Il 2020. Intervista a Massimo Petrucci.
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Una nuova era del marketing: come riparte il 2020. Intervista a Massimo Petrucci. Il 2020 segna l’ingresso di un nuovo decennio e nell’aria si respira una voglia di cambiamento diversa da quella che abbiamo visto fino ad oggi. Si parla sempre più di etica nel mondo del marketing, di persone e di bisogni reali, di autenticità. Il post-digitale è qui e ora. Ci troviamo in un’era post-digitale dove è scontato che le aziende e le persone abbiamo adottato strumenti e abitudini connessi al mondo del web e della tecnologia, un’era dove bisogna fare un passo ulteriore ed essere protagonisti del proprio destino. Tutto questo emerge in modo evidente dal report Accenture Technology Vision 2019 che detta i trend dei prossimi 3-5 anni. Il focus di questa edizione è proprio l’era post-digitale che segna il passo verso un cambio di paradigma: essere digitali, adottare le tecnologie, vivere il web, non è più un tratto di differenziazione, non è più il vostro vantaggio competitivo, è la base da cui partire. Le tendenze evidenziate dal report sono 5: ■ DARQ, acronimo che indica Distributed Ledger, Artificial Intelligence, Extended Reality e Quantum Computing. Guideranno la trasformazione di interi settori e saranno il volano dell’innovazione futura, rappresentano il prossimo set di tecnologie che ogni azienda dovrà padroneggiare. ■ GET TO KNOW ME, identificare l’unicità dei consumatori e cogliere nuove opportunità. Imparare a cogliere le nuove opportunità di mercato offerte da un’identità digitale in continua evoluzione, pensando a livello di persona non di mero consumatore; ■ HUMAN + WORKER, trasformare l’ambiente di lavoro e valorizzare le persone. La tecnologia sta cambiando le mutate modalità di lavoro e di interazione uomo-macchina, le persone stanno acquisendo nuove competenze grazie alle macchine e questo cambiamento va gestito e supportato; ■ SECURE US TO SECURE ME, uno dei fattori più sentiti è la sicurezza e le aziende ne sono responsabili; ■ MY MARKETS, soddisfare le esigenze dei consumatori in tempo reale. La tecnologia sta creando esperienze fortemente personalizzate e on demand. Scopri il nuovo numero > Il futuro è aperto In questa era post-digitale, si sente il bisogno di tornare ad essere umani, di riscoprire i valori come la fiducia, la sicurezza legata soprattutto alla privacy, perché le persone contano in quanto singoli individui e non aggregati di massa. Il nuovo fattore critico di successo e vantaggio competitivo è il purpose, inteso come insieme di valori, storia e scopi che mettono al centro la persona, non il consumatore. Il nuovo modo in cui le aziende vogliono iniziare a relazionarsi con gli utenti, il nuovo modo in cui gli utenti pretendono di essere coinvolti dalle aziende. In questo contesto vediamo come i contenuti siano sempre più forti e importanti per brand e customer, sono il vero tesoro di ogni azienda.
M a s s i m o P e t r u c ci, fondatore e CEO di 667 agency Intervistiamo Massimo Petrucci, fondatore e CEO di 667 agency, per parlare proprio di questo 2020, delle sue tendenze e di come i marketer contemporanei devono muoversi in questo nuovo decennio. D. Buongiorno Massimo, lei è conosciuto come uno dei primi 100 professionisti al mondo su Lead Generation e Copywriting, qual è il suo segreto? R. Il segreto è che non esiste nessun segreto. La parola magica è perseveranza nell’applicare un concetto molto semplice che i giapponesi chiamano Kaizen ovvero piccolo, lento e costante miglioramento. Ogni giorno mi impegno a migliorare un po’, a volte basta davvero poco: leggere un nuovo articolo, una nuova pagina di un libro, guardare un video. Se da un lato la perfezione non esiste, l’eccellenza invece sì. Mi piace pensarla come Jigoro Kano, che anche quando tutti lo ritenevano il più grande maestro di judo perché ne era stato il fondatore, quando morì volle farsi seppellire con la sua cintura bianca. Il messaggio era chiaro: il più grande esponente del judo abbracciava l’emblema del principiante per la sua vita e oltre, perché riteneva che il viaggio dell’allievo che cerca l’eccellenza per tutta la vita non dovesse finire mai. Ecco, il giorno che pensi di essere arrivato, di sapere tutto ciò che c’è da sapere, quello è il tuo ultimo giorno da professionista. D. Ha scritto libri, manuali e compendi su copywriting, lead generation, neuromarketing e molto altro. Quali sono le tendenze del 2020 per i marketer del nuovo decennio? R. Nel 2020 il marketer deve superare il paradigma della “conquista”, sto personalmente lanciando la sfida di un marketing prima di tutto etico, perché quello di “lancia la rete e trascina chiunque” ormai non ha più ragione di esistere per un semplice motivo: non funziona più! A partire dal 2020 assisteremo ad una nuova trasformazione da “Cacciatori” a “Coltivatori”, infatti il marketing del 2020 deve superare la grande sfida dell’attenzione, ma prima di tutto deve superare il concetto di “catturare” l’attenzione. Pensare alla “cattura” fa pensare ad una trappola, ad una rete gettata su qualcuno per poi trascinarlo là dove non vuole andare. Invece la grande sfida è imparare a “coltivare” l’attenzione.
