Donne e cittadinanza politica: una prospettiva storica Breve storia del diritto di voto alle donne in Italia

Pagina creata da Alex Capasso
 
CONTINUA A LEGGERE
Donne e cittadinanza politica: una prospettiva storica
Breve storia del diritto di voto alle donne in Italia
M. ANTONELLA COCCHIARA

                                                         … è così che avvengono le rivoluzioni paci-
                                                          fiche, incubando a lungo nell’inconsapevo-
                                                         lezza generale, mentre altre consapevolezze
                                                        crescono una a una, con intrinseca certezza.
                                                                                        Elena Liotta1

    1. Premessa

    Raccontare la storia di qualcosa è uno dei mezzi (a volte fondativi) per
farla esistere2. La storia della cittadinanza politica femminile, e in particolare
del voto alle donne in Italia, raramente viene raccontata nelle nostre aule sco-
lastiche e in quelle universitarie. E invece, forse più di altri argomenti, il lun-
go e tortuoso cammino delle italiane verso la cittadinanza politica, ancor me-
glio se contestualizzato e comparato con quanto avveniva e avviene in altre
realtà europee, meriterebbe di essere ricostruito e raccontato ai giovani, anche
perché riguarda questioni ancora aperte e attuali, come quella della specificità
del rapporto “donne e politica”. In certi snodi sembra, poi, mettere in scena
copioni recentemente riproposti nello stesso palcoscenico istituzionale, of-
frendo utili chiavi di lettura per comprendere l’anomalia, tutta italiana, della
persistente sottorappresentazione delle donne nei parlamenti e nelle assem-
blee legislative e finendo per investire anche il problema della “qualità della
politica”.
    Prima di raccontare la storia del voto tardivamente conquistato dalle ita-
liane, parleremo più in generale della cittadinanza politica femminile.
    Votare significa diventare cittadine, non essere più suddite, ma incrociare
e vivere la modernità e, con essa, la democrazia. Ci chiediamo allora: nelle
democrazie occidentali, come la nostra, che significato e valore si dà alla cit-
tadinanza? Ci vorrebbero altri spazi e approfondimenti per esaurire un argo-
mento così «vasto, intricato e complesso» (Zincone, 1992, 22) sia per il tipo
di competenze coinvolte (storiche, giuridiche, filosofiche, economiche, socio-

    1
      E. LIOTTA, A modo mio. Donne tra creatività e potere, Roma 2007, p. 15.
    2
      Si pensi alla storia della nazione, che la storiografia e altri generi letterari come il romanzo
o il melodramma, hanno contribuito a costruire quale rappresentazione di comunità con specifi-
che aspirazioni politiche; cfr., per tutti, Banti, 2004, 121 ss.

                                                 83
84                              M. Antonella Cocchiara

logiche, politologiche etc.) che per l’ampiezza del campo al quale applicarle:
parlare di cittadinanza politica femminile non implica, infatti, solo la rico-
struzione di una storia, ma anche il ripensamento di un concetto. Proveremo a
sintetizzare.

     2. La cittadinanza difficile

    A proposito del difficile accesso delle italiane alla cittadinanza politica,
prenderò le mosse da un’affermazione di Marisa Forcina: «Soggetti politici a
pieno titolo le donne non sembrano esserlo nemmeno nei tempi più recenti
che hanno visto formalmente riconosciuta la loro cittadinanza, ma non pie-
namente espressa, al punto da farla apparire ancora incompiuta» (Forcina,
2003, 175).
    L’anomalia della sottorappresentazione di uno dei due generi in Italia è più
accentuata che altrove e annoda uno stretto legame tra democrazia e cittadinan-
za. Se democrazia significa «governo del popolo», che democrazia è mai quella
in cui una parte del popolo non trova posto nei luoghi delle decisioni politiche?
Se cittadinanza è «la condizione giuridica di chi appartiene a un determinato
Stato ed è perciò in esso titolare di un’ampia gamma di diritti e di doveri», che
cittadinanza è mai quella in cui l’affermazione dei diritti è meramente formale
e la quantità di doveri è maggiore in capo alle donne? E ciò vale ancor più oggi
che, con la crisi del Welfare State e dello Stato-Nazione, la tenuta del legame
sociale dipende in gran parte da quel lavoro non riconosciuto né remunerato
che viene ancora sopportato per la stragrande maggioranza dal genere femmini-
le. Scrive Alisa Del Re: «Se la cittadinanza è un insieme di diritti e di doveri,
per le donne sembra esserci qualche dovere in più – almeno una gran parte dei
doveri relativi all’ambito riproduttivo» (Del Re, 1996, 159).
    Due riflessioni di conseguenza si impongono: 1) la tenuta della democra-
zia si intreccia e dipende dal rapporto asimmetrico tra i due sessi; 2) allo stato
attuale, sia la democrazia che la cittadinanza sono declinate al maschile e,
nella relazione tra i generi, sono ‘difettose’ entrambe: c’è un difetto di demo-
crazia così come c’è un difetto di cittadinanza.
    La prospettiva storica può aiutarci a capire come e perché si sia arrivati a
questa situazione. Incentriamo, allora, la nostra attenzione sulla cittadinanza,
un argomento sul quale esistono studi vastissimi e, anche dietro la spinta del
fenomeno ‘immigrazione’, una rinnovata insistente attenzione.
    Il termine-concetto ‘cittadinanza’ ha esteso nel tempo il suo campo se-
mantico: se prima descriveva semplicemente la posizione di un soggetto di
fronte a uno Stato – rispetto al quale si era per l’appunto o ‘cittadini’ o ‘stra-
nieri’ – oggi è divenuta una sorta di parola-chiave, «un crocevia di suggestio-
ni variegate e complesse che coinvolgono l’identità politico-giuridica del
soggetto» (Costa, 1999, VII). È qualcosa di più che appartenenza a una comu-
nità politica con il conseguente corollario di doveri e di diritti; la cittadinanza
Donne e cittadinanza politica: una prospettiva storica                85

   stabilisce le forme dell’obbedienza e della partecipazione, detta le regole
   dell’inclusione e dell’esclusione […] ma suggerisce anche una prospettiva pe-
   culiare invitando a guardare alla civitas dal basso verso l’alto, ad assumere
   l’individuo come il filtro attraverso il quale studiare la costituzione dell’ordine
   politico (Costa, 2000, VII).

