Lettera ad un bambino nato dal cuore
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Copertina ed illustrazioni di Raymond Peynet, per gentile concessione della figlia M.me Annie Lettera ad un bambino nato dal cuore Mio caro Adolfino, non so se un giorno, da grande, tu vorrai leggere queste pagine. Io però lo stesso le scrivo, perché sento un bisogno
urgente, irrefrenabile, di raccontarti tutta la gioia e l'amore che la tua venuta ci ha dato. Ti ho sempre detto che papà e mamma erano molto tristi prima che tu arrivassi, forse questo non é esattamente tutto vero. Noi ci volevamo (ci vogliamo!!!) tanto, tanto bene e vivevamo, anche se non lo sapevamo, nella tua attesa. Era peró un'attesa serena e fiduciosa perché sapevamo che saresti arrivato tu, proprio tu, il nostro Adolfino, con i suoi enormi occhi neri e la sua intelligenza saettante. I primi anni di matrimonio eravamo inebriati di felicità e tutti tesi a raggiungere altre mete: la laurea di papà, il servizio militare e poi via via il suo successo professionale. Poi un giorno ci furono tra noi dei discorsi, delle parole, delle confessioni: "Vorresti un bambino? Ti piacerebbe avere un figlio"? Ed ecco la decisione. Sono passati nove mesi da quella decisione, proprio nove mesi esatti. II ginecologo avrebbe sentenziato: parto eutocico. Ed ecco che il telefono di casa Salabé suonò, in una mattina come tante altre. Mi sono precipitata a rispondere di corsa, perché ti aspettavo, perché sapevo che eri vicino. Ed ecco una voce femminile: "Signora é nato il suo bambino, un bel maschietto di quattro chili e mezzo. Può venire subito a vederlo?!?". Quello che ho provato in quell'istante é indescrivibile. Una ridda di pensieri tutti accavallati ed incalzanti. Prima devo correre ad annunciarlo a Mario. No! Vado a comprare il corredino. No! Devo avvisare mamma, che in questi casi riesce ad organizzare con più chiarezza le cose. No! Corro a vederlo. Non ricordo bene cosa
ho fatto per prima. So soltanto che nonna Carmela, papà ed io eravamo in clinica appena mezzora dopo. Lì c'eri tu che dormivi pacifico e sereno. La suora, con te in braccio, si é avvicinata e mi ti ha porto dicendo: "Signora questo é suo figlio". E' stato allora che sono scoppiata a piangere a dirotto, e ti ho svegliato, e la prima cosa che hai fatto è stata quella di sorridermi. Ma, nonostante il tuo sorriso, i miei singhiozzi erano struggenti e incalzanti, credevo che il petto mi scoppiasse dalla gioia. Papà era pietrificato contro il muro, anche lui con gli occhi pieni di lacrime e il cuore gonfio di amore. Sarebbe finita in una tragedia greca, se nonna Carmela non fosse intervenuta con il suo solito humor e non avesse spezzato questa catena di singhiozzi con una frase spiritosa: "Pari 'nu pitaciu" (sembra un rondinotto). Infatti questa era la prima sensazione nel vederti, cioè quella di un uccellino, anzi di un rondinotto implume, con due enormi occhi sgranati e pieni di punti interrogativi. Per fortuna nonna Carmela aveva salvato la situazione perché, alla sua battuta, tutti siamo scoppiati a ridere e tu hai potuto finalmente riprendere il tuo pisolino. I tuoi pisolini, poi lo saprò! E diventeranno proverbiali, perché sarai un bimbo impastato di sonno e buonissimo. Ciao cavaliere Appena ti abbiamo portato a casa, puoi immaginare l'andirivieni di amici e parenti, e lo squillo continuo del telefono, del citofono, della porta. Sembrava il paese dei campanelli.
Primo fra tutti é arrivato il nostro adorato nonno Gigi, il quale certo non godeva fama di gran fanciullaio. Ma questo nipotino, arrivato in tarda età, l'aveva completamente conquistato, tanto che non lasciava passare una sola giornata senza venire a vederti, e ti salutava chiamandoti affettuosamente: "Cavaliere, allora come andiamo"? Era una dolce consuetudine quel suono del campanello verso sera, e il veder comparire la sua bella sagoma contro luce sulla porta. Un po' curvo, dopo una giornata di lavoro, con la sua inequivocabile scia di profumo mista a tabacco, borbottava tra sé: "Questo nipotino mi fa sentire nonno in una maniera nuova, che strano, é la prima volta che ci penso, prima non era mai capitato". E tu, pacifico, continuavi a bere il tuo tubo di latte, che ingordamente finivi fino all'ultimo goccio. 0 sguazzavi nell'acqua tiepida del bagnetto, innaffiandomi fino alla punta dei piedi. Oppure schiacciavi il tuo consueto sonnellino. Ancora non sapevi che il nonno era il capostipite, che lui ti aveva desiderato più di noi, anzi no! Prima di noi… prima che tu venissi. Ancora non sapevi che lui dopo pochi mesi sarebbe volato in cielo, accanto alla tua mamma. Si, la tua mamma... della pancia. Perché lì sono tutti insieme! Tenero pitacino Mentre ti porgevo il biberon, ti stringevo teneramente approfittando dei brevi momenti che mi era consentito tenerti in braccio senza timore di viziarti. E ti sussurravo la tua storia.
Mio dolce, caro, tenero Pitacino - allora ti chiamavamo cosi - tu sei nato nel cuore di mamma e papà, perché sei nato dal nostro amore. Ed é tale la gioia che ci hai dato, che qualsiasi descrizione sarebbe una piccola cosa incompleta. E ti guardavo, e carezzavo la tua carnagione vellutata, le tue guance di gommapiuma, le tue gambette rosee piene di ciambelle, e non credevo che tu fossi vero, reale, palpitante. Forse é per questo che la notte mi alzavo in continuazione, interrompendo i sogni per vedere se eri pure tu un sogno, oppure per sincerarmi che eri lì con noi, vivo, vero, reale. E tu, a dispetto di queste mie ansie, dormivi, anzi russavi tranquillamente, con un'espressione beata. Anche il giorno del tuo battesimo, giorno nel quale il caos di casa Salabé era arrivato al diapason, tu hai schiacciato i tuoi metodici pisolini, ed hai mostrato di gradire pure il sale della sapienza che il sacerdote maldestramente ti ha infilato in bocca. Un nome sperimentato II nome Adolfo é stato deciso da noi, perché ti fosse di buon auspicio. L'abbinamento Adolfo Salabé era già stato sperimentato, e noi volevamo un nome sperimentato per te che venivi a far parte di questa grande famiglia patriarcale. Lo zio Adolfo é stato per il tuo papà qualcosa di più di un fratello grande, e noi gli siamo legati da tanti sentimenti di affetto, riconoscenza e, non ultima, ammirazione per la sua guizzante intelligenza, la ferrea volontà e la singolare capacità di adattamento al mutare degli eventi. Puoi ben capire come questo nome, cosi importante per un fagottino di quattro chili e mezzo, ti sia
piombato addosso con tutto l'impegno ed ogni fervido augurio di buona fortuna. Regali e quarantena I regali che hai ricevuto sono un capitolo a parte: telegrammi da tutta Italia, fiori in abbondanza, pensierini da persone dimenticate, lontane o comunque non interessate direttamente, telefonate da parenti persi nella nebbia del tempo. Insomma, hai riscosso subito tanto amore e tanta simpatia. E tutto questo affetto eri proprio tu che l'attiravi, perché eri buonissimo, felice di andare con tutti, e sorridevi a chiunque ti porgesse le braccia. La tua preferenza é stata sempre per il cuginetto Andreino che, al momento del tuo arrivo, era in quarantena per un sospetto morbillo. Eravate patetici dietro il vetro del salotto, cercando di toccarvi le manine per fare la vostra prima conoscenza, separati da una gelida lastra trasparente che non riusciva a frenare la vostra prima, istintiva simpatia. Devo riconoscere che, anche in seguito, non essendoci più tra voi alcun diaframma vitreo, i vostri incontri hanno continuato ad essere sempre molto calorosi. Anzi, direi proprio travolgenti. Intanto l'estate é arrivata alle porte, e dunque abbiamo deciso di andare dai nonni a Grottaferrata. Lì sei diventato ancor più il principino di casa. E i cuginetti tedeschi erano molto incuriositi per l'arrivo di questo nuovo Salabé, e ti giravano intorno facendo a gara per cullarti e porgerti il biberon.
