare, di conseguenza, l'attività di accertamento e riscossione
  sull'attualità, senza «pestare l'acqua nel mortaio» di un magazzino ingestibile. Ciò forse
  consentirebbe, come dice Lupi, di riprendere il «controllo valutativo del territorio», oltre che di
  aumentare l'ammontare dei recuperi dell'evasione.
  La digitalizzazione delle transazioni è destinata a rivoluzionare il rapporto tra il Fisco e i
  contribuenti. Nulla teoricamente potrebbe sfuggire. Uno scenario che dischiude immensi
  problemi di privacy ma potrebbe semplificare oltremodo, come avviene con la fatturazione
  elettronica, gli adempimenti, ridurre i costi e rendere inutili dichiarazioni periodiche. L'Ocse,
  l'Organizzazione dei principali Paesi industrializzati, calcola che grazie allo scambio automatico
  dei dati fiscali potrebbero emergere, nei Paesi membri, 85 miliardi di dollari di imponibile.
  Consulenti e avvocati, responsabili delle pianificazioni fiscali di imprese e famiglie, secondo le
  Mandatory disclosure rules dell'Ocse, saranno obbligati, dal primo luglio 2020, a comunicare
  tutto. Le eventuali sanzioni saranno però a carico degli Stati membri. E qui si vedrà il loro
  grado di serietà. Gli Stati Uniti i dati non li scambiano. I loro evasori li trattano alla stregua
  dei peggiori criminali. Degli altri non si curano.
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   I risultati L'andamento del recupero da parte dell'Agenzia delle Entrate, compresi i ruoli. Dati
  in miliardi di euro 0 5 10 15 20 25 13,1 2013 14,2 2014 14,9 2015 19 2016 20,1 2017 132
  miliardi I redditi non dichiarati 80 miliardi L'Iva evasa, ogni anno, in Italia 540 miliardi Il
  valore del Pil sommerso Pparra

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  Il record
  Secondo i dati della Commissione europea nessuno batte il nostro Paese nell'evasione dell'Iva,
  che è una tassa comunitaria. Il Vat gap - la distanza tra il dovuto e quello che entra davvero
  nelle casse dello Stato - supera i 35 miliardi (dati 2015, ultima rilevazione disponibile). Una
  cifra che vale oltre il 20% dell'Iva mancante nell'Unione, che vale nel complesso più di 150
  miliardi
  Foto:
  Il ministro dell'Economia Giovanni Tria. Per il titolare del Mef il taglio fiscale con il contrasto
   a evasione e illegalità è una priorità
  Foto:
  Il generale della Guardia di Finanza Antonino Maggiore è il nuovo direttore dell'Agenzia delle
  Entrate al posto di Ernesto Maria Ruffini

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  Finanza previdenza e dintorni
  WELFARE I miei consigli (non richiesti) a Salvini cambiare si può ma
  niente riforme spezzatino
  Ai giovani si fa credere che basta anticipare la pensione degli anziani per assicurare loro un
  posto, ma non è vero Nessuno deve avere convenienza a lasciare il lavoro troppo presto. Il
  sistema va considerato nella sua interezza: dalla possibilità di istruzione alla conciliazione
  della vita personale e professionale per uomini e donne Con la legge che porta il mio nome
  abbiamo riequilibrato i rapporti tra generazioni. Tutto però si può migliorare
  Elsa Fornero

