La folle estate del cinema in Puglia

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La folle estate del cinema in Puglia
La folle estate del cinema in Puglia
Una volta era “Cinecittà” la capitale del cinema italiano; oggi possiamo definire la Puglia, la regina
incontrastata della settima arte. Set naturale, come pochi altri nel mondo, la Puglia è ormai da anni
oggetto delle attenzioni delle più grosse produzioni cinematografiche nazionali ed internazionali. Ma
mai come in questa estate, la nostra regione è stata presa d’assalto dal jet set cinematografico. E’ in
Puglia infatti, il meglio del cinema brillante nazionale, con produzioni che vedremo tra televisione e
cinema, tra l’autunno e il Natale prossimi.

E’ vero, il revival della Puglia come set cinematografico è un fenomeno avviato da anni e sempre in
costante crescita, ma quello che sta accadendo in questi giorni nella nostra regione, è qualcosa di
visto solamente a Roma e Napoli, in quelli che erano gli anni d’oro della commedia all’italiana (n.d.r.
La folle estate del cinema in Puglia
anni ’60 e ’70). Sul Gargano e nei dintorni si registra in questo momento un sovraffollamento di set.

Carlo Verdone è impegnato tra Salento e bassa costa barese con le riprese di Si vive una volta
sola, con Max Tortora, Rocco Papaleo e Anna Foglietta; mentre Sophia Loren è impegnata a
Trani per La vita davanti a sé, film diretto dal suo secondogenito Edoardo Ponti. Intanto Checco
Zalone, sta terminando le riprese della sua ultima chilometrica fatica, dal titolo Tolo Tolo, girato
tra Africa e Puglia: Massafra, Monopoli e Salento interno, le zone geografiche più toccate dall’attore
barese. Sono in Puglia anche Aldo, Giovanni e Giacomo, che hanno scelto la regione pugliese per
tornare insieme, dopo tre anni di assenza dai set cinematografici: le riprese del loro 12esimo film in
trio, dal titolo Odio l’estate, diretto da Massimo Venier, sono cominciate ad Otranto a metà
giugno e dureranno per circa due mesi. Fino al 29 giugno tra Nardò, Galatina, Acaya e San Vito dei
Normanni, con Claudio Bisio, Stefania Rocca, Pietro Sermonti e Dino Abbrescia si è girata la
serie Cops, prodotta da Dry Media per Sky e diretta da Luca Miniero, che racconta la vicenda di
una piccola cittadina di provincia nella quale da anni non si commettono reati e il cui commissariato
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è diventato quindi una spesa superflua.

A Taranto fino al 20 luglio tengono banco i ciak della fiction Rai Il commissario Ricciardi diretto
da Alessandro D’Alatri, con Lino Guanciale nei panni del commissario inventato dallo scrittore
napoletano Maurizio De Giovanni. Dall’inizio di giugno e fino al 6 luglio, tra Bari, Spinazzola e
Pulsano, c’è Salvatore Esposito, il Genny Savastano di Gomorra per le riprese del film drammatico
Spaccapietre di Gianluca e Massimiliano De Serio, prodotto da La Sarraz Pictures, Shellac Sud
e Rai. E in agosto, sbarca in Puglia anche una grossa e storica produzione hollywoodiana: James
Bond Daniel Craig con la sua nuova avventura farà tappa tra gli uliveti e le spiagge pugliesi, con
Taranto sede principale della maggior parte delle scene.

Insomma per la Puglia, per anni tagliata fuori dalle grosse produzioni nazionali e riscoperta
praticamente dalla commedia sexy all’italiana in poi (metà anni ’70), cinematograficamente è un
periodo d’oro, che sembra non avere fine. L’estate poi, dona alla regione, grazie alla bontà del suo
clima e ai colori paesaggistici unici al mondo, la luce naturale perfetta per essere invasa dalle grandi
produzioni cinematografiche. Qualcuno già anni fa si era accorto della grandezza cinematografica
della nostra Puglia, qualcuno che si chiamava Pier Paolo Pasolini, che diceva questo a proposito di
La folle estate del cinema in Puglia
Taranto, la quale tra tanti problemi sociali, è pur sempre la seconda città della regione:

     “Taranto brilla sui due mari come un gigantesco diamante in frantumi. Viverci è come vivere
 all’interno di una conchiglia, di un’ostrica aperta. Qui Taranto nuova, là, gremita, Taranto vecchia,
intorno i due mari e i lungomari. Per i lungomari, nell’acqua ch’è tutto uno squillo, con in fondo delle
 navi da guerra, inglesi, italiane, americane, sono aggrappati agli splendidi scogli, gli stabilimenti.”

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La Luna e il Cinema
Fin dall’antichità la Luna, il nostro fedele satellite, ha ispirato poeti e artisti, e come tale il Cinema
non poteva rimanere insensibile di fronte al fascino, alla magia, al sogno e al mistero che la avvolge.
La Luna ha un ascendente enorme sulla nostra fantasia e come tale ha avuto le sue esperienze
cinematografiche. Già dagli albori, il cinema si è interessato ad essa, e ben presto il rapporto Luna-
Cinema è diventato epocale. L’immagine del volto della Luna con una smorfia di dolore per la
navicella spaziale conficcata nell’occhio destro è da tempo diventata iconica, utilizzata per
pubblicità, copertine, manifesti eccetera. Si tratta in realtà di un fotogramma di un celebre film, Il
viaggio nella Luna di Georges Méliès del 1902, che possiamo considerare il primo film di
fantascienza della storia. Se i fratelli Lumière, gli inventori “ufficiali” del cinema, filmavano quasi
solo scene di vita reale fu il citato Méliès, uomo di teatro che si appassionò alla novità, a intuire che
il cinematografo poteva servire anche per una narrazione. Méliès è ricordato come “il creatore della
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spettacolo cinematografico”. Tra le tante pellicole da lui dirette e interpretate, tutte di argomento
fantastico, Le voyage dans la Lune è il più importante e celebrato: fu un grande successo
internazionale, tanto che sembra persino che le sale cinematografiche siano nate proprio per poterlo
proiettare, mentre in precedenza si utilizzavano i teatri di prosa. E’ chiaramente ispirato al
romanzo Dalla Terra alla luna di Jules Verne in tutta la prima parte, quella relativa alla
progettazione, alla costruzione e al lancio della navicella, mentre la seconda parte è dovuta
all’immaginazione del regista. Ricordiamo infatti che nel romanzo di Verne, e nel suo
seguito Attorno alla Luna, i terrestri non arrivano sul nostro satellite, mentre nel film di Méliès vi
atterrano, si scontrano con i sui abitanti che non sono amichevoli ma per fortuna possono essere
sconfitti a colpi di ombrello, poi tornano indietro semplicemente lasciando che la capsula spaziale
“cada” verso la Terra, dove sono accolti con grandi onori. Per l’epoca il film può considerarsi un
kolossal: vi erano una quantità di comparse, tra cui le ballerine del corpo di ballo dello Châtelet e gli
acrobati delle Folies-Bergère, e la sua durata, che pare in origine fosse di ventuno minuti mentre le
copie oggi rimaste sono di quindici, era notevole; alcune copie furono colorate a mano (oggi ne
sopravvive solo una). In effetti è un tripudio di inventiva, effetti speciali, costumi sfarzosi.

