Comunicazione 2020 - Smart ...

Pagina creata da Paolo Marinelli
 
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Comunicazione 2020 - Smart ...
La Copertina d’Artista - Tutto è
comunicazione 2020
Una donna ci fissa diritto negli occhi, ha un megafono e delle strane extension applicate ai capelli,
sicuramente è una manifestante, impegnata in una delle innumerevoli proteste esplose in questa
fase post lockdown da coronavirus.

È strano, ma il megafono copre la sua bocca e parte del suo naso e, in un periodo di distanziamento
sociale e dispositivi di protezione individuale, come quello che viviamo, quest’immagine non può non
ricordarci che anche le mascherine coprono la stessa porzione di viso. Quindi, questa “anonima
manifestante”, che potrebbe essere chiunque, e protestare per qualunque cosa, in una maniera
sibillina e curiosa ci immerge nell’attualità più stringente.
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Credo che questa voglia di celare l’identità della protagonista dell’opera sia stata una scelta non
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casuale da parte dell’artista. Gli occhi di questa manifestante ci fissano, ci scrutano, quasi ci sfidano,
eppure noi non possiamo distogliere lo sguardo, siamo calamitati, catturati, forsanche sedotti ed
inquietati da questa donna che ci trafigge con i suoi occhi e che sembrano scavare nella nostra più
recondita intimità.

Fra tutte le domande che si affollano nella nostra testa, una prende il sopravvento su tutte le altre,
ed è: “quale sarà mai la protesta a cui prende parte questa manifestante?”.

Incuriositi e smaniosi di scoprirlo, ci concentriamo sulla scena, che però non ci aiuta più di tanto a
capire la causa per cui si batte questa giovane donna. L’artista, e lo capiamo proprio dallo sfondo, ha
utilizzato la tecnica del collage, ed infatti la scenografia, le strane extention dei capelli, il viso e
addirittura il megafono sono formati da piccole strisce di carta accuratamente selezionate e tagliate
per comporre un meta-racconto, un racconto nel racconto.

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Queste strisce di carta, tagliate così fini da sembrare gli sfilacci di una distruggi documenti come
quelle presenti negli uffici, sono il definitivo colpo di coda che l’artista di questo mese, Paola
Montanaro (classe 1969), ci assesta. Come in una di quelle word-cloud che troviamo nelle immagini
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di Google, l’opera addensa e stratifica altri significati, come nella migliore tradizione Pop, è insieme
immediata e complicata, semplice ma pure complessa, chiara ma anche difficile.

Ma capire la tecnica non ci aiuta ancora a capire la natura della protesta, potrebbe essere una
contro il razzismo, oppure contro l’ennesimo monumento ritenuto politicamente scorretto, od ancora
la protesta di una qualunque di quelle categorie di lavoratori e commercianti ridotte sul lastrico da
più di due mesi circa di chiusura e lockdown?

            Scopri il nuovo numero: Tutto è Comunicazione
      La comunicazione è diventata centrale nella vita di tutti noi ed è cambiata molto nell’ultimo
   periodo a causa dell’epidemia. Abbiamo assistito all’esplosione di nuove piattaforme digitali come
     Zoom, alla comparsa degli scienziati nei talk show televisivi e ad una comunicazione di brand
                         incentrata su valori diversi rispetto al recente passato.

Forse il titolo può trarci d’impaccio, ed aiutarci a collocare correttamente manifestante, causa e
protesta; l’opera si intitola “Urlo”, e d’un tratto un’illuminazione ci abbaglia, le nostre lezioni di
storia dell’arte durante le scuole superiori ci ricordano lo sconvolgente “Urlo” (o Grido) di Edvard
Munch, il geniale pittore norvegese che nel 1895, sul finire del secolo, dipinse una serie di quadri
dai colori pastosi e tinte fosche che ritraevano un uomo in primo piano che, guardando in faccia lo
spettatore, si contorceva in un urlo di disperazione. Munch dava sfogo alle angosce esistenziali di
fine secolo, tecnologia e scienza galoppavano velocemente, il capitalismo si affermava in tutto il
mondo, il divario fra ricchi e poveri aumentava e all’orizzonte si addensavano le nubi del primo
conflitto mondiale. Insomma, il quadro dell’artista norvegese era un ritratto della condizione
dell’uomo di fronte al progresso ed alla tecnologia ed insieme il presagio di una catastrofe che stava
per arrivare.
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E la nostra artista Paola Montanaro cosa vuole presagire?
Forse che in un mondo iperconnesso e virtualizzato come il nostro, dove abbiamo più informazioni di
quelle che riusciamo ad analizzare, più foto di quelle che riusciremmo mai a guardare e un autentico
surplus di comunicazione, comunque alla fine non riusciamo a dare priorità ed importanza o
quantomeno a scegliere le informazioni corrette, importanti o quanto meno più utili per noi?

Oppure, l’Urlo della nostra artista ci racconta che per fare emergere una protesta, un messaggio, dal
confuso rumore di fondo della comunicazione odierna, abbiamo bisogno necessariamente di un
megafono?

O, infine, che dobbiamo rassegnarci al fatto che i poteri forti hanno compreso che, nel mondo
virtuale e non, la censura non deve più oscurare o rimuovere una giusta causa o un messaggio, ma
basta che lo sommerga, anzi lo affoghi, in una marea indistinta e confusa di altre informazioni
perché, di fatto, non sia più visibile?
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Credo che lo scopo, sotteso a questa bellissima opera, consapevole o inconscio che sia, è quello di
farci capire l’importanza dei concetti di “attenzione” e “concentrazione”, qualità che i neurologi
ci dicono siano drasticamente diminuite negli ultimi 10 anni, passando dai 10 secondi circa a
meno di 5; l’opera densa, stratificata e magnetica della Montanaro ci esorta a fermarci, a riflettere,
a concentraci, e così facendo ci aiuta a districarci ed orientarci nel mondo d’oggi.
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L’arte contemporanea quindi, come mappa e bussola, o se preferite come navigatore, strumento
privilegiato per indicarci il cammino, accompagnare i nostri viaggi, e, perché no, anche le nostre
cause e le nostre proteste. Un tool, uno strumento, quello dell’arte, che spesso dimentichiamo di
utilizzare, ma che può essere quello più importante che abbiamo nella nostra cassetta degli attrezzi,
qualunque sia la nostra professione. La bellezza forse non salverà il mondo, ma di sicuro può aiutarci
a vivere meglio e più “consapevolmente” le nostre vite, e quindi, alla fine, un poco ci salva.