Settembre è tutto per noi Dopo la campagna siamo andati sulle Dolomiti, ad Ortisei, con il cuginetto Nicola, i nonni e gli zii. Ho di quei giorni un ricordo bellissimo, nitido e presente come se fosse ieri. Era settembre, stavamo trascorrendo un intero mese insieme, noi due da soli. E' difficile, sai, amore mio, spiegarti questa sensazione di gioia perché sono tantissimi i sentimenti che si intrecciano. Quando eravamo tutti e tre, il mio primo pensiero era quello di non fare mancare a papà la mia presenza improvvisamente, come conseguenza del tuo arrivo. Quindi cercavo di dividermi tra voi due, naturalmente privilegiando te che eri bisognoso di cure. C'erano le necessità di un ménage domestico da mandare avanti, e il problema del sonno. Per quanto tu fossi buonissimo, eri pur sempre un lattante a sette pasti giornalieri, e la sera non potevo più essere disponibile per la vita mondana. Durante quel settembre a Ortisei, noi due soli, ho vissuto intensamente le tue giornate, senza alcun rimorso di avere come unica occupazione quella di guardarti a sazietà. Ci svegliavamo insieme e dormivamo insieme. In quell'epoca ricordo che c'era il taglio del fieno, e le giornate cominciavano ad accorciarsi. Io spingevo la carrozzina tra i campi ingialliti su per salite e discese e, quando finalmente arrivavamo in albergo, avevamo le guance rubizze di sole e di aria. Andavamo a dormire alle otto e mezza, e la mattina eravamo i primi a dare la sveglia a tutti. Eri mio, tutto mio, e dipendevi da me. Quel mese mi ha dato la certezza che tu eri una parte di me, come una mano od un occhio. Se, da grande, avrai una tua vita staccata e
indipendente, mi basterà pensare a quel periodo per essere ancora felice. Gli amici e i burattini Tornati a Roma, c'é stata una bella sorpresa per tutti noi, l'arrivo di due cuginetti: Lucia, detta cuzzupa per le sue ben note rotondità che la facevano somigliare al famoso dolce pasquale napoletano, e Giovannino, soprannominato Nanni bello. Le giornate scorrevano varie e veloci. La mattina al Gianicolo da Pulcinella citrullo, o ai giardini del laghetto dove mettevi in fila i pinoli, le ghiande, i tappi (la tua mania delle collezioni), ed un giorno perfino i lombrichi schierati a mo' di soldatini. I pomeriggi erano scanditi da ritmi precisi: un lungo sonno, che mi godevo insieme a te con la scusa di farti addormentare, e poi le visite di Giorgia, Annalisa, Emanuele, Gianni, Federica e tanti altri amichetti dei giardini. Giornate da bere Bevevo queste giornate come un assetato una bibita fresca. Ogni giorno c'era una scoperta nuova. II primo dentino. II cucchiaino della pappa ha fatto din, e tu mi hai mostrato il tuo primo miracolo: neppure una lacrima, non un lamento. Poi i primi passi, le prime paroline.
Ed eccoti già con cestino e grembiulino varcare la soglia dell'asilo di suor Chiara, una giovane suorina catapultata a Roma da Torino con un'aria sparuta e spaurita. Con lei ti sei ambientato subito. Andavi volentieri, fiero di andare all'asilo come papà va in ufficio e la mamma va dai vecchini. Hai affrontato con serenità il primo, naturale distacco da noi dopo tre anni di simbiosi assolutamente perfetta. Non c'é mai stato un giorno in cui ti sei rifiutato di andare a scuola. Figurati, io non aspettavo altro, ed ogni mattina, senza interferire nella tua decisione di mettere le ali per cominciare a volare da solo, scrutavo speranzosa semmai avessi avuto qualche incertezza. Oppo Ormai il tuo soprannome non era più Pitacino, come quando eri appena nato, bensì Oppo. Ti era stato affibbiato da Nicolino, all'epoca detto Nino, che, non riuscendo a dire Adolfo, un pomeriggio se n'era uscito, dopo sforzi inenarrabili, con sopracciglia inarcate fino alla radice dei capelli e cianosi in atto, con il nomignolo di Oppo. Nell'inverno dei tuoi tre anni, con i tre cuginetti, Nicola, Lucia e Nanni, abbiamo trascorso delle indimenticabili vacanze invernali, piene di aneddoti e sottolineate da personaggi fantascientifici. Una di queste é Lorena, la signorina di Nanni che, a mo' di Trudy la moglie di Gambadilegno, stazzando sei tonnellate per coscia, si aggirava ansimando, tipo ninfa di bosco. Per i corridoi del residence di Pescasseroli intonava gioiosamente la ben nota canzone Heidi la tua casa e tra i monti, sempre seguita da voi, quattro cuccioli saltellanti. Intanto un'altra persona entrava nella nostra casa: Militina la tua
nuova tata. Ne uscirà dopo tre anni, da sposa, e tu accompagnerai il corteo nuziale portando il cuscino con le fedi fino all'altare. Avevi già quattro anni, quando la nostra famiglia fu scossa da un avvenimento sconvolgente: la malattia di nonno Nicola, improvvisa, crudele, lunghissima. Un giorno tu scriverai in un tema: "Mia mamma é sempre allegra e vivace, solo diventa triste quando pensa al suo papà che sta male". Tropea Ora peró vorrei ricordarti i bellissimi giorni d'estate passati a Tropea con zia Anna ed Andreino, il cugino che é sempre rimasto la tua grande passione. Tu attiravi le simpatie di tutti gli ospiti dell'albergo, al primo posto Tronchetta che apostrofavi ogni cinque minuti domandandogli le cose più impensate: "Quanti bagni ti fai? Perché chiedi sempre il ghiaccio? Dov'é tuo marito? In quale casetta stai"? E poi la bellissima Ludovica con gli occhi da gattina, che ti ritrovavi sempre vicina pronta ad offrirti un'aranca. C'era con noi anche la cuginetta più piccola, la dolce Mariannina la blonde. Durante l'inverno, un terribile terremoto aveva sconvolto il già poverissimo paesino dell'Irpinia, e papà era partito per aiutare quella gente cosi tanto colpita. Al suo ritorno, aveva portato con sé due bambine trovate in quel deserto di miseria e di dolore. I familiari si erano sistemati nella nostra roulotte, e loro erano venute da noi per due settimane, per evitare lo spettacolo orribile di quei primi giorni. Anche in questa occasione hai mostrato un comportamento