Questo successo diede ovviamente impulso alla cinematografia lunare e già nel 1908 vi fu un
secondo viaggio con Excursions dans la Lune dovuto a Segundo de Chomon, altro cineasta
famoso all’epoca e che aveva lavorato con Méliès, che per la verità è un vero e proprio plagio del
film precedente – anche se allora il concetto di plagio non esisteva – perché ne segue
pedissequamente tutta la messa in scena, differenziandosi solo per gli effetti speciali, forse un po’
più tecnici ma meno immaginifici. Lungo tuttavia solo 7 minuti, ha qualche piccola differenza: la
navicella spaziale non colpisce l’occhio della Luna ma vi entra in bocca, e i terrestri sono ben accolti
dai seleniti con un balletto e lasciati ripartire tranquillamente. Dopo un altro film dallo stesso titolo,
ma in inglese: A Trip to the Moon, nel 1914, del quale non si sa niente perché è perduto, è la volta
del romanzo di Herbert George Wells I primi uomini sulla Luna a essere trasposto per il cinema
nel 1919 dagli inglesi Bruce Gordon e J.L.V. Leigh. Anche questo The First Men in the Moon è
oggi perduto ma ne sono sopravvissuti alcuni fotogrammi e rimane una recensione dalla quale si
capisce che è abbastanza fedele al romanzo, sia pure con l’aggiunta di una storia sentimentale e di
un lieto fine. La Luna di queste opere è descritta come dotata di atmosfera anche se molto rarefatta,
di acqua e di rare piante, e abitata da una popolazione molto evoluta che vive nel sottosuolo. Di
tutt’altro avviso è Fritz Lang, che dieci anni più tardi descrive una Luna deserta e inospitale ma
ricca di oro, che è il motivo per il quale viene organizzata la spedizione. Tratto da un romanzo
dell’anno prima di Thea von Harbou, sceneggiatrice allora moglie del regista, Una donna sulla
Luna è l’ultimo film muto di Lang e probabilmente anche il più brutto di un regista che con I
Nibelunghi e Metropolis aveva filmato due assoluti capolavori. Al di là della risicata trama, è invece
azzeccata l’accuratezza scientifica dei dettagli del volo, per i quali il regista si era rivolto a due
pionieri della missilistica, Willy Ley e Hermann Oberth, i cui calcoli furono così accurati e
talmente simili ai progetti reali dei razzi V1 e V2 che la Gestapo alla fine della Seconda Guerra
Mondiale li fece sparire. Altro particolare curioso è che fu in occasione di questo film che venne
inventato il “conto alla rovescia” poi divenuto abituale in occasioni di lanci spaziali e in tante altre.

Con questo film si chiude il periodo del cinema muto e per avere un altro film “lunare” si dovrà
aspettare il dopoguerra, esattamente il 1947, quando si gira un film messicano, Buster Keaton va
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sulla Luna. In realtà si racconta di un poveraccio che finisce per sbaglio in un razzo ed è convinto di
essere atterrato sul nostro satellite, dove trova degli esseri identici a noi ma dal comportamento
molto bizzarro: il razzo ha fatto solo un breve volo ed è rimasto sulla Terra, per cui la conclusione di
questa commedia satirica, non molto ben riuscita e con il celebre attore ormai decaduto, è che i veri
“alieni” siamo noi stessi. Una vera – sempre in senso cinematografico, dove intanto è arrivato l’uso
regolare del colore – spedizione sulla Luna si ebbe poi nel 1950 con Uomini sulla Luna, film dallo
stile quasi documentaristico e molto accurato dal punto di vista tecnologico: non a caso i consulenti
sono gli stessi di Die Frau im Mond, ossia gli ingegneri spaziali Hermann Oberth e Willy Ley, dopo
la guerra emigrati in America. La storia è tutta concentrata sull’impresa del viaggio extraplanetario,
dell’esplorazione del nostro satellite e del problematico ritorno sulla Terra, senza avventure strane e
persino con l’assenza di qualsiasi storia personale o sentimentale che coinvolga gli astronauti (per
una volta Hollywood fa a meno di mogli preoccupate o di fidanzate trepidanti). Sarà un successo che
aprirà la strada ai kolossal fantascientifici. Dimenticabile il successivo Quei fantastici razzi
volanti di Arthur Hilton del 1953, forse meglio conosciuto anche in Italia con il titolo originale Cat
Women of the Moon, che racconta di una spedizione che raggiunge il nostro satellite, dove trova
atmosfera respirabile e gravità pari a quella terrestre, e una popolazione femminile dotata di poteri
telepatici (ma solo nei confronti delle donne) che minaccia di invadere la Terra.

Poco dopo, nella vita reale, si ha il primo satellite artificiale messo in orbita attorno alla Terra, lo
Sputnik 1 del 1957, ed è già cominciata la “corsa allo spazio” che vede contendere USA e URSS, e
anche la letteratura e il cinema di fantascienza hanno incrementato la loro produzione, quindi non è
strano trovare delle opere che satireggiano la situazione. Il grande Antonio de Curtis nel 1958 gira
per la regia di Steno Totò nella Luna, una farsa tipica dell’epoca, una commedia degli equivoci che
vedrà il Principe della risata, ben coadiuvato da Ugo Tognazzi, Sylva Koscina, Luciano Salce,
Sandra Milo e altri bravi caratteristi, arrivare per errore sul nostro satellite. Totò è un tipografo e
dirige una rivista scandalistica, sulla quale il suo fattorino Achille (Tognazzi) riesce a pubblicare un
racconto di fantascienza, provocando le ire del proprietario; tra i due scoppia una lite e Achille viene
ricoverato, ma si scopre che il suo sangue è ricco di “glumonio”, una sostanza che lo rende adatto ai
viaggi spaziali. Per questo viene contattato da Cape Canaveral, ma per una serie di equivoci alla
missione spaziale parteciperà Totò, che si ritroverà sulla Luna dove incontrerà una copia femminile
di Achille… Per quanto non sia tra i migliori di Totò si tratta di una divertente parodia della
fantascienza, sia cinematografica che letteraria, in particolare di La morte viene dallo spazio dello
stesso 1958, primo film italiano di fantascienza, e di L’invasione degli ultracorpi (1956), i cui
celebri “baccelloni” diventano qui “cosoni”. L’anno successivo troviamo il mediocre Missili sulla
Luna di Richard Cunha, remake sexy dell’altrettanto non memorabile Cat Women of the Moon, nel
quale due delinquenti si nascondono in un razzo che arriva sul nostro satellite per scoprire che è
abitato da una popolazione di fanciulle che vivono nel sottosuolo perennemente minacciate da ragni
giganti. Nonostante l’ambientazione sotterranea è ben visibile il paesaggio del Red Rock Canyon in
California – dove il film fu girato – con le sue piante e il cielo terso: un habitat decisamente molto
poco lunare! Altro film dall’intento satirico è Mani sulla Luna di Richard Lester (1962),
ambientato nel minuscolo e inesistente Ducato di Gran Fenwick che era già stato teatro delle
vicende raccontate ne Il ruggito del topo (1959). Questa volta si scopre che il pregiato vino prodotto
nel Ducato è adattissimo come propellente e quindi viene chiesto l’aiuto di USA e URSS per poter
finanziare l’impresa di una spedizione sulla Luna; le due potenze sospettano che sia un trucco –
come in effetti è – per poter avere aiuti finanziari, ma non possono tirarsi indietro: finirà che la
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spedizione riesce davvero e sulla Luna verrà innalzato il vessillo di Gran Fenwick. Il film, nato per
satireggiare la mania spaziale delle due superpotenze finisce per essere più comico che satirico, ma
è una serie di gag molto divertenti, di puro humour britannico (il “conto alla rovescia” viene
interrotto per non saltare il tradizionale tè delle cinque!), con situazioni ben congegnate rette da
attori di razza quali Terry Tomas e “miss Marple” Margaret Rutherford. Uno dei personaggi minori,
lo scienziato tedesco emigrato in America che inneggia a Hitler, deve aver ispirato Stanley Kubrick
per il suo Dottor Stranamore.