I titoli d’assalto, folcloristici, da gossip vanno bene per “catturare” l’attenzione, vanno bene solo per generare un clic tanto per fregare gli inserzionisti dei giornali online con migliaia di visualizzazioni inutili (inutili perché corrispondono a tempi di permanenza sulla pagina davvero irrisori). Inutili perché non riescono a trattenere le persone poiché nella maggior parte dei casi non c’è nulla di davvero interessante da leggere o “consumare”. Se invece impari a coltivare l’attenzione vuol dire che impari a coltivare la fiducia e se mi fido di te allora sono davvero disposto ad ascoltarti. Se ti ascolto, allora hai davvero sedotto la mia attenzione e se mi fido di te allora per me sei diventato un brand. Nel momento in cui sei diventato un brand, allora sei diverso dagli altri e se per me sei diverso dagli altri allora non ne farò più una questione di prezzo. Lascia che te lo dica in maniera diversa: Se mi fido di te allora per me sei diverso dagli altri e sei speciale. Se per me sei speciale, con te io mi sento speciale. Se solo con te mi sento speciale, allora sei un brand. Se per me sei un brand, allora sono disposto a pagarti di più. Leggi anche le nostre rubriche: ■ Interviste ■ Social e New Media D. Il suo podcast “Mai dire 30 min. di Marketing!” è molto seguito, quali sono le tematiche che interessano maggiormente i suoi ascoltatori? R. All’inizio tutti erano alla ricerca di un pulsante magico, una formula magica per ottenere clienti. Tuttavia, dopo un anno di lavoro costante, Giuseppe Franco ed io, abbiamo lavorato ad un concetto fondamentale: non esistono scorciatoie. Chi ti vende l’idea di “clienti a costo zero”, “ricco in 21 giorni”, “scrittura ipnotica per vendere qualunque cosa a chiunque anche se non la vuole”, ti sta truffando. Oggi chi segue le nostre puntate sa che sono vere sedute di formazione, con un linguaggio leggero, a volte divertente, ma sempre ricche di contenuto di alto valore formativo. Quello che ci richiedono più spesso sono temi sulla scrittura persuasiva (copywriting), sulle strategie per ottenere clienti, sul personal branding e, più in generale, sulla comunicazione efficace. D. Quali progetti possiamo svelare per questo 2020 ruggente? R. In questo 2020 mi focalizzerò molto di più sulla formazione, in molti me lo stanno chiedendo e fino ad ora ho sempre mantenuto al minimo questo tipo di attività. Eppure è ciò che amo più di ogni altra cosa, mi piace dare, divulgare e far comprendere alle persone come ottenere risultati grazie alla comunicazione, al copywriting e alla lead generation. Ad ottobre 2020 condividerò il palco con uno dei più grandi esperti mondiali di marketing, parlo di David Meerman Scott e lo farò per il secondo anno consecutivo. È un grande onore per me e sono orgoglioso di rappresentare l’Italia in questo evento. Anche per questo ho deciso di focalizzarmi di più sulla formazione e, magari, anche sul mio nuovo libro, ho in mente qualcosa di strepitoso! Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre.
Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter Growth Hacking e Inbound Marketing: il futuro delle imprese italiane è qui. Intervista ad Alessia Camera. L’ancora di salvezza delle aziende italiane si chiama internet e vede in due approcci, due facce della stessa medaglia, la sua massima espressione: Growth Hacking e Inbound Marketing. Entrati ormai nei nuovi anni ’20, è imprescindibile che le imprese che vogliano continuare a fare business, abbiano una strategia chiara su tutto quello che è il posizionamento online e sul come sfruttare le opportunità che il web offre. Lo scenario dei consumi in cui viviamo è profondamente mutato negli ultimi 20 anni e continua a farlo sempre più velocemente grazie alla tecnologia e all’innovazione che viene sviluppata ogni giorno. Restare fermi a guardare equivale a perdere quote di mercato che regaliamo direttamente ai nostri competitor senza possibilità di ritorno. Il consumatore e il processo d’acquisto del 2020 L’esperienza è la chiave del successo di ogni impresa perché il consumatore di oggi è profondamente cambiato: ■ utenti sempre connessi, multi-schermo e multi-device ■ utenti attivi che utilizzano il Web in ogni fase del processo d’acquisto ■ utenti che vogliono essere protagonisti di un’esperienza a loro dedicata
■ utenti che rigettano comunicazioni di massa ma pretendono la personalizzazione del messaggio La creazione di valore della marca si realizza attraverso una total customer experience ossia un’esperienza totalizzante, nutrita da diversi touch points con il consumatore da cui derivano il vantaggio competitivo e la difendibilità del valore stesso. Con la diffusione dei canali digitali, le opportunità di contatto con il cliente sono cresciute esponenzialmente. Con il cambiamento e l’evoluzione del consumatore, abbiamo assistito all’inevitabile mutamento del percorso d’acquisto. L’emblema di questa rivoluzione è lo ZMOT, creato da Google e oggi usato da tutti i marketer per spiegare cosa è successo al consumatore. Infatti l’esperienza d’acquisto offline, prima del Web e prima dei social, si suddivideva in 3 fasi: ■ stimolo, ■ scaffale dove avveniva la scelta fra le diverse opzioni disponibili (first moment of truth) ■ esperienza del prodotto (second moment of truth). Con l’avvento della tecnologia e il successo di massa del Web e degli strumenti digitali, secondo Google esiste un ulteriore passaggio focale: lo Zero Moment of Truth, ZMOT. Si tratta del momento in cui il potenziale cliente costruisce le sue convinzioni e quello in cui il suo proprio personale processo d’acquisto inizia. È la possibilità, che ogni potenziale cliente ha, di cercare informazioni di ogni tipo (schede prodotto, recensioni, forum, blog dedicati, video tutorial e molto altro) online e di farsi una propria opinione sul prodotto o servizio, ancor prima di averlo visto dal vivo o provato. Inbound Marketing, metodologia e applicazione Lo scopo dell’Inbound Marketing è creare esperienze di valore che abbiano un impatto positivo sulle persone e sulle aziende, che siano assolutamente utili a raggiungere i loro obiettivi. Ma come si fa Inbound Marketing? 1. Attirando prospect e clienti sul vostro sito web e sul vostro blog attraverso contenuti pertinenti e utili. 2. Dando valore ai loro bisogni e alle loro esigenze, instaurando conversazioni 1 a 1 grazie agli strumenti di marketing come e-mail e chat. 3. Fidelizzandoli, continuando ad essere il loro consulente ed esperto, un punto di riferimento unico. Una strategia di Inbound Marketing prevede un piano a medio-lungo termine che individui sia le Buyer Persona di riferimento e quindi i clienti tipo ed ideali da voler attirare, coinvolgere e fidelizzare, sia il loro Buyer’s Journey ovvero il percorso d’acquisto che si divide in tre fasi (awareness-consideration-decision) e che deve guidare l’utente verso la conversione finale. Vanno poi identificati gli obiettivi SMART (Specifici, Misurabili, Raggiungibili, Rilevanti e a Tempo) e definiti gli strumenti per raggiungerli. Leggi anche: ■ L’evoluzione del mercato del lavoro nel marketing e nella comunicazione (digitale). Intervista a Cristiano Carriero.