  Paola Montanaro classe 1969, originaria di
  Massafra, ma residente a Lecce, dove vive ed
  opera. Appassionata fin da giovane di disegno e
  fotografia, intraprende studi prettamente
  scientifici che però le forniranno una base
  essenziale ed originale per la sua ricerca artistica.
  All’inizio è la grafica che l’avvicina all’arte, ed un
  materiale che più di tutti caratterizzerà la sua
  cifra stilistica: la carta. Utilizzata dapprima come
  supporto, diverrà in seguito, sminuzzata, tagliata e
  frammentata, materia e mezzo privilegiato per comporre le suo opere artistiche, che vedranno nel
  collage di carta l’approdo definitivo dell’artista.

  Composizioni meticce sospese fra grafic art, illustrazione e pop art, i lavori della sua ultima
  produzione si concentrano sulle tematiche sociali, politiche e dell’attualità che diventano, in virtù
  della tecnica usata, vere meta-opere, con un significato palese ed uno, o molti, nascosti nelle
  scritte delle strisce di carta che l’artista ritaglia dalle riviste. Una sfida posta alla nostra capacità
  di fermarci, concentrarci e scoprire tutti i significati dell’opera.

  Per informazioni e per contattare l’artista Paola Montanaro: paolamontanaroart@gmail.com –
  www.paolamontanaro.com – Instagram: paolacollageart

Ultime mostre

2019

ARTE MUSA, 1ª edizione Concorso Letterario Germinazioni Arte – Scrivi un quadro d’autore, Lecce;

2018

I Collage di carta, in collaborazione con GeoArk // Arte e Arredo e Antonio Palma ph;

Lecce Bene Comune Incontro di lettura de #ilpaneelerose “Per raccontare la realtà con le
immagini” – “Dall’autoritratto alle foto di una irrecuperabile ribelle”;

Collettiva a tema libero in occasione dell’inaugurazione della nuova sede di Labirinti Artistici,
Lecce;

2017

Lecce Fashion Night, Partecipazione, con Madmood, alla serata targata “Confindustria Lecce
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Fashion Night”;

MUST Museo Storico della città di Lecce – Esposizione di un’opera, omaggio al fotografo Steve
McCurry, in occasione della serata inaugurale della mostra fotografica e incontri a tema, a cura
della Pro Loco di Lecce;

Itinerari Rosa Pro Loco in Puglia tra cielo e… mare, Open Space Palazzo Carafa, Lecce.

Ricordiamo ai nostri lettori ed agli artisti interessati che è possibile candidarsi
alla selezione della sesta edizione di questa interessante iniziativa scrivendo ed
inviando un portfolio alla nostra redazione: redazione@smarknews.it

Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre.

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Tutto è Comunicazione - L'editoriale di
Ivan Zorico
Comunicazione 2020 - Smart ...
I social media sono diventati strumenti più che familiari, le
notizie circolano veloci, le fonti di informazioni sono
esplose e siamo sempre più portati a farci un giudizio su un
fatto o su un personaggio attraverso l’elaborazione di una
battuta, un frame o uno slogan, senza andare in profondità.

Non è superficialità, è più bisogno di sintesi.
Sino a solo venti anni fa il mondo dell’informazione era più semplice: fonti ufficiali da cui informarsi,
agenzie stampa che ribattevano le dichiarazioni del personaggio di turno, fatti ripresi e commentati
da un operatore dell’informazione; il tutto ad una velocità che vista con gli occhi di oggi ci
sembra preistorica.

In quel tempo le notizie si leggevano su carta e non su uno schermo da 5 o 6 pollici. Si leggeva il
giornale al bar, in ufficio prima di iniziare a lavorare o alla sera, così, per rilassarsi un po’ e tenersi
aggiornati. Una lettura più attenta, ragionata e meno attaccabile: difficile pensare che
un’email, una notifica di Facebook o un WhatsApp potesse saltare fuori dalle pagine di un quotidiano
e distrarti dalla lettura, agganciare la tua attenzione e sfilacciarla tra i vari link, contenuti
multimediali e molto altro ancora. Formarsi un’opinione consapevole era più semplice; non dico
facile, ma più semplice di oggi certamente sì. Va bene, c’era anche la televisione, ma i momenti
dedicati all’informazione erano quelli del primo mattino, del pranzo e della cena, con l’aggiunta degli
approfondimenti serali in cui conduttori e ospiti dibattevano del tema del momento. Nulla di nuovo
sotto al cielo e, ancora una volta, il tutto era segnato da una liturgia abbastanza nota e
compassata.

Poi la rivoluzione, tutto è cambiato.
I cellulari hanno fatto spazio agli smartphone e d’un tratto siamo passati dal maneggiare un
comune telefono senza fili a un oggetto ultra performante in grado di fare fotografie, produrre
video, elaborare dati, immagazzinare dati, potenziare le nostre risorse e aprire infinite finestre su
infinite possibilità.

L’uso di internet è esploso, abbiamo conosciuto i blog, sono nati i social media e abbiamo
scoperto che anche noi stessi potevano essere generatori di contenuti, oltre che meri fruitori di
notizie. Quello che prima era appannaggio di pochi, oggi è nelle disponibilità di tutti: rivoluzionario.

Talmente rivoluzionario che non riusciamo ancora pienamente a gestire e a codificare questa
nuova realtà. Fatichiamo a starle dietro e i rischi sono alti.
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Capire questo mondo non è più né facile né semplice, anzi è
complicatissimo.
Siamo al centro di un flusso talmente ampio e denso che riuscire a venirne a capo è davvero arduo.
In questo mare di informazioni, dobbiamo destreggiarci tra fake news, titoli acchiappa click e
dichiarazioni contraddittorie. Poi dobbiamo intercettare le notizie vere, verificarne l’attendibilità,
fare almeno una comparazione con altre fonti per avere un quadro completo e, se ci rimane del
tempo, vivere la vita di tutti i giorni che ormai sembra andare (anzi va) ad una velocità elevatissima
(per questo punto sono da escludere gli ultimi 3 mesi). Insomma se non si indossa un mantello
rosso, non ci si chiama Clark Kent e di giorno non facciamo i giornalisti mentre nascondiamo di
essere un supereroe, siamo evidentemente di fronte ad una missione impossibile.

