Commedie internazionali - Smart Marketing
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La moda raccontata da 5 brillanti commedie internazionali L’infinito, desiderato, criticato, amato, contraddittorio mondo della moda, un universo colorato e intricato, a cui il cinema si è dedicato tanto. Dagli stereotipi sulle modelle, allo sfoggio di grandi firme, dalle sleali strategie di concorrenza all’elogio della fine qualità tessile, gli argomenti trattati sono tanti, ma i generi cinematografici che raccontano questo universo, non sono poi così numerosi e se escludiamo biopic e docufilm, a fare da protagonista è sicuramente la commedia, quella brillante, quasi esclusivamente americana. Cinque le commedie imperdibili che hanno mostrato la moda con pungente ironia, cogliendone così, non solo il lato commerciale, ma anche quello più umano, fino spesso a ridicolizzare o ridimensionare tutto ciò che compone questa ricca e sfarzosa industria. ZOOLANDER (USA, 2001) https://www.youtube.com/watch?v=aXxw7OsmQ68 Esempio lampante l’esilarante commedia dell’attore e regista Ben Stiller, con protagonisti Owen Wilson e il regista stesso nei panni del modello Derek Zoolander. Il supermodello, che ormai si è allontanato dalle scene, viene ingaggiato, dopo un lavaggio del cervello, per uccidere il primo ministro malese, scelta ricaduta su Derek proprio perché non spicca per la grande intelligenza. Film demenziale, indimenticabile per il modo in cui prende in giro il mondo della moda e dei supermodelli; presenza nel cast anche dell’icona di stile David Bowie. Nel 2016 Ben Stiller ha diretto anche il sequel, “Zoolander 2”, con risultati meno brillanti. IL DIAVOLO VESTE PRADA (USA, 2006) https://www.youtube.com/watch?v=jovsLQVGc-k Il film dei film sulla moda, la pietra miliare delle commedie ambientate in questo mondo patinato. La pellicola del 2006, magistralmente interpretata da Anne Hathaway e Meryl Streep e diretta dal regista David Frankel, è tratta dall’omonimo romanzo “The Devil Wears Prada” della scrittrice Lauren Weisberger. La scrittrice americana per il personaggio della spietata Miranda Priestly, si è ispirata alla direttrice di Vogue America, Anna Wintour, di cui è stata assistente. Il film vede l’ingresso e l’ascesa della neolaureata impacciata Andrea nella rivista di moda più prestigiosa del mondo. Grande successo al botteghino e incetta di nomination per i premi più ambiti. SEX AND THE CITY (USA, 2008) https://www.youtube.com/watch?v=T-oMbk3wnAU Film diretto dal regista Michael Patrick King con protagonista Sarah Jessica Parker nei panni della scrittrice Carrie Bradshaw, che cura la famosa rubrica chiamata “Sex and the City”. Le vicende sentimentali e sessuali della protagonista e delle sue tre migliori amiche nascono e si evolvono all’interno di una New York tutta moda e locali trendy, dove non mancano riferimenti ad icone dello stile mondiale e apparizioni di personaggi famosi. Il film è il sequel della fortunatissima serie tv statunitense, che a sua volta nasce dall’omonimo romanzo della scrittrice Candace Bushnell. Il romanzo del 1997 appartiene al genere “chick lit”, genere letterario nato negli anni novanta, che si
rivolge ad un pubblico di giovani donne single e in carriera, proprio come le quattro protagoniste del film, che nel 2010 ha avuto anche un sequel, “Sex and the City 2”. I LOVE SHOPPING (USA, 2009) https://www.youtube.com/watch?v=XqShzmucc7c Divertente e leggera commedia del regista P. J. Hogan, tratta dai due romanzi di Sophie Kinsella “I love shopping” e “I love shopping a New York”. Ritorna anche qui centrale il personaggio della ragazza aspirante giornalista sprovveduta che punta in alto per realizzare i suoi sogni, ma anche per avere più soldi da spendere. Parte così la storia di Rebecca Bloomwood, una “shopaholic” (maniaca dello shopping) che si è indebitata fino al collo per comprare scarpe, borse e vestiti eccentrici, ma nonostante ciò, da brava fashion victim, continua a far visita a negozi costosi rischiando di perdere amici e amore. THE DRESSMAKER (AUSTRALIA, 2015) https://www.youtube.com/watch?v=8m7jPjDGIvY “The Dressmaker – Il diavolo è tornato” è un film tratto dall’omonimo romanzo della scrittrice australiana Rosalie Ham, diretto dalla regista Jocelyn Moorhouse. Non è una vera e propria commedia, utilizza, infatti, molti tratti drammatici ed una forte ironia per raccontare la storia di Myrtle “Tilly” Dunnage, interpretata da una bellissima e intensa Kate Winslet. E’ la storia di un ritorno a casa per vendetta, infatti, la stilista Tilly, dopo molti anni passati in Europa, nelle più importanti case di moda, torna nel suo paesino nel bel mezzo del nulla, per ritrovare la madre e per dare una lezione (anche di stile) ai suoi concittadini, che da bambina l’avevano cacciata. Il connubio tra moda e giornalismo è un tema sempre presente nelle commedie che parlano di stile, ossessioni e tendenze modaiole e la location protagonista è sempre New York. In Italia però, non siamo certo da meno, anche noi abbiamo la nostra capitale della moda che sappiamo tutti essere Milano, che tra pochi giorni, infatti, ospiterà la famosa Fashion Week, quindi, puntiamo lo sguardo all’estero, ma non dimentichiamoci mai dello stile e della bellezza nostrana, che continuano a far scuola in tutto il mondo. Moda e Cinema: l’Italia della Dolce Vita La moda è stata strettamente legata al cinema fin dal suo nascere, ingigantendosi con il fenomeno dello star system hollywoodiano. La Hollywood italiana è stata la Cinecittà degli anni ‘50, quando il cinema italiano ha cominciato ad affermarsi attraverso alcuni autentici capolavori (ed un’accorta politica di sostegno statale). Fra le prime protagoniste della moda legate al fenomeno “cinema” è Fernanda Gattinoni, creatrice, dal 1946, dell’omonima griffe (tuttora all’attivo) e protagonista della moda per la “dolce vita” dell’aristocrazia romana. Formatasi a Londra da Molyneux ed ex
direttrice della premiata casa di moda Ventura, il suo primo abito “famoso” fu un paltò di velluto verde per Clara Calamai. Vestì poi Ingrid Bergman, nella vita e nei film di Roberto Rossellini e, su richiesta della costumista Maria de’ Matteis, Audrey Hepburn in Guerra e Pace (1956) di King Vidor. L e s o r e l l e F o n tana. Cinecittà ha anche “prodotto” importanti e indimenticati divi italiani, come Silvana Mangano, lanciata nel 1949 da Riso amaro di Giuseppe De Santis: ex indossatrice e già Miss Roma, mise in luce la sua avvenenza “selvaggia e naturale” con un look fatto di calze nere, golfini attillati, sottovesti e cappelli di paglia. Nel 1953 furoreggiò Gina Lollobrigida con Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini, al fianco del maestro Vittorio De Sica: quella “vestaglietta” sdrucita e aderente fu un capo simbolo di una moda lanciata negli anni ‘50. E poi Sophia Loren de La donna del fiume (1954), diretta da Mario Soldati nella celebre scena in cui balla il mambo, con la vita stretta dalla cintura altissima; simile a quella che l’anno dopo la Loren ballerà insieme a Vittorio De Sica nello sgargiante Eastmancolor di Pane,amore e… . LEGGI ANCHE: ■ Il cinema italiano e le vacanze: la moda del film turistico-balneare anni ‘50 e ‘60 ■ L’Italia in mostra: quando la Roma cinematografica era il centro del mondo ■ Audrey e Marcello, icone di stile e di eleganza nel mondo ■ La Grande Abbuffata – Il Film La stretta relazione fra moda e cinema è sancita anche nella sfilata all’hotel Excelsior, durante la Mostra del Cinema di Venezia, nel 1949: per l’haute couture italiana presentarono i loro modelli Biki, Carosa e le sorelle Fontana. L’alta moda era pronta a fare il suo ingresso nel cinema dando il suo apporto alla costruzione di una tipologia divistica femminile. Negli anni ‘60 tale ingresso era già un fatto compiuto ed il rapporto del cinema italiano con la moda si caratterizzava per l’opera del grande sarto che vestiva il personaggio o i personaggi facendone delle icone di stile, come Irene Galitzine con Claudia Cardinale in Vaghe stelle dell’Orsa.