esemplare. La tua camera era stata invasa, i tuoi giochi maneggiati e rotti da quelle manine inesperte, il tuo lettino occupato, ma non avesti mai dei gesti di ribellione o di impazienza. Solo un giorno saresti esploso. Loro avevano osato prendere un vecchio portafogli che il tuo papà ti aveva regalato, e tu, che adori il tuo papà, avevi trasferito questa adorazione anche agli oggetti che lui ti aveva regalato. Ne era venuta fuori una scena furibonda, perché tu non volevi cedere per nessuna ragione, mentre loro non capivano come mai, mentre avevi lasciato che ti prendessero tutto, solo per quel piccolo oggetto si erano scatenate le tue ire. Cuor di pulcino II pulcino Nicola accende un altro flash sulla tua infanzia. Ti ricordi, Adolfino, che lui dormiva accanto a te e ti seguiva dappertutto? E, che dispiacere quella mattina, quando trovasti la sua cuccia vuota e la porta del giardino socchiusa! Nicola era andato via e i tuoi richiami accorati, in giardino ed intorno al palazzo, non avevano risposta. Si era fatto tardi, dovevi andare a scuola da ma mère Teresita, ma tu non la finivi più di riempirmi di raccomandazioni: "Trovalo, chiedi a tutti, lo rivoglio, Nicola é mio, deve tornare!”. Proprio quel giorno ho inventato la tua favola, quella del pulcino Nicola che aveva la zampetta viola. Ti avevo spiegato che lui aveva la zampetta viola perché la mamma, nel metterlo al mondo, aveva provato una tale gioia che le era scoppiato il cuore cosi che, priva di sensi, si era accasciata sulla sua zampina procurandogli un piccolo livido. Ed io, girando per la campagna alla sua ricerca, lo avevo riconosciuto proprio da quella
macchietta sulla zampina. L'avevo ritrovato felice e contento, accanto ad una gallinella che amorevolmente lo spiumettava. Ma, quando mi ero avvicinata per prenderlo, ero stata fermata dalle urla disperate di un contadino: "Oh no! Signora, per carità non porti via Nicola alla gallinella, ne morirebbe di crepacuore. Sa, era così triste prima del suo arrivo, perché non aveva pulcini. Non mangiava quasi mai e piangeva tutto il giorno, ma, da quando é arrivato Nicola, é irriconoscibile. Lo accarezza, gli prepara delle pappe meravigliose, lo lava, ed a volte la notte dimentica di andare a dormire per guardarlo. La prego signora, questa é la sua mamma del cuore, e Nicola é felice con lei. Lo lasci qui!!”. Cosi ti sei rassegnato, commentando che anche tu non avresti mai lasciato la tua mamma del cuore per nessuna ragione al mondo, neanche per... una montagna di bigbubble. Ci siamo abbracciati forte forte, il tuo carattere pieno di risorse e di entusiasmo aveva subito scacciato via la tristezza. Questa é sempre stata una tua caratteristica inconfondibile, l'adattabilità che ti fa sentire felice e vincente in qualsiasi situazione. Quando desideri una cosa ti batti per averla, ma se non la ottieni l'obiettivo si sposta in altre direzioni, senza alcun cruccio o abbattimento. A scuola Allo scoccare dei sei anni, hai varcato la soglia dell'Istituto Massimo insieme a Giovannino. Avete avuto due maestri molto bravi, ma molto diversi. II tuo é il maestro Fragapane chiamato anche Fregapizza o Keep-bread, un
padre di famiglia, buono e paziente, che stenta a tenere a bada una scolaresca molto numerosa. Tra i tuoi compagni, Benedetti, Signorini, Guerra, erano particolarmente irrequieti. E ricordi la tua passione per Arioli, il tappetto che giocava benissimo a pallone? E Somma, l'amico dell'ultimo momento, ovvero il semper paratus. E Maroncelli, che sudava come una fontana giocando a rincorrersi per tutta la classe con Ciravegna, che lui ha soprannominato Cirafregna (questo gli é costato una nota sul diario). E Cristina Cavazza, la più brava, sempre molto compita, con una deliziosa sorellina che ti faceva dei sorrisini invitanti e ti regalava i bacetti di cioccolato. E ancora, Tomassini, se é possibile più svitato e fuso di te. Tu eri diligente e chiacchierone, ti chiamavano impiccione, oppure la mia suocera. Il pomeriggio era dedicato ai compiti e ad altre attività. Avevi iniziato a suonare il pianoforte con la Signorina Drago, poi avresti continuato con Padre Zaccaria (povero pizzinino!!). Contemporaneamente eri impegnato anche in tante altre nuove attività: il nuoto a San Paolo, e poi dalle suore di Nevers insieme a Giovanni, e l'inglese con la Signorina Bevilacqua. Intanto, le tue battute facevano il giro dei parenti. Me ne ricordo qualcuna, come quella su nonno Aldo al quale, poiché non era molto soddisfatto di essere andato in pensione, tu consigliavi di cambiare albergo. Oppure, alla notizia che Papa Luciani era morto, tu chiedevi preoccupato "Chi l’ha schiacciato?". E quando zia Doretta é stata operata al ginocchio, tu, incuriosito domandavi "Nella sala operatoria chi l’ha accompagnata sulla bara ?".
Il cavallo del gradasso Ma torniamo ai mesi estivi passati con nonna Carmela. Questa nonna rappresentava per te il paese di Bengodi. Filastrocche, giochetti, canzoncine si rincorrevano nella tua fantasia! Ricordi? Il cavallo del gradasso. All’alberi pizzuti. Donna Lombarda. Donna Pipirona. Fontana fontanella. Miao, la gatta si maritao. II mago Baruffo. La cicoria. Mazza bubú. Pizza ricotta. Pizzi pizzi tangoli. C'erano poi i giochi di carte: eri un vero biscazziere! Festa di compleanno I tuoi compleanni erano ogni volta delle feste indimenticabili. Ogni anno si disegnava una torta diversa: il mondo dei Puffi, le api e l'alveare un enorme campo di fragole, la margherita formata dai petali di mimose la barca dei pirati. E, per accogliere gli ospiti si preparava un cartellone che era tutto un programma. Tu, mascherato da cuoco, distribuivi i pop-com, e gli invitati erano intrattenuti a seconda dell'età, da Pulcinella o dal Mago (Padre Milan) o dai pagliacci, o da uno spettacolino di prosa o dai ragazzi scouts. I premi che distribuivi alla fine della festa erano sempre qualcosa di vivo, pesciolini rossi, pulcini. In seguito, dopo la vivace protesta delle mamme, diventarono delle piantine.
In crescendo Le elementari si erano concluse con gli esami di rito. Li hai affrontati e sostenuti brillantemente distinguendoti per la tua consueta incoscienza. Alla fine della scuola sei voluto tornare a Tropea, per ritrovare tutto quello che già conoscevi. Fu una settimana magica. Tu eri ormai indipendente, ma non del tutto privo di qualche dolce residuo infantile. Ed io osservavo la tua crescita con gioia e stupore, senza nostalgia del passato. Ero appagata dall'averti goduto tanto, tutto. Ed ero pronta a continuare. Crescendo con te, avevo l'impaziente curiosità di sapere: "E dopo, cosa succede?". La caratteristica di questo momento erano le lacrime in tasca. Infatti, quando una cosa ti disturbava ti difendevi piangendo. Eri, sei, tanto, tanto tenero.