La comunicazione ha preso il posto dell’informazione.
In questo contesto abbiamo bisogno di sintesi. Paradossalmente apprezziamo molto di più chi in
15 secondi va dritto al punto piuttosto che un’analisi dettagliata che ci porta via, ovviamente,
maggiore tempo (dove per maggiore si può intendere 5-6 minuti). Cediamo profondità in favore
della rapidità. Il divulgatore, o il comunicatore, ha quindi maggiore seguito del giornalista, ossia di
chi dovrebbe saper maneggiare la materia informativa, perché meglio sa utilizzare i nuovi media e
meglio sa utilizzare il nuovo linguaggio. (Nell’ultimo periodo molti giornalisti sono diventati degli
ottimi comunicatori, ma è una evoluzione del mestiere a cui non tutti sanno adeguarsi
efficacemente).

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   periodo a causa dell’epidemia. Abbiamo assistito all’esplosione di nuove piattaforme digitali come
     Zoom, alla comparsa degli scienziati nei talk show televisivi e ad una comunicazione di brand
                         incentrata su valori diversi rispetto al recente passato.

E se come detto prediligiamo la rapidità, ovviamente chi comunica ci darà qualcosa da fruire
rapidamente. Qualcosa attraverso la quale possiamo crearci un’idea o almeno una sua illusione.
Per cui via libera agli slogan, alle frasi ad effetto e alla battute. Se ci pensate in questi anni ce
sono stati davvero tanti e ogni volta si cerca di alzare sempre più l’asticella per catturare
l’attenzione e per costringerci a fermarci almeno quei 15 secondi.

L’attenzione va nutrita.
Sarò controcorrente, ma credo che questo giochino alla lunga stancherà. Attenzione non sto
dicendo che bisogna ritornare al passato. Non lo vorrei mai: credo infatti che si debba vivere al
meglio il tempo presente e che non esistano isole felici nel passato. Quello che dico è altro.

Le persone vogliono essere informate non spintonate a destra e a sinistra a colpi di notizie flash. Chi
sarà in grado di nutrire l’attenzione delle persone senza farle sentire a disagio, senza
destabilizzarle con proclami o senza andare a toccare sistematicamente elementi viscerali, sarà
premiato.
Il ruolo della comunicazione a servizio dell’informazione dovrà essere questo: nutrire l’interesse e
l’attenzione delle persone per portarle ad avere un pensiero consapevole. E se devono essere 15
secondi purché siano di qualità e magari sommati ad altri 15 e poi ancora altri 15 e così via.
L’appetito, si sa, vien mangiando.

Intanto, se sei arrivato a leggere sino a qui, ti ringrazio. Mi hai dedicato alcuni minuti della tua
intensissima giornata e questo è per me un grande riconoscimento di fiducia. Grazie!

Buona lettura,

                                                                                       Ivan Zorico

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commenti. Rispondo sempre.
Se vuoi rimanere in contatto con me questo è il link
giusto: www.linkedin.com/in/ivanzorico

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Tutto è comunicazione - L’editoriale di
Raffaello Castellano
Dove eravamo rimasti???

Gli ultimi 4 mesi hanno visto l’Italia ed il Mondo intero sprofondare nell’incubo della pandemia da
SARS-CoV-2 che tra le altre cose ha monopolizzato e verticalizzato totalmente la comunicazione e
l’informazione. Ne è un esempio anche questo magazine, che, a partire dal numero di febbraio
“Virale” fino al numero di maggio “Upgrade”, ha dipanato un racconto del quotidiano che si è
concentrato interamente sulle problematiche, ma pure le opportunità che un cambio di paradigma
così radicale come una pandemia virale porta insite in sé.

L’agenda politica, sociale, economica e culturale ha visto l’adozione di un lessico nuovo, di nuovi
linguaggi e soprattutto di nuovi comunicatori.

Le parole nuove le conosciamo bene, sono: quarantena, lockdown, coronavirus, Covid-19,
emergenza sanitaria, zona rossa, contagio, infetti, terapia intensiva, etc..

Il linguaggio nuovo è stato quello dei bollettini della Protezione Civile, delle Conferenze
Stampa del Governo a tarda notte, delle dirette Facebook, delle stanze di Zoom, delle
videochat di Skipe, degli innumerevoli webinar, videoconferenze e corsi online che si sono
susseguiti senza soluzione di continuità.

I nuovi comunicatori sono stati un po’ a sorpresa gli scienziati, soprattutto epidemiologi, virologi,
biologi, medici, veterinari, esperti di statistica e giornalisti scientifici, che hanno spopolato su tutti i
media, soprattutto la televisione, che è passata con “estrema” naturalezza da prime serate animate
da Panzironi e il Mago Otelma direttamente a virologi di fama come Ilaria Capua e Roberto
Burioni.
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o Burioni e Ilaria Capua

Insomma, la scienza, quella ufficiale e rigorosa, ha goduto di uno spazio e di un’attenzione mai viste
prima. Vuoi per paura, vuoi per disperazione, tutti noi, all’inizio della pandemia, perfino
terrapiattisti, no-vacs e complottisti vari, ci siamo rivolti alla scienza per avere una qualche
indicazione, una parola di speranza, un conforto, un’informazione sicura.

Ma tutto questo è durato poco, sono stati diversi i fattori che ci hanno piano piano allontanato dalla
scienza. Due su tutti, secondo chi scrive, i motivi principali: da una parte la diffusa ignoranza del
pubblico generalista sul funzionamento del metodo scientifico, e dall’altro gli scienziati stessi, che,
ubriacati dall’attenzione mediatica e abbagliati dalla luce dei riflettori, hanno per la maggior parte
sprecato questa occasione d’oro che il virus gli aveva offerto.

Ma analizziamo più approfonditamente entrambi i motivi.
Per quale motivo l’ignoranza su come funziona la scienza ha portato lentamente ma inesorabilmente
le persone a disaffezionarsi agli scienziati?

La scienza, al contrario di quello che pensa la gente comune, non fornisce certezze, ma anzi va
avanti per tentativi ed errori, teorie e confutazioni, successi e fallimenti. Fra i postulati
fondamentali del metodo scientifico ci sono: che una teoria possa essere falsificata, che un
esperimento possa essere replicato da un altro gruppo di scienziati, che un articolo
scientifico, prima della pubblicazione, debba essere validato da una comunità di pari.
Quindi la scienza, nelle migliori condizioni, propone teorie, ipotesi e studi che hanno una funzione
pratica, temporanea e possibile di verifiche future. Spingendo più in là il nostro ragionamento,
potremmo dire che se qualcuno propone una certezza inconfutabile, assoluta ed immutabile,
possiamo stare certi che non si tratta di scienza, ma di qualcos’altro.
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Quindi, alla luce del funzionamento del metodo scientifico, abbiamo capito che chiedere certezze alla
scienza è non solo sbagliato ma addirittura bizzarro, perché la scienza non è un dogma immutabile,
ma un processo dinamico ed in continua evoluzione.