Segue un’altra gustosa parodia “made in Italy”, dal titolo 00-2 Operazione Luna, film del 1965 con
Franco Franchi e Ciccio Ingrassia protagonisti. Il soggetto è una parodia del cinema di
fantascienza, irridendo a dei temi di forte attualità, quale la corsa allo spazio, la competizione tra le
Superpotenze e la stessa Guerra Fredda. In questo film, il duo appare in un ruolo duplice, quello
noto al pubblico ed uno serio, dove danno una piccola ma importante prova di estrema bravura, in
una trama fantascientifica di grande divertimento. E’ la storia di Cacace e Messina, due ladruncoli
siciliani, che vengono rapiti dai servizi segreti russi, allo scopo di sostituire una coppia di
cosmonauti perduti nello Spazio, al fine di coprire l’insuccesso e salvare il prestigio della
superpotenza sovietica. Nonostante la perfetta somiglianza, i due malcapitati si troveranno nei guai
non appena i veri piloti spaziali, sopravvissuti, faranno ritorno sulla Terra. Nel 1967 è la volta di un
grande regista, Robert Altman, di occuparsi di una spedizione lunare in Conto alla rovescia, film
modesto, valido dal punto di vista tecnico grazie al ricorso a materiale documentario, con Robert
Duval e James Caan che esprimono ottimamente le esigenze autoriali di Altman.

Sebbene la trama sia molto più estesa e non concentrata sulla Luna non si può qui non
ricordare 2001: Odissea nello spazio, immortale pellicola di Stanley Kubrick, perché alcune
scene importanti sono ambientate proprio sul nostro satellite, nel cratere Clavius dove c’è la base
statunitense e soprattutto nel cratere Tycho dove viene ritrovato il celebre “monolito” che è alla
base del film. Ma siamo arrivati al 1968: appena un anno dopo l’uomo metterà davvero i piedi sulla
Luna e l’epoca del sogno sarà finita perché ne comincia un’altra. Infatti proprio in occasione
dell’allunaggio molti sostennero la fine della fantascienza (dimenticando tra l’altro che questo
genere letterario non era limitato all’esplorazione spaziale ma anzi la sua parte più importante era
quella che specula sul futuro, non solo dal punto di vista tecnologico ma soprattutto da quello sociale
e politico) e in effetti la Luna viene messa da parte, ma solo perché l’orizzonte si amplia, ora si pensa
a Marte e ancora più lontano. Non è quindi un caso che la successiva cinematografia lunare non si
occupi più dei tentativi di esplorazione del nostro satellite ma, proprio a partire da 2001, lo consideri
già colonizzato. Infatti nel film successivo, il modestissimo Luna Zero Due del 1969, la Luna del
2021 è già parzialmente abitata e vista come la “nuova frontiera” da conquistare; la pellicola fu
pubblicizzata come il primo “western spaziale” e del genere western segue gli stilemi più banali, dal
cavaliere (nel caso un pilota di astronavi) intrepido alla donzella in pericolo, dalla caccia al tesoro
(un asteroide interamente di smeraldo) al possidente avido e spietato, dalle scazzottate nel bar alle
sparatorie (ovviamente con pistole laser). Prodotto dalla Hammer, giustamente famosa per la sua
produzione horror e che non riuscì mai a sfondare davvero nella fantascienza, il film è mediocre in
tutto, dalla scenografia ai costumi (troppo simili a quelli della coeva serie televisiva U.F.O.), dalla
trama alla recitazione.

Dovranno passare venti anni perché la Luna si riaffacci nella cinematografia, e, appunto, si tratterà
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solo di apparizioni sporadiche, senza nessun prodotto che la metta al centro della narrazione.
In Moontrap – Destinazione Terra (Robert Dyke, 1989), che mescola civiltà perdute,
extraterrestri, esplorazione spaziale, cyborg e scene horror in un pasticcio inenarrabile, due
astronauti a bordo di una navicella Apollo trovano sulla Luna i resti di una civiltà terrestre nonché
una bella fanciulla in animazione sospesa che si rivela una aliena. Nell’altrettanto
dimenticabile LunarCop – Poliziotto dello spazio (Boaz Davidson, 1994), ambientato nel 2050, le
colonie lunari offrono una sistemazione migliore rispetto alla Terra, ormai desertificata a causa del
buco nell’ozono, ma la trama di tipo spionistico per il possesso di una scoperta che potrebbe
migliorare la situazione atmosferica si svolge per lo più sulla Terra, con un agente selenita mandato
a impadronirsi della formula che finisce per aderire a un gruppo di ribelli che contrasta le mire
espansionistiche dell’imperatore della Luna. Ancora minori gli accenni che troviamo in altri
film: Star Trek: Primo contatto (Jonathan Frakes, 1996); Starship Troopers – Fanteria dello
spazio (Paul Verhoeven, 1997); Austin Powers – La spia che ci provava (Jay Roach, 1999).

Caso a parte quello di Capricorn One (Peter Hyams, 1978), ispirato dalle teorie negazioniste che
peraltro finisce per alimentare: dopo la conquista lunare si progetta quella marziana ma un guasto
impedisce la partenza, così la NASA per non perdere la faccia e i finanziamenti inscena un falso
“ammartaggio”, che viene però scoperto da un giornalista dando così l’avvio a una vicenda thriller
molto ben congegnata. Vi sono anche alcuni film in cui la Luna è scomparsa, distrutta dagli uomini
(Il pianeta delle scimmie, 1968, di Franklin J. Schaffner; The Time Machine, 2002, di Simon
Wells) o dagli extraterrestri come in Guida galattica per autostoppisti (Garth Jennings, 2006),
dove viene comunque “ricostruita”.