     Il successo di oggi richiama una vicenda secolare. Quello della cittadi-
nanza è infatti un discorso antico, che copre un amplissimo arco temporale, a
cominciare dalle celebri definizioni aristoteliche del III libro della Politica.
Discorso che peraltro, partendo da tanto lontano, ci conduce direttamente nel
cuore della modernità. Difatti è solo con la modernità che il concetto di citta-
dinanza, dopo una complessa gestazione entro le forme giuspolitiche dello
Stato assoluto, assume il profilo di contenitore di una serie tendenzialmente
aperta di diritti soggettivi.
     Nel discorso sulla cittadinanza, le ‘colonne d’Ercole’ sono costituite dalla
Rivoluzione francese, che determina la grande cesura. Mentre per tutto il me-
dioevo e fino al crollo della società d’ancien régime, il soggetto (naturalmen-
te ci riferiamo all’uomo libero) era un ‘cittadino-suddito’ che definiva la pro-
pria posizione sulla base di una moltitudine di appartenenze variamente or-
chestrate – apparteneva alla città, al territorio, al ceto, alla corporazione, al
gruppo familiare, al sovrano, in un reticolo di vincoli che definivano il suo
status e, quindi, il paradigma dei suoi ‘diritti-privilegi’ – con il crollo
dell’antico regime questi vecchi legami si spezzano per lasciare spazio a un
‘nuovo ordine’.
     Tra il 1789 e il 1793, la Francia rivoluzionaria dichiara di voler fare dei
diritti del soggetto e dell’appartenenza alla nazione il fondamento del ‘nuovo
ordine’. Il citoyen si definisce come ‘non più suddito’ e al contempo come
membro della nazione, titolare, in quanto tale, di diritti individuali, cioè di di-
ritti che gli sono riconosciuti in quanto singolo individuo e non perché appar-
tenente a un ceto, a una corporazione, a un gruppo familiare etc.
     La cittadinanza, debitrice dell’illuminismo e della rappresentazione gius-
naturalistica del soggetto – dell’uomo che per diritto di natura è libero e u-
guale – a partire dall’età delle rivoluzioni di fine Settecento, americana e
francese, acquista la moderna configurazione di piena appartenenza ad una
comunità politica, di titolarità di diritti civili e politici e di tutela per il loro
godimento effettivo.
     Da quelle remote origini, oggi l’itinerario percorso dalla cittadinanza si è
modificato. All’origine dello Stato moderno e ancora per tutto l’Ottocento la
cittadinanza ha rappresentato – almeno in linea di principio e salve le ecce-
zioni di cui parleremo – «un fattore di inclusione e di uguaglianza», sottraen-
do ampie categorie di soggetti dai pesanti vincoli e dalle soggezioni di antico
regime. Col tempo si è arricchita – specie negli anni di consolidazione dello
Stato sociale, del Welfare State – «di nuova sostanza ed è stata investita di un
formidabile apparato di diritti» (Marshall, 2002, 11): accanto ai diritti civili e
86                                    M. Antonella Cocchiara

ai diritti politici, affermatisi a cominciare dalla fine del Settecento e, per
espansioni successive, tra Otto e Novecento, dopo la seconda guerra
mondiale e con il passaggio dallo Stato liberale allo Stato sociale, sono stati
riconosciuti i diritti sociali e, in seguito, quelli di terza e quarta generazione
che la maggiore sensibilità dell’uomo e le nuove tecnologie hanno incluso nel
catalogo dei diritti fondamentali3.
    Attualmente la cittadinanza ha però invertito la sua rotta: secondo Luigi
Ferrajoli, essa ha smesso di essere un «fattore di inclusione e di uguaglianza»
e, messa alla prova dall’esplodere del problema delle immigrazioni di massa
dai paesi poveri o a ridotto tasso di democrazia verso i paesi ricchi delle de-
mocrazie occidentali, rappresenta piuttosto «l’ultimo privilegio di status,
l’ultimo fattore di esclusione e di discriminazione», in primo luogo rispetto ai
migranti (Ferrajoli, 1994, 263-291; Ferrajoli, 2000, 37-44).
    Tracciare la storia della cittadinanza, in qualunque contesto la si collochi,
significa, pertanto, raccontare una storia di inclusioni e di esclusioni. Tra
queste, la più vistosa è l’esclusione delle donne, che risale alle origini rivolu-
zionarie della cittadinanza e si pone in assoluto contrasto con la mistica
dell’universalismo dei diritti proclamati con la Dichiarazione dell’89.
    Mentre la Rivoluzione francese decretava il crollo dell’antico regime e
fondava il nuovo ordine proclamando, come valore universale, che «Gli uo-
mini nascono e rimangono liberi e uguali nei loro diritti» (art. 1 della Dichia-
razione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789) – diritti configurati co-
me individuali, naturali, imprescrittibili e inalienabili – contemporaneamente
quello stesso ‘nuovo ordine’ evidenziava le sue contraddizioni, la più eclatan-
te delle quali era l’esclusione delle donne dalla titolarità di questi diritti.
    Perché? Dice bene Elisabetta Palici di Suni quando osserva che la condi-
zione giuridica della donna è inevitabilmente connessa, nel corso della storia,
alle idee sulla donna, sulla famiglia, sui rapporti tra i due sessi radicate nella
cultura e nella società (Palici di Suni, 2004, 5).
    Ebbene, nel pensiero illuminista continuava a restare prevalente l’idea,
radicata in una tradizione millenaria, che la donna fosse “per natura” inferiore
all’uomo e avesse una funzione essenzialmente riproduttiva e domestica. An-
che il più democratico tra i philosophes, Rousseau, negava autonomia alle
donne, concepite in funzione meramente ancillare rispetto agli uomini («le
donne sono al mondo per piacere e obbedire agli uomini»).
    La proclamazione del principio di eguaglianza mirava a superare le diffe-
renziazioni di status e i privilegi di antico regime; fatta salva qualche isolata
e illustre eccezione (ad esempio, Condorcet), il problema che questo princi-
pio dovesse comportare anche l’uguaglianza tra uomini e donne sembrava,

     3
       Al punto che, accanto ai due elementi della cittadinanza come appartenenza a una comuni-
tà e come status-contenitore dei diritti di cui il soggetto viene ad essere titolare, il sociologo in-
glese Thomas H. Marshall, nella configurazione da lui proposta alla metà del Novecento, ha ag-
giunto un altro elemento: la cittadinanza vista anche come il risultato di un processo storico che
ne dilata progressivamente, senza sovvertirlo, il nucleo originario e costitutivo.
Donne e cittadinanza politica: una prospettiva storica                     87

però, non sfiorare le menti degli “uomini della rivoluzione” (Costa, 2, 2000,
69-76).
    Benché le donne avessero avuto un ruolo determinante prima e dopo la
presa della Bastiglia; benché, nei primi anni dopo l’89, qualche club parigino
ne avesse anche ammesso alcune al suo interno4, nonostante ciò, nel 1793, la
Convenzione (nuova assemblea costituente eletta a suffragio universale ma-
schile dopo la sospensione del re e la caduta della monarchia, nel settembre
1792) avrebbe soppresso tutte le associazioni femminili perché – affermava
Amar a nome del Comitato di salute pubblica – «Le donne sono poco capaci
di concezioni elevate, di meditazioni serie, e la loro naturale esaltazione sa-
crificherebbe sempre gli interessi dello Stato a tutto ciò che di disordinato
può produrre la vivacità delle passioni». E – ricorda ancora la Bock (2001,
100) – l’ultraradicale Chaumette, tra i più spietati artefici del Terrore, gli da-
va ragione e, assumendo a modello la figura di Sophie dell’Émile di Rousse-
au, ammoniva: «La natura […] ha detto alla donna: “Sii donna! I tuoi affari
sono la tenera cura dei bambini, le piccole incombenze domestiche, le dolci
inquietudini della maternità”».
    Esaltate e ingabbiate nel ruolo di mogli, madri ed educatrici dei futuri cit-
tadini, difensori della République, lo spazio loro riservato era quello delimita-
to dalle mura domestiche. La “città era proibita” alle donne, i diritti politici
loro negati: non potevano designare propri rappresentanti, né esercitare fun-
zioni pubbliche, né conquistare alcuno spazio politico. Nel corso di una vita
privata di reale accesso alla cittadinanza, le «amabili e virtuose cittadine» de-
scritte da Rousseau (1970, 276) quali «preziosa metà della Repubblica che fa
la felicità dell’altra» dovevano osservare le regole di disciplinamento sociale
loro destinate dagli uomini della Rivoluzione in coerenza con la “natura
femminile”.
    È, tuttavia, proprio nelle convulsioni della Parigi di fine Settecento che
incontriamo la capostipite del pensiero femminista moderno: Olympe de
Gouges, la più nota, se non la sola donna che, al tempo della Rivoluzione,
pose il problema della presenza femminile sulla scena politica, mettendo in
crisi le certezze del pensiero maschile illuminista.
    Perché mai i diritti universali, dichiarati solennemente in Francia come
già negli Stati Uniti, riguardano solo i cittadini di sesso maschile? come mai
l’ambigua parola “uomo” definisce anche la donna quando si parla di tasse e