G i n a L o l l o b r i g i d a e V i t torio De Sica. Cinecittà, che oltre a produrre film “in proprio”, ospitava fior fiori di mega-produzioni hollywoodiane attratte, oltre che da rigurgiti da Grand Tour, dalle impareggiabili maestranze, tanto dotate quanto a basso costo. In più, la rinata voga del periodo per il kolossal storico (da La caduta dell’Impero romano, a Quo Vadis?, da Ben Hur a Anna Karenina e Guerra e pace), unì la storia della moda a quella delle sartorie del costume, come la SAFAS, Umberto Tirelli, la Casa d’Arte Peruzzi, d’origine fiorentina come la Casa d’arte Cerratelli. Oltre ad essere interpellate per gli abiti di scena, le case di moda venivano in contatto con gli attori, i produttori, i giornalisti… tutti potenziali acquirenti di nuovi modelli più o meno esclusivi: un indotto economico e di immagine di tutto rispetto, come hanno dimostrato le Sorelle Fontana e Schubert per primi. Scopri il nuovo numero: Moda in Italy E poi c’è Vacanze romane (1953), con Audrey Hepburn e Gregory Peck, un film che diventa subito leggenda, imponendo una moda. Quella di Audrey Hepburn, l’attrice, la diva che più di ogni altra ha segnato un’icona di stile e di eleganza nel mondo. Modello di vita per tutte le donne che facciano del glamour e dell’eleganza uno stile, Audrey impose fin da subito il suo charme fuori dagli schemi, la sua bellezza moderna, e conquistò le riviste di moda; si pensi che le ballerine indossate da lei diventarono più seducenti dei tacchi a spillo. Elegante, semplice e affascinante. Sorrideva sempre ai fotografi che le puntavano contro l’obiettivo. E non la si incontrava mai per strada sciatta e trasandata. Fu proprio il cinema a consegnarle i ruoli della vita e a farla diventare la “diva delle dive” internazionale. E lo diventò proprio a Roma, pronta a diventare il centro mondiale del glamour, dell’eleganza, della moda e del cinema.
A u d r e y H e p b u r n e Gregory Peck. La strada alla “Dolce Vita” era aperta e si poteva tentare “Il sorpasso”. I due omonimi film, il primo di Fellini (Mastroianni-Ekberg) del 1960, il secondo del 1962 di Dino Risi (Gassman-Trintignant), ci mettono in guardia sulle contraddizioni generate dal miracolo economico nostrale: la moda si costruisce sulle imprese del lusso, che basano il mercato sui sogni del pubblico di un’immagine migliore o comunque diversa della realtà e il cinema aiuta all’illusione, o alla riflessione. PER APPROFONDIRE: ■ Scopri la nostra rubrica dedicata al Cinema Nel 1968 Pasolini chiede a Roberto Capucci di vestire Terence Stamp e Silvana Mangano per il suo Teorema. A quel momento il sarto artista aveva già deciso di porsi fuori dal meccanismo tritatutto commercial-mondano della moda (alla Dior per intenderci), rifiutando il nascente regime del prêt à porter e optando per la sperimentazione di materiali inconsueti e la ricerca artistica. Due anni prima Mary Quant, nell’Inghilterra della Rational Dress Society, era stata nominata Cavaliere della Corona (giusto un anno dopo i Beatles).
M a r c e l l o M a s t r o i a nni ed Anita Ekberg nella Fontana di Trevi, nella famosa scena del film “La dolce vita” di Federico Fellini. Nessuno fino ad allora aveva tanto considerato le nuove generazioni come potenziali acquirenti. Sarà questa in fondo la più grande rivoluzione della moda, in ogni sua sfaccettatura: dall’entrata in scena delle top model-teen agers (con la mitica Twiggy), alla querelle di Courrège sul copyright della minigonna (nel ’64 aveva presentato abito corti e linee a trapezio) e a cui la stilista inglese aveva indirettamente risposto: ”Le vere creatrici della mini sono le ragazze, le stesse che si vedono per la strada”. E con loro, da qui in poi, anche l’alta moda dovrà fare i conti, soprattutto dopo il “fatidico ‘68”. Capricorn One – Il Film Siamo a Capo Kennedy, ad Houston, nel Texas: dopo 15 anni di lavoro, di calcoli e un grande dispendio di mezzi tecnici ed economici, sta per prendere il via la missione spaziale Capricorn One, diretta sul pianeta Marte. L’equipaggio è composto dal comandante di missione Charles Brubaker (l’attore James Brolin) e dai due ufficiali in seconda, Peter Willis (l’attore Sam Waterston) e John Walker (l’attore e atleta
O. J. Simpson). Alla fase di lancio sono radunate le autorità, anche se il disinteresse della politica per l’epica impresa è sottolineato dal fatto che il Presidente americano non è presente ed è sostituito dal suo vice. Il responsabile di tutta la missione, il dottor James Kelloway (l’attore Hal Holbrook), che insegue da anni questo sogno, è frustrato e preoccupato. Infatti egli e pochi altri fedelissimi dell’ente spaziale sono a conoscenza del fatto che un difetto di fabbricazione di un componente essenziale della navetta può mettere a rischio l’intera missione e addirittura la vita dei tre astronauti. Ma cosa fare adesso che gli occhi e le telecamere del mondo intero sono puntati sull’imminente partenza? L’idea del dottor James Kelloway è quella di inscenare un falso decollo, un falso viaggio e un falso atterraggio su Marte, trasportando i tre astronauti in una località segreta dalla quale trasmettere i collegamenti radio fasulli e il finto ammartaggio. Sembra che la grande cospirazione sia perfetta e che vada tutto liscio, ma un incidente nella fase di
rientro della capsula “vuota” sulla Terra e lo zelante ed intuitivo giornalista Robert Caulfield (l’ottimo attore Elliott Gould) porteranno, dopo lunghe peripezie, la verità a galla. Il film, Capricorn One, per la regia del sempre bravo regista Peter Hyams (che firma pure soggetto e sceneggiatura) riprende la teoria cospirazionista sul finto allunaggio dell’Apollo 11, che sostiene che la missione relativa al primo sbarco sulla Luna, scientificamente e tecnologicamente impossibile nel 1969, sarebbe un gigantesco inganno orchestrato dalla NASA per contrastare tutti i successi spaziali dell’URSS in quel periodo storico, contraddistinto dalla Guerra Fredda. Secondo questa teoria le scene del finto allunaggio erano state girate dal regista Stanley Kubrick, che aveva dato una grande prova delle sue abilità nel film “2001: Odissea nello spazio”, uscito nelle sale di tutto il mondo l’anno prima dello sbarco lunare, nel 1968. U n a s c e n a d e l f i l m C a p r i corn One con i tre astronauti da sx Peter Willis (l’attore Sam Waterston) Charles Brubaker (l’attore James Brolin) e John Walker (l’attore e atleta O. J. Simpson). Il film finisce per confermare e coadiuvare le teorie complottistiche, ed ancora oggi, a 50 anni dalla missione dell’Apollo 11, viene spesso citato come esempio dai negazionisti. Benché sia un tipico thriller anni settanta, Capricorn One (1978) è un film solido e ben girato che dimostra la bravura del regista Peter Hyams nel dirigere gli attori e il suo stile discreto ma curato, coadiuvato dalla splendida fotografia di Bill Butler (che aveva vinto l’Oscar nel 1976). Ricordiamo che Peter Hyams, un regista amante del genere, girerà nel 1984 il primo e più riuscito sequel di “2001: Odissea nello spazio”, l’onesto e tutto sommato gradevole “2010: L’anno del contatto”. Il film vede un cast di grandi attori che girano molto bene, fra i quali, oltre ai protagonisti già citati, vanno ricordati almeno Telly Savalas, Karen Black e David Huddleston.