  Ora che, da vicepremier, sembra avere un po' stemperato i toni bellicosi e insultanti per anni
  usati nei miei riguardi, mi permetto di dare a Salvini qualche consiglio (non richiesto) sulla
  riforma pensionistica. È tempo che si renda conto dei rischi di una contro-riforma perentoria,
  incurante delle conseguenze di medio termine.
  Comprendo che oggi il tempo che dovrebbe dedicare alla riflessione, alla ricerca di coerenza è
  divorato dall'ansia di essere al centro dell'attenzione per accumulare consensi nel breve, anzi
  brevissimo, termine. Così come so bene che le contro-riforme pensionistiche (come
  l'abolizione dello «scalone Maroni» nel 2007) piacciono agli elettori, anche quando quelle
  misure, che quasi sempre entrano subito in vigore, finiranno per gravare sui loro figli.
  Proprio per questo, in tempi normali, le riforme vengono varate, ma per l'entrata in vigore
  sono previsti tempi lunghissimi. La riforma Dini del 1995 consentiva pensioni adeguate, età di
  pensionamento flessibile e sostenibilità finanziaria ma venne introdotta con lentezza
  esasperante (30-40 anni per l'applicazione piena) perché la maggioranza di allora potesse
  rassicurare gli elettori che per le loro pensioni quasi nulla sarebbe cambiato.
    Questo gradualismo esasperato scaricò quasi interamente sui giovani l'onere
  dell'aggiustamento. I giovani, d'altronde, sono una minoranza in una società che invecchia e
  si può sempre far loro credere che basti anticipare la pensione degli anziani per assicurare
  loro il lavoro.
   I cardini
  A Salvini vorrei ricordare che il sistema di welfare è basato su alcuni principi fondamentali,
  che travalicano gli slogan delle campagne elettorali. Questi principi riguardano la copertura di
  rischi come la misura, e la discontinuità del reddito da lavoro e la possibilità di non
  accumulare un risparmio adeguato per un'età anziana che si allunga sempre più.
  L'adeguatezza della pensione dipende da tutti questi elementi di rischio e chi ha responsabilità
  di governo dovrebbe intervenire su tutti.
  Non basta riproporre una qualche variante del «diritto acquisito», meno che mai quando si
  pretende con forza di volere abolire i privilegi. Senza adeguata crescita economica, senza
  buona occupazione e buone retribuzioni, i diritti acquisiti da alcune categorie o classi di età si
  traducono in diritti negati ad altre. Così, «quota 100» o, più ancora, «41 anni di anzianità
  senza se e senza ma» non ci proiettano nel futuro, ma rappresentano soltanto la variante
  grillo-leghista dei diritti acquisiti: un ritorno al passato, quando la demografia e l'economia
  sembravano consentirli.
  A Salvini consiglierei poi di considerare il sistema di welfare nella sua interezza, liberandosi
  dall'ossessione di guardare quasi soltanto alla parte pensionistica. Il welfare deve aiutare tutti
  gli individui a far fronte ai rischi nel modo più completo ed efficiente possibile.
  Questo richiede interventi che, ancora prima delle pensioni, riguardano l'istruzione e la
  formazione, per migliorare le chance di lavoro; l'assicurazione contro la disoccupazione, per

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                                                                                                           La proprietà intellettuale è riconducibile alla fonte specificata in testa alla pagina. Il ritaglio stampa è da intendersi per uso privato
  fare in modo che i periodi di inattività siano brevi e coperti da versamenti contributivi a carico
  della collettività; i servizi per conciliare lavoro e famiglia per donne e uomini (asili nido, scuole
  materne, congedi parentali).
  Tutto ciò va fatto con un mix di coercizione (l'obbligo dell'assicurazione) e di incentivi a fare
  scelte corrette. Nessuno, a esempio, deve avere convenienza a andare in pensione a un'età
  troppo giovane, perché la flessibilità pensionistica è buona solo se pagata da chi ne beneficia
  (imprese e lavoratori) e non dai contribuenti. Se le baby pensioni sono un caso aberrante,
  anche le pensioni di anzianità (che qualcuno vorrebbe ripristinare sotto altro nome) sono
  scelte sbagliate che portano a pensioni prima o poi insufficienti e quindi a una maggiore spesa
  pubblica assistenziale futura.
   Pubblico e privato.
  A Salvini vorrei ricordare che neppure nel campo del welfare lo Stato può fare tutto da solo,
  ma va realizzata una buona integrazione con il privato: fondi pensione, assicurazioni e
  incoraggiamento, anche fiscale, del welfare aziendale, che favorisce lavoro e parità alle
  donne, rendendole meno dipendenti dal compagno o da una qualche pseudo-generosità
  pubblica; che l'invecchiamento comporta cure di lungo termine, oggi ancora sostanzialmente
  affidate alle «badanti» straniere, spesso giunte irregolarmente in Italia e solo in seguito
  regolarizzate.
  Vorrei infine ricordargli che la riforma delle pensioni che porta il mio nome è stata un modo
  per riequilibrare i rapporti economici tra generazioni, favorendo quelle giovani, danneggiate
  dalla precarietà, dalla Grande Recessione e dalla miopia politica; che nessuna riforma nasce
  perfetta e miglioramenti sono possibili e necessari nel tempo. L'Ape sociale e quella
  volontaria, introdotte dal governo precedente, vanno nella giusta direzione e negarlo risponde
  solo a ragioni di polemica, mentre innestare la retromarcia non riduce i rischi, né i privilegi,
  ma li aumenta. Gli direi tutto questo e di più, ma saprebbe ascoltare?
   © RIPRODUZIONE RISERVATA
  100 La quota Soglia tra età e anzianità contributiva che il governo vuole introdurre per
  rendere più flessibile la riforma Fornero
  85 Miliardi Il costo minimo secondo l'Inps se venisse abolita la riforma Fornero. Quello
  massimo arriva a 105
  Chi è
  Professoressa ordinaria di Economia politica all'Università di Torino, allieva di Onorato
  Castellino, per decenni si è dedicata a studiare i sistemi pensionistici pubblici. Nel novembre
  2011 viene chiamata dal premier Mario Monti a ricoprire il ruolo di ministro del Lavoro e delle
  Politiche sociali. Il momento è critico, il Paese si trova alle soglie del default. Così in meno di
  un mese viene varata la riforma che porta il suo nome, con l'adesione quasi unanime del
  Parlamento.
  Foto:
  Elsa Fornero, autrice della riforma che il governo vuole cambiare

SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/09/2018                                                        18
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  di Antonella Baccaro Stato Mercato le infrastrutture al bivio È la dote per i prossimi 15 anni, il
  problema è come e dove spenderla. Non solo per il disaccordo politico al governo, ma anche
  perché la riforma del Codice degli appalti non decolla Mentre il crollo del ponte Morandi ha
  messo in luce la carenza delle leggi su manutenzioni ed emergenze
  Grandi opere i soldi ci sono non buttiamoli via
  Troppi grovigli e regole difficili da interpretare Dall'ok all'avvio dei lavori passano anni

  Con una dote di 150 miliardi nel bilancio statale da spendere nei prossimi 15 anni, già scontati
  dall'indebitamento netto, per le opere pubbliche il problema oggi non sono le risorse
  economiche. Ma come spenderle. Non è solo un dilemma politico: scegliere le opere prioritarie
  su cui Lega e M5S non sempre concordano. È soprattutto un problema pratico: dominare il
  groviglio di norme che l'ultima riforma del Codice degli appalti, varato (e poi subito corretto)
  dal governo Renzi, non ha sciolto. Anzi. La riforma Delrio non è nemmeno partita per la
  mancanza di circa la metà dei provvedimenti attuativi, le difficoltà dovute alla sovrapposizione
  dei due ultimi interventi normativi, l'assenza di un'adeguata formazione dei funzionari
  deputati ad applicarla.
  Ma da quando l'8 agosto scorso il ministero delle Infrastrutture ha messo online la
  consultazione pubblica con l'intento di realizzare una prima modifica d'urgenza al Codice degli
  appalti, molto è cambiato. Il crollo del ponte Morandi a Genova, una settimana dopo, con il
  suo strascico di polemiche, ha evidenziato tutte le carenze della normativa attuale nelle
  situazioni di emergenza e impresso un'ulteriore accelerazione al piano di riforma.
   I contrasti
  «La missione è duplice - aveva detto Toninelli un mese fa -: regole semplici e chiare per
  rilanciare le opere pubbliche, ma allo stesso tempo guerra senza quartiere alla corruzione e al
  malaffare. Le norme scritte dal precedente governo hanno infatti creato grandi difficoltà a chi
  voleva bandire appalti pubblici, soprattutto agli enti locali». Una tesi che l'Autorità
  anticorruzione, guidata da Raffaele Cantone, non condivide e che sembra indirettamente
  smentire anche con la recente pubblicazione del consueto rapporto sul mercato dei contratti
  pubblici in Italia che, nel primo quadrimestre 2018, conferma un ritorno alla crescita con un
  +41,7%, pari a 12 miliardi in più dallo stesso periodo 2017.
  Le polemiche sulla mancanza di manutenzione delle opere pubbliche realizzate in Italia ormai
  troppi anni fa, generate dal crollo del ponte, hanno quantomeno fornito al ministro una
  robusta motivazione per mettere in secondo piano la controversa revisione del piano delle
  grandi opere.
  La consultazione pubblica, che si chiude oggi e che dovrebbe produrre un testo a fine mese, si
  è svolta su 29 articoli su 240. Si va dalle norme sulla trasparenza e la pubblicazione degli atti
  alle misure che riguardano la qualificazione delle stazioni appaltanti e delle commissioni
  aggiudicatrici, dalle regole sul rating e la reputazione delle imprese a quelle sul rapporto tra
  appaltatore e subappaltatori.
  All'elenco ristretto si è arrivati tramite un primo incontro informale tenutosi a giugno, cui
  hanno partecipato tutti i soggetti istituzionali e non, interessati al provvedimento. Compresa
  l'Anac. Da quel primo confronto è emersa una certa convergenza sulla modifica di alcune
  norme. Tra queste, quella relativa al criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa che,
  mettendo in campo criteri ulteriori rispetto al prezzo, malgrado le regole interpretative fornite
  dall'Anac, ha generato imbarazzo tra i funzionari che avrebbero dovuto applicarla.
  L'ipotesi che si torni tout court al criterio del massimo ribasso è improbabile in base alle
  indicazioni di massima arrivate dal M5S.