Ma veniamo al secondo motivo: è indubbio che la maggior parte degli scienziati passati per la radio,
le dirette web e soprattutto la TV, abbiano peccato di narcisismo, finendo molto spesso per litigare
fra loro, urlando e contribuendo alla confusione e disaffezione del pubblico, che invece era alla
ricerca di rassicurazioni e di qualche parola di speranza. La colpa di questo purtroppo risiede nella
natura degli esseri umani, che, posti sotto i riflettori e la ribalta mediatica, spesso perdono la
bussola e dimenticano il loro ruolo. A discolpa della categoria si potrebbe addurre il fatto che,
ignorati per anni, mai ascoltati, sottopagati e frustrati, gli scienziati si siano fatti prendere la mano e
non abbiano saputo gestire un processo comunicativo così ampio, articolato e complesso come quello
mediatico, nel quale non ci si rivolge a pochi ricercatori sparsi per il mondo, che in definitiva parlano
la stessa lingua, ma ad un pubblico generalista, a digiuno di sapere scientifico e bisognoso di un
linguaggio più divulgativo, piano e chiaro.

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   periodo a causa dell’epidemia. Abbiamo assistito all’esplosione di nuove piattaforme digitali come
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                         incentrata su valori diversi rispetto al recente passato.
Ma, come ho ribadito all’inizio di questo editoriale, una cosa è l’informazione, altra cosa è la
comunicazione, saper divulgare è una capacità che bisogna saper imparare, coltivare ed esercitare,
e gli esempi di semplificazione e potabilizzazione di termini e discipline complesse abbondano.
Pensiamo al lavoro di divulgatori scientifici come Piero ed Alberto Angela, Mario Tozzi, Luca
Mercalli, di quelli storici come Alessandro Barbero o Paolo Mieli, o di quelli economici come
Carlo Cottarelli o Francesco Specchia, quest’ultimo fautore di un comunicazione economica non
solo divulgativa, ma addirittura pop, come il fortunato esperimento del canale multipiattaforma
POP Economy dimostra.

Ed è proprio il giornalista e direttore di POP Economy, Francesco Specchia, che abbiamo
intervistato sul tema di “tutto è comunicazione” e che ci ha aiutato ad orientarci meglio in questo
particolare periodo storico, congestionato ed intasato di parole, informazioni contraddittorie,
dichiarazioni politiche e fake news.

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ore di POP Economy, Francesco Spechhia

Prima di concludere, permettetemi un’ultima digressione, che come mia
abitudine sarà “laterale”.
Quale è, se c’è, la forma di comunicazione che meglio ci può aiutare a comprendere, filtrare e
classificare meglio l’immensa quantità di informazione e comunicazione che quotidianamente ci
sommerge?

Penso, ma sono molto sicuro, che la forma di comunicazione migliore per comprendere il presente
sia l’arte, soprattutto contemporanea. Come sapete, quasi dall’inizio della sua nascita questo
magazine affida ogni mese il tema alla sensibilità di un artista sempre diverso, scelto proprio per le
sue caratteristiche di stile e linguaggio. Lo sappiamo benissimo che un’immagine ci dice molte più
cose di un articolo: è più immediata, più interessante, più seducente, certo non sempre risulta facile,
o di univoca o rapidissima lettura, però l’arte (come tutta la cultura) ci costringe in un mondo
scandito da tempi sempre più concitati, come questi della ripartenza da Fase 3, a fermarci,
guardare, ammirare e riflettere, insomma l’arte, come ho detto altrove, ci aiuta a concentrare la
nostra attenzione, affinare il nostro pensiero ed ad approfondire il nostro senso critico.

Pensate che stia esagerando?
Allora vi propongo un piccolo e veloce test, proponendovi le tre Copertine d’Artista che il nostro
magazine ha dedicato negli anni al macro-tema della comunicazione: la prima, del giugno 2015,
realizzata da Michele Petrelli, dall’iconico titolo “Enforced Silence” (Silenzio Forzato); la
seconda, del giugno 2019, realizzata da Vincenzo Maraglino, dal lapidario titolo “Atrofizzati”, e
la terza, quella di questo 74° numero, del giugno 2020, realizzata da Paola Montanaro,
dall’emblematico titolo “Urlo”, e vi sfido a trovare tre “sintesi” migliori per raccontare l’attualità, il
contemporaneo, la nostra stessa vita.

L’arte, e la cultura in generale, ci aiutano a comprendere il presente, immaginare il futuro e ad
addestrarci al cambiamento, ed è anche per questi motivi che questo magazine si sforza di avere un
approccio laterale ed originale al contemporaneo, proponendovi rubriche come quelle del cinema,
della musica e quella della Copertina d’Artista, perché, all’apparenza, potrebbero sembrare
superflue od off topic in un mensile di marketing ed innovazione come il nostro, ma in realtà sono
quelle che più caratterizzano la nostra natura, il nostro stile, la nostra linea editoriale, e che voi, i
nostri lettori, numeri alla mano, sembra apprezziate particolarmente.

Buona lettura

                                                                               Raffaello Castellano
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La comunicazione non è improvvisazione,
è scienza e bisogna saperla fare!
“See, I can draw the sky” questo il Billboard di qualche anno fa, nelle ultime settimane è tornato
alla ribalta sui canali social. Sarà la necessità di disegnare un nuovo futuro, sarà la voglia di creare
nuove opportunità che fanno intravedere un desiderio di ripartenza dopo il lockdown fatto sta che
sono diverse le pagine social che riprendono la campagna: esempio 1 – esempio 2 – esempio 3.

Faber Castell, azienda diventata famosa per la produzione di matite, che attualmente produce ogni
tipo di materiale di cancelleria ci fa sognare utilizzando quanto di più fantasioso può esserci,
risvegliando il bambino che c’è dentro di noi.

Disegnare il cielo con una matita? E’ possibile e con Faber Castell puoi!