U n a s c e n a d e l f i l m C a pricorn One con il set cinematografico allestito per le riprese del finto ammartaggio. Il film merita di essere recuperato e visto, in primo luogo perché è una di quelle pellicole che svelano, almeno in parte, il funzionamento della macchina cinematografica e poi perché rappresenta il potere e l’influenza che la disinformazione (oggi diremmo fake news) e una strampalata teoria complottistica possono raggiungere, condizionando addirittura le grandi major cinematografiche. Per chi lo volesse recuperare, questa sera il film verrà trasmesso da Focus al canale 35 del digitale terrestre alle ore 21:15. La folle estate del cinema in Puglia Una volta era “Cinecittà” la capitale del cinema italiano; oggi possiamo definire la Puglia, la regina incontrastata della settima arte. Set naturale, come pochi altri nel mondo, la Puglia è ormai da anni oggetto delle attenzioni delle più grosse produzioni cinematografiche nazionali ed internazionali. Ma mai come in questa estate, la nostra regione è stata presa d’assalto dal jet set cinematografico. E’ in Puglia infatti, il meglio del cinema brillante nazionale, con produzioni che vedremo tra televisione e
cinema, tra l’autunno e il Natale prossimi. E’ vero, il revival della Puglia come set cinematografico è un fenomeno avviato da anni e sempre in costante crescita, ma quello che sta accadendo in questi giorni nella nostra regione, è qualcosa di visto solamente a Roma e Napoli, in quelli che erano gli anni d’oro della commedia all’italiana (n.d.r.
anni ’60 e ’70). Sul Gargano e nei dintorni si registra in questo momento un sovraffollamento di set. Carlo Verdone è impegnato tra Salento e bassa costa barese con le riprese di Si vive una volta sola, con Max Tortora, Rocco Papaleo e Anna Foglietta; mentre Sophia Loren è impegnata a Trani per La vita davanti a sé, film diretto dal suo secondogenito Edoardo Ponti. Intanto Checco Zalone, sta terminando le riprese della sua ultima chilometrica fatica, dal titolo Tolo Tolo, girato tra Africa e Puglia: Massafra, Monopoli e Salento interno, le zone geografiche più toccate dall’attore barese. Sono in Puglia anche Aldo, Giovanni e Giacomo, che hanno scelto la regione pugliese per tornare insieme, dopo tre anni di assenza dai set cinematografici: le riprese del loro 12esimo film in trio, dal titolo Odio l’estate, diretto da Massimo Venier, sono cominciate ad Otranto a metà giugno e dureranno per circa due mesi. Fino al 29 giugno tra Nardò, Galatina, Acaya e San Vito dei Normanni, con Claudio Bisio, Stefania Rocca, Pietro Sermonti e Dino Abbrescia si è girata la serie Cops, prodotta da Dry Media per Sky e diretta da Luca Miniero, che racconta la vicenda di una piccola cittadina di provincia nella quale da anni non si commettono reati e il cui commissariato
è diventato quindi una spesa superflua. A Taranto fino al 20 luglio tengono banco i ciak della fiction Rai Il commissario Ricciardi diretto da Alessandro D’Alatri, con Lino Guanciale nei panni del commissario inventato dallo scrittore napoletano Maurizio De Giovanni. Dall’inizio di giugno e fino al 6 luglio, tra Bari, Spinazzola e Pulsano, c’è Salvatore Esposito, il Genny Savastano di Gomorra per le riprese del film drammatico Spaccapietre di Gianluca e Massimiliano De Serio, prodotto da La Sarraz Pictures, Shellac Sud e Rai. E in agosto, sbarca in Puglia anche una grossa e storica produzione hollywoodiana: James Bond Daniel Craig con la sua nuova avventura farà tappa tra gli uliveti e le spiagge pugliesi, con Taranto sede principale della maggior parte delle scene. Insomma per la Puglia, per anni tagliata fuori dalle grosse produzioni nazionali e riscoperta praticamente dalla commedia sexy all’italiana in poi (metà anni ’70), cinematograficamente è un periodo d’oro, che sembra non avere fine. L’estate poi, dona alla regione, grazie alla bontà del suo clima e ai colori paesaggistici unici al mondo, la luce naturale perfetta per essere invasa dalle grandi produzioni cinematografiche. Qualcuno già anni fa si era accorto della grandezza cinematografica della nostra Puglia, qualcuno che si chiamava Pier Paolo Pasolini, che diceva questo a proposito di
Taranto, la quale tra tanti problemi sociali, è pur sempre la seconda città della regione: “Taranto brilla sui due mari come un gigantesco diamante in frantumi. Viverci è come vivere all’interno di una conchiglia, di un’ostrica aperta. Qui Taranto nuova, là, gremita, Taranto vecchia, intorno i due mari e i lungomari. Per i lungomari, nell’acqua ch’è tutto uno squillo, con in fondo delle navi da guerra, inglesi, italiane, americane, sono aggrappati agli splendidi scogli, gli stabilimenti.” Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Stai tranquillo, anche noi odiamo lo spam! Da noi riceverai SOLO UNA EMAIL AL MESE, in concomitanza con l’uscita del nuovo numero del mensile. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter La Luna e il Cinema Fin dall’antichità la Luna, il nostro fedele satellite, ha ispirato poeti e artisti, e come tale il Cinema non poteva rimanere insensibile di fronte al fascino, alla magia, al sogno e al mistero che la avvolge. La Luna ha un ascendente enorme sulla nostra fantasia e come tale ha avuto le sue esperienze cinematografiche. Già dagli albori, il cinema si è interessato ad essa, e ben presto il rapporto Luna- Cinema è diventato epocale. L’immagine del volto della Luna con una smorfia di dolore per la navicella spaziale conficcata nell’occhio destro è da tempo diventata iconica, utilizzata per pubblicità, copertine, manifesti eccetera. Si tratta in realtà di un fotogramma di un celebre film, Il viaggio nella Luna di Georges Méliès del 1902, che possiamo considerare il primo film di fantascienza della storia. Se i fratelli Lumière, gli inventori “ufficiali” del cinema, filmavano quasi solo scene di vita reale fu il citato Méliès, uomo di teatro che si appassionò alla novità, a intuire che il cinematografo poteva servire anche per una narrazione. Méliès è ricordato come “il creatore della