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  Sembra destinato a cadere il divieto di appalto integrato che risolverebbe le attuali carenze in
  fase di progettazione esecutiva.
  Sul tavolo di Toninelli persiste la richiesta dei costruttori Ance di semplificare le procedure con
  un unico passaggio delle opere dal Cipe (Comitato interministeriale di programmazione
  economica).
  Fin qui i passaggi meno forieri di polemiche. Poi ci sono i punti «caldi». Dalla Conferenza delle
  Regioni e dalla Protezione civile, sull'onda della tragedia di Genova, è appena giunta la
  richiesta di semplificare le norme, in caso di emergenza, per gli affidamenti degli appalti con
  la costituzione di elenchi di imprese e professionisti prequalificati, la verifica preventiva di
  requisiti e clausole di esclusione, ampia autocertificazione ma clausola di immediata
  risoluzione del contratto. Semplificazioni che potrebbero contrastare con la diffidenza dei
  grillini verso la legislazione emergenziale.
   Il caso Autostrade
  Poi c'è la norma su Autostrade. L'articolo 177 del Codice che, grazie a un intervento furtivo in
  sede di approvazione della scorsa legge di Stabilità, consentì alla società dei Benetton di
  ottenere un 20% in più di lavori realizzabili in house. Certo, una minuzia rispetto alla
  rivoluzione in tema di concessioni che il M5S promette di realizzare.
  Infine c'è il capitolo Anac. Le problematiche relative al ruolo dell'Autorità (articoli 211 sul
  precontenzioso e 213 sulla soft law) sono finite nella consultazione senza essere state
  sollevate nell'incontro informale di giugno. Per questo l'Autorità non ha potuto far giungere al
  ministero alcuna «memoria» a riguardo.
  Ma Cantone si è difeso ugualmente a suon di dichiarazioni pubbliche, lanciando l'allarme
  sull'eventuale modifica di quelle norme. Come quella che dal primo agosto consente all'Anac
  di impugnare le procedure contrattuali di rilevante impatto o che presentino gravi violazioni.
  Potere finora mai utilizzato. O quella che ha demandato all'Anac la disciplina attuativa del
  codice alla regolamentazione (soft law) senza poteri di prescrizione. Una novità che enti e
  imprese respingono come un'ulteriore complicazione. Sul punto si giocheranno i futuri rapporti
  tra governo e Anac.
   © RIPRODUZIONE RISERVATA
  Foto:
  Il ministro Danilo Toninelli, M5S,
  in divergenza con l'Anac

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  IL PUNTO
  La Maggioranza e le troppe nostalgie (sbagliate)
  Daniele Manca

  Alitalia, Ilva, Autostrade, Fs, Anas. Sono alcuni dei dossier che il governo ha posto
  all'attenzione dei cittadini. Parte di questi a seguito di tragedie (quella del Ponte di Genova
  come nel caso Autostrade). Altri per una diversa visione strategica sul futuro, come nel caso
  delle Fs, un'idea che ha portato all'azzeramento del vertice e allo stop dell'ingresso di Anas
  nel gruppo. In tutti i casi è sembrata prevalere più la volontà di differenziare la propria azione
  da quella dei precedenti governi che il procedere a indicazioni concrete utili a comprendere la
  direzione della nuova maggioranza in termini di politica industriale. Emblematica la vicenda
  dell'Ilva, come ricordato da Dario Di Vico sul Corriere del 7 settembre: polemiche, conferenze
  stampa per annunciare addirittura l'illegalità della gara, per infine approdare a un risultato
  simile o comunque nel solco di quello prospettato dal governo Gentiloni. E che dire
  dell'Alitalia? Il suo futuro è appeso a non si sa nemmeno bene cosa. Il vicepremier Luigi Di
  Maio ha precisato che «nazionalizzazioni old style» non sono fattibili. Ma che deve rimanere
  «un vettore dello Stato italiano». Si cercano possibili nuovi soci persino cinesi. Ma di quella
  vendita spostata dal decreto di proroga al 31 ottobre nulla si sa. Se non che entro il 31
  dicembre vanno restituiti i 900 milioni del prestito ponte. E che le Ferrovie dello Stato, per
  bocca del loro nuovo amministratore delegato, Gianfranco Battisti, hanno fatto sapere di stare
  valutando il dossier. Tanto che c'è chi immagina cordate con Cdp e Poste. Direzione di marcia
  poco chiara e con lo spettro di un nuovo Stato-padrone. Come se la proprietà pubblica
  potesse magicamente risolvere problemi industriali e di competitività di qualsiasi azienda.
  Convinzione che la storia recente, e passata, in Italia ha purtroppo smentito con i fatti.
   @daniele_manca
   © RIPRODUZIONE RISERVATA