■ I nuovi anni ‘20: gli anni ruggenti dei social e della tecnologia Growth Hacking, definizione e sviluppo Il termine “Growth Hacking” viene coniato nel 2010 da Sean Ellis, consulente noto per aver risollevato le sorti di Dropbox, LogMeIn, EventBrite e Qualaroo. In una recente intervista rilasciata a Ryan Holiday, Sean Ellis ha definito il Growth Hacking come un processo per trovare le modalità più efficaci per far crescere un’azienda che comprende rapide sperimentazioni per trovare opportunità di crescita in momenti specifici. Mentre l’Inbound Marketing si occupa di creare una strategia a lungo termine, il Growth Hacking ci permette di strutturare un processo di rapide sperimentazioni per verificare quali strumenti inseriti nella strategia possano davvero essere performanti e scalabili. Per questo motivo devono essere considerati come complementari perché insieme riescono davvero a incrementare la crescita e a farlo sul lungo periodo. A l e s s i a C a m e r a , Growth Manager & Head of Digital, professionista e consulente di Marketing digitale Per capire ancora meglio lo scenario attuale e futuro e come le aziende debbano evolvere per continuare a sviluppare business, abbiamo intervistato Alessia Camera, Growth Manager & Head of Digital, professionista e consulente di Marketing digitale, che ha collaborato con 15+ startup, progetti tech, PMI e multinazionali a Londra e in Italia. D. Buongiorno Alessia, sei approdata a Londra nel 2012 quando si era da poco iniziato a parlare di Growth Hacking, come hai vissuto l’inizio di questo pensiero rivoluzionario? R. Sono arrivata a Londra alla fine del 2012 quando la capitale inglese era molto diversa da oggi. Stavano arrivando gli entusiasti delle startup un po’ da tutta Europa, si ritrovavano i founder che avevano sviluppato app e idee a Helsinki legati all’ecosistema Nokia e Tallinn, per esempio i founder di Skype che poi hanno dato vita a Transferwise proprio allora e gli americani, che dopo gli anni
d’oro delle dot.com decidevano di mettere un primo piede in Europa o di tornarci, e ovviamente sceglievano Londra. C’era moltissima energia e anche se nessuno sapeva davvero cosa significasse lavorare in una startup oppure che sviluppare strategie di marketing per startup si chiamasse Growth Hacking, era quello che ognuno di noi faceva nel proprio lavoro quotidiano. Ero partita dall’Italia con un contratto come social media manager per una startup che poi si è trasformato in digital marketing manager per un e-commerce di arredamento in chiave sostenibile, non vedendo l’ora di toccare con mano cosa significasse fare marketing quando il prodotto fisico era una conseguenza di un’esperienza digitale. Mi ricordo che ci trovavamo in quei 3 coworking a Londra (ora ce ne sono più di 50) e già nei primi mesi avevo scoperto che marketing non era solamente svolgere un insieme di attività con l’obiettivo di “farsi conoscere” come avevo studiato e visto in Italia. L’approccio delle startup era totalmente pratico, “scrappy” come si dice in gergo: qualsiasi attività doveva essere tracciata in modo da analizzare i dati e capire quali fossero le conseguenze in termini di business. Nessuno aveva grandi budget e nel 2012 i social media avevano ancora un po’ di potenzialità in termini di contenuto organico: ogni giorno testavamo nuove idee per capire quale fosse quella che poteva farci raggiungere le metriche e gli obiettivi che ci eravamo prefissati e non contava se per fare ciò dovevamo stare in ufficio fino alle 9 di sera, eravamo tutti motivati al risultato. In quel primo anno ho imparato le basi operative di quello che è ancora il mio modo di operare e il mio approccio: una palestra di vita personale e professionale incredibile, che non dimenticherò mai. D. Se dovessi spiegare a un neofita del marketing e del mondo digitale cosa vuol dire fare Growth Hacking e quali sono i suoi vantaggi? R. Il Growth Hacking è una metodologia, un approccio di marketing che si basa sul definire degli obiettivi e sperimentare delle attività in diversi canali digitali utilizzando un approccio numerico per definire se quegli obiettivi sono stati raggiunti. Mette da parte quello che è “il branding” per ragionare in ottica performance utilizzando un metodo sperimentale che ci spinge a pensare che solo i dati ci facciano capire quale è la via corretta. Come dicevo a un evento recentemente, il fatto di “avere esperienza” è spesso una trappola perché chi ha esperienza è “biased”, pensa infatti che una campagna su un canale non