     4
       Donne che non mancavano di far sentire la loro voce per rivendicare uguaglianza e giusti-
zia per il loro «sesso […] circondato e supportato da leggi ingiuste che […] riconoscono [alle
donne] solo una secondaria esistenza nella società». Così l’olandese Etta Palm D’Aelders che,
nel suo Discorso sulla ingiustizia delle leggi in favore degli uomini alle spese delle donne (30
dicembre 1790), pronunciato nel club patriottico Gli Amici della Verità, associato con il Circolo
sociale, denunciava tra l’altro che la giustizia, «prima forza degli uomini liberi … esige che le
leggi siano uguali per tutti gli esseri, come l’aria e il sole», mentre «ancora ovunque, le disposi-
zioni legislative favoriscono gli uomini a scapito delle donne perché, ovunque, il potere è nelle
vostre mani». Il testo del discorso può leggersi nel sito, in MATERIALI DIDATTICI, Cocchiara,
doc.1.
88                                    M. Antonella Cocchiara

di reati da punire e, invece, è circoscritta alla ‘persona di sesso maschile’, con
esclusione delle donne, quando si parla di diritti politici e civili? Queste era-
no le domande che poneva a se stessa e agli altri Olympe de Gouges, autrice
tra l’altro della Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, pubbli-
cata nel 1791 ed esemplata sulla Dichiarazione dei diritti del 17895, a indica-
re non un’imitazione, bensì, con chiaro intento polemico, una collocazione
della specificità femminile all’interno dell’universalità (Rossi-Doria, 1990,
15). Una collocazione che provocatoriamente faceva emergere la questione
centrale del problema: l’esclusione delle donne dal godimento dei diritti di
cittadinanza, ovvero dell’insieme dei diritti e delle facoltà attribuiti dalla co-
munità politica a coloro che – uomini e donne – erano riconosciuti come pro-
pri membri.
    Nella vicina Inghilterra, a Londra, nel 1792, Mary Wollstonecraft pubbli-
cava la sua Vindication of the Rights of Woman, in cui rivendicava il diritto
delle donne a ricevere la stessa educazione degli uomini, perché – sosteneva
– è dalla mancanza di un’adeguata formazione che dipende la loro apparente
incapacità. Rivendicava anche il loro diritto all’eguaglianza politica e alla
rappresentanza, convinta che «le donne debbano avere dei rappresentanti in-
vece di essere governate arbitrariamente senza alcuna voce in capitolo nelle
delibere del governo», e a tal fine le invitava alla mobilitazione: «È giunta
l’ora di dare inizio a una rivoluzione nei costumi delle donne, è giunta l’ora
di recuperare la dignità perduta, e far sì che esse, in quanto parte della specie
umana, si adoperino per riformare se stesse e per riformare il mondo» (Wol-
lstonecraft, 2008, 113 e 67)
    Olympe de Gouges e Mary Wollstonecraft sono delle antesignane, lungi-
miranti anticipatrici del movimento delle suffragiste, morte entrambe prema-
turamente: la prima, entrata in aperto contrasto con Robespierre, fu ghigliot-
tinata nel novembre del 1793, qualche mese dopo l’esecuzione della regina
Maria Antonietta cui aveva indirizzato la sua Dichiarazione; la seconda morì
di parto nel 1797. Donne molto intelligenti, non ‘congrue’6, non sovrapponi-
bili alle idee del loro tempo; donne molto sole, soprattutto lasciate sole dalle
altre donne. E sul tema della solitudine in cui si ritrovano troppo spesso le
donne, o meglio, “certe donne”, e sullo spreco di intelligenze e di energie che
ciò comporta, voglio chiudere questa prima parte sulla “difficile” cittadinanza
femminile citando le parole che Maria Rosa Cutrufelli fa dire all’Olympe da
lei raccontata nel libro La donna che visse per un sogno, nel corso di un dia-
logo con una pittrice che la stava ritraendo nei giorni del processo:

     5
       In MATERIALI DIDATTICI, 1.6.Cocchiara, doc. 2.1, è pubblicato il testo della Dichiarazio-
ne dei diritti della donna e della cittadina in versione originale e tradotta in italiano, con, in cal-
ce, una sintetica nota bio-bibliografica sulla de Gouges. In MATERIALI DIDATTICI, 1.6.Cocchiara,
doc. 2.2, si veda la stessa Dichiarazione posta a confronto con la Dichiarazione dell’89.
     6
       Marisa Forcina ci ricorda, riferendosi ad altro argomento, che in geometria si dicono con-
grue due figure esattamente sovrapponibili; cfr. Forcina, 2003, 201.
Donne e cittadinanza politica: una prospettiva storica          89

   OLYMPE – Se anche gli attori… se addirittura Arlecchino ha ottenuto i suoi
      diritti costituzionali dopo l’ottantanove, perché noi (donne) non dovrem-
      mo ottenerli? Dovrà accadere, prima o poi…
   PITTRICE – Quando?
   OLYMPE – Quando impareremo ad applaudire l’opera di un’altra donna. A
      essere meno ingrate l’una verso l’altra… (Cutrufelli, 2004, 304)
    e aggiungo: quando impareremo a ragionare con autonomia di pensiero,
a fare rete tra noi e potenziare, così, la nostra presenza nei luoghi in cui si
decide anche per noi, ma spesso in nostra assenza, a ricordare a noi stesse e
soprattutto alle nuove generazioni di donne che «i diritti […] per fonda-
mentali che siano, sono diritti storici, cioè nati in certe circostanze, contras-
segnate da lotte per la difesa di nuove libertà contro vecchi poteri, gra-
dualmente, non tutti in una volta e non una volta per sempre» (Bobbio,
1995, XIII).