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 LA MANOVRA 2019
 Gioco d'anticipo verso la pace fiscale
 Dal ravvedimento alle liti pendenti cosa conviene fare in attesa delle nuove regole
 Dario Deotto

 L'ipotesi di «pace fiscale» allo studio del governo per la Legge di bilancio 2019 si riflette già
 sui comportamenti dei contribuenti. Gli annunci che si rincorrono sono tanti, ma tutti portano
 a ipotizzare che la possibile pace fiscale non venga circoscritta alle sole cartelle di pagamento,
 ma includa altre situazioni, come i processi verbali di constatazione (Pvc) e la generalità delle
 liti tributarie. La prima, inevitabile conseguenza - in questo periodo di attesa della norma
 definitiva - è una sorta di "congelamento" del ravvedimento operoso. In generale, ad esempio
 sulle liti pendenti, conviene "tenere in vita" determinate situazioni per poi approfittare della
 pace fiscale.
 Deotto a pag. 2
 La prospettata ipotesi di pace fiscale si riflette già sui comportamenti dei contribuenti. Gli
 annunci che si rincorrono sono tanti, ma tutti portano a ipotizzare che la possibile pace fiscale
 non venga circoscritta alle sole cartelle di pagamento, ma includa altre situazioni, come i
 processi verbali di constatazione (Pvc) e la generalità delle liti tributarie.
 La prima, inevitabile conseguenza - in questo periodo di attesa della norma definitiva - è una
 sorta di "congelamento" del ravvedimento operoso.
 La ratio originaria del ravvedimento era quella di consentire all'autore di omissioni o di
 irregolarità di rimediarvi spontaneamente, prima però della constatazione delle violazioni. Dal
 2015, invece, i contribuenti possono fruire dell'istituto a prescindere dall'eventuale inizio di
 accessi, ispezioni, verifiche o altre attività "prodromiche" all'accertamento, posto che ora sono
 ostativi solamente la notifica degli atti di accertamento e dei cosiddetti avvisi bonari.
 In presenza di Pvc, il ravvedimento è dunque ammesso, con la riduzione a 1/5 del minimo
 delle sanzioni edittali. È chiaro che, di fronte a una ventilata ipotesi di definizione delle liti
 cosiddette "potenziali" (che già con l'articolo 15 della legge 289/2002 contemplava la
 possibilità di definire i Pvc) appare piuttosto remoto, in questa ultima parte dell'anno, l'utilizzo
 del ravvedimento in presenza di Pvc. Questo perché la nuova definizione non dovrebbe
 determinare alcuna penalità, come accadeva già nella versione del 2002 (altrimenti, si rischia
 l'insuccesso dell'iniziativa), mentre il ravvedimento operoso comporta comunque il pagamento
 di sanzioni, seppure ridotte.
 Peraltro, gli operatori del diritto tributario ben sanno che c'è un altro problema legato al
 ravvedimento: il fatto che in presenza di violazioni plurime non si applica il cumulo giuridico -
 la cui "competenza" è necessariamente solo dell'ufficio - per cui in presenza di più violazioni,
 specialmente nell'Iva, è già ordinariamente più conveniente non ravvedersi, verificando che il
 conteggio della sanzione unica effettuato in seguito dall'ufficio risulti corretto (e approfittando
 poi della miriade di istituti deflattivi presenti nell'ordinamento).
 Lo stesso principio - quello di "tenere in vita" determinate situazioni per poi profittare
 dell'annunciata pace fiscale - non può che valere per eventuali atti di accertamento notificati
 in questo periodo (oltreché per le liti già incardinate). Tranne in casi eccezionali, non
 dovrebbe avere senso, ad esempio, definirli in adesione (almeno, quella prevista oggi) o,
 peggio, in acquiescenza, trattandosi di istituti che comunque prevedono il pagamento di
 sanzioni, seppure ridotte.

SCENARIO ECONOMIA - Rassegna Stampa 10/09/2018                                                          22
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