Nel frattempo era però uscito, nel 2009, un film importante e che rientra nel binomio tra Luna e
Cinema: Moon di Duncan Jones, talentuoso figlio di David Bowie già regista di videoclip e qui alla
sua prima opera lunga. Il protagonista Sam Bell, ben interpretato da Sam Rockwell, lavora alla
stazione mineraria Selene (nell’originale Sarang) dove gestisce l’estrazione di rocce dalle quali si
estrae l’elio-3 utilizzato su Terra come carburante; è da solo, coadiuvato dalle macchine e ha come
unica compagnia una intelligenza artificiale chiamata Gerty. Il suo contratto triennale sta per finire
ma proprio un paio di settimane prima del suo previsto ritorno sul nostro Pianeta scopre una copia di
se stesso, che ritiene esse un suo clone salvo poi accorgersi di essere un clone egli stesso. Da questo
momento in poi la narrazione assume toni drammatici, i rapporti tra lui e l’altro Sam si fanno sempre
più problematici e soprattutto egli – e con lui lo spettatore – si chiede cosa ci sia dietro, se esistano
altri cloni, chi gestisce il software che permette a Gerty di agire a sua insaputa (infatti gli impedisce
di comunicare con la base terrestre), dov’è il Sam Bell originale. Un riuscito ibrido tra cinema di
fantascienza e thriller psicologico. Un piccolo gioiello, giustamente lodato, problematico senza
essere intellettuale, ottimamente diretto e sceneggiato.

Insomma, appare chiaro e lampante come il dualismo Luna-Cinema abbia avuto molta fortuna
nell’ambito del cinematografo, solleticando la fantasia di registi e sceneggiatori e suscitando
l’interesse del pubblico di tutte le generazioni.
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Addio a Franco Zeffirelli, un regista che ha
segnato la mia infanzia di giovane
spettatore cinematografico
Ho un ricordo della mia infanzia molto forte legato ad un film di Franco Zeffirelli, era verso la fine
degli anni ’70, ero molto piccolo, forse 3, 4 anni e come spesso accade i ricordi legati all’infanzia
sono quelli che, non solo definiscono chi siamo diventati, ma sono la parte più indelebile della nostra
memoria. Il film era Romeo e Giulietta del 1968, che ho visto in televisione con i miei genitori un po’
di anni dopo l’uscita in sala.

Ovviamente ero troppo piccolo per capire l’intreccio della storia d’amore per eccellenza, troppo
piccolo per comprendere elementi come la regia, il montaggio, etc., ma ero abbastanza grande e
curioso da porre domande e da ricordare alcuni elementi del film, primo fra tutti la bellezza degli
interni in cui era ambientata la pellicola, non sapevo si chiamasse scenografia, poi i costumi buffi e
colorati e soprattutto la musica che accompagnava lo scorrere delle immagini. Era tutto bello,
meraviglioso ed esagerato, oggi per dirlo userei termini come: ricercato, abbagliante e sontuoso.

Più di tutto mi sono rimasti nella memoria le immagini degli interni accompagnate dalla struggente
musica, una musica che, quando la risento oggi, ancora riesce a suscitare in me sentimenti di
nostalgia e malinconia.

La colonna sonora del film, come scoprì solo da adulto, era stata scritta e diretta dal famoso
compositore Nino Rota. Ma era il tema del film, la famosa “What Is a Youth”, con testo di Eugene
Walter, interpretata da Glen Weston, ad aver segnato profondamente il mio immaginario. Il brano
nella versione italiana del film si intitolava “Ai giochi addio”, con il testo di Elsa Morante (scrittrice
Premio Strega), che venne affidato al cantante Bruno Filippini, che nel film interpreta il menestrello
(e che aveva vinto il Festival di Castrocaro insieme a Gigliola Cinquetti).
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l film Romeo e Giulietta erano molto vicini all’età dei personaggi originali; infatti, durante le riprese
Leonard Whiting (Romeo) aveva diciassette anni, Olivia Hussey (Giulietta) sedici.

Va da sé che a 4 anni, non capii niente della trama, della storia, delle vite tragiche di Romeo e
Giulietta, ma quando lo rividi da ragazzo 6, 7 anni dopo, con una consapevolezza e maturità diverse,
il film mi impressionò e commosse oltre ogni dire e così è stato negli anni successivi, in cui l’ho
rivisto, sempre con emozione e trasporto. Sicuramente il film di Zeffirelli è fra quelli che ho visto più
spesso, almeno una quindicina di volte.

Mi è tornato in mente questo ricordo proprio sabato scorso (15 giugno ’19) quando, davanti alla TV
guardando l’edizione principale del TG1, ho appreso della morte del grande regista, scenografo e
sceneggiatore italiano.
Mi sono tornati in mente altri suoi film che hanno segnato la mia giovinezza di appassionato di
cinema e la mia vita adulta di cinefilo incallito: Gesù di Nazareth (1976), forse la trasposizione
cinematografica più riuscita della vita di Gesù; Amleto (1990), con uno straordinario Mel Gibson nei
panni del principe danese e con un cast stellare, tra cui spiccavano Glenn Close, Alan Bates e Helena
Bonham Carter, un film incredibile per le scenografie di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, per
le musiche di Ennio Morricone e per i ricercati (e storicamente attendibili) set allestiti fra la Scozia,
l’Inghilterra e la Francia.

Franco Zeffirelli se n’è andato, nella sua casa di Roma, all’età di 96 anni, dopo una lunga malattia,
lasciando un vuoto immenso nel mondo del cinema. Un regista amatissimo in Italia, ed ancora di più
all’estero, che aveva cominciato la sua carriera come aiuto regista di Luchino Visconti per film come
La terra trema e Senso, dopo aver frequentato prima il collegio del Convento di San Marco a
Firenze, dove ebbe come istitutore Giorgio La Pira, e poi l’Accademia di Belle Arti della stessa città,
dove aveva conseguito una laurea in scenografia.

Si divise sempre fra cinema e teatro, ci lascia tanti capolavori cinematografici e un numero
incredibile di regie di opere teatrali e liriche, che sono sempre state accompagnate da un
grandissimo successo di critica e pubblico. Curò la regia di importanti eventi televisivi come
l’apertura dell’Anno Santo nel 1974 e nel 1999 e collaborò con i più importanti teatri dell’opera del
mondo fra cui La Scala di Milano, il Metropolitan Opera House e l’Opéra National de Paris.

È stato un vero ambasciatore della cultura italiana nel mondo e per questo fu insignito di diverse
onorificenze fra le quali: Grand’Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana nel 1977,
Medaglia ai benemeriti della cultura e dell’arte nel 2003 e addirittura nel 2004 la Regina Elisabetta
lo nominò Cavaliere Commendatore dell’Ordine dell’Impero Britannico.
Fu un grande regista, un vero Maestro, come si è detto, non solo italiano ma mondiale, fin dalle sue
prime regie lavora con grandi produzioni internazionali. Cominciò giovanissimo nel dopoguerra
prima al teatro e poi al cinema ed ha avuto una carriera lunga oltre 70 anni.