Già l’idea esprime tutte le infinite possibilità di un mondo nuovo: se si può arrivare a disegnare il
cielo, si può pensare di fare qualsiasi cosa e tutto ciò che hai nel cuore e nella mente può diventare
realtà.

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Walt Disney diceva se puoi immaginarlo, puoi farlo! E da un
maestro di creatività come lui non può che essere vero.
Il cartellone pubblicitario non necessita di essere spiegato, basta guardarlo per comprenderne il
forte impatto visivo e soprattutto emozionale: una bambina con il braccio alzato verso il cielo e una
matita in mano intenta a disegnarlo. Lo slogan è imponente: “Guarda, posso disegnare il cielo…” e in
calce disegna qualsiasi cosa tu voglia, sentiti un artista!

Un messaggio per nulla scontato e senza tempo che mai
come in questo momento è di forte attualità e di stimolo.
E’ il potere della comunicazione e al tempo dei social bisogna riflettere come spesso non è
l’azienda a riposizionarsi ma il mondo circostante a farlo per lei. Guardate questo esempio: una
pubblicità di qualche anno fa che nuovamente fa capolino perché un determinato periodo storico fa
rinascere l’urgenza di “tornare a sognare” e, quando questo avviene cavalcare l’onda, significa
approfittare della situazione per far parlare di sé e del proprio brand.

Può capitare che non sempre la comunicazione sia associata
a messaggi positivi ed ecco che il “crisis management plan”
di un’azienda è la prima arma da predisporre per
salvaguardare l’immagine.
La comunicazione non è improvvisazione, è scienza! Si deve sapere come farla, come usare le
mille sfaccettature di essa, riuscire ad emozionare e trasmettere allo stesso momento, creare pathos
ma anche rimanere indelebili. E’ un mondo fatto di colori dove la tavolozza è infinita di combinazioni
ma, soltanto quelle giuste riescono a realizzare qualcosa che abbia un senso per qualcuno.

I mille lati della comunicazione sono un’esperienza che si vive man mano si studia questa materia,
semplice all’apparenza ma che nasconde insidie profonde ancor di più se parliamo di
comunicazione digitale che non va sottovalutata soprattutto per il grande potere degli strumenti
che a disposizione di tutti possono amplificare le notizie creando un viralismo inaspettato.

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Tutto è Comunicazione: intervista a
Francesco Specchia direttore di POP
Economy
Parafrasando una celebre massima di Emily Dickinson, dedicata all’amore, potremmo azzardare e
dire: “Che la comunicazione è tutto, è tutto ciò che sappiamo della comunicazione”.

E, benché un po’ tirata, questa massima calza a pennello al concetto di comunicazione, ancora di più
oggi che, nel mondo iperconnesso, digitalizzato e virtualizzato in cui ci muoviamo, abbiamo
compreso da tempo che la comunicazione, insieme all’informazione ed ai dati ad essa strettamente
connessi, sono i tre asset strategici più importanti non solo per il nostro futuro, ma anche adesso,
per il nostro presente.

Questo numero di giugno di Smart Marketing dal titolo “Tutto è Comunicazione” vuole fare il
punto sullo stato dell’arte della comunicazione interpersonale, politica, economica, sociale, culturale
e virtuale nel nostro Paese e nel Mondo, dopo, ma meglio sarebbe dire durante, la pandemia e
l’emergenza sanitaria dovuta al Coronavirus.

Si è ripetuto come un mantra “nulla sarà come prima”, od ancora “cambierà tutto”, e noi abbiamo
visto come la comunicazione sia profondamente cambiata durante questa emergenza, sia nelle
modalità, nei mezzi, negli strumenti, nelle tematiche che soprattutto nella “natura stessa” dei
comunicatori.

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ore di POP Economy, Francesco Spechhia

Per aiutarci a districarci in questo “assembramento” caotico di dati, informazioni e comunicazioni,
noi di Smart Marketing abbiamo intervistato un comunicatore doc, il dott. Francesco Specchia,
giornalista, scrittore e conduttore radiofonico e televisivo di lungo corso, noto soprattutto per “POP
Economy – Il luna park dell’economia”, famoso ed innovativo format televisivo che approccia il
complicato mondo dell’economia con un linguaggio fresco, divulgativo e al contempo approfondito.

Domanda: Dott. Specchia, per cominciare, quanto ha inciso nella sua formazione ed esperienza il
fatto che lei abbia iniziato i suoi primi passi da giornalista e comunicatore nel mondo della carta
stampata in quotidiani come “Libero” e soprattutto “La Voce” di Indro Montanelli?
Risposta: “Ha inciso parecchio. Sono stato molto fortunato a vivere, come ragazzo di bottega,
l’esperienza di quel covo di spiriti folli che era la Voce, nel ’94. Montanelli era riuscito nell’impresa
di riunire sotto la sua ala grandi innovatori grafici e giornalistici come Vittorio Corona,
giovanissimi talentuosi come Travaglio e Gomez, firme che avevano fatto la storia della carta
stampata come Sergio Saviane. Ha reso il giornalismo libero, è stato gambizzato per questo; e ci ha
instillato un senso della scrittura, della notizia e dell’onore inarrivabili. Il mio primo figlio si chiama
Gregorio Indro non a caso. Libero, invece, l’ho vissuto da padre fondatore: rispetto alla Voce è
meno geniale ma più solido, e Feltri è la naturale prosecuzione – anche se animato da sentimenti
opposti – di Montanelli, solo più bravo nel dirigere l’orchestra”.

             Scopri il nuovo numero: Tutto è Comunicazione
      La comunicazione è diventata centrale nella vita di tutti noi ed è cambiata molto nell’ultimo
   periodo a causa dell’epidemia. Abbiamo assistito all’esplosione di nuove piattaforme digitali come
     Zoom, alla comparsa degli scienziati nei talk show televisivi e ad una comunicazione di brand
                         incentrata su valori diversi rispetto al recente passato.

Domanda: A proposito di Indro Montanelli, cosa pensa della recente ondata di sdegno anti
razzista e politicamente corretto che sta travolgendo l’opinione pubblica mondiale, al seguito
dell’omicidio da parte della polizia americana di George Floyd, e che si sta abbattendo anche, e
soprattutto, sulle statue di personaggi storici del passato?