spettacolo cinematografico”. Tra le tante pellicole da lui dirette e interpretate, tutte di argomento fantastico, Le voyage dans la Lune è il più importante e celebrato: fu un grande successo internazionale, tanto che sembra persino che le sale cinematografiche siano nate proprio per poterlo proiettare, mentre in precedenza si utilizzavano i teatri di prosa. E’ chiaramente ispirato al romanzo Dalla Terra alla luna di Jules Verne in tutta la prima parte, quella relativa alla progettazione, alla costruzione e al lancio della navicella, mentre la seconda parte è dovuta all’immaginazione del regista. Ricordiamo infatti che nel romanzo di Verne, e nel suo seguito Attorno alla Luna, i terrestri non arrivano sul nostro satellite, mentre nel film di Méliès vi atterrano, si scontrano con i sui abitanti che non sono amichevoli ma per fortuna possono essere sconfitti a colpi di ombrello, poi tornano indietro semplicemente lasciando che la capsula spaziale “cada” verso la Terra, dove sono accolti con grandi onori. Per l’epoca il film può considerarsi un kolossal: vi erano una quantità di comparse, tra cui le ballerine del corpo di ballo dello Châtelet e gli acrobati delle Folies-Bergère, e la sua durata, che pare in origine fosse di ventuno minuti mentre le copie oggi rimaste sono di quindici, era notevole; alcune copie furono colorate a mano (oggi ne sopravvive solo una). In effetti è un tripudio di inventiva, effetti speciali, costumi sfarzosi. Questo successo diede ovviamente impulso alla cinematografia lunare e già nel 1908 vi fu un secondo viaggio con Excursions dans la Lune dovuto a Segundo de Chomon, altro cineasta famoso all’epoca e che aveva lavorato con Méliès, che per la verità è un vero e proprio plagio del film precedente – anche se allora il concetto di plagio non esisteva – perché ne segue pedissequamente tutta la messa in scena, differenziandosi solo per gli effetti speciali, forse un po’ più tecnici ma meno immaginifici. Lungo tuttavia solo 7 minuti, ha qualche piccola differenza: la navicella spaziale non colpisce l’occhio della Luna ma vi entra in bocca, e i terrestri sono ben accolti dai seleniti con un balletto e lasciati ripartire tranquillamente. Dopo un altro film dallo stesso titolo, ma in inglese: A Trip to the Moon, nel 1914, del quale non si sa niente perché è perduto, è la volta del romanzo di Herbert George Wells I primi uomini sulla Luna a essere trasposto per il cinema nel 1919 dagli inglesi Bruce Gordon e J.L.V. Leigh. Anche questo The First Men in the Moon è oggi perduto ma ne sono sopravvissuti alcuni fotogrammi e rimane una recensione dalla quale si capisce che è abbastanza fedele al romanzo, sia pure con l’aggiunta di una storia sentimentale e di un lieto fine. La Luna di queste opere è descritta come dotata di atmosfera anche se molto rarefatta, di acqua e di rare piante, e abitata da una popolazione molto evoluta che vive nel sottosuolo. Di tutt’altro avviso è Fritz Lang, che dieci anni più tardi descrive una Luna deserta e inospitale ma ricca di oro, che è il motivo per il quale viene organizzata la spedizione. Tratto da un romanzo dell’anno prima di Thea von Harbou, sceneggiatrice allora moglie del regista, Una donna sulla Luna è l’ultimo film muto di Lang e probabilmente anche il più brutto di un regista che con I Nibelunghi e Metropolis aveva filmato due assoluti capolavori. Al di là della risicata trama, è invece azzeccata l’accuratezza scientifica dei dettagli del volo, per i quali il regista si era rivolto a due pionieri della missilistica, Willy Ley e Hermann Oberth, i cui calcoli furono così accurati e talmente simili ai progetti reali dei razzi V1 e V2 che la Gestapo alla fine della Seconda Guerra Mondiale li fece sparire. Altro particolare curioso è che fu in occasione di questo film che venne inventato il “conto alla rovescia” poi divenuto abituale in occasioni di lanci spaziali e in tante altre. Con questo film si chiude il periodo del cinema muto e per avere un altro film “lunare” si dovrà aspettare il dopoguerra, esattamente il 1947, quando si gira un film messicano, Buster Keaton va
sulla Luna. In realtà si racconta di un poveraccio che finisce per sbaglio in un razzo ed è convinto di essere atterrato sul nostro satellite, dove trova degli esseri identici a noi ma dal comportamento molto bizzarro: il razzo ha fatto solo un breve volo ed è rimasto sulla Terra, per cui la conclusione di questa commedia satirica, non molto ben riuscita e con il celebre attore ormai decaduto, è che i veri “alieni” siamo noi stessi. Una vera – sempre in senso cinematografico, dove intanto è arrivato l’uso regolare del colore – spedizione sulla Luna si ebbe poi nel 1950 con Uomini sulla Luna, film dallo stile quasi documentaristico e molto accurato dal punto di vista tecnologico: non a caso i consulenti sono gli stessi di Die Frau im Mond, ossia gli ingegneri spaziali Hermann Oberth e Willy Ley, dopo la guerra emigrati in America. La storia è tutta concentrata sull’impresa del viaggio extraplanetario, dell’esplorazione del nostro satellite e del problematico ritorno sulla Terra, senza avventure strane e persino con l’assenza di qualsiasi storia personale o sentimentale che coinvolga gli astronauti (per una volta Hollywood fa a meno di mogli preoccupate o di fidanzate trepidanti). Sarà un successo che aprirà la strada ai kolossal fantascientifici. Dimenticabile il successivo Quei fantastici razzi volanti di Arthur Hilton del 1953, forse meglio conosciuto anche in Italia con il titolo originale Cat Women of the Moon, che racconta di una spedizione che raggiunge il nostro satellite, dove trova atmosfera respirabile e gravità pari a quella terrestre, e una popolazione femminile dotata di poteri telepatici (ma solo nei confronti delle donne) che minaccia di invadere la Terra. Poco dopo, nella vita reale, si ha il primo satellite artificiale messo in orbita attorno alla Terra, lo Sputnik 1 del 1957, ed è già cominciata la “corsa allo spazio” che vede contendere USA e