   3. La storia del diritto di voto alle donne in Italia

    Da quanto detto, dovrebbe risultare sufficientemente evidente che il carat-
tere universalistico della cittadinanza si rivelava subito una mistificazione.
Del resto anche le persone di sesso maschile ‘non erano tutte uguali’: non lo
erano i poveri, né i maschi analfabeti, né tutti coloro che in astratto godevano
di diritti uguali, ma non erano nelle condizioni concrete di esercitarli. È anche
vero, però, che l’acquisizione di diritti civili, politici e sociali – contenuto es-
senziale della cittadinanza – sarà comunque più piena, oltre che di più rapido
accesso, per gli uomini e molto meno per le donne. Daniela Novarese nella
sua lezione darà corpo e sostanza a questa mia affermazione con riferimento
ai diritti civili (Novarese, ivi, infra), ma ciò risulta dimostrato con altrettanta
evidenza dalla vicenda del diritto di voto.
    Storia singolare, quella del suffragio femminile in Italia, che ricostruire-
mo analizzando i numerosi e vani tentativi di età liberale; ricordando le bat-
taglie del suffragismo dell’Ottocento e Novecento e infine approfondendo le
modalità con cui finalmente, nel febbraio del 1945, si giunse all’estensione
alle donne del voto sia politico che amministrativo.
    Storia di una conquista: i diritti in genere non sono mai stati regalati, me-
no che mai alle donne e ancor meno il diritto di voto… Eppure, c’è chi, reci-
dendo ogni legame con le battaglie suffragiste, ma anche con le meno remote
rivendicazioni del Comitato pro voto istituito nell’ottobre del ‘44, ne ha par-
lato come di una concessione piuttosto che di una conquista, chi lo ha descrit-
to come un ‘premio’ dato alle donne per la loro partecipazione alla Resisten-
za, chi ne ha colti certi risvolti legati alla propaganda elettorale e alla raccolta
del consenso. Tra interpretazioni e approcci diversi, una certezza c’è: si tratta
di argomento che merita di essere approfondito e, forse, può anche risultare
utile per decifrare le difficoltà che, dopo il riconoscimento del diritto di voto,
90                                M. Antonella Cocchiara

le donne italiane hanno incontrato nel pieno accesso alla cittadinanza.
    Storia piena di contraddizioni: nel corso dell’Italia liberale, è la storia di
una sconfitta, della persistente esclusione delle donne dalla titolarità e
dall’esercizio dei diritti politici e della loro assenza dai luoghi della rappre-
sentanza. La questione è tuttavia ben documentata: è presente nei lavori par-
lamentari sui progetti di riforma elettorale, nel dibattito politico, nell’opinio-
ne pubblica, sulla stampa dell’epoca (Bigaran, 1992, 63) e persino nella giu-
risprudenza. Quando, invece, seguiremo il percorso – breve ma denso di si-
gnificati – che porta al riconoscimento del diritto di voto alle donne
all’indomani della caduta del fascismo, racconteremo la storia di un succes-
so, conquistato in maniera frettolosa e nelle condizioni emergenziali vissute
dal Paese tra la fine del 1944 e i primi mesi del 1945, e anche per questo, pe-
rò, difficile da ricostruire attraverso le fonti di cui solitamente si avvale lo
storico del diritto e delle istituzioni politiche: cioè i resoconti parlamentari, i
verbali delle assemblee in cui si svolgono i dibattiti politici etc. Questi, infat-
ti, mancano e anche dai giornali dell’epoca traspare un’attenzione inferiore
all’importanza rivestita da quel diritto politico per tanto tempo negato.
    Storia di un successo, si è detto, almeno sotto il profilo giuridico. Con ri-
ferimento, in generale, alla storia delle donne, si dirà che essa è una «storia
bicefala e bislacca, […] di successi giuridici e di sconfitte sociali» (Ainis,
2004, 133). Successi normativi cui però non corrisponderanno pari successi
nella concreta attuazione dei diritti conquistati: per tutto il Novecento, il lun-
go cammino delle donne verso la parità sarà solcato da questa antinomia, da
grandi conquiste nel riconoscimento dei diritti, ma da insuccessi riguardo al
loro pieno, concreto esercizio. La perdita di memoria non è certo d’aiuto nel-
la rivendicazione, a tutt’oggi necessaria, di diritti formalmente riconosciuti
ma non giustiziabili o nella difesa di conquiste messe ripetutamente in di-
scussione. E allora, parliamone, raccontiamo ancora una volta questa storia,
per non dimenticare e rafforzare così la consapevolezza del valore dei diritti
conquistati.

    La battaglia organizzata delle donne per il diritto di voto ebbe inizio negli
Stati Uniti, a metà Ottocento. Durante la prima “Convenzione sui diritti delle
donne”, riunitasi a Seneca Falls nel 1848, venne approvata la Dichiarazione
dei Sentimenti, esemplata sulla Dichiarazione d’Indipendenza americana,
proprio come la Dichiarazione della de Gouges era stata modellata sulla Di-
chiarazione francese dell’89. In essa tra l’altro le antesignane del suffragismo
organizzato proclamavano:
     Si delibera che la donna si è accontentata per troppo tempo dei ristretti confini
     che costumi corrotti e una erronea applicazione delle Scritture hanno fissato
     per lei e che è giunto per lei il momento di muoversi in quella più ampia sfera
     che il suo Creatore supremo le ha assegnato.
     Si delibera che è un dovere delle donne di questo paese assicurarsi il loro sa-
     cro diritto al voto.
Donne e cittadinanza politica: una prospettiva storica                91

   Si delibera che l’uguaglianza dei diritti umani deriva necessariamente dal fat-
   to che le capacità e le responsabilità della specie umana sono identiche (in
   Rossi-Doria, 1990, 95).

     Una lotta, quella delle suffragiste statunitensi, condotta con costanza e te-
nacia fino a quando il voto non sarà riconosciuto dapprima nei singoli Stati
(il Wyoming per primo, nel 1848, seguito dal Colorado nel 1893, dallo Stato
di Washington nel 1910, dalla California, nel 1911) e poi, nel 1920, a livello
federale.
     In Inghilterra la campagna per il suffragio femminile si svolse tra il 1866
e il 1914, anche se una prima petizione era stata rivolta alla Camera dei Lords
già nel 1850. Il traguardo venne raggiunto nel 1918: il 6 febbraio, il Repre-
sentation of the People Act riconobbe il diritto di voto alle donne che aveva-
no compiuto i trent’anni. A novembre dello stesso anno fu approvata
l’eleggibilità delle donne ai Comuni. Sono conquiste che in parte rappresen-
tano un attestato di merito per il ruolo svolto dalle donne durante la “Grande
Guerra”, ma sono soprattutto il risultato della dura lotta combattuta dal suf-
fragismo anglosassone, da donne determinate, tenaci, ben lontane dall’imma-
gine salottiera e svagata della signora Banks – la mamma–suffragetta del film
Mary Poppins –, donne che non esitarono a sfidare i pubblici poteri e a ri-
schiare, in nome delle loro idee emancipazioniste, galera ed emarginazione
sociale.
     In Germania il suffragismo si sviluppò alla fine dell’800, mentre in Fran-
cia e in Italia il massimo sviluppo si ebbe all’inizio del ‘900.
     La storia del voto alle donne italiane iniziava, però, molto prima, nello
stesso anno in cui nasceva il Regno d’Italia, per svilupparsi in seguito, con
modulazioni diverse – intervalli o punte di maggiore intensità – per tutta l’età
liberale. Per ben due volte la legge per l’estensione alle donne del voto am-
ministrativo sembrò giunta a un passo dall’approvazione, ma la fine anticipa-
ta delle legislature ne avrebbe impedito il positivo epilogo.