funzioni perché in passato non ha funzionato. Il Growth Hacking mette in discussione tutto ciò e ci costringe a pensare di avere ragione solo se abbiamo i dati dalla nostra parte. Si parte da un’ipotesi che viene continuamente ottimizzata in ottica di esperienza digitale e di marketing con un mercato di riferimento molto specifico. Oggi il digitale ci fornisce un’opportunità pazzesca, possiamo misurare quasi tutto, dalle performance ai processi aziendali, alla nostra attività e a quella dei nostri clienti online. Perché non sfruttarla, quindi e mettere da parte le nostre convinzioni, cercando di sviluppare un approccio basato su ipotesi che vengono continuamente validate e ottimizzate? D. Come hai sfruttato il Growth Hacking nella tua esperienza in startup e nel progetto di lancio europeo che hai seguito per Playstation PS4? R. Dalla mia esperienza di 5 anni di lavoro come dipendente e consulente per startup posso dire che l’approccio non è molto diverso dalle PMI italiane: budget ristretti, necessità di avere un riscontro sulle metriche di business e poche risorse. Nelle startup il livello di difficoltà è maggiore poiché non
ci sono dati storici e c’è necessità di andare molto veloci (la media europea di vita di una startup è 1- 3 anni) ma al di là di questo le esigenze sono molto simili, ecco perché credo che la metodologia di Growth Hacking possa essere utile anche se applicata dalle PMI italiane. Leggi anche: ■ Email marketing: ecco quali sono i trend più importanti per il 2020 ■ Anno 2020: la trasformazione digitale è cominciata e non è fantascienza. Nelle corporate invece la situazione è diversa e dipende molto dai progetti e dal team: abbiamo utilizzato un approccio di Growth Hacking per il lancio di PS4 perché avevamo obiettivi ambiziosi, potevamo testare i pre-ordini e poco tempo. Tuttavia i budget a 6 cifre che erano stati predisposti non erano un grande incentivo all’ottimizzazione, ecco perché sei molto più tranquillo nell’adottare un processo di Growth Hacking per lanciare un brand conosciuto da tutti: non c’è praticamente nessun rischio. Vai veloce, ottimizzi le attività se il tuo team è molto appassionato al proprio lavoro, com’è successo per il lancio di PS4, ma in realtà le grandi aziende hanno così tanto budget da spendere, che spesso lo spendono in attività poco profittevoli, senza che ciò rappresenti davvero nel breve termine. Bisogna prevedere il cambiamento e accorciare le distanze con i propri utenti, capendo quali sono le attività che portano valore a loro incentivando la relazione tra esperienza digitale e utenti, si impara a lavorare in un’ottica di lungo termine che non dipende solo dai budget che si spendono in pubblicità. Ed è proprio questa la potenza di un approccio di Growth Hacking! D. Torni spesso in Italia per la promozione dei tuoi libri dedicati all’argomento, che scenario pensi ci sia oggi nel nostro Paese e come si stanno muovendo marketer e aziende? R. Negli ultimi 7 anni ho visto che l’Italia sta crescendo e si sta creando sempre più consapevolezza verso i temi di startup e marketing digitale. Certo, non in modo estremamente veloce, ma sta arrivando quella famosa trasformazione digitale di cui tanto abbiamo sentito parlare in questi anni. Professionisti e aziende stanno capendo che non c’è più spazio per le definizioni ed è ora di agire, di tirarsi su le maniche e iniziare a capire dove e come applicare i concetti di Growth Hacking, di marketing e di innovazione che faranno davvero bene al Paese nei prossimi anni e che permetteranno all’Italia di tornare a essere considerata un asset nel panorama internazionale. È vero, sono un’inguaribile ottimista, ma io credo davvero che in Italia ci siano le competenze e l’approccio giusto perché ciò arrivi, siamo persone abituate “a fare” con una grande creatività e capacità di risolvere problemi (cosa che per esempio in UK non sono molto bravi a fare).
I l i b r i p u b b l i c a t i d a A l essia Camera editi da Hoepli: Startup marketing e Viral Marketing, quest’ultimo assieme a Michele Pagani Siamo tuttavia anche conservatori, poco bravi a cogliere la visione d’insieme delle cose e un pochino individualisti, ci aspetta una nuova trasformazione culturale spinta da una nuova ondata tecnologica: useremo la realtà aumentata, il 5G, l’Internet delle cose non solo nel nostro tempo libero ma sempre più in azienda. Ed ecco che sarà proprio nella capacità di applicare queste novità che potremo usare il Growth Hacking per capire come sperimentare e innovare