Risposta: “Il caso della sposa bambina è ciclico e alimentato da avversari politici che a Montanelli
non son degni di lustrare le scarpe. Indro spiegò bene quali erano le condizioni storiche e giuridiche
di quel matrimonio. Non tirerò fuori tutte le eccezioni del caso, dalle unioni con ultraminorenni di
Maometto al concetto storico di “maggiore età” che cambia nella storia. E l’attacco alla sua statua
non ha nulla a che vedere con George Floyd. Dovrebbero prendere quei quattro idioti vandali e
spiegar loro di un signore che è stato condannato a morte dai nazisti, a cui hanno sparato le Brigate
Rosse, che è stato cacciato sia dal giornale di cui era il campione sia da quello che egli stesso aveva
fondato. Il vecchio Cilindro ha rifondato il nostro mestiere, dovremmo amarlo in silenzio solo per
questo”.

Domanda: Come è cambiata, se lo ha fatto, la comunicazione politica, scientifica, sociale ed
economica durante questa pandemia?

Risposta: “Quella politica si è spinta in modo ossessivo sugli annunci e sulle promesse non
mantenute (Alex Zanardi diceva che se un allenatore facesse quelle promesse sarebbe licenziato, i
politici invece li rieleggono). Quella scientifica, specie dei virologi, ha occupato tutti gli interstizi
della comunicazione, sostituendosi pericolosamente a quella politica. Le comunicazioni sociale ed
economica sono diventate una fastidiosa appendice della realtà nel mondo descritto dalla
comunicazione politica. E’ un circolo vizioso che prima o poi dovrà rompersi. E allora andremo alle
elezioni”.

Domanda: Durante il lockdown abbiamo assistito a due fenomeni comunicativi in antitesi fra loro.
Da una parte abbiamo avuto la prepotente ascesa degli scienziati, soprattutto virologi, biologi ed
epidemiologi, su tutti i media, dalla radio alle dirette facebook, dalla carta stampata alla tv, dove mai
prima d’ora si era visto un tale spazio dedicato alla scienza. Dall’altra parte, nel clima di paura ed
incertezza, è esplosa la produzione e circolazione di fake news e bufale che hanno intossicato il
dibattito pubblico e, cosa assai più grave, anche quello politico. Come possono stare insieme le due
cose, scienza e fake news, scienziati e complottisti? Sono davvero il sintomo di un’arteriosclerosi
della comunicazione?

Risposta: “Più che arteriosclerosi io parlerei di cortocircuito. Le fake sono il vero dramma del
secolo, perché con questo giornalismo “a rete”, conseguenza nefasta del web e dei social, è sempre
più difficile distinguerle dalla verità; mentre i virologi sono un fenomeno temporaneo ma che sta
anchilosando, come dicevo, la nostra comunicazione. In Italia, oggi, i virologi hanno una voce
oracolare, qualsiasi boiata dicano. Mentre in Usa, per dire, sono già diventati una caricatura. Si
tratta di aspettare e ancorarsi, come una volta, alla veridicità delle fonti”.

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ologo e filosofo austriaco Paul Watzlawick e il giornalista e politologo statunitense Walter
Lippman

Domanda: A proposito di arteriosclerosi della comunicazione, concetto caro alle teorie di Paul
Watzlawick, come si concilia, secondo lei, il primo assioma della comunicazione: “è impossibile non
comunicare”, postulato dallo psicologo e filosofo austriaco, principale esponente della Scuola di Palo
Alto, nel mondo iperconnesso e virtualizzato di oggi? Questo assioma ha perso vigore, o è più valido
che mai?

Risposta: “Nel mondo iperconnesso si sprecano le teorie e le definizioni: Walter Lippmann, per
esempio, dice che le notizie formano una sorta di pseudo-ambiente, ma le nostre reazioni a tale
ambiente non sono affatto pseudo-azioni, bensì azioni reali. Si comunica sempre, forsennatamente,
anche se in modo sempre diverso. Nel mio mestiere ora si staglia perfino la moda del “robot
journalism”, una definizione che viene associata all’uso di software in grado di realizzare testi di
senso compiuto senza l’intervento dell’uomo. Credo che passerà anche questa. Ma, certo, così com’è
messa la società, non puoi evitare di esprimerti…”.

Domanda: Per concludere, lei è un esperto riconosciuto di comunicazione, soprattutto economica,
che attraverso i suoi vari programmi, in particolare con POP Economy, ha reso divulgativa e chiara;
secondo lei, guardando agli ultimi mesi, come si è comportata la comunicazione scientifica sul web
ed in tv? Gli scienziati hanno avuto un approccio divulgativo, sono ancora troppo complicati, o hanno
sprecato un’occasione, anche per eccesso di vanità e protagonismo? E, alla luce della pandemia di
Covid-19, quanto è e sarà importante la “comunicazione scientifica” nelle nostre vite?

Risposta: “La comunicazione scientifica del Covid, volgarizzandosi, diventando seriale e
adeguandosi alle esigenze televisive, ha senz’altro perso un po’ in autorevolezza, spesso rendendo
narcisi personaggi di un’austerità di solito invincibile. Ma tornerà a riacquisire i propri spazi e le
propria ineluttabilità quando passerà il Coronavirus e gli Italiani torneranno ad essere – a secondo
dei momenti – soltanto un popolo di poeti, santi, navigatori, allenatori di calcio, costituzionalisti,
espertoni di fondi europei…”.
Francesco Specchia, fiorentino di nascita,
  veronese d’adozione è giornalista, scrittore e autore
  tv.

  Ha una laurea in legge e una specializzazione in comunicazioni di massa e antropologia criminale,
  ma non gli sono servite a nulla. Tra i fondatori del quotidiano “Libero” dove scrive di politica,
  cultura, tv e mass media, ha lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Angese
  assieme ai grandi satirici italiani. Per anni titolare del “Telebestiario” sul TgCom, in radio ha
  firmato trasmissioni per Radio Monte Carlo e R101 e “Prima pagina” su Radio3 Rai; e partecipato
  alla fondazione di “Agorà” su Raitre. Ha scritto e condotto programmi televisivi disparati e
  disperati, tra cui i talk show politici “Iceberg”, “Alias” , “Versus”, e “I Tartassati- Storie di fisco e
  dintorni”. Tra i suoi libri: saggi tra cui “Diario inedito del Grande Fratello” (Gremese), “Gli
  Inaffondabili” (Marsilio), “Terrorismo -L’altra storia” e “Giulio Andreotti-Parola di Giulio”
  (Aliberti). Bazzica spesso la tele, in programmi seriosissimi.

  Tifa per la Fiorentina, i film di genere e i fumetti d’autore. Ha due figli; il suo primogenito si
  chiama Gregorio Indro (e ancora si chiede il perché, ma quando sarà grande capirà…).