La matassa d’oro Inizio della malattia Avevi vent'anni. Quel dolorino alla spalla sinistra, comparso dopo l'ultimo brevetto di nuoto, sembrava fosse una banalità. Chissà perché mi ha insospettita fino a farmi insistere per una radiografia. Ecco la matassa d'oro. Quel filo invisibile, che ha legato tutti gli angeli che abbiamo incontrato sul nostro cammino, cominciava a svolgersi. La dottoressa Maria Cantonetti, vero grande medico, che con professionalità e amorevole tenacia ti ha seguito in tutto il tuo percorso, combattendo infaticabilmente accanto a te, é stata il primo angelo in cui ci siamo imbattuti. Anzi no, forse é il secondo. II primo é stato il radiologo del San Raffaele che, di sua iniziativa, senza prescrizione del medico, ha scoperto una massa nel torace, per pura intuizione. La sentenza definitiva di tumore del sangue é arrivata il ventitre febbraio del 1996. L'esplosione nella mia testa era mascherata dall'atteggiamento di coraggio che dovevamo per forza assumere, per affrontare un nemico tanto feroce quanto subdolo. Ma il corto circuito lo vivevo da sola, svegliandomi di soprassalto alle tre di mattina, uscendo di casa e ritornando solo sul fare del giorno. Giravo nella città vuota cercando luoghi ampi dove gridare a squarciagola, dove singhiozzare ed inveire. Poi, quando le corde vocali si erano arroventate e le lacrime esaurite, correvo verso casa, con il
terrore che qualcuno si fosse accorto di queste mie strane e misteriose assenze. Iniziarono i cicli di chemioterapia, ognuno suggellato da una torta di Cristina, da un CD di Federica, e da un pranzo di fine chemio con tutti gli amici. Nell'accompagnarti in ospedale, tu cosi bello, cosi giovane e prestante, venivo colpita dal vedere un esercito di persone tutte uguali: senza capelli, senza sopracciglia, con il viso gonfio e di uno strano colorito grigiastro. Per Oppo non sarà cosi, pensavo in silenzio. Alla grande La trasformazione sarebbe avvenuta lentamente ma inesorabilmente, e tu la dominavi con la tua solita ironia, aiutando papà e me a vivere questa esperienza grandissima accanto a te. I dodici cicli di chemioterapia iniziali, somministrati in day hospital, erano stati alleviati dal regalo della tua amatissima BMW, e dalla corona di amici e cugini che sempre ti scortavano. Intanto la radioterapia cominciava. Quando finalmente si concluse, eravamo alle porte dell'estate e decidemmo di andare in montagna. Contavamo che l'aria sottile, la compagnia dei cugini ed una alimentazione attenta ti avrebbero aiutato nella ripresa. II tuo umore era sempre alla grande. II tuo fisico, robusto e possente, pareva che non fosse stato minimamente scalfito dai veleni ingeriti.
Sembrava quasi che fosse stato tutto un brutto sogno, tanto che, per gratitudine, sentimmo il bisogno (fosti proprio tu a proporlo) di partire per Lourdes con il treno bianco. Per te e papà sarebbe stata la prima volta, ed io avrei rivissuto attraverso il vostro turbamento quello che per me era un dejá-vu. Infatti avevo spesso prestato la mia assistenza ai malati in pellegrinaggio. A Lourdes tu incontrasti una ragazza pulita, fresca, spontanea, con la quale hai percorso una parte importante dei tuoi ventun anni. La vita sembrava aver ripreso i suoi ritmi normali. I controlli, rigorosamente osservati, confermavano la remissione della malattia. Un anno dopo Era passato un anno, e tu avevi programmato di partire con gli amici per un'isola greca. Tutto era pronto: prenotazioni, valigie, provviste, passaporto. Stavi provando la gioia per i preparativi di una gioia, quando ti chiesi, ancora una volta forse per un inconscio presentimento, di fare un controllo prima di partire. Con l'equilibrio che ti contraddistingue, avevi voluto sostenere ed avevi superato due esami importanti all'Università. La visita medica era prevista per il giorno prima della data di partenza. Ricordo ancora il tuo viso mentre Maria Cantonetti ti comunicava che si doveva ricominciare. Eravamo nel soggiorno, telefonavi per disdire i vari appuntamenti. Poi sei andato silenziosamente in camera per disfare le valigie.
Papà ed io cercavamo goffamente di trovare argomenti consolatori, e tu sei venuto in nostro soccorso: con la tua forza ed il tuo coraggio: "Avanti, quando iniziamo? Prima si comincia, prima si finisce. Gli fa una sega la chemio all'Uomo Ragno!!". Hai commentato così quella terribile notizia che ci aveva investito come una valanga. Ci stavi già insegnando che non avremmo dovuto arrenderci mai. Piccoli giganti Questa volta peró non si trattava di affrontare una normale chemio, ma il trapianto di midollo che richiedeva un lungo ricovero, prima in reparto, e dopo in terapia intensiva. Era il quattro agosto del '97. Tu entravi in ospedale da paziente, io da crocerossina. Avevo chiesto ed ottenuto la possibilità di starti accanto con il patto di assistere anche gli altri malati. Suor Clara ci ha accolto nel suo reparto. Un altro angelo ci veniva incontro nel nostro percorso. Non é stato facile, per la mia congenita prevenzione nei confronti delle suore, capire che sotto quel vestito bianco c'era un piccolo gigante. Ma lei, come un'ape industriosa, lavorava in silenzio, con la forza della sua terra, l'Abruzzo. Era evidente che per suor Clara non esistevano esigenze di primari, di dottori, di parenti, che potessero interferire con l'assistenza dei malati, ai quali dava tutta sé stessa con dedizione, competenza e amore assoluto. II suo lavoro, durissimo, va dalla preparazione di una camomilla, alla somministrazione delle chemio, alla contrattazione
con il personale e l'amministrazione, al pronto intervento negli impianti, alla medicazione di piaghe particolarmente difficili. Suor Clara Suor Clara si prestava sempre generosamente, provvedendo a tutto di persona. Anche al taglio dei capelli. Che differenza fra quello del barbiere, costellato da domande curiose o da frettoloso pietismo, e quello di Suor Clara, fatto di gesti sensibili, affettuosi, attenti, quasi sacrali. Lei ha conosciuto tante volte il dramma dell'individuo che in quel momento perde la sua identità. Sgomenti, l'uomo o la donna si sono guardati allo specchio dopo aver visto il cuscino cambiare colore. La vedevo accorrere a quel richiamo accorato, frutto di un'angosciosa decisione. E si presentava sorridendo, con le forbici, la macchinetta, ed il lenzuolo immacolato. Sempre sorridendo, con gesti amorevoli accompagnava le ciocche che cadevano come piumini. II breve rito si svolgeva dolcemente, in un clima simile a quello di una cerimonia d'investitura. Alla fine spariva, stringendosi al petto il lenzuolo come se contenesse un piccolo grande tesoro. Potrei continuare all'infinito a parlare di Suor Clara. Dirò soltanto che osservando la mia tensione, il mio smarrimento, la mia rabbia, mi ha suggerito la preghiera difficile: "Signore ti ringrazio per questa prova che ci hai dato". Tu, Oppo adorato, mi hai insegnato come si fa. Questi quattro mesi, trascorsi chiusi in ospedale, ci sono serviti per fare un meraviglioso viaggio dentro noi stessi e scoprire la ricchezza del silenzio.