URSS, e anche la letteratura e il cinema di fantascienza hanno incrementato la loro produzione, quindi non è strano trovare delle opere che satireggiano la situazione. Il grande Antonio de Curtis nel 1958 gira per la regia di Steno Totò nella Luna, una farsa tipica dell’epoca, una commedia degli equivoci che vedrà il Principe della risata, ben coadiuvato da Ugo Tognazzi, Sylva Koscina, Luciano Salce, Sandra Milo e altri bravi caratteristi, arrivare per errore sul nostro satellite. Totò è un tipografo e dirige una rivista scandalistica, sulla quale il suo fattorino Achille (Tognazzi) riesce a pubblicare un racconto di fantascienza, provocando le ire del proprietario; tra i due scoppia una lite e Achille viene ricoverato, ma si scopre che il suo sangue è ricco di “glumonio”, una sostanza che lo rende adatto ai viaggi spaziali. Per questo viene contattato da Cape Canaveral, ma per una serie di equivoci alla missione spaziale parteciperà Totò, che si ritroverà sulla Luna dove incontrerà una copia femminile di Achille… Per quanto non sia tra i migliori di Totò si tratta di una divertente parodia della fantascienza, sia cinematografica che letteraria, in particolare di La morte viene dallo spazio dello stesso 1958, primo film italiano di fantascienza, e di L’invasione degli ultracorpi (1956), i cui celebri “baccelloni” diventano qui “cosoni”. L’anno successivo troviamo il mediocre Missili sulla Luna di Richard Cunha, remake sexy dell’altrettanto non memorabile Cat Women of the Moon, nel quale due delinquenti si nascondono in un razzo che arriva sul nostro satellite per scoprire che è abitato da una popolazione di fanciulle che vivono nel sottosuolo perennemente minacciate da ragni giganti. Nonostante l’ambientazione sotterranea è ben visibile il paesaggio del Red Rock Canyon in California – dove il film fu girato – con le sue piante e il cielo terso: un habitat decisamente molto poco lunare! Altro film dall’intento satirico è Mani sulla Luna di Richard Lester (1962), ambientato nel minuscolo e inesistente Ducato di Gran Fenwick che era già stato teatro delle vicende raccontate ne Il ruggito del topo (1959). Questa volta si scopre che il pregiato vino prodotto nel Ducato è adattissimo come propellente e quindi viene chiesto l’aiuto di USA e URSS per poter finanziare l’impresa di una spedizione sulla Luna; le due potenze sospettano che sia un trucco – come in effetti è – per poter avere aiuti finanziari, ma non possono tirarsi indietro: finirà che la
spedizione riesce davvero e sulla Luna verrà innalzato il vessillo di Gran Fenwick. Il film, nato per satireggiare la mania spaziale delle due superpotenze finisce per essere più comico che satirico, ma è una serie di gag molto divertenti, di puro humour britannico (il “conto alla rovescia” viene interrotto per non saltare il tradizionale tè delle cinque!), con situazioni ben congegnate rette da attori di razza quali Terry Tomas e “miss Marple” Margaret Rutherford. Uno dei personaggi minori, lo scienziato tedesco emigrato in America che inneggia a Hitler, deve aver ispirato Stanley Kubrick per il suo Dottor Stranamore. Segue un’altra gustosa parodia “made in Italy”, dal titolo 00-2 Operazione Luna, film del 1965 con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia protagonisti. Il soggetto è una parodia del cinema di fantascienza, irridendo a dei temi di forte attualità, quale la corsa allo spazio, la competizione tra le Superpotenze e la stessa Guerra Fredda. In questo film, il duo appare in un ruolo duplice, quello noto al pubblico ed uno serio, dove danno una piccola ma importante prova di estrema bravura, in una trama fantascientifica di grande divertimento. E’ la storia di Cacace e Messina, due ladruncoli siciliani, che vengono rapiti dai servizi segreti russi, allo scopo di sostituire una coppia di cosmonauti perduti nello Spazio, al fine di coprire l’insuccesso e salvare il prestigio della superpotenza sovietica. Nonostante la perfetta somiglianza, i due malcapitati si troveranno nei guai non appena i veri piloti spaziali, sopravvissuti, faranno ritorno sulla Terra. Nel 1967 è la volta di un grande regista, Robert Altman, di occuparsi di una spedizione lunare in Conto alla rovescia, film modesto, valido dal punto di vista tecnico grazie al ricorso a materiale documentario, con Robert Duval e James Caan che esprimono ottimamente le esigenze autoriali di Altman. Sebbene la trama sia molto più estesa e non concentrata sulla Luna non si può qui non ricordare 2001: Odissea nello spazio, immortale pellicola di Stanley Kubrick, perché alcune scene importanti sono ambientate proprio sul nostro satellite, nel cratere Clavius dove c’è la base statunitense e soprattutto nel cratere Tycho dove viene ritrovato il celebre “monolito” che è alla base del film. Ma siamo arrivati al 1968: appena un anno dopo l’uomo metterà davvero i piedi sulla Luna e l’epoca del sogno sarà finita perché ne comincia un’altra. Infatti proprio in occasione dell’allunaggio molti sostennero la fine della fantascienza (dimenticando tra l’altro che questo genere letterario non era limitato all’esplorazione spaziale ma anzi la sua parte più importante era quella che specula sul futuro, non solo dal punto di vista tecnologico ma soprattutto da quello sociale e politico) e in effetti la Luna viene messa da parte, ma solo perché l’orizzonte si amplia, ora si pensa a Marte e ancora più lontano. Non è quindi un caso che la successiva cinematografia lunare non si occupi più dei tentativi di esplorazione del nostro satellite ma, proprio a partire da 2001, lo consideri già colonizzato. Infatti nel film successivo, il modestissimo Luna Zero Due del 1969, la Luna del 2021 è già parzialmente abitata e vista come la “nuova frontiera” da conquistare; la pellicola fu pubblicizzata come il primo “western spaziale” e del genere western segue gli stilemi più banali, dal cavaliere (nel caso un pilota di astronavi) intrepido alla donzella in pericolo, dalla caccia al tesoro (un asteroide interamente di smeraldo) al possidente avido e spietato, dalle scazzottate nel bar alle sparatorie (ovviamente con pistole laser). Prodotto dalla Hammer, giustamente famosa per la sua produzione horror e che non riuscì mai a sfondare davvero nella fantascienza, il film è mediocre in tutto, dalla scenografia ai costumi (troppo simili a quelli della coeva serie televisiva U.F.O.), dalla trama alla recitazione. Dovranno passare venti anni perché la Luna si riaffacci nella cinematografia, e, appunto, si tratterà