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Statue e razzismo: è giusto prendersela
con il passato?
È già passato più di un mese dalla morte di George Floyd.
Difficilmente potremo dimenticare le immagini che hanno ripreso gli istanti precedenti la sua morte
e difficilmente potremo dimenticare le sue ultime parole: I can’t breathe.

Parole sin da subito diventate manifesto e che hanno
riportato prepotentemente al centro del dibattito pubblico
un tema ancora così lontano dall’essere risolto: il razzismo.
Nei giorni seguenti l’uccisione di Floyd, centinaia di migliaia di persone appartenenti al movimento
Black Lives Matter si sono riversate (e ancora lo stanno facendo) nelle strade delle città americane
(e non solo) per manifestare contro le discriminazioni e gli abusi delle forze dell’ordine.

Manifestazioni che, ad un certo punto, hanno preso di mira non solo le forti disuguaglianze razziali
presenti nel sistema socio-politico degli Stati Uniti d’America, ma anche alcuni simboli –
monumenti e statue – che incarnano, a loro dire, valori fortemente divisivi e che sono espressione
diretta del razzismo. E così abbiamo assistito alla rabbia e alla violenza riversate contro
personaggi storici come Cristoforo Colombo o Winston Churchill e, qui da noi in Italia,
Indro Montanelli. La loro colpa sarebbe quella di essere in qualche modo depositari di valori
intolleranti e, per mezzo delle loro effigie, di esserne ancora veicolo di diffusione.

https://youtu.be/CK518fN-cBo

Vedendo quelle scene alla televisione ho provato a mettermi nei panni dei manifestanti per cercare
di capire acriticamente le ragioni di tali gesti. Ho voluto fare un ragionamento laterale: sarei
contento o anche solo neutrale nel vedere la statua di Hitler nelle strade o piazze della mia città?
Evidentemente no. E perché non lo sarei? Perché è un personaggio che nel recente passato si è
macchiato di crimini contro l’umanità. E su questo non ci sono dubbi.

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                         incentrata su valori diversi rispetto al recente passato.
Questo stesso ragionamento potrebbe essere traslato ad esempio su Cristoforo Colombo reo,
a suo tempo, di azioni che oggi, nel XXI secolo, potremmo valutare più che discutibili? La risposta è
no? E perché? Perché non si possono giudicare le azioni di una persona se la togliamo dal suo
contesto storico e sociale. Quello che per noi oggi è giusto, magari non lo sarà tra 500 anni o più.
Non per questo, però, le azioni degli uomini e delle donne avranno meno importanza e valore se, nel
loro tempo, erano state meritevoli di considerazione.

La statua di Cristoforo Colombo simboleggia e comunica, ad
esempio, valori come coraggio e determinazione, e
non riporta altri significati se non questi.
Non possiamo commettere l’errore di giudicare le azioni degli uomini con le lenti del
nostro tempo. E non lo possiamo commettere per almeno due motivi: primo, sarebbe un esercizio
sterile che non porterebbe a nulla e, secondo, dirotterebbe le nostre energie su qualcosa di
immutabile.

https://youtu.be/uJdrRNVYG9w

La storia va conosciuta e dibattuta per guadagnare nuove consapevolezze. Impegniamoci a
costruire un mondo migliore in cui vivere oggi piuttosto che sfregiare la memoria di quello passato.

Ti è piaciuto? Hai qualche considerazione in merito? Fammelo sapere nei
commenti. Rispondo sempre.
Se vuoi rimanere in contatto con me questo è il link
giusto: www.linkedin.com/in/ivanzorico

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Comunicare in maniera differente, questo
il motto “vincente” di Burger King
Ci aveva già abituato ad una comunicazione irriverente con la sua ultima trovata pubblicitaria nella
quale, la grande catena di fast food, per pubblicizzare la decisione di rimuovere i conservanti
artificiali dal suo panino più iconico aveva scelto di mostrare il naturale deperimento del proprio
hamburger fotografandolo ricoperto di muffa. Un ritorno alla verità con spot controversi e dai
messaggi forti che ritornano anche nella fase due e cioè quella del post pandemia.

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                         incentrata su valori diversi rispetto al recente passato.

E se, adesso, parole come “grazie, uniti, andrà tutto bene” sono bandite a causa dell’appiattimento
comunicativo generato da un’assenza di creatività, anche nei brand più famosi a farci scuola è
ancora una volta proprio Burger King.

Abbiamo superato anche la fase due e ci stiamo avvicinando alla fase tre dove però rimane l’obbligo
del distanziamento sociale, in questo nuovo scenario un ruolo chiave nella fase promozionale deve
essere attribuito allo storytelling aziendale che si deve adattare al nuovo “mondo” e deve non solo
essere in grado di comunicare i nuovi valori ma anche scegliere il modo più giusto.

Cambio di rotta
La priorità, adesso, è comunicare la sicurezza, la pulizia e soprattutto il distanziamento sociale. Le
persone che ancora sono “scosse” dal momento storico che stiamo vivendo, e dal lungo periodo di
reclusione che hanno subito, si ricorderanno e apprezzeranno sui brand che puntano sulle persone e
sulla solidarietà. In una strategia comunicativa non deve mai essere sottovalutato il posizionamento,
inteso come posizione che il brand occupa nella mente del consumatore, in quanto potrebbe
determinare il successo o il fallimento di una campagna promozionale.
Basti pensare alle perdite subite dal famoso brand di birre Corona che proprio a casa
dell’associazione al nome del temuto virus, specie in Cina, ha subito una calo delle vendite per un
ammontare di circa 285 milioni di dollari. Oppure il caso contrario quello di Barilla che elencando i
nomi delle persone che continuavano a lavorare e quindi permettevano di produrre la pasta per gli
italiani, è entrata favorevolmente nell’immaginario collettivo ed ha mantenuto le sue vendite anche
in una fase di pandemia.

Il caso Burger King
Comunicare dei valori, però, non vuol dire non poter introdurre nella propria strategia la creatività e
l’ironia. Lo sa bene Burger King che ha puntato tutto proprio sull’ironia per risultare credibile e al
tempo stesso affidabile. Al centro del discorso c’è sempre il panino più famoso della catena, il
Whooper. Ovviamente oltre a comunicare la sicurezza dei propri locali, adeguati alle norme vigenti,
Burger King non si ferma (ed è qui la sua forza), ma lancia un nuovo panino con una dose tripla di
cipolla che garantisce l’assoluto distanziamento sociale, il tutto comunicato con claim e grafica
accattivante sui propri social network. Un modo ironico e creativo che ha permesso al fast food di
continuare a lavorare anche in questo periodo così difficile, con un posizionamento nella mente del
cliente assolutamente unico, coerente e vincente.