II tempo... il tempo. I primi giorni sembrava che non passasse mai. In realtà, in noi c'era ancora l'abitudine alla realtà esterna, ai tempi contratti della pubblicità televisiva, del clic al computer, dei fax negli USA. Ma ormai ci stavamo riappropriando del tempo umano, e stavamo cominciando a vivere pensando, e cercando di capire. Tu parlavi molto ed io imparavo da te. Anche questo doloroso periodo d'ospedale serviva, ancora una volta, a capire che eravamo di fronte ad un gigante di coraggio e di forza. Perché non rinunciavi mai alla tua sorprendente, incredibile ironia fatta di battute allegre e di scherzi. Eravamo entrati in ospedale in agosto, siamo usciti a dicembre. Le stagioni si avvicendavano, ci stavamo abituando a contare alla rovescia: meno tre, meno due, meno uno... La dottoressa Maria Ho parlato poco della dottoressa Maria Cantonetti, perché non appariva nella nostra quotidianità. Maria, come un Deus ex machina dell'antica Grecia, interveniva sempre al momento giusto, con una professionalità ed una passionalità veramente rare. Non appena fu constatato il fallimento del trapianto, il suo tempismo e la sua intuizione furono determinanti nello spingerci ad andare a Houston. Eravamo nel febbraio del '98. Maria ti era sempre rimasta accanto, e nella sala operatoria del St. Luke Hospital aveva rassicurato l'equipe chirurgica che le dita arricciate dei tuoi piedi non erano un sintomo preoccupante, ma soltanto una tua curiosa caratteristica.
Tu avevi superato l'intervento al mediastino, a torce spalancato, con la solita disinvoltura. Appena il giorno dopo, eri già in piedi e camminavi, e rincuoravi tutti con i tuoi famosi sorrisi. Insomma, fisicamente eri il solito toro e, ciò che più conta, anche psicologicamente. Dunque, ci sentivamo pronti ad affrontare la chemioterapia che ti aspettava. Ma ecco un'altra doccia fredda, dopo l'intervento, alla TAC di controllo, si scoprì un'altra localizzazione al rene sinistro. II tuo sgomento durò soltanto pochi minuti. Maria ed il dottor Cabanillas ti assicuravano che i programmi non sarebbero cambiati, e tu ti consolavi sparandoti una bistecca texana con patatine. Si ricominciava con la chemio. Qui a Houston eravamo assistiti amorosamente da Pieretta e da suo figlio Alessandro. Pieretta Si potrebbe sicuramente scrivere una sceneggiatura cinematografica sull'esistenza di Pieretta. La sua è una vita talmente densa di avvenimenti forti, che ne basterebbe una metà per esaurire la vena narrativa di un incallito scrittore. Moglie di un bravo ed intransigente medico romano, con tre figli ed una laurea in medicina in tasca, trentotto anni fa decideva di lasciare l'Italia e partire alla volta degli Stati Uniti. La città designata per l'approdo di questa famigliola italiana era Houston. Qui erano nati altri due figli e, tra un biberon ed una gestazione, Pieretta aveva maturato la specializzazione in radiologia nel prestigioso Baylor
College. Le erano stati affidati due importanti ospedali: il Veteran Hospital ed il Ben Tob. Conservando con fierezza, ed una puntina di gusto snob le sue radici italiane, aveva educato i suoi cinque figli alla cultura ed alla tradizione del bello. In casa si era continuato a cucinare rigorosamente italiano, ad ascoltare la musica italiana, e lei non aveva mai smesso lo stile sobrio ed inconfondibile della signora bene italiana. La sua vitalità é a trecentossessanta gradi, spazia da selezionate attività mondane alle responsabilità professionali dei dipartimenti di radiologia in due ospedali. Senza trascurare la conduzione personale di una casa e di un giardino impegnativi. Ma non basta. Pieretta ama viaggiare, e spesso se ne va in giro per il mondo, sempre con itinerari inconsueti. Gli ultimi due viaggi che ricordo sono lo Zimbawe e l'Iran Giaiva sopra l'Australia. La sua qualità più straordinaria é lo spirito con cui accoglie tutti gli italiani che, smarriti, arrivano nella città di Houston per curarsi. Allora si scatena, regalando i sapori dell'Italia con le sue lasagne fatte a mano. E li guida, e li assiste nel labirinto degli ospedali americani, sempre mettendo a disposizione la sua casa, la sua macchina e la sua professionalità. Tutto questo per noi é andato avanti sei mesi. Durante tutto questo tempo siamo stati accolti in allegria e senza formalismi, non soltanto noi tre, ma addirittura tutti gli amici e parenti che venivano a trovarci. Ne ho contati ventotto, e tutti hanno avuto la stessa straordinaria accoglienza. L'aria che aleggiava da Pieretta non era quella della dama benefica, bensì quella della persona libera, che metteva a disposizione degli
amici tutto quello che aveva, sempre conservando la propria libertà e rispettando quella degli altri. Non ci sentivamo trattati da ospiti, ed eravamo a nostro agio come se fossimo i padroni di casa. Quando, durante il mese di agosto, avevo visto arrivare contemporaneamente nove persone, e timidamente avevo azzardato l'ipotesi dell’albergo, Pieretta mi aveva fulminato con una risposta rapida ed inequivocabile: "Voi italiani siete troppo complimentosi! E' incredibile, vuoi capire che per me é un sottile egoismo?”. Vivendoci insieme, ci siamo accorti che questa amica straordinaria fa tutto ciò che può per aiutare gli altri, senza dare la sensazione di aiutarli. Non vuole ringraziamenti. Nella sua vita superimpegnata, lei dice che si comporta così per sentirsi gratificata, perché cosi facendo riceve in dono la gioia del donarsi. Se, ogni tre anni circa a Houston cambia il console italiano, in realtà tutti noi sappiamo bene che il nostro vero console é lei. Un altro angelo incontrato lungo il nostro cammino. II suo contributo per Oppo é stato essenziale. Grazie Pieretta. Ospedale a casa Tornati a Roma, ti rifiutavi fermamente di rientrare in ospedale. E' stato allora che Maria Cantonetti decise di diventare il tuo ospedale a casa. Da vero angelo, si sottoponeva a tours-de-forcel’spaventosi. Ogni notte, per poterti preparare e somministrare la chemioterapia, restava con te fino alle quattro o alle cinque di mattina, e poi, con un caffè in flebo, affrontava la sua mattinata di lavoro in ospedale.