solo di apparizioni sporadiche, senza nessun prodotto che la metta al centro della narrazione. In Moontrap – Destinazione Terra (Robert Dyke, 1989), che mescola civiltà perdute, extraterrestri, esplorazione spaziale, cyborg e scene horror in un pasticcio inenarrabile, due astronauti a bordo di una navicella Apollo trovano sulla Luna i resti di una civiltà terrestre nonché una bella fanciulla in animazione sospesa che si rivela una aliena. Nell’altrettanto dimenticabile LunarCop – Poliziotto dello spazio (Boaz Davidson, 1994), ambientato nel 2050, le colonie lunari offrono una sistemazione migliore rispetto alla Terra, ormai desertificata a causa del buco nell’ozono, ma la trama di tipo spionistico per il possesso di una scoperta che potrebbe migliorare la situazione atmosferica si svolge per lo più sulla Terra, con un agente selenita mandato a impadronirsi della formula che finisce per aderire a un gruppo di ribelli che contrasta le mire espansionistiche dell’imperatore della Luna. Ancora minori gli accenni che troviamo in altri film: Star Trek: Primo contatto (Jonathan Frakes, 1996); Starship Troopers – Fanteria dello spazio (Paul Verhoeven, 1997); Austin Powers – La spia che ci provava (Jay Roach, 1999). Caso a parte quello di Capricorn One (Peter Hyams, 1978), ispirato dalle teorie negazioniste che peraltro finisce per alimentare: dopo la conquista lunare si progetta quella marziana ma un guasto impedisce la partenza, così la NASA per non perdere la faccia e i finanziamenti inscena un falso “ammartaggio”, che viene però scoperto da un giornalista dando così l’avvio a una vicenda thriller molto ben congegnata. Vi sono anche alcuni film in cui la Luna è scomparsa, distrutta dagli uomini (Il pianeta delle scimmie, 1968, di Franklin J. Schaffner; The Time Machine, 2002, di Simon Wells) o dagli extraterrestri come in Guida galattica per autostoppisti (Garth Jennings, 2006), dove viene comunque “ricostruita”. Nel frattempo era però uscito, nel 2009, un film importante e che rientra nel binomio tra Luna e Cinema: Moon di Duncan Jones, talentuoso figlio di David Bowie già regista di videoclip e qui alla sua prima opera lunga. Il protagonista Sam Bell, ben interpretato da Sam Rockwell, lavora alla stazione mineraria Selene (nell’originale Sarang) dove gestisce l’estrazione di rocce dalle quali si estrae l’elio-3 utilizzato su Terra come carburante; è da solo, coadiuvato dalle macchine e ha come unica compagnia una intelligenza artificiale chiamata Gerty. Il suo contratto triennale sta per finire ma proprio un paio di settimane prima del suo previsto ritorno sul nostro Pianeta scopre una copia di se stesso, che ritiene esse un suo clone salvo poi accorgersi di essere un clone egli stesso. Da questo momento in poi la narrazione assume toni drammatici, i rapporti tra lui e l’altro Sam si fanno sempre più problematici e soprattutto egli – e con lui lo spettatore – si chiede cosa ci sia dietro, se esistano altri cloni, chi gestisce il software che permette a Gerty di agire a sua insaputa (infatti gli impedisce di comunicare con la base terrestre), dov’è il Sam Bell originale. Un riuscito ibrido tra cinema di fantascienza e thriller psicologico. Un piccolo gioiello, giustamente lodato, problematico senza essere intellettuale, ottimamente diretto e sceneggiato. Insomma, appare chiaro e lampante come il dualismo Luna-Cinema abbia avuto molta fortuna nell’ambito del cinematografo, solleticando la fantasia di registi e sceneggiatori e suscitando l’interesse del pubblico di tutte le generazioni.
Addio a Franco Zeffirelli, un regista che ha segnato la mia infanzia di giovane spettatore cinematografico Ho un ricordo della mia infanzia molto forte legato ad un film di Franco Zeffirelli, era verso la fine degli anni ’70, ero molto piccolo, forse 3, 4 anni e come spesso accade i ricordi legati all’infanzia sono quelli che, non solo definiscono chi siamo diventati, ma sono la parte più indelebile della nostra memoria. Il film era Romeo e Giulietta del 1968, che ho visto in televisione con i miei genitori un po’ di anni dopo l’uscita in sala. Ovviamente ero troppo piccolo per capire l’intreccio della storia d’amore per eccellenza, troppo piccolo per comprendere elementi come la regia, il montaggio, etc., ma ero abbastanza grande e curioso da porre domande e da ricordare alcuni elementi del film, primo fra tutti la bellezza degli interni in cui era ambientata la pellicola, non sapevo si chiamasse scenografia, poi i costumi buffi e colorati e soprattutto la musica che accompagnava lo scorrere delle immagini. Era tutto bello, meraviglioso ed esagerato, oggi per dirlo userei termini come: ricercato, abbagliante e sontuoso. Più di tutto mi sono rimasti nella memoria le immagini degli interni accompagnate dalla struggente musica, una musica che, quando la risento oggi, ancora riesce a suscitare in me sentimenti di nostalgia e malinconia. La colonna sonora del film, come scoprì solo da adulto, era stata scritta e diretta dal famoso compositore Nino Rota. Ma era il tema del film, la famosa “What Is a Youth”, con testo di Eugene Walter, interpretata da Glen Weston, ad aver segnato profondamente il mio immaginario. Il brano nella versione italiana del film si intitolava “Ai giochi addio”, con il testo di Elsa Morante (scrittrice Premio Strega), che venne affidato al cantante Bruno Filippini, che nel film interpreta il menestrello (e che aveva vinto il Festival di Castrocaro insieme a Gigliola Cinquetti).
I d u e p r o t a g o n i s t i d e l film Romeo e Giulietta erano molto vicini all’età dei personaggi originali; infatti, durante le riprese Leonard Whiting (Romeo) aveva diciassette anni, Olivia Hussey (Giulietta) sedici. Va da sé che a 4 anni, non capii niente della trama, della storia, delle vite tragiche di Romeo e Giulietta, ma quando lo rividi da ragazzo 6, 7 anni dopo, con una consapevolezza e maturità diverse, il film mi impressionò e commosse oltre ogni dire e così è stato negli anni successivi, in cui l’ho rivisto, sempre con emozione e trasporto. Sicuramente il film di Zeffirelli è fra quelli che ho visto più spesso, almeno una quindicina di volte. Mi è tornato in mente questo ricordo proprio sabato scorso (15 giugno ’19) quando, davanti alla TV guardando l’edizione principale del TG1, ho appreso della morte del grande regista, scenografo e sceneggiatore italiano.