Il lavoro di Franco Zeffirelli come regista cinematografico è stato sempre caratterizzato dall’estrema
eleganza formale e la predilezione per il melodramma e le storie d’amore, messe in scena con senso
dello spettacolo e gusto figurativo ricercato e prezioso. Furono senza dubbio i suoi studi
all’Accademia ed i primi anni di apprendistato, svolti sotto l’ala protettiva di Luchino Visconti (con il
quale ebbe anche un lungo e travagliato rapporto, molto chiacchierato dalla stampa, a metà degli
anni ’50), ad influenzare il suo stile registico.

Fu dichiaratamente omosessuale e cattolico, oltre che politicamente anticomunista, vicino al centro-
destra, per il quale fu senatore nelle file di Forza Italia dal 1994 al 2001.

Non vinse mai un Oscar, per il quale ricevette solo due nomination, una nel 1969 come Miglior
Regista per Romeo e Giulietta, l’altra nel 1983 per la Miglior Scenografia per La Traviata. Vinse 5
David di Donatello e solo un Nastro d’Argento nel 1969 come Regista del Miglior Film per Romeo e
Giulietta (tra l’altro il suo film più premiato).

Sicuramente avrebbe meritato qualche riconoscimento in più sia all’estero che in patria, ma il
pubblico non gli fece mancare mai il suo affetto e le attestazioni di stima; un pubblico che ha
affollato in migliaia la camera ardente allestita a Palazzo Vecchio nella sua amata Firenze, nei due
giorni successivi alla morte.

Ci lascia oltre ai film e alle opere teatrali e liriche, uno sterminato patrimonio composto da disegni,
bozzetti, copioni, sceneggiature, libretti d’opera, fotografie, filmati e una biblioteca di oltre 10mila
volumi, raccolti nei settant’anni di carriera del maestro, che verranno custoditi in un apposito museo
nella Fondazione Franco Zeffirelli, a due passi da Piazza della Signoria, sempre a Firenze. Un
patrimonio immenso, stimabile in 180 milioni di euro.

Insomma un vero e proprio gigante non solo del cinema ma della cultura, uno che un tempo si
sarebbe chiamato intellettuale e/o Maestro, ma che oggi, sommersi come siamo dalla società liquida,
sbrigativamente ci limitiamo a definire “solo” regista.

A me mancherà tantissimo l’eleganza formale delle sue inquadrature, la bellezza delle sue
scenografie e, soprattutto, il suo sguardo sul mondo; fortuna che ci rimarranno sempre le sue opere
che potremo rivedere ancora ed ancora.

Addio Maestro.
Il grande spirito - Il film
Quello appena uscito nelle sale, ovvero Il grande spirito, è un film complesso, poeticamente
stralunato e avvolto da un realismo magico, cifre distintive del cinema di Sergio Rubini e di Rocco
Papaleo, attore comico “lunare”, un po’ alla Macario. Sempre in bilico fra materia e spirito, fra
concretezza anche gretta e allucinazione sempre nobile, Il grande spirito è una storia di miseria e
nobiltà, con una grande attenzione all’elemento polisensoriale: il suono, in particolare, è molto
curato, dal lamento gutturale di un malato costretto al ricovero forzato al ticchettio di una mano
nervosa. Il grande spirito è dunque un piccolo gioiello, partito quasi nell’ombra, ma che ben presto
ha assorbito ammiratori come una spugna assorbe l’acqua. Surreale e a tratti bizzarro, ma anche
profondamente calato nella realtà locale: il film è girato a Taranto, ma nella parte industriale, quella
avvelenata dai veleni dell’industria siderurgica, la quale però, saggiamente, rimane sempre sullo
sfondo.

I due personaggi principali creano una sinergia magistrale che dà forza e propulsione alla storia. La
vicenda per lo più si sviluppa sui tetti e resta in alto, in una dimensione onirica, senza mai cadere in
basso nel sentimentalismo o nella banalità. E’ la storia di Tonino (Sergio Rubini), un ladruncolo
sempre in cerca del grande colpo di fortuna: che sembra finalmente arrivare quando il bottino di una
rapina, per cui lui era stato relegato al ruolo di palo, finisce fortuitamente nelle sue mani. Tonino
fugge con la refurtiva sui tetti di Taranto e trova rifugio in un abbaino fatiscente abitato da uno
strano personaggio: Renato (Rocco Papaleo), che si è dato il soprannome di Cervo Nero perché si
ritiene un indiano, parte di una tribù in perenne lotta contro gli yankee. Renato, come sillaba
sprezzantemente Tonino, è un “mi-no-ra-to”, ma è anche l’unica àncora di salvezza per il fuggitivo,
che tra l’altro si è ferito malamente cadendo dall’alto di un cantiere sopraelevato. Fra i due nascerà
un’intesa frutto non solo dell’emarginazione, ma anche di un’insospettabile consonanza di vedute.

Rubini, alla sua 14esima regia, sforna un film, che sembra rifarsi allo stralunato gioiello della
commedia all’italiana Non toccare la donna bianca, in cui la guerra di secessione americana, era
ambientata in una cava nel centro di Parigi e le avventure dei protagonisti (Mastroianni, Tognazzi,
Noiret, Piccoli), si svolgevano con i grattacieli di Parigi sullo sfondo. Allo stesso modo la storia
attuale si svolge sui tetti, anziché in una cava, e sullo sfondo al posto dei grattacieli ci sono le famose
ciminiere di Taranto. Le immagini della fabbrica, con le sue fornaci e i suoi tossici fumi, si mescolano
alle immagini del fuoco “purificatore” acceso da Cervo Nero: inferno e praterie celesti, distruzione e
devozione, peccato e redenzione. Altra scelta fortemente simbolica è quella di ambientare quasi
tutta la storia sui tetti di Taranto, in una ricerca visiva di elevazione fisica e spirituale: tutta la
parabola (è il caso di dirlo) di Tonino e Renato si consuma nella verticalità, in ascese celestiali e
rovinosi schianti a terra – quella terra avvelenata dalle fabbriche e infestata dalla malavita. Anche le
ciminiere dell’Ilva incombono grazie alla loro altezza, che si erge arrogante sopra il livello del mare
tarantino.

La questione dell’Ilva insomma, pur senza invadere il campo della vicenda, permea – come un veleno
silenzioso e letale – tutta la storia: le esistenze miserabili, la decimazione degli “indiani”, la rabbia
(mal) repressa, l’orizzonte forzatamente (de)limitato. Tonino e Renato sono quindi, l’uno l'”uomo del
destino” dell’altro perché attraverso il loro rispecchiarsi si accende la loro luce interiore, quella luce
che lotta contro il buio circostante. Ma i due personaggi sono soprattutto lo specchio del talento dei
due protagonisti, autori-attori di straordinario talento, poliedrici e capaci di acchiappare il pubblico
di tutte le età, con un viscerale amore per il cinema, che permea dal primo all’ultimo minuto di film.
Una pellicola da ricordare e…da vedere: amara e figlia dei tempi attuali.

The Matrix – Il Film
È il marzo del 1999 quando nella sale USA esce il film “The Matrix”, realizzato dagli allora fratelli
Andy e Larry Wachowski (prima di diventare le sorelle Lana e Lilly), film epocale sia per gli
argomenti trattati sia per le tecnologie cinematografiche impegnate.

Siamo alla fine di un secolo e di un millennio, il mondo è profondamente diverso da come lo
conosciamo oggi. In esso vi erano poco meno di 400 milioni di utenti collegati ad internet e non
esistevano Facebook, You Tube, Iphone ed app. La preoccupazione principale legata alla rete
internet, ancora appannaggio di pochi utenti, era rappresentata dal “Y2K bug”, meglio noto come
Millennium bug, un difetto informatico che si sarebbe manifestato al cambio di data della
mezzanotte tra venerdì 31 dicembre 1999 e sabato 1º gennaio 2000 nei sistemi di elaborazione dati
di tutto il mondo.

Il film dei fratelli Wachowski ci presenta un futuro prossimo venturo dispotico, claustrofobico e
terrorizzante. Tutto prende avvio dalla vita di Thomas A. Anderson, programmatore di software
presso la Metacortex, cittadino modello di giorno e attivo hacker, sotto lo pseudonimo di “Neo”, di
notte. Ad un certo punto il nostro inconsapevole eroe viene contattato da Trinity, esperta e
conturbante hacker braccio destro del misterioso Morpheus, vero e proprio criminale informatico.

L’incontro con Morpheus è illuminante: Neo viene a conoscenza del fatto che il mondo reale a cui è
abituato altro non è che una gigantesca simulazione al computer a cui tutti gli esseri umani sono
collegati a loro insaputa, simulazione che prende il nome di “Matrix”, che serve a nascondere una
amara e allucinata realtà creata dalla macchine e dall’intelligenza artificiale per assoggettare gli
esseri umani.

Risvegliato alla vera realtà, Neo entrerà nella resistenza guidata da Morpheus, che cerca di
scollegare quanti più umani possibili da questa simulazione globale.

Il film presenta profondi riferimenti filosofici, religiosi e sociologici e, in un certo senso, profetizza il
mondo in cui oggi ci troviamo a vivere, perennemente collegati ai nostri dispositivi elettronici, che
misurano e profilano ogni aspetto della nostra vita, “suggerendoci” che cibo mangiare, come vestire,
cosa leggere, quale opinione avere, chi frequentare, chi votare e così via. Gli smartphone e le
innumerevoli app su di essi scaricate sono quanto di più simile all’incubatrice in cui si risveglia Neo
dopo aver ingerito la famosa pillola rossa datagli da Morpheus.
Il film è passato alla storia principalmente per gli effetti speciali, ma tutta la lavorazione fu difficile e
complessa: pensate che la sceneggiatura richiese più di 5 anni di lavorazione, per un totale di 14
bozze e che gli storyboard furono più di 600.

Gli spunti letterari per la storia furono innumerevoli: in primis il film saccheggia il “mito della
caverna” di Platone”, poi “Alice nel Paese delle Meraviglie” di Lewis Carroll, l’“Odissea” di
Omero e soprattutto “Simulacri e Simulazione” di Jean Baudrillard, ritenuto così essenziale ai fini
della storia che i fratelli Wachowski comprarono molte copie del testo, che fecero leggere a gran
parte del cast e della troupe. Questo libro era così importante che a Keanu Reeves (Neo) venne
imposto di leggerlo ancor prima di iniziare a sfogliare la sceneggiatura. Reeves ha sempre sostenuto
che fu proprio grazie a questo libro che fu capace di cogliere e capire tutte le sfumature filosofiche
del film.

A proposito di Keanu Reeves, che regalò al personaggio di Neo un’interpretazione magistrale,
l’attore non fu la prima scelta dei registi: il ruolo del protagonista fu offerto prima a Johnny Deep,
Brad Pitt, Val Kilmer, Leonardo Di Caprio ed anche all’allora giovanissimo Will Smith, ma alla
fine la scelta si restrinse tra Johnny Deep e Keanu Reeves, con quest’ultimo preferito dalla Warner
Bros perché, fin da subito, sembrò aver capito l’essenza del film. Anche per il ruolo di Morpheus si
pensò a diversi nomi, tra questi Gary Oldman e Samuel L. Jackson, ma alla fine a spuntarla fu
Laurence Fishburne, che definì il suo personaggio di Morpheus come un mix tra Obi-Wan Kenobi e
Darth Vader.

Le scene e le ambientazioni dark del film furono calibrate su un scelta cromatica molto forte e
precisa. Tre furono i colori principali usati per colorare e caricare di significato i fotogrammi.
Innanzitutto il verde, che fu utilizzato per tutte le scene ambientate nel mondo fittizio di Matrix; si
voleva ricreare l’effetto di una realtà filtrata attraverso il monitor di uno schermo di computer (nel
1999 molti schermi del computer erano ancora monocromatici, appunto verdi, perché si era scoperto
che questo colore aumentava la definizione e non stancava la vista), poi perché questo colore è da
sempre associato al mistero ed all’oscurità. Poi il blu, che divenne il colore per rappresentare le
scene della realtà e della vita vera fuori dalla simulazione di Matrix; il colore blu fu usato per le
sensazioni di freddezza e melanconia che trasmette, le stesse che i registi volevano traspirassero dal
film. Infine fu scelto il giallo per rappresentare il limbo fra vita reale e Matrix, come ad esempio le
simulazioni dell’addestramento di Neo: il giallo è da sempre associato all’insicurezza e sembrò ideale
per rappresentare tutte quelle simulazioni non ordite dalle macchine ma create dagli uomini per
sconfiggerle.

Il film immaginò anche un abbigliamento ed uno stile molto dark: tutti i protagonisti del film,
maschili e femminili, sono fasciati in lunghi capotti neri ed attillate tutine di PVC. Per i costumi Kym
Barrett, per via del budget limitato, fece di necessità virtù, realizzando il costume di Trinity con
PVC a basso costo e il cappotto di Neo con una stoffa che costava 3 dollari al metro. Altro
trattamento fu riservato per gli splendidi occhiali da sole dei protagonisti, che sarebbero diventati
un must della moda di quegli anni. Fu una piccola azienda artigianale, la Blinde, che vinse la gara
contro colossi come Ray-ban e Arnette, che decise di realizzare gli occhiali basandosi sull’inusuale
nome dei personaggi. Richard Walker, fondatore dell’azienda, disegnò e realizzò degli occhiali
molto avveniristici soprattutto per il modello di Morpheus, che era privo di stanghette e che si
reggeva sul naso con una speciale clip brevettata.

Ma Matrix è passato alla storia soprattutto perché ha aperto nuove frontiere nella tecnica
cinematografica, a partire dal “bullet time”. Un effetto speciale che, sfruttando simultaneamente
un gran numero di fotocamere, disposte intorno ad un oggetto o una persona, permette di
ricostruire, frame dopo frame, la medesima scena e riprodurla al rallentatore. Questa tecnica,
insieme alla computer grafica 3D e al chroma key, ha reso leggendaria e citatissima la scena di Neo
intento a schivare i proiettili.

Insomma un film epico, anzi un franchise multimediale, composto da altri due film, un videogioco,
un fumetto ed una serie di cortometraggi di animazione “Animatrix”, media diversi che a detta
degli autori e dei registi dovevano essere fruiti e visti tutti per ampliare e comprendere meglio
l’universo narrativo del film. E, a proposito di fumetti e spunti narrativi, Matrix ha rischiato anche
una denuncia di plagio.
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ione dell’effetto “bullet time”.

Nel 1992 Stefano Disegni e Massimo Caviglia avevano creato “Razzi Amari”. Si trattava di un
fumetto multimediale da leggere insieme a una musicassetta realizzata dalla band Gruppo Volante
dello stesso Disegni. La storia era incentrata su un futuro allucinato, in cui la popolazione era sotto il
giogo di una dittatura dispotica creata dalle macchine. Le macchine controllavano le persone tramite
un chip, installato nella loro mente appena nati, che proiettava l’illusione di vivere in un mondo
perfetto. Anche nel fumetto di Stefano Disegni c’era una resistenza che si era organizzata e
combatteva le macchine. Insomma una storia molto simile a quella del film, che spinse i creatori del
fumetto a contattare un avvocato che ravvisò gli estremi per una causa di plagio, ma alla fine i
fumettisti desistettero perché la causa contro la Warner Bros sarebbe stata proibitiva.

Per concludere, The Matrix (o Matrix nella traduzione italiana), è un film assolutamente da vedere
perché come tutta la miglior fantascienza ci racconta chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo
andando e, siccome il film ha già 20 anni, il futuro immaginato da Matrix è il nostro presente e, per
dirla con Morpheus:

                                    “Benvenuti nel deserto del reale!”
Dalle nozze di stagno a quelle di oro di 5
capolavori assoluti del cinema.
Il nostro mensile dedica questo numero agli anniversari importanti del 2019 ed io,
per parlare di cinema, ho a disposizione tantissimo materiale, eterogeneo ed
interessante. Fare una selezione dei film che quest’anno compiono un
anniversario importante non è stato semplice, numerosi i generi e tanti i
capolavori. Ho provato a sceglierli partendo da un anniversario fresco come quello
dei 10 anni, dove è ancora semplice ricordare il film e le sensazioni che ci ha
lasciato, fino ad arrivare a quello dei 50 anni, le nozze d’oro di pellicole indelebili.

10 anni di “Avatar” (2009)

E’ il film che detiene il record come campione d’incassi al botteghino con 2,8 miliardi di
dollari (record che potrebbe essere superato da “Avengers: Endgame”). Film di fantascienza ideato
e diretto dal regista James Cameron (già campione d’incassi con il colossal “Titanic”), narra la storia
di Jake Sully, un ex marine sulla sedia a rotelle, che è stato reclutato per viaggiare anni luce fino al
pianeta Pandora, dove si sta estraendo un minerale che è la chiave per risolvere la crisi energetica
sulla Terra. L’atmosfera sul pianeta, però, è tossica per gli umani, quindi, sono stati creati degli
esseri simili in tutto agli umani che, invece, si trovano al sicuro dentro la base e che guideranno,
collegando le loro coscienze, questi avatar, ibridi sviluppati geneticamente dal dna umano unito al
dna degli abitanti nativi di Pandora, i Na’vi. Opera che ha segnato la storia del cinema, soprattutto
per gli effetti speciali, essendo stato concepito dal regista appositamente per la visione in 3D; tra i
tanti premi, è vincitore di 3 Oscar: Miglior fotografia, Migliori effetti speciali e Miglior
scenografia.

20 anni di “Essere John Malkovich” (1999)

Film nato dal connubio tra il visionario regista Spike Jonze e l’inventivo
sceneggiatore Charlie Kaufman, è la storia di Craig (John Cusack), burattinaio che,
spronato dalla moglie Lotte (una giovanissima Cameron Diaz, che non siamo
abituati a vedere così trasandata), trova lavoro come archivista, in una ditta che si
trova al settimo piano e mezzo di un grattacielo di New York. Ma ancora non
capiamo cosa c’entra l’attore John Malkovich in tutto questo. Craig un giorno
scopre per caso, dietro un armadio, un passaggio segreto, un tunnel e
percorrendolo si ritrova catapultato in un’esperienza unica: essere John Malkovich.
Il regista statunitense esordisce alla regia nel 1999, con questa perla
cinematografica, grottesca e surreale, che catapulta lo spettatore in una storia
assurda, per poco più di 100 minuti, e il protagonista in un altro corpo, per soli 15
minuti.

30 anni di “L’attimo fuggente” (1989)

Capolavoro del regista Peter Weir, ambientato nel 1959, con protagonista il grande Robin Williams,
nei panni del prof. John Keating, che in questo film ci regala un’interpretazione toccante ed
illuminante. L’insegnante guida con passione la sua classe del collegio maschile Welton,
nell’emozionante mondo della letteratura e della poesia e con i suoi metodi poco ortodossi
segnerà per sempre le loro vite. E’ difficile scegliere il miglior film dell’attore americano che
troppo presto ci ha lasciati, ma sicuramente questa è una delle pellicole in cui maggiormente ci ha
entusiasmato e commosso. Oscar alla Miglior sceneggiatura originale allo sceneggiatore Tom
Schulman, per un film pieno di riferimenti e citazioni letterarie.

40 anni di “Apocalypse now” (1979)

Francis Ford Coppola dirige il film di guerra che rimarrà indelebile nella storia del cinema.
Ambientato durante la guerra in Vietnam, segue la vicenda del capitano dei corpi speciali Benjamin
Willard, che riceve l’ordine di uccidere il colonnello Kurtz, che sta combattendo una guerra
personale ai confini fra il Vietnam e la Cambogia. Le riprese di questo imponente film diventano
un’odissea, tra alcol e droghe, complicazioni con la polizia, problemi di salute del regista e
degli attori, la sua realizzazione finisce per durare un totale di dieci anni. Nonostante tutto
questo, il film vince due premi Oscar, per la Miglior fotografia (all’italiano Vittorio Storaro) e per il
Miglior sonoro ed anche la Palma d’Oro a Cannes, con una versione neanche definitiva.

50 anni di “Prendi i soldi e scappa” (1969)

E’ il primo film diretto, interpretato e sceneggiato, da Woody Allen, e racconta la
storia di un rapinatore maldestro i cui tentativi di delinquere si risolvono sempre in
numerosi grotteschi disastri; entra ed esce di prigione finché viene condannato a
ottocento anni di carcere. Il regista gira un finto documentario, con lo stile del
documentario, infatti, realizza filmati di repertorio e interviste, dando vita a gag
semplici ed efficaci, che nel corso della sua produzione cinematografica
rappresenteranno la sua personale ed inconfondibile cifra stilistica. Nel
2000 l’American Film Institute ha inserito “Prendi i soldi e scappa” al 66° posto
della classifica delle migliori cento commedie statunitensi.

Il mio augurio per questo anniversario è che il 2019 (così come gli anni successivi)
possa regalarci altri capolavori, da poter ricordare, con piacere ed emozione, tra
10, 20, 50 anni.

Ma cosa ci dice il cervello - Il film
Iniziamo dall’epilogo: Ma cosa ci dice il cervello consegna a Paola Cortellesi, splendida
protagonista del film, il Nastro d’Argento come miglior attrice di commedia, un giusto
riconoscimento ad una donna del cinema, che ogni anno che passa diventa sempre più brava, sempre
più interprete dei vizi e delle virtù della donna italiana. In questo potremmo forse paragonarla a
Monica Vitti? Probabilmente è la più vicina, perché è quella che più di tutte, al giorno d’oggi,
nell’ambito della commedia riesce meglio a comprendere come siano le donne italiane del nuovo
millennio.

Le avrà probabilmente giovato l’accoppiata non solo artistica con Riccardo Milani, regista del
suddetto film e suo compagno di vita. Al suo quarto film con il regista, dopo Scusate se esisto,
Mamma o papà e Come un gatto in tangenziale, Paola Cortellesi è utilizzata in una parodia
delle spy story di spionaggio all’americana, che mette in risalto il suo grande talento comico.

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“Ma cosa ci dice il cervello”.

Come in tutti i film di spionaggio che si rispettino, anche quelli parodistici, si viaggia per il mondo.
Si gira a Roma, a Mosca proprio nella Piazza Rossa, a Siviglia e perfino per le vie del mercato di
Marrakech.

Lo stesso regista, all’ottava edizione di Ciné-Giornate di cinema, ha descritto così il suo film, che
poi sarebbe uscito qualche giorno dopo, ovvero il 18 aprile scorso:

“Una commedia sociale per raccontare un Paese che ha bisogno di risvegliarsi dal torpore. Proprio
come farà la sua protagonista, Paola Cortellesi, donna abituata alle angherie del quotidiano, alle
prepotenze del traffico e che un giorno, rincontrando amici di vecchia data, avrà la forza per alzare
la testa e smuovere qualcosa, magari rimettendo le cose al proprio posto”.

Le avventure che vive l’agente segreto interpretato da Paola Cortellesi, con sferzante ironia,
possono essere viste come un tentativo comunque riuscito, di raccontare il nostro Paese, in chiave di
divertimento e di riflessione sui tempi moderni.

Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre.

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David di Donatello 2019: i verdetti
Nella serata di mercoledì 27 marzo 2019, si è tenuta la 64esima edizione dei David di
Donatello, il più importante riconoscimento del cinema italiano, insieme ai Nastri d’Argento e
leggermente sopra i Globi d’oro. La serata di premiazione, di quelli che sono definiti gli “Oscar
italiani”, quindi i secondi come importanza al mondo, è stata trasmessa in diretta su Rai Uno e
presentata per il secondo anno di fila da Carlo Conti.

Come da pronostico, Dogman di Matteo Garrone, ha fatto incetta di statuette, con ben 9 David
vinti: miglior film, regia a Garrone, attore non protagonista a Edoardo Pesce, sceneggiatura
originale a Garrone con Massimo Gaudioso e Ugo Chiti, fotografia a Nicolaj Brüel,
montaggio a Marco Spoletini, scenografia a Dimitri Capuani, trucco a Dalia Colli e Lorenzo
Tamburini, sonoro a Maricetta Lombardo & co. Il regista Matteo Garrone, sul palco, accolto da
applausi scroscianti, ha inviato un appello affinché il cinema vecchia maniera, quello delle sale,
continui a sopravvivere, perché la magia del Cinema è tutta lì: «Grazie a voi, lo abbiamo fatto
insieme questo film. Questa è una serata speciale perché si è parlato molto dell’importanza di
tornare al cinema anche l’estate, di quanto sia importante e bello poter vedere i film sul grande
schermo. Purtroppo è un periodo in cui le cose stanno cambiando velocemente, c’è la tendenza
sempre più a vedere i film a casa sulle piattaforme digitali, Netflix ecc. Ma credo sia importante
invece cercare di tornare al cinema, però è anche importate che i cinema diventino sempre più
grandi, invece la sensazione che ho è che le sale diventino sempre più piccole e i televisori sempre
più grandi, quindi facciamo attenzione se crescono i televisori a far crescere anche gli schermi dei
cinema. Questo film sono contento di averlo fatto, è nato un po’ per caso. Abbiamo iniziato a
scriverlo dodici anni fa e tenuto sempre nel cassetto. L’ho fatto perché avevo qualche mese libero
aspettando Pinocchio e invece è andato così bene che non ce l’aspettavamo. A volte accadono delle
cose che non ti aspetti nel cinema, riuscire a creare dei momenti irripetibili.»

Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, altro film attesissimo e pluri-presente in nominations,
conquista 4 statuette: il film che ricostruisce gli ultimi, tragici giorni della vita di Stefano Cucchi
porta a casa i premi per il miglior produttore, miglior regista esordiente a Cremonini, il David
Giovani (votato da 3.000 studenti delle scuole superiori) e soprattutto il meritatissimo David per il
miglior attore protagonista allo strepitoso Alessandro Borghi, visceralmente e fisicamente
trasformato per interpretare la vittima di questa tragica vicenda di cronaca. Sul palco, lo stesso
attore, visibilmente emozionato per il suo primo David in carriera, ha dedicato il premio a Stefano
Cucchi:

Magro invece il bottino di un altro film molto atteso, Chiamami col tuo nome di Luca
Guadagnino, che ottiene solo 2 David, per la sceneggiatura non originale a James Ivory,
Walter Fasano e Guadagnino, e per la canzone originale Mistery of Love di Sufjan Stevens.

Loro di Paolo Sorrentino, si ferma a due statuette: per le acconciature del veterano Aldo
Signoretti, ma soprattutto quello meritatissimo per la miglior attrice protagonista alla strepitosa
Elena Sofia Ricci, completamente calatasi nei panni di Veronica Lario, moglie di Silvio Berlusconi.
L’attrice toscana è colta di sorpresa dalla vittoria del suo terzo David e sul palco è davvero
emozionatissima, trattenendo a stento le lacrime: «Non ci credo! Grazie. Ho la salivazione azzerata.
Non riesco neanche a parlare. Grazie a mio marito che mi ha tanto sostenuta e mi ha aiutato a fare il
provino e tutto. Grazie a Toni Servillo che è stato un collega, un compagno di lavoro meraviglioso. A
Paolo[n.d.r. Sorrentino], a tutti i componenti della troupe e soprattutto a chi è riuscito a
trasformarmi in un’altra. Grazie a tutti i giurati e a tutti voi che mi avete votata e sostenuta. Grazie
davvero, non me lo aspettavo.»

Due i David anche per Capri-Revolution di Mario Martone, che porta a casa il premio per il
miglior musicista e quello per il miglior costumista. La bravissima Marina Confalone batte
Jasmine Trinca e ottiene il David per la miglior attrice non protagonista per Il vizio della
speranza di Edoardo De Angelis, salendo sul palco visibilmente commossa e dedicando il premio
«alla nostra terra, ai napoletani che hanno buona volontà». Premio per i migliori effetti visivi a
Victor Perez per Il ragazzo invisibile – Seconda generazione, mentre il David dello
Spettatore, assegnato al film più visto della scorsa stagione, se lo aggiudica A casa tutti bene di
Gabriele Muccino.
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