Quante volte l'ho svegliata quando, con la televisione accesa, crollava sul divano in posizione artistica, e quante volte, con gli occhi pieni di gratitudine, ho visto la tua manona carezzare la sua. Intanto tu continuavi imperterrito la tua vita di studio all'Università, di lavoro al centro sportivo, di relazione con gli amici. E la sera non rinunciavi ad uscire con loro. Papà ed io ti osservavamo esterrefatti ed orgogliosi della tua forza fisica e psicologica, che era diventata per tutti un esempio, un grande esempio per imparare da te la lezione della vita. Sorridendo commentavamo insieme che la tua storia poteva essere paragonata ad una partita di Monopoli, o al gioco dell'Oca. Si tirano i dadi e puoi avanzare di due caselle, o retrocedere di tre, oppure stare fermo un giro. Alla fine dei cicli di chemio abbiamo festeggiato alla grande con un soggiorno a Tropea, cugini ed amici al seguito. Mi riservai una vacanza speciale tutta per noi sulla costiera amalfitana. Papà ci raggiunse dopo una settimana per portarci sulla costa Azzurra. La preoccupazione di quanto ci aspettava non sciupò la bellezza di quei giorni. Tu soprattutto ne godevi gioiosamente e ci contagiavi con il tuo entusiasmo e ci mostravi il solito coraggio. Si stava approssimando un'altra operazione, questa volta al rene. Maria Cantonetti con intuizione e tenacia perseguiva il suo scopo, benché ostacolata da tutti, compreso lo staff americano. Come sempre, la sua intuizione era giusta, e tu reagivi da quel toro che eri, diffondendo amorevole allegria tra tutti quanti ti avvicinavano. Stavano per asportarti il rene sinistro e, alla tua giusta e sacrosanta domanda al chirurgo, di quali avrebbero potuto essere le conseguenze, avevi sorriso nel sentirti rispondere, con il tuo stesso
umorismo, che da quel momento non avresti potuto più donare un rene!!! Superato l'intervento, avevamo meritato ancora una bella vacanza a Tropea. Bisognava fare scorta di energie per la prossima chemio. II sette agosto era nato il piccolo Andrea. Ma tu eri agli arresti domiciliari per i valori bassi, ed io con te. Aleggiava un po' di tristezza. Passerà. Per la terza estate non avevi potuto fare programmi. Ma i tuoi amici erano solidali con te, ed erano tutti restati in zona. Gioco d’azzardo Per rifarci, in ottobre ci siamo regalati un indimenticabile viaggio sul lago di Garda, con tappa a Sirmione. E poi a Venezia. Al casinò ti sei scatenato giocandoti le date delle operazioni e delle chemio, e vincendo cifre ragguardevoli. Papà ci ha raggiunto per concludere a San Marino, tutti e tre insieme, questa magica vacanza strappata allo scadenzario dei controlli TAC, degli emocromo, e dei cicli di chemio. La resistenza dei tuoi ventitre anni continuava lietamente a sorprenderci, e noi, con il fiato corto, faticavamo a stare dietro al tuo entusiasmo giovanile. Ma, inesorabilmente riprendeva il conto alla rovescia: meno sei, meno cinque, meno... Stava per arrivare il Natale e tu desideravi partire per Cortina, subito dopo la tradizionale festa a casa di nonna Piera. Lì avresti ritrovato Milvia, Federica e Renato e saresti stato avvolto, come in una calda sciarpa di cashemere, da tutto il loro amore misto a trepidazione.
Come regalo specialissimo hai avuto un appuntamento con foto con il tuo adorato Mancini, l'idolo della squadra del cuore, la Lazio. Tra varie chemio e vari controlli siamo arrivati al febbraio '99. Abbiamo deciso di tornare in montagna con Maria Cantonetti e le bambine. Lei era molto provata dalla morte del suo papà e molto stanca per l'assistenza al suocero. II soggiorno alle Orsoline fu salutare per tutti ma non per te, che accusavi un nuovo dolore allo stomaco che non ti permetteva di ingerire nulla. Appoggiàti a papà Eravamo rientrati subito. Era ricominciata la dolorosa trafila degli esami. Quando di nuovo si accese un altro allarme, io restai pietrificata. Sentivo il cervello scoppiarmi nella testa, e percepivo tutti i messaggi esterni ovattati e temporalmente in ritardo. Mario invece era straordinario. Immediatamente aveva inviato una e-mail a Cabanillas, aveva telefonato a raffica a Pieretta, aveva spedito le TAC negli USA, ed aveva preso appuntamento con il cardiologo. Mi aggrappavo a lui che sembrava infaticabile. Di notte cercava su internet tutto ciò che era stato pubblicato sulle nuove terapie in tutto il mondo. Si metteva in contatto, mandando la tua storia clinica, con tutti i più grossi centri del mondo, e poi stampava senza tregua la documentazione sulle nuove ricerche, per sottoporle a Maria.
Grinta con rabbia Tu, stranamente, dopo il mese di nausea, dolori, grande prostrazione ed abbattimento, alla notizia della ripresa della chemio eri come resuscitato, ed avevi ripreso a mostrare la grinta di prima, anche se adesso parlavi di rabbia. Grazie all'amico Vincenzo eravamo riusciti ad avere i biglietti per andare ad Ancona a veder giocare la Nazionale di calcio. Avevamo raggiunto lo stadio tutti insieme, con te al volante. E lì, dopo quattro ore di guida, come se non bastasse, dopo la partita eri voluto andare in discoteca con i cugini. La mattina dopo eravamo ripartiti per Roma dove stavi continuando il ciclo di chemioterapia, come se fosse coca-cola. La tua carica era straordinaria e nel vederti così reattivo, positivo, determinato e vincente, prendevamo fiato. Ma solo per poco. Si stavano affacciando alla gamba dei dolori fortissimi, che non erano tenuti a bada neanche dai più forti analgesici. Vederti soffrire era straziante. Sentivo di scivolare in un pozzo con le pareti lisce. Non potevo permettermelo, quindi cercavo disperatamente un sacerdote, un analista, qualcuno che potesse sostenermi. Lo avrei trovato, in certi momenti anche impazzire é un lusso, non potevo permettermelo. Maria di Catanzaro Fin da bambino eri affettuosamente devoto a Padre Pio, forse perché ne avevi sentito molto parlare in famiglia. Zio Adolfo raccontava spesso di averlo sognato durante una sua malattia. Allora si era recato a San Giovanni Rotondo, dove aveva constatato che la piazza e
la chiesa erano proprio come le aveva sognate. E il santo frate, incontrandolo, gli aveva detto: "Ti aspettavo, perché hai tardato?". Ed era miracolosamente guarito. Tutto questo doveva avere avuto un impatto importante nella tua vita. Certo é che il tuo Padre Pio ti ha accompagnato in molti episodi significativi. All'inizio del '99, si affacciò nella tua vita una signora che diceva di essere un figlia spirituale di Padre Pio. Ti aveva telefonato da Catanzaro ed avevate parlato a lungo. Io osservavo, e notavo che dialogavi volentieri con lei. Nel giorno della beatificazione del frate di Petralcina, il due maggio, tu, che desideravi molto assistere alla cerimonia, grazie allo zio Adolfo avevi ottenuto un posto d'onore per godere in pieno tutta la funzione. Ma quella stessa notte eri stato malissimo. E la mattina seguente, dopo una TAC d'urgenza, avevamo scoperto che il linfoma si era ingrandito, e ti procurava quei dolori insopportabili premendo contro lo stomaco. E' stato allora che ti ho investito con una frase rabbiosa: "Ma, come? II tuo Padre Pio non funziona, mi pare!! Ieri sei stato alla sua beatificazione, e questa notte si sono scatenati i dolori". Tu mi fissavi con quei tuoi grandi occhi profondissimi: "Certo mamma che Padre Pio funziona - rispondesti - ci ha fatto capire che dobbiamo lasciare l'Italia e andare negli Stati Uniti. Lì qualcosa succederà". Ancora uno sportellino si era spalancato per farci leggere la tua grandezza. Disarmata da tanta fede, ed umiliata dal coraggio che avrei dovuto infonderti io, quasi non mi ero resa conto che papà già stava progettando la partenza immediata. Velocemente, tra preparativi convulsi, arrivò la domenica prima della partenza. La casa era invasa da amici e parenti che desideravano
salutarti. Nel tardo pomeriggio suonò alla nostra porta Maria di Catanzaro. Era venuta dalla Calabria anche lei per salutarti, e chiedeva di parlare con te in privato. II colloquio durò circa un'ora e, quando finì, io mi accorsi che i tuoi occhi erano velati e la tua mano destra stringeva una piccola croce di legno. Te l'aveva affidata lei, raccomandandoti di afferrarla nei momenti di dolore. Poi chiese di parlare con noi. Gli amici intanto giravano per la casa ed il giardino, alcuni prendevano commiato, altri erano appena arrivati. II telefono era bollente. Comunque, ci chiudemmo con Maria nello studio di papà, e ascoltammo impietriti. "Voi avete un Cireneo dentro casa - disse - Oppo sta aiutando Gesù a portare la croce". "Perché? - la interruppi subito - Non basta ancora? Perché? Perche? Fino a quando?”. Mi rispose con voce suadente ed il viso illuminato dalla fede, che non avremmo dovuto fare domande ma soltanto rimetterci totalmente alla volontà di Dio. La mia reazione fu violenta. Noi desideravamo fare la volontà di Oppo che era giovane e voleva vivere, e stava lottando per questo. Noi avremmo lottato al suo fianco, e avremmo chiesto, bussato, pregato, finché il Signore non ci avesse esaudito. Lei dolcemente ci ricordò la storia di Abramo che aveva offerto a Dio il suo unico figlio, ed era stato premiato per la sua grande fede. Cosi, con uno sguardo trasparente, pose fine al nostro colloquio, ma da parte nostra sussisteva qualche tensione.