Mi sono tornati in mente altri suoi film che hanno segnato la mia giovinezza di appassionato di cinema e la mia vita adulta di cinefilo incallito: Gesù di Nazareth (1976), forse la trasposizione cinematografica più riuscita della vita di Gesù; Amleto (1990), con uno straordinario Mel Gibson nei panni del principe danese e con un cast stellare, tra cui spiccavano Glenn Close, Alan Bates e Helena Bonham Carter, un film incredibile per le scenografie di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, per le musiche di Ennio Morricone e per i ricercati (e storicamente attendibili) set allestiti fra la Scozia, l’Inghilterra e la Francia. Franco Zeffirelli se n’è andato, nella sua casa di Roma, all’età di 96 anni, dopo una lunga malattia, lasciando un vuoto immenso nel mondo del cinema. Un regista amatissimo in Italia, ed ancora di più all’estero, che aveva cominciato la sua carriera come aiuto regista di Luchino Visconti per film come La terra trema e Senso, dopo aver frequentato prima il collegio del Convento di San Marco a Firenze, dove ebbe come istitutore Giorgio La Pira, e poi l’Accademia di Belle Arti della stessa città, dove aveva conseguito una laurea in scenografia. Si divise sempre fra cinema e teatro, ci lascia tanti capolavori cinematografici e un numero incredibile di regie di opere teatrali e liriche, che sono sempre state accompagnate da un grandissimo successo di critica e pubblico. Curò la regia di importanti eventi televisivi come l’apertura dell’Anno Santo nel 1974 e nel 1999 e collaborò con i più importanti teatri dell’opera del mondo fra cui La Scala di Milano, il Metropolitan Opera House e l’Opéra National de Paris. È stato un vero ambasciatore della cultura italiana nel mondo e per questo fu insignito di diverse onorificenze fra le quali: Grand’Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana nel 1977, Medaglia ai benemeriti della cultura e dell’arte nel 2003 e addirittura nel 2004 la Regina Elisabetta lo nominò Cavaliere Commendatore dell’Ordine dell’Impero Britannico.
Fu un grande regista, un vero Maestro, come si è detto, non solo italiano ma mondiale, fin dalle sue prime regie lavora con grandi produzioni internazionali. Cominciò giovanissimo nel dopoguerra prima al teatro e poi al cinema ed ha avuto una carriera lunga oltre 70 anni. Il lavoro di Franco Zeffirelli come regista cinematografico è stato sempre caratterizzato dall’estrema eleganza formale e la predilezione per il melodramma e le storie d’amore, messe in scena con senso dello spettacolo e gusto figurativo ricercato e prezioso. Furono senza dubbio i suoi studi all’Accademia ed i primi anni di apprendistato, svolti sotto l’ala protettiva di Luchino Visconti (con il quale ebbe anche un lungo e travagliato rapporto, molto chiacchierato dalla stampa, a metà degli anni ’50), ad influenzare il suo stile registico. Fu dichiaratamente omosessuale e cattolico, oltre che politicamente anticomunista, vicino al centro- destra, per il quale fu senatore nelle file di Forza Italia dal 1994 al 2001. Non vinse mai un Oscar, per il quale ricevette solo due nomination, una nel 1969 come Miglior Regista per Romeo e Giulietta, l’altra nel 1983 per la Miglior Scenografia per La Traviata. Vinse 5 David di Donatello e solo un Nastro d’Argento nel 1969 come Regista del Miglior Film per Romeo e
Giulietta (tra l’altro il suo film più premiato). Sicuramente avrebbe meritato qualche riconoscimento in più sia all’estero che in patria, ma il pubblico non gli fece mancare mai il suo affetto e le attestazioni di stima; un pubblico che ha affollato in migliaia la camera ardente allestita a Palazzo Vecchio nella sua amata Firenze, nei due giorni successivi alla morte. Ci lascia oltre ai film e alle opere teatrali e liriche, uno sterminato patrimonio composto da disegni, bozzetti, copioni, sceneggiature, libretti d’opera, fotografie, filmati e una biblioteca di oltre 10mila volumi, raccolti nei settant’anni di carriera del maestro, che verranno custoditi in un apposito museo nella Fondazione Franco Zeffirelli, a due passi da Piazza della Signoria, sempre a Firenze. Un patrimonio immenso, stimabile in 180 milioni di euro. Insomma un vero e proprio gigante non solo del cinema ma della cultura, uno che un tempo si sarebbe chiamato intellettuale e/o Maestro, ma che oggi, sommersi come siamo dalla società liquida, sbrigativamente ci limitiamo a definire “solo” regista. A me mancherà tantissimo l’eleganza formale delle sue inquadrature, la bellezza delle sue scenografie e, soprattutto, il suo sguardo sul mondo; fortuna che ci rimarranno sempre le sue opere che potremo rivedere ancora ed ancora. Addio Maestro.
Il grande spirito - Il film Quello appena uscito nelle sale, ovvero Il grande spirito, è un film complesso, poeticamente stralunato e avvolto da un realismo magico, cifre distintive del cinema di Sergio Rubini e di Rocco Papaleo, attore comico “lunare”, un po’ alla Macario. Sempre in bilico fra materia e spirito, fra concretezza anche gretta e allucinazione sempre nobile, Il grande spirito è una storia di miseria e nobiltà, con una grande attenzione all’elemento polisensoriale: il suono, in particolare, è molto curato, dal lamento gutturale di un malato costretto al ricovero forzato al ticchettio di una mano nervosa. Il grande spirito è dunque un piccolo gioiello, partito quasi nell’ombra, ma che ben presto ha assorbito ammiratori come una spugna assorbe l’acqua. Surreale e a tratti bizzarro, ma anche profondamente calato nella realtà locale: il film è girato a Taranto, ma nella parte industriale, quella avvelenata dai veleni dell’industria siderurgica, la quale però, saggiamente, rimane sempre sullo
sfondo. I due personaggi principali creano una sinergia magistrale che dà forza e propulsione alla storia. La vicenda per lo più si sviluppa sui tetti e resta in alto, in una dimensione onirica, senza mai cadere in
basso nel sentimentalismo o nella banalità. E’ la storia di Tonino (Sergio Rubini), un ladruncolo sempre in cerca del grande colpo di fortuna: che sembra finalmente arrivare quando il bottino di una rapina, per cui lui era stato relegato al ruolo di palo, finisce fortuitamente nelle sue mani. Tonino fugge con la refurtiva sui tetti di Taranto e trova rifugio in un abbaino fatiscente abitato da uno strano personaggio: Renato (Rocco Papaleo), che si è dato il soprannome di Cervo Nero perché si ritiene un indiano, parte di una tribù in perenne lotta contro gli yankee. Renato, come sillaba sprezzantemente Tonino, è un “mi-no-ra-to”, ma è anche l’unica àncora di salvezza per il fuggitivo, che tra l’altro si è ferito malamente cadendo dall’alto di un cantiere sopraelevato. Fra i due nascerà un’intesa frutto non solo dell’emarginazione, ma anche di un’insospettabile consonanza di vedute. Rubini, alla sua 14esima regia, sforna un film, che sembra rifarsi allo stralunato gioiello della commedia all’italiana Non toccare la donna bianca, in cui la guerra di secessione americana, era ambientata in una cava nel centro di Parigi e le avventure dei protagonisti (Mastroianni, Tognazzi, Noiret, Piccoli), si svolgevano con i grattacieli di Parigi sullo sfondo. Allo stesso modo la storia attuale si svolge sui tetti, anziché in una cava, e sullo sfondo al posto dei grattacieli ci sono le famose ciminiere di Taranto. Le immagini della fabbrica, con le sue fornaci e i suoi tossici fumi, si mescolano alle immagini del fuoco “purificatore” acceso da Cervo Nero: inferno e praterie celesti, distruzione e devozione, peccato e redenzione. Altra scelta fortemente simbolica è quella di ambientare quasi tutta la storia sui tetti di Taranto, in una ricerca visiva di elevazione fisica e spirituale: tutta la parabola (è il caso di dirlo) di Tonino e Renato si consuma nella verticalità, in ascese celestiali e rovinosi schianti a terra – quella terra avvelenata dalle fabbriche e infestata dalla malavita. Anche le ciminiere dell’Ilva incombono grazie alla loro altezza, che si erge arrogante sopra il livello del mare tarantino. La questione dell’Ilva insomma, pur senza invadere il campo della vicenda, permea – come un veleno silenzioso e letale – tutta la storia: le esistenze miserabili, la decimazione degli “indiani”, la rabbia (mal) repressa, l’orizzonte forzatamente (de)limitato. Tonino e Renato sono quindi, l’uno l'”uomo del
destino” dell’altro perché attraverso il loro rispecchiarsi si accende la loro luce interiore, quella luce che lotta contro il buio circostante. Ma i due personaggi sono soprattutto lo specchio del talento dei due protagonisti, autori-attori di straordinario talento, poliedrici e capaci di acchiappare il pubblico di tutte le età, con un viscerale amore per il cinema, che permea dal primo all’ultimo minuto di film. Una pellicola da ricordare e…da vedere: amara e figlia dei tempi attuali. The Matrix – Il Film È il marzo del 1999 quando nella sale USA esce il film “The Matrix”, realizzato dagli allora fratelli Andy e Larry Wachowski (prima di diventare le sorelle Lana e Lilly), film epocale sia per gli
argomenti trattati sia per le tecnologie cinematografiche impegnate. Siamo alla fine di un secolo e di un millennio, il mondo è profondamente diverso da come lo
conosciamo oggi. In esso vi erano poco meno di 400 milioni di utenti collegati ad internet e non esistevano Facebook, You Tube, Iphone ed app. La preoccupazione principale legata alla rete internet, ancora appannaggio di pochi utenti, era rappresentata dal “Y2K bug”, meglio noto come Millennium bug, un difetto informatico che si sarebbe manifestato al cambio di data della mezzanotte tra venerdì 31 dicembre 1999 e sabato 1º gennaio 2000 nei sistemi di elaborazione dati di tutto il mondo. Il film dei fratelli Wachowski ci presenta un futuro prossimo venturo dispotico, claustrofobico e terrorizzante. Tutto prende avvio dalla vita di Thomas A. Anderson, programmatore di software presso la Metacortex, cittadino modello di giorno e attivo hacker, sotto lo pseudonimo di “Neo”, di notte. Ad un certo punto il nostro inconsapevole eroe viene contattato da Trinity, esperta e conturbante hacker braccio destro del misterioso Morpheus, vero e proprio criminale informatico. L’incontro con Morpheus è illuminante: Neo viene a conoscenza del fatto che il mondo reale a cui è abituato altro non è che una gigantesca simulazione al computer a cui tutti gli esseri umani sono collegati a loro insaputa, simulazione che prende il nome di “Matrix”, che serve a nascondere una amara e allucinata realtà creata dalla macchine e dall’intelligenza artificiale per assoggettare gli esseri umani. Risvegliato alla vera realtà, Neo entrerà nella resistenza guidata da Morpheus, che cerca di scollegare quanti più umani possibili da questa simulazione globale. Il film presenta profondi riferimenti filosofici, religiosi e sociologici e, in un certo senso, profetizza il mondo in cui oggi ci troviamo a vivere, perennemente collegati ai nostri dispositivi elettronici, che misurano e profilano ogni aspetto della nostra vita, “suggerendoci” che cibo mangiare, come vestire, cosa leggere, quale opinione avere, chi frequentare, chi votare e così via. Gli smartphone e le innumerevoli app su di essi scaricate sono quanto di più simile all’incubatrice in cui si risveglia Neo dopo aver ingerito la famosa pillola rossa datagli da Morpheus.
Il film è passato alla storia principalmente per gli effetti speciali, ma tutta la lavorazione fu difficile e complessa: pensate che la sceneggiatura richiese più di 5 anni di lavorazione, per un totale di 14 bozze e che gli storyboard furono più di 600. Gli spunti letterari per la storia furono innumerevoli: in primis il film saccheggia il “mito della caverna” di Platone”, poi “Alice nel Paese delle Meraviglie” di Lewis Carroll, l’“Odissea” di Omero e soprattutto “Simulacri e Simulazione” di Jean Baudrillard, ritenuto così essenziale ai fini della storia che i fratelli Wachowski comprarono molte copie del testo, che fecero leggere a gran parte del cast e della troupe. Questo libro era così importante che a Keanu Reeves (Neo) venne imposto di leggerlo ancor prima di iniziare a sfogliare la sceneggiatura. Reeves ha sempre sostenuto che fu proprio grazie a questo libro che fu capace di cogliere e capire tutte le sfumature filosofiche del film. A proposito di Keanu Reeves, che regalò al personaggio di Neo un’interpretazione magistrale, l’attore non fu la prima scelta dei registi: il ruolo del protagonista fu offerto prima a Johnny Deep, Brad Pitt, Val Kilmer, Leonardo Di Caprio ed anche all’allora giovanissimo Will Smith, ma alla fine la scelta si restrinse tra Johnny Deep e Keanu Reeves, con quest’ultimo preferito dalla Warner Bros perché, fin da subito, sembrò aver capito l’essenza del film. Anche per il ruolo di Morpheus si pensò a diversi nomi, tra questi Gary Oldman e Samuel L. Jackson, ma alla fine a spuntarla fu Laurence Fishburne, che definì il suo personaggio di Morpheus come un mix tra Obi-Wan Kenobi e Darth Vader. Le scene e le ambientazioni dark del film furono calibrate su un scelta cromatica molto forte e precisa. Tre furono i colori principali usati per colorare e caricare di significato i fotogrammi. Innanzitutto il verde, che fu utilizzato per tutte le scene ambientate nel mondo fittizio di Matrix; si voleva ricreare l’effetto di una realtà filtrata attraverso il monitor di uno schermo di computer (nel 1999 molti schermi del computer erano ancora monocromatici, appunto verdi, perché si era scoperto che questo colore aumentava la definizione e non stancava la vista), poi perché questo colore è da sempre associato al mistero ed all’oscurità. Poi il blu, che divenne il colore per rappresentare le scene della realtà e della vita vera fuori dalla simulazione di Matrix; il colore blu fu usato per le sensazioni di freddezza e melanconia che trasmette, le stesse che i registi volevano traspirassero dal film. Infine fu scelto il giallo per rappresentare il limbo fra vita reale e Matrix, come ad esempio le simulazioni dell’addestramento di Neo: il giallo è da sempre associato all’insicurezza e sembrò ideale
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