   4. Le prime proposte di estensione del voto alle donne dall’Unità alla ca-
duta della Destra

    Lo Statuto albertino del 1848, che dopo l’Unità fu esteso al Regno
d’Italia, all’art. 24 stabiliva:

   Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo e grado, sono eguali dinanzi alla
   legge.
   Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cari-
   che civili e militari, salve le eccezioni determinate dalle leggi.

    Regnicoli senza distinzione di titolo e grado; tutti «egualmente», dunque
sia uomini che donne. E invece no. Benché la legge elettorale politica – la
legge Balbo del 17 marzo 1848, che elencava tra le «condizioni per essere e-
92                                    M. Antonella Cocchiara

lettore» il godimento dei diritti civili e politici, l’età di 25 anni, la capacità di
leggere e scrivere e il pagamento di un censo annuo «non minore di lire qua-
ranta nuove» – non ponesse un esplicito divieto alle donne di votare,
all’esercizio del diritto di voto erano ammessi solo gli uomini con i requisiti
sopra indicati, e ciò con il beneplacito di tutti, dell’opinione pubblica sabauda
e poi, quando quella legge, senza sostanziali modifiche riguardo al suffragio,
venne estesa ai territori annessi, nel silenzio accondiscendente dell’opinione
pubblica ‘italiana’.
    In una continuità persino imbarazzante con lo Stato sabaudo, avvalorata
dall’intitolazione del sovrano – Vittorio Emanuele non I re d’Italia, ma II, per
aver mantenuto l’ordinale di casa Savoia – e della Legislatura del primo Par-
lamento nazionale, che continuava ad essere l’VIII, in prosecuzione con quel-
la del Parlamento subalpino, anche l’ordinamento comunale e provinciale
piemontese del 23 ottobre 1859 (decreto Rattazzi) era esteso al nuovo Stato
unitario, e con esso l’esplicita esclusione delle donne dall’elettorato ammini-
strativo sia attivo che passivo sancita dall’art. 23, che stabiliva:

     Non sono né elettori né eleggibili gli analfabeti quando resti nel Comune un
     numero di elettori doppio di quello dei Consiglieri, le donne, gli interdetti, o
     provvisti di consulente giudiziario, coloro che sono in istato di fallimento dichia-
     rato, o che abbiano fatto cessione di beni finché non abbiano pagati intieramente
     i creditori; quelli che furono condannati a pene criminali se non ottennero la ria-
     bilitazione; i condannati a pene correzionali od a particolari interdizioni mentre
     le scontano; finalmente i condannati per furto, frode, o attentato ai costumi.

    Un tale espresso divieto suscitava, subito dopo l’Unità, una prima manife-
stazione di dissenso pervenuta alla neo-eletta Camera dei deputati tramite una
petizione sottoscritta da un gruppo di «Cittadine Italiane»7. Così si qualificava-
no: erano in realtà donne lombarde, che chiedevano il riconoscimento dei diritti
di cui godevano sotto la dominazione asburgica. Facevano espresso riferimento
alla parificazione «all’uomo nella facoltà di disporre delle proprie sostanze in
ogni contrattazione anche senza la tutela maritale», ma tra quei diritti di cui go-
devano sotto il passato regime rientrava anche il suffragio amministrativo. Le
donne lombarde, come quelle toscane e venete, fino all’unificazione, avevano
infatti potuto esercitare, seppure in modo “condizionato”, il voto amministrati-
vo. Non tutte e non con le stesse modalità dell’uomo: nel Lombardo-Veneto, se
proprietarie-contribuenti, attraverso un proprio rappresentante (tutore, curatore
o amministratore) potevano partecipare ai Convocati dei comuni minori e far
parte della Deputazione del Consiglio generale; in Toscana, invece, le contri-
buenti non godevano, neanche tramite delegato, dell’eleggibilità, ma potevano
votare osservando «la clausola di far arrivare il loro voto al seggio attraverso
una procura o una busta sigillata, onde evitare il contatto fisico tra il corpo
femminile e il luogo pubblico maschile» (Rossi-Doria, 1996, 77).

     7
         Si veda MATERIALI DIDATTICI, 1.6. Cocchiara, doc. 3.
Donne e cittadinanza politica: una prospettiva storica          93

     A questo riguardo vorrei aprire due parentesi.
     La prima a proposito di questa normativa sul ‘diritto di voto condizionato’
che svela la preoccupazione, intrisa di valore simbolico, della contaminazio-
ne tra corpo femminile e luogo maschile: un timore ricorrente in tutte le di-
scussioni e i dibattiti parlamentari sul diritto di voto alle donne, manifestato
con celia, con battutine allusive o con una sagacia che finiva per destare
l’ilarità dei presenti, né più e né meno di quanto avverrà qualche decennio
dopo, quando si discuterà dell’accesso delle donne alla magistratura.
     L’altra parentesi riguarda la differenza tra voto politico e voto ammini-
strativo: in Italia i numerosi tentativi di estendere il voto alle donne,
dall’Unità al fascismo, riguarderanno prevalentemente il voto amministrati-
vo. Il voto politico, previsto solo da qualche ardito progetto negli anni della
Destra e introdotto solo nel Novecento (e soprattutto nel primo dopoguerra)
nel dibattito giuridico e parlamentare, secondo Rossi-Doria (1996, 76) «non
fece mai realmente parte dell’orizzonte delle possibilità». Era talmente radi-
cata nel contesto culturale dell’epoca l’idea che le donne ‘non potessero’ go-
dere del suffragio politico che le leggi elettorali del 1848, del 1859 e del 1882
(ma anche le successive del 1912, del 1918 e del 1919), supponendone la ov-
vietà, a differenza delle leggi elettorali amministrative, non prevedevano una
norma che esplicitamente le escludesse dal voto. Può giovare, in proposito, il
pensiero di uno tra i giuristi liberali più accreditati del tempo, Luigi Palma,
che non esitava a ritenere improponibile e innaturale una presenza nello spa-
zio pubblico delle donne. Fossero «madri, sorelle, spose, figlie, custodi del
santuario domestico», le donne, il cui regno è la casa, il cui «dominio è quel-
lo degli affetti», se immesse «negli avvolgimenti politici, nelle lotte partigia-
ne», sarebbero state di fatto sottratte alla loro natura, «snaturate» (Palma,
1869, 211-212). E con sarcasmo aggiungeva: «Inoltre concesso l’elettorato
alle donne, come negar loro l’eleggibilità? E allora come guarentire dal ridi-
colo i parlamenti delle nazioni, ove si vedessero legislatori in guardinfanti, e
nastri, e merletti, e ricci, e vesti ad ampia, lunga, interminabile coda?» (Pal-
ma, 1869, 212).
     E ancora nel 1910, l’avvocato Ignazio Brunelli, nel saggio Sul suffragio
politico femminile, se per un verso evidenziava l’assenza di uno specifico di-
vieto normativo di elettorato politico attivo e passivo, osservando che «inva-
no si cercherebbe una disposizione che vieti alla donna di sedersi sia nell’uno
che nell’altro ramo del parlamento», per altro verso aggiungeva che tuttavia
«non si è dubitato giammai che l’esercizio di quelle funzioni, che si risolve in
quello di altrettanti diritti politici, sia alla donna, per ragione del sesso, inter-
detto» (Brunelli, 1910, 205-206).
     Di contro, le chances del voto amministrativo furono molte, anche se
nessuna arrivò mai a buon fine. Dal dibattito parlamentare sui primi proget-
ti di modifica della legge comunale e provinciale, di seguito ricostruito, si
ricavano con chiarezza le ragioni. Alla fine, il voto amministrativo, per tut-
ta l’età liberale, le italiane non lo avrebbero ottenuto, ma, in linea con que-
94                                    M. Antonella Cocchiara