In volo La dottoressa Cantonetti ci aveva informati che le opzioni terapeutiche in Italia erano terminate, partivamo per tentare di salvarti la vita. Questa volta peró la nostra premurosa amica non poteva accompagnarci, e delegava a me la responsabilità della terapia del dolore durante il viaggio. Ogni notte, prima della partenza, avevo ripassato la sequenza delle azioni con meticolosità ossessiva. Per tenere a bada un dolore medio, potevo far scendere la flebo lentamente, ma, per alleviare una violenta sofferenza, avrei dovuto spingere il farmaco, appena diluito, direttamente in vena. Temevo l'avventura di questo viaggio, perciò avevo fatto in modo di arrivare m aeroporto immediatamente dopo la somministrazione, così che tu potessi affrontare tranquillamente le tante ore di volo. Ed ecco il primo ostacolo: il mio passaporto era scaduto. Non restava che tornare indietro di corsa, ed invocare aiuto. L'insostituibile amico Alessandro, superando qualsiasi Guinness dei primati, riuscì ad ottenermi un nuovo passaporto in dodici minuti. Ma ormai bisognava di nuovo somministrarti l'antidolorifico per l'imbarco, fortunatamente era accorsa Maria Cantonetti ed aveva provveduto lei stessa. Affannosamente tornammo a Fiumicino, scortati dalle sirene della polizia, e l'Alitalia ti accolse in classe magnifica, con sensibile partecipazione e discrezione. Avresti viaggiato con ogni confort. Ma, durante l'atterraggio, ti lamentavi per il dolore che si stava risvegliando, ed io penavo, a causa dell'enorme siringa, ad iniettarti direttamente in vena il farmaco prezioso datomi da Maria.
Malgrado tutto, eravamo arrivati abbastanza riposati. Ma l'aeroporto John Fitzgerald Kennedy era un inferno. Avevamo perso e poi ritrovato tutti i documenti e il denaro. La Delta che ci portava fortunosamente a Houston era scomoda, e le hostess sgarbate. Tra tanti affanni, eravamo arrivati a Houston tra le braccia di Pieretta e Alessandro. Ci sembrò di aver raggiunto l'Eden. Durante il periodo della tua cura saremmo stati da loro.
M. D. Anderson Hospital Proverò a descrivere il grande ospedale che ti accolse. I numeri sono imponenti: cinquemilaottocento tra medici e infermieri, e duemilacinquecento pazienti ricoverati. Sono arabi, sudamericani, europei, orientali, appartengono alla religione mussulmana, protestante, buddista, cattolica, indù, e possono approfittare dei relativi luoghi di preghiera. La struttura dispone di traduttori per tutte le lingue e di ministri per tutte le religioni. All'interno, per il paziente, trattato come un vero re, c'é tutto quello che é umano desiderare: parrucchiere, caffetteria, sala computer, fax e fotocopie, bazars, centro di ascolto spirituale, sala per intrattenere i bambini corredata di cento giochi con tanto di educatrice a disposizione. Ed inoltre, la sala per riposare tra una visita e l'altra, con servizio continuo di ristoro. E atri enormi (ne ho contati quattro), con un pianoforte a coda, delle bellissime piante, un banchetto con bibite calde e fredde, per distrarre ospiti e visitatori. E ancora, la biblioteca, la cineteca, un centro per suonare od ascoltare musica in cuffia. Tutti i servizi sono gratuiti. Un esercito di volontari, quasi tutti ex ammalati, offrono un prezioso supporto a chi, spaesato ed impaurito, sta soggiornando all'interno dell'ospedale. Dunque eravamo veramente seguiti nel migliore dei modi, e tuttavia ci sentivamo sempre sollecitati a dominare le oscillazioni del nostro stato d'animo.
Con la mia mentalità europea, trovavo molto singolare l'approccio alla malattia. Infatti, ogni malato è visto come il protagonista della sua storia che si incentra sulla lotta combattuta giorno dopo giorno. Mi colpiva il nome dell'ospedale M. D. Anderson completato dalla scritta Cancer Center, come se si trattasse di uno Shopping Center. Mi sembrava stupefacente che le parole Cancer Center fossero stampate in bella mostra su magliette, felpe, cappelli, borse, e corredate dallo slogan making cancer history (io sto facendo la storia del cancro). Era una strategia per esorcizzare la sofferenza, imponendo alla situazione un tocco di leggerezza, che non sempre mi sentivo di condividere. Ma apprezzavo che i malati fossero liberi di muoversi per l'ospedale, portandosi dietro i loro alberelli per le flebo e le sacche delle chemio. Ci rallegravamo a curiosare tra ambienti vivacizzati da pupazzi, decorazioni natalizie o pasquali, oppure dalle zucche per la festa di Halloween, come dai tacchini tradizionali per il pranzo del giorno del ringraziamento. Più in fretta di quanto avremmo potuto immaginare, avevamo imparato a ricambiare il sorriso di medici e infermieri, sempre sorridenti benché costantemente impegnati a coinvolgere al massimo il paziente con la spiegazione di ogni particolare della malattia e della sua gravità. Senza mai fargli mancare l’incoraggiamento di un intero staff medico e paramedico che sta combattendo il nemico al suo fianco. E ancora, mi colpiva favorevolmente il museo dell'ospedale dove, oltre alle illustrazioni sulla storia dell' M. D. Anderson, nato in una villetta nel lontano 1950, sono esposte fotografie con nomi e storie di pazienti che hanno combattuto e vinto il cancro.