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Pride month 2020 senza abbracci, ma con
la vicinanza di tutti i brand che credono
nell’amore arcobaleno
Quello che è appena passato è stato un Pride month abbastanza singolare, come del resto tutti gli
eventi degli ultimi mesi. Chi ha partecipato a una festa, a una manifestazione gay lo sa bene:
l’imperativo è abbattere le distanze fisiche e mentali tra le persone, gridare e dimostrare unione
senza avere paura di abbracciarsi e baciarsi in pubblico.

Da quando è stato istituito, nel 1970, in tutte le più piccole e grandi città del mondo, il Pride month
si festeggia per strada, insieme a migliaia di persone con le mani impegnate a sollevare lo
stesso striscione e la pelle scottata dal sole dopo aver ballato, esultato e protestato dalle ore più
calde del mattino.
Si compiono, in totale disinvoltura, gesti che ora sono rimandati a tempi migliori.

Oltre i confini del social distancing
In attesa che arrivi il momento in cui tutto andrà come è sempre andato, i brand, naturalmente, non
hanno rinunciato a sostenere la comunità LGBTQIA+. Hanno comunque trovato il modo di far
sentire la propria voce. Hanno agito secondo le regole del content marketing, hanno colto
l’occasione di dimostrare empatia nei confronti delle persone. Hanno costruito la propria strategia di
engagement all’insegna della creatività e con limited edition a tema Gay Pride.

In un Pride month senza eventi né parate, per rispettare il social distancing, iniziative del genere
diventano ancora più importanti. Se non è possibile andare in scena, l’orgoglio omosessuale non
resta dietro le quinte, ma si esprime in forme diverse a seconda del brand e delle sue strategie.
Del resto l’intera vicenda del Coronavirus ci ha insegnato ad adattarci, a cambiare in funzione delle
circostanze e a usare, bene e consapevolmente, quelli che, mancando il face to face sono diventati
gli unici strumenti di comunicazione.

Alcuni esempi
Che cosa ha fatto Adidas?
Il colosso tedesco di abbigliamento sportivo apre il Pirde month 2020 con il lancio di un Pride Pack
contenente la rivisitazione color arcobaleno delle sue calzature best seller: Superstar, NMD R1, Nite
Jogger, Stan Smith, Ultra Boost S&L, e Carrera Low. Sulla suoletta si legge: “Siamo orgogliosi e
impenitenti e vi incoraggiamo a essere come noi. L’amore unisce”.
Sulle amatissime ciabatte Adilette ecco che spunta una versione nera con logo Trefoil in texture
colorata. Non delude neanche la collezione clothing con shorts, calzini, felpe e leggins a tema Pride.

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Il messaggio di Adidas è semplice, chiaro e coerente con il suo sostegno costante verso la comunità
LGBTQIA+. Lo è altrettanto quello di Nike, che per questa circostanza ha scelto lo slogan BETRUE.
Una parola tanto breve quanto efficace. Per Nike ciò che importa è essere se stessi, veri e autentici.
E allora via a tutte le Nike (Air Max 2090, Air Deschutz e Air Force, vere protagoniste di tutta la
collezione) con i dieci colori della bandiera More Color, More Pride disegnati sul tallone.

Il Pride Month visto da Chiara Ferragni e Netflix
La comunicazione è tutto, si sa. Sono davvero tantissimi i marchi che si affidano al real time
marketing e ad altri espedienti per creare relazioni con le persone e condividere molto più che un
semplice prodotto. Quello che deriva da scelte comunicative efficaci, e in linea con i valori del brand,
è un’esperienza d’acquisto destinata a ripetersi sempre e con la fiducia che si riserva a un amico.
Ecco perché il personal branding è diventato una potente calamita attira clienti!

Chiara Ferragni è appunto l’amica di tutte le ragazze che vogliono essere come lei. Love Fiercely
è il nome della sua Pride collection che esorta ad amare oltre ogni pregiudizio o discriminazione. Il
suo messaggio è: “Puoi amare chi vuoi. Puoi scegliere di essere chiunque ti renda orgogliosa di te
stessa”. Le t-shirt, i jeans e le tute non solo indumenti, sono bandiere da sventolare e segni distintivi
della propria personalità. Se poi non si possono indossare per questo Pride month, pazienza, arriverà
anche il prossimo!

Al di fuori del settore fashion, chi si è distinto in questa circostanza particolare è, come al solito,
Netflix.
In quanto a strategie comunicative, il distributore automatico di film in streaming non delude mai.
Con lo slogan “Per questo Pride i baci li mettiamo noi” ha trovato il modo di spostare la festa
dedicata a tutta la comunità LGBTQIA+ dalle strade al divano di casa. Se non si può uscire a baciarsi
e ad abbracciarsi, ci sono tantissimi film dedicati ad amori gay che si possono guardare.

Le parole non sono solo parole
In casi come questi, in cui il messaggio piace e fa parte di iniziative concrete dell’azienda, il ritorno
in termini di engagement, awareness o vendite è assicurato. Occasioni, come Pride month, Ciber
Monday o la Festa della Repubblica offrono uno spunto in più alla comunicazione con il pubblico.
Una frase, il titolo di un post o anche una breve mail sono come le fessure di una finestra, piccole e a
volte impercettibili, possono emanare una luce abbagliante, irresistibile. È questa che distingue chi
vende cose da chi crea relazioni, storie e magie.

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Pubblicità durante il lockdown: 3 approcci
comunicativi
Il mondo, lo vediamo tutti ogni giorno, sta vivendo un rapido cambiamento che ha avuto inizio con il
lockdown e l’emergenza sanitaria. Non solo sono cambiate le nostre vite e il nostro modo di
approcciarci al Web, con la diffusione di video e sistemi di messaggistica, ma anche il modo di fare
pubblicità. Tutte le aziende hanno dovuto ripensare al modo in cui trasmettere i messaggi
commerciali in questa fase, per parlare nel migliore dei modi a consumatori chiusi in casa. Meglio
mantenere la comunicazione pre lockdown o utilizzare nuovi approcci? Ecco i risultati di uno studio
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