sta idea, sarebbero divenute col tempo elettrici ed eleggibili nei consigli di
amministrazione delle congregazioni di carità e di altri istituti di beneficen-
za (1890), nei collegi dei probiviri per i conflitti di lavoro (1893), nelle
Camere di commercio (1910) e negli organi elettivi dell’istruzione elemen-
tare e popolare (1911).

    Chiuse le parentesi, torniamo alla nostra storia, che ha inizio per
l’appunto con la presentazione in Parlamento, nella tornata del 13 marzo
1861, del progetto Minghetti di legge comunale e provinciale che, nel tenta-
tivo di apportare modifiche al decreto Rattazzi del 18598, se all’art. 17 con-
fermava l’espressa esclusione delle donne di essere elettrici ed eleggibili –
al pari di interdetti, falliti e condannati reclusi – all’art. 13 introduceva la
facoltà per le donne proprietarie, la cui contribuzione non fosse imputata a
un marito, di «delegare la rappresentanza del loro censo elettorale», senza
vincolo alcuno nella scelta del rappresentante. Tale norma avrebbe così
modificato l’art. 19 del R.D. 23 ottobre 1859, secondo cui «la contribuzione
pagata da una vedova o dalla moglie separata di corpo e di beni, può valere
come censo elettorale a favore di quello dei figli o generi che sarà da lei de-
signato».
    Il progetto Minghetti veniva ritirato il 3 gennaio 1862 dal ministro Rica-
soli, ma nel 1863 la norma sulla delega della rappresentanza per le donne
contribuenti trovava posto all’art. VII della riforma presentata dal ministro
dell’interno Ubaldino Peruzzi nella tornata del 29 maggio, quale integrazione
dell’art. 19 del decreto Rattazzi, posta dopo «il secondo alinea…». La propo-
sta del Peruzzi era piuttosto ardita perché avanzava l’ipotesi di modificare
l’articolato sistema “a scaglioni” dell’elettorato attivo disciplinato dall’art. 14
della normativa del ‘59 ammettendo al voto amministrativo tutti i ventunenni
che godessero dei diritti civili, purché iscritti da sei mesi nei ruoli delle con-
tribuzioni dirette, e integrando l’art. 45 di quel decreto con il XV punto che
includeva tra coloro che potevano esprimere il voto per posta con firma au-
tenticata – cioè «quelli che dimorano fuori della provincia o che giustificano
d’essere iscritti sulle liste elettorali di più comuni, o di non potere intervenire
all’adunanza per causa di malattia» – anche le donne. Il testo originario della
proposta sarebbe stato in seguito emendato in parte dallo stesso ministro9, in
parte dalla Commissione incaricata di esaminarlo (relatore Bon-Compagni),
mentre non subiva modifiche l’articolo che prevedeva «le schede anche delle
donne» (Relazione Bon-Compagni, doc. 8-A, 15).
    Ammesse al voto sarebbero state le contribuenti che fossero anche vedove
o separate di corpo e di beni o nubili maggiorenni. Donne che, quindi, non
erano sottoposte alla autorità di un marito o di un padre e, come tali, erano

     8
      L’ordinamento comunale e provinciale approvato con R. decreto 23 ottobre 1859 è pubbli-
cato nel sito, alla voce MATERIALI DIDATTICI, 1.6. Cocchiara, doc. 4.2.a.
    9
      Peruzzi ritirava le modifiche all’art. 14 e quindi le conseguenti varianti agli artt. da 18 a 22.
Donne e cittadinanza politica: una prospettiva storica                 95

considerate «portatrici di interessi propri» (Galeotti, 2006, 26). In sostanza,
mancando un uomo che potesse tutelarle, costoro erano abilitate a difendere i
propri interessi attraverso una partecipazione confinata all’ambito locale e
avrebbero potuto – come negli antichi Stati di cui si è detto – votare un loro
rappresentante, esprimendo, però, il proprio voto per delega o per iscritto. A
nome della Commissione, il relatore Bon-Compagni si dilungava a spiegare
l’ammissibilità della proposta, ma anche le cautele previste nell’adottarla:

    Il comune è una associazione di contribuenti i cui diritti si esercitano princi-
    palmente deliberando delle spese. Indi è naturale che il diritto di frammettersi
    nella sua amministrazione partecipando all’elezione dei consiglieri sia conce-
    duto o a tutti i contribuenti od a coloro che contribuiscono in una certa pro-
    porzione.
    Perciò l’eccezione che si oppone alle donne, allorquando si tratti di elezioni
    politiche, non è più fondata egualmente allorquando si tratti di elezioni comu-
    nali.
    Occorre poi notare che il caso in cui la donna partecipi all’elezione non sarà
    che un’eccezione.
    Al marito si tien conto della contribuzione che paga la moglie. Così la donna
    maritata, ma separata di corpo e di beni, e la donna nubile maggiorenne saran-
    no sole ammesse all’elezione comunale. Anzi, vivendo il padre, quest’ultima
    non sarà ammessa se non avrà raggiunto l’età in cui il figlio di famiglia acqui-
    sta la libera amministrazione dei beni propri.
    I nostri costumi non consentirebbero alla donna di frammettersi nel comizio
    degli elettori per recare il suo voto. Il progetto propone che la donna debba da-
    re il suo voto delegando la rappresentanza. Nel timore che la donna sia troppo
    di leggieri sotto l’ascendente del giudizio altrui sta il motivo per cui si richie-
    dono particolari cautele, quando essa debba dare il suo suffragio. Il fine a cui
    la legge intende sarà assai meglio raggiunto, a parere della Commissione,
    quando alla donna si prescriva di mandare il voto scritto in ischeda10.

    Per tutta l’età liberale si riuscirà, pertanto, a concepire la possibilità – in
linea di principio – che le donne-contribuenti, a tutela dei propri interessi pri-
vati, potessero votare i loro rappresentanti nei consigli comunali o provinciali
in quanto amministratori dei propri beni, mentre era impensabile una loro e-
spressione di voto che ne decretasse l’accesso a quello spazio politico che an-
che ‘fisicamente’ era loro inibito.
    Relativamente al voto politico, quelle consapevolezze, a salvaguardia del-
le quali erano posti i limiti al suffragio, se dapprima si supponeva appartenes-
sero solo ai maschi, maturi (25 anni), alfabetizzati e benestanti, poi si riter-
ranno presenti anche nei maschi un po’ più giovani (21 anni), alfabetizzati
sebbene non troppo ricchi e, infine, dal 1912, persino nei maschi analfabeti,

    10
       Relazione Bon-Compagni, doc. 8-A, in ATTI PARLAMENTARI, CAMERA DEI DEPUTATI (=
AP, CD), Legislatura VIII - Sessione 1863-64, Raccolta dei documenti stampati per ordine della
Camera (= Raccolta), I, Torino, per gli eredi Botta, 1865, pp. 14-15. Parzialmente anche in Ca-
mera dei deputati, 1996, 39-40.
96                                 M. Antonella Cocchiara

purché ultratrentenni o che avessero prestato il servizio militare, e dal 1918 in
tutti i maschi maggiorenni anche se analfabeti (Calabrò, ivi, infra),
     Alla donna, invece, per quanto proprietaria-contribuente e – dopo l’acces-
so agli studi liceali e universitari, consentito tra il 1874 e il 1876 – addirittura
laureata, una tale consapevolezza non veniva riconosciuta; e così la si esclu-
deva dal voto, lasciandola in compagnia di malati di mente, incapaci e crimi-
nali reclusi.
     Il progetto Peruzzi, nel testo emendato dalla Commissione Bon-
Compagni, entrò a far parte, insieme alle altre leggi di unificazione ammini-
strativa, della delega per la promulgazione della legge comunale e provincia-
le richiesta dal governo Lanza, ma tra le modifiche apportate dalla Commis-
sione parlamentare – relatore l’on. avv. Francesco Restelli – vi sarebbe stata
anche quella sul voto amministrativo femminile sia per delega che per posta,
cassato insieme all’ammissione di voto degli elettori lontani e dei malati, sul
presupposto 1) che «la presenza dell’elettore all’ufficio elettorale» – impen-
sabile per le donne – «non è soltanto una garanzia della sincerità e libertà del
suo voto, ma è anche un modo pel quale esso è posto a contatto cogli altri e-
lettori per discutere con loro ed accordarsi intorno al merito relativo dei di-
versi candidati»; 2) che il voto per posta avrebbe inficiato «la contemporanei-
tà della votazione», considerata condizione indispensabile per il buon esito
delle elezioni11.
     Risultato: l’Allegato A della legge 20 marzo 1865 sull’unificazione am-
ministrativa, che conteneva la legge comunale e provinciale, veniva approva-
to recependo in toto le corrispondenti norme del decreto Rattazzi, e quindi
con l’espresso divieto alle donne di elettorato sia attivo che passivo, sancito
dall’art. 26. Disposizione confermata dalla riforma crispina dell’88 e dalla
successiva legge comunale e provinciale del 1898.
     Nel 1867 un singolare emancipazionista, il repubblicano Salvatore Morel-
li, elaborava un progetto di legge utopistico per i costumi del tempo, dal tito-
lo Abolizione della schiavitù domestica con la reintegrazione giuridica della
donna accordando alle donne diritti civili e politici12. Morelli muoveva da
una concezione universalistica e individualistica dei diritti che difficilmente
avrebbe potuto trovare consensi nel Parlamento e nel Paese. Il suo progetto,
presentato una prima volta nel giugno 1867 e poi ripresentato dieci anni do-
po, non fu neppure ammesso alla lettura, mentre più fortunato sarebbe stato il
suo tentativo di ammettere le donne come testimoni per gli atti di stato civile:
la sua proposta riusciva infatti a diventare legge il 9 dicembre 1877.
     Un successivo progetto riproponeva il voto amministrativo espresso dalle
donne per iscritto, mediante scheda trasmessa «in busta suggellata»: era stato
presentato nel 1871 dal presidente del consiglio e ministro dell’interno Gio-

     11
        Relazione Restelli in AP, CD, Legislatura VIII, Sessione 1863-64, Raccolta, VI, Torino,
per gli eredi Botta, 1865, pp. 12-13.
    12
       Si veda MATERIALI DIDATTICI, 1.6. Cocchiara, doc. 4.3.
Donne e cittadinanza politica: una prospettiva storica                   97

vanni Lanza, che nella Relazione del 1° dicembre 1871, dando quasi per
scontato il suffragio amministrativo femminile, sottolineava: «Non parve da
omettere una disposizione tendente ad accordare il voto elettorale alle donne,
perché se qualche fondamento può esservi nelle costumanze per negar loro il
voto politico, non ve n’ha certamente veruno per non concedere loro almen
l’elettorato nel campo amministrativo», insistendo ancora una volta sull’esi-
genza di non lasciarle «per tal modo senza rappresentanza degl’interessi che
possono essere considerevolissimi»13. La chiusura della Sessione faceva de-
cadere anche questo provvedimento.

    5. Il suffragio femminile dopo l’avvento della Sinistra

    Nel marzo 1876 la Sinistra andava al potere. Le speranze riposte dal suf-
fragismo italiano in questa svolta politica erano tante, visto che Agostino De-
pretis tra i punti programmatici del discorso di Stradella aveva incluso anche
l’elettorato femminile amministrativo.
    In questo clima, Anna Maria Mozzoni – già curatrice, nel 1870, di una
traduzione italiana della Subjection of Women di J. Stuart Mill, «lucida e ap-
passionata protagonista di una strategia di emancipazione che fa dell’egua-
glianza il suo punto di forza» (Costa, 2001, 372) e della ridefinizione della
soggettività femminile il presupposto di ogni lotta per la conquista dei diritti
delle donne – teneva una conferenza intitolata Del voto politico alle donne14 e
promuoveva la prima delle petizioni da lei redatte in cui chiedeva al Parla-
mento di considerare le donne per ciò che erano: «cittadine, contribuenti e
capaci»15, soggette solo a quelle limitazioni sancite per gli elettori uomini. Le
ragioni esposte dalla Mozzoni e sottoscritte da numerose sostenitrici interse-
cavano la proposta presentata nella tornata del 7 dicembre 1876 dal ministro
dell’interno Giovanni Nicotera quale esito del lavoro prodotto da una Com-
missione ministeriale istituita nell’aprile del 1876 e presieduta dal Peruzzi.
Sottoposta all’esame di una Commissione parlamentare presieduta da Bene-
detto Cairoli, relatore Marazio, la proposta, inserita nell’ennesimo progetto di
riforma della legge comunale e provinciale, riguardava i «cittadini di entram-
bi i sessi» (art. 13), prevedeva che il suffragio amministrativo fosse esteso ai
ventunenni in possesso dei diritti civili che pagavano almeno 5 lire di imposte
e, all’art. 43, disponeva, senza significativi progressi rispetto alle ipotesi pre-
cedenti, che le donne potessero inviare al presidente dell’Ufficio elettorale
«sia direttamente, sia per mezzo del sindaco o di altra persona qualunque, la
loro scheda entro un involto chiuso e suggellato sul quale sia posta la loro

     13
        Relazione del Presidente del Consiglio e Ministro dell’interno Giovanni Lanza sul proget-
to di legge “Modificazioni alla legge comunale e provinciale del 20 marzo 1865”, n. 18 bis, in
AP, CD, Legislatura XI, Sessione 1871-72, Raccolta, p. 4.
     14
        Cfr. riprodotto in MATERIALI DIDATTICI, 1.6. Cocchiara, doc. 5.2.
     15
        Cfr. MATERIALI DIDATTICI, 1.6.Cocchiara, doc. 6.
98                                       M. Antonella Cocchiara

firma autenticata dal sindaco del comune ove dimorano, o da un notaio, e col
bollo del comune o notarile» (Venturini, 1996, 106).
    In Commissione il diritto elettorale della donna nelle elezioni amministra-
tive divenne «argomento di viva discussione», suscitando forti opposizioni.
Riprendendo un argomento già formulato dalla dottrina coeva16, si diceva che
il voto femminile, se – come prevedibile – fosse stato influenzato dal confes-
sore o dal capofamiglia (padre o marito), avrebbe finito per istituire una sorta
di “voto plurimo”; se, viceversa, fosse stato espresso dalla donna in difformi-
tà con la volontà paterna o del coniuge, avrebbe scatenato sicure discordie in
famiglia. In un caso o nell’altro, era pertanto da considerarsi pericoloso.
    Non vi era uniformità di vedute nemmeno con riferimento alle ipotetiche
titolari del diritto: Peruzzi limitava l’estensione del suffragio alle proprietarie,
Pantano riteneva che dovesse riguardare tutte le donne lavoratrici, altri le mae-
stre e le laureate, altri ancora, come il Ferrari, le donne occupate in impieghi
pubblici. La maggioranza, comunque, trovò un accordo, approvando in
Commissione la proposta ministeriale. Il progetto, però, finì per essere insab-
biato, senza mai giungere alla discussione in Aula.
    Durante il governo della Sinistra, altri due progetti in materia di suffragio
amministrativo furono presentati dallo stesso Depretis: il primo, mai discus-
so, riproponeva il progetto Nicotera del 1876: estensione del voto a uomini e
donne che avessero compiuto 21 anni, fossero in possesso dei diritti civili e
pagassero almeno 5 lire di imposte17, mentre il secondo, del 1882, infine con-
fluito nel progetto di riforma generale della legge comunale e provinciale,
concedeva il voto amministrativo ai maggiorenni alfabetizzati e riproponeva
il voto delle donne per posta18. In seguito, ci avrebbe pensato Crispi a ‘neu-
tralizzarla’.
    La discussione sul voto alle donne trovava posto anche nei lavori prepara-
tori della riforma elettorale politica del 1882, anzi proprio in questa sede il
dibattito politico sull’argomento sarebbe stato più ampio e partecipato che
mai, incrociando le ragioni pro e contro il suffragio universale e più in gene-
rale il tema della democrazia e della partecipazione politica attraverso l’allar-
gamento della base del consenso, ma infrangendosi infine nel muro del pre-
valente conservatorismo dell’epoca.
    A rappresentare le posizioni della maggioranza era Giuseppe Zanardelli
che, nella Relazione conclusiva dei lavori della Commissione parlamentare19,
elencava dapprima tutti i motivi a favore della richiesta del suffragio ammini-
strativo femminile, arrivando persino ad affermare:

       16
            Cfr. per tutti, Palma, 1869, 212, riprodotto in MATERIALI DIDATTICI, 1.6. Cocchiara, doc.
5.1.
    17
       AP, CD, Legislatura XIII, Sessione 1880, Raccolta, doc. 48; AP, CD, Legislatura XIV,
Sessione 1880, Raccolta, doc. 39.
    18
       AP, CD, Legislatura XV, Sessione 1882-83, Raccolta, doc. 1.
    19
       Si veda MATERIALI DIDATTICI, 1.6.Cocchiara, doc. 7.
Donne e cittadinanza politica: una prospettiva storica            99

   Può dunque sembrare grave ingiustizia il negare alla donna di genio, alla don-
   na di scienza, ad altissime capacità femminili, ciò che si concede alle più umi-
   li capacità maschili. A capacità uguali, se non superiori, può sembrare debba-
   no incontrastabilmente corrispondere uguali diritti.
   Ed ove tale parità di diritti si ricusi, non ne verrà, che, siccome una intera me-
   tà della nazione non è rappresentata nelle Assemblee che fanno le leggi e da
   cui emana il Governo, e siccome queste leggi la riguardano e ad essere bene
   governata la donna ha non minore interesse dell’uomo, essa potrà dire che le
   leggi, perché fatte senza di lei, sono fatte contro di lei?

    Non potevano esserci parole più efficaci a sostegno del suffragio femmi-
nile. E invece la Relazione si concludeva con un rifiuto, giustificato in base a
ragioni non di principio ma di opportunità. Sinteticamente, il senso era il se-
guente: sarebbe giusto che le donne avessero diritti politici eguali agli uomi-
ni, ma ad essere di ostacolo alla cittadinanza politica femminile è il ruolo es-
senziale che esse rivestono nella famiglia. Tant’è che in chiusura della Rela-
zione si legge:

   Nella sua missione tutta d’educazione e di affetti, a gioia, conforto e altissimo
   incitamento dell’uomo nella vita domestica e intima, la donna sarebbe sposta-
   ta, snaturata, involgendosi nelle faccende e nelle gare politiche. Quelle stesse
   virtù nelle quali vince veramente l’uomo […] di tenerezza, d’impeto, di pas-
   sione, ma che traggono nascimento dal fatto incontrastabile che in essa sovra-
   sta il cuore alla mente, l’immaginazione al raziocinio, il sentimento alla ragio-
   ne, la generosità alla giustizia, […] non sono quelle che ai forti doveri della
   vita civica maggiormente convengono.
   E suo dovere invece, suo ufficio, ed insieme suo voto e suo bisogno, essendo
   quello di dedicarsi alla assidua cura della famiglia, nessuna pratica le sarebbe
   dato acquistare ne’ pubblici affari, a cui male quindi potrebbe rivolgere
   l’animo e l’intelletto.

     Con il diffondersi della cultura positivistica, le chances di riconoscimento
del voto alle donne diminuivano. Era il 1881 e, mentre acquistavano sempre
maggior credito quelle teorie che assegnavano alle differenze dei ruoli sessuali
il valore assoluto delle leggi naturali, il voto alle donne tornava in discussione
alla Camera insieme al disegno di legge di riforma elettorale politica.
     Alla discussione parlamentare interveniva lo stesso Depretis, rinnegando
quello che era pur stato un punto qualificante del suo programma e affermando
tra l’altro: «non credo nemmeno che questa proposta avrebbe favorevole il voto
se la stessa più bella metà dell’umana famiglia fosse direttamente consultata
[negli atti parlamentari il resocontista annota…] (Ilarità) Ha tanti altri mezzi
d’influenza, di azione, assai più potenti del voto! … (Ilarità prolungata)»20.
     In seguito, l’on. Fabris avrebbe presentato un articolato emendamento in
base al quale l’elettorato attivo era riconosciuto a quelle donne che, oltre ai

   20
        Cfr. AP, CD, Discussione, tornata 5 maggio 1881, p. 5339.
Puoi anche leggere