Lì mi sorrideva il volto di una ragazza sportiva, che a ventitre anni aveva vinto una gara di corsa sui duecento metri, dopo aver sconfitto un linfoma non Hodgkin uguale al tuo. Tu eri il numero 375407. E ti vivevo accanto coltivando ostinatamente la speranza. Non volevo accettare che si facesse sempre più sottile, mentre tutti i medici ci toglievano ogni prospettiva di guarigione. Tutti meno uno,il direttore del dipartimento, il numero uno nel mondo, il nostro dott. Cabanillas. 375407 Cambiavi medico ogni mese, sempre peró con la supervisione del dottor Cabanillas, stimato come la persona più autorevole al mondo nel campo dei linfomi. L'avevamo conosciuto un anno prima, in occasione dell'intervento al mediastino, subito in un altro ospedale specializzato per il cuore, il St. Luke's. Lì si aggirano, come imbalsamati, Cooley e De Bakey, quest'ultimo addirittura si era fatto fare una statua, benché ancora vivente. II dottor Cabanillas é portoricano, un uomo di bassa statura, con baffi e pizzetto nero e due occhi che ti attraversano come un laser. Le prime volte che lo avevamo consultato era stato esauriente, ma secco: non un sorriso, non una parola di partecipazione, direi piuttosto distaccato. Commentavamo tra noi: questa é l'America, vanta la massima efficienza, professionalità ed organizzazione, ma non altrettanta umanitàì
Per noi non sarebbe stato cosi. Cabanillas resterà sempre nei nostri ricordi come un feroce nemico di questa maledetta malattia, coraggioso, audace e con una rara carica di umanità. Infatti, la sua difesa al coinvolgimento era serrata, come per proteggersi da una falla che nella diga comporterebbe lo sfascio. Ma, con te, Oppo, si era lasciato andare, restandoci accanto fino alla fine, e offrendoci i mezzi per combattere compatti contro questo invisibile nemico. Aveva inventato per te nuove miscele di farmaci, per ottenere la distruzione del linfoma. La sua intuizione era giusta, ed anche quando é intervenuta la terribile infezione da pseudomonas, il batterio mutante, con determinazione e perizia si é adoperato in mille modi per non lasciarti solo nella lotta. Gli altri medici ci guardavano con pietà. Ricordo il greco dottor Sarris che, già sei mesi prima, sadicamente ci aveva chiuso in una stanza dopo averci annunciato che non c'era più niente da fare. Ed ancora il mellifluo libanese dottor Yunits, che con sorrisi inopportuni, alle domande che noi facevamo, rispondeva evasivamente come uno dei medici di Pinocchio. E la messicana Maria Rodriguez, che aveva un figlio della tua stessa età e per questo motivo evitava di incrociare i nostri occhi. II dottor Cabanillas, non lasciava passare un giorno senza venire a visitarti. In una mattina di disperazione ero corsa nel suo studio ed accoratamente gli avevo chiesto di venire a vederti. Lui, trasgredendo al regolamento dell'ospedale, ci aveva accontentato e non fece mancare mai più le sue visite giornaliere. Tu aspettavi il suo arrivo insieme alla Comunione, come tappe importanti che scandivano la giornata. Ed anche lui si legava a noi ogni giorno di più.
I paladini a Huston Nel tempo dilatato delle giornate che si rincorrevano, pensavo all'amore che ti circondava e che tu ricambiavi raddoppiato. Nicola era il tuo paladino. Per fortuna, dopo un anno di palestra, sollevava con disinvoltura la carrozzina per evitarti il gradino della casa di Pieretta. Ma non basta. Una volta mi sono accorta che, dopo averti preparato una camomilla, te la raffreddava soffiandoci sopra, e te la porgeva con uno sguardo irripetibile. Maroncelli, che non aveva mai giocato a carte, aveva imparato la briscola e la scopa pur di distrarti dai numeri dell'emocromo, delle TAC e delle chemio. Pansa, che si improvvisava ménagere cercando di prepararti piattini succulenti per stuzzicare il tuo difficile appetito. Alessandro, che registrava in scomode ore notturne le tue amatissime partite di calcio. E zia Anna, zio Adolfo e Andrea che, non appena aperto il loro albergo di Porto Pyrgos, si precipitavano a venirti accanto. E zio Titta, che superando il suo innato pudore partecipava fischiettando ai tuoi lavaggi mattutini. E zio Stefano e zia Antonella, che hanno dormito nella sala d'attesa della terapia intensiva per tutto il soggiorno a Houston. E Piera, che ha lasciato a Roma il bimbo tanto desiderato per dodici anni. E Giulio, che ha cercato fino all'ultimo, con le sue squisite ricette, di conquistare il tuo appetito. E Militina, la tua tenera tata Militina, la tua confidente mattutina, che si é imbarcata in un viaggio cosi lungo, lasciando la famiglia, per venirti a viziare un pochino anche laggiù.
L’albero e i frutti Militina, appena arrivata, ti mostrò quatto bellissime mele, colte dall’'albero del nostro giardino. Già, il tuo albero, il tuo melo. Ti ricordi Adolfino, ti raccontavo che il giorno della tua nascita papà aveva voluto piantare in giardino un melo. Tu crescevi e l'albero ti seguiva. Quanti nascondini hai fatto dietro al suo tronco che ti copriva tutto! Quante pallonate hanno fatto cadere le mele giovani! Quante mattinate passate all'ombra discreta del suo largo fogliame, chiacchierando con nonno Nicola! Arrivarono i tuoi vent'anni. Tu ti ammalasti e, incredibilmente, anche il melo si ammalò. Noi non avevamo tempo di occuparcene, e tra una TAC e una chemio, ci eravamo raccomandati a Giulio, il giardiniere, di curarlo. E lui come un'abile chirurgo, aveva aperto il tronco a metà, scoprendo un grosso bruco che, all'interno, si nutriva della linfa vitale dell'albero. Allora aveva applicato un potente veleno, e il melo si era ripreso. Quante volte, vedendolo in fiore in questi tre anni, ho creduto che anche tu saresti rifiorito e finalmente avremmo potuto dimenticare questa brutta parentesi. Cosi, quel giorno, alla vista delle fantastiche mele che Militina ti aveva portato da Roma, anche se tu stavi molto male, avevo avuto la certezza della tua guarigione. La medaglietta sul cuscino Ricorderò sempre quel diciotto giugno, data del nostro trentesimo
anniversario di matrimonio. Il dottor Cabanillas ci aveva convocato per comunicarci che la terapia sperimentale, per la quale eravamo venuti dall'Italia, non aveva lavorato ed il linfoma si era ingrandito. Tu infatti eri molto provato dai dolori, dalla mancanza quasi totale di alimentazione, dall'impossibilità al movimento e da un preoccupante gonfiore agli arti. Cabanillas ci proponeva il ritorno in Italia, o una nuova chemioterapia piena di incognite, ma nei suoi occhi si leggeva la speranza. Accettammo la seconda soluzione poiché il ritorno in Italia non aveva per noi senso alcuno. Quella notte, come tutte la notti precedenti stringevo sotto il cuscino una medaglietta con l'incisione della Madonna del Miracolo. Un'amica, in cura qui a Houston da sette anni, me l'aveva regalata raccomandandomi di pregarLa intensamente. La mattina seguente, come tutte la altre mattine, la cercavo sotto il cuscino per attaccarla alla catena degli occhiali. Ma stranamente la medaglietta non era al suo solito posto. Sollevai le lenzuola, le coperte, il materasso... nulla. Eppure ricordavo perfettamente di averla tenuta stretta nella mano durante tutta la notte. Intanto stava arrivando la visita del dott. Cabanillas e non potevo perder tempo. Mi ero lavata e vestita in fretta e, quando mi chinai per infilare le scarpe, vidi brillare sotto il tuo letto, dunque ben lontano dal mio cuscino, la medaglietta della Madonna del Miracolo. Sorprendentemente, da quel momento, la situazione sembrò schiarirsi. Tu stavi riprendendo a mangiare, i dolori scomparivano, ricominciavi a camminare, gli arti si sgonfiavano, la nuova chemio stava attaccando per la prima volta il linfoma e lo avrebbe distrutto per un buon cinquanta per cento. Sembrava l'inizio della fine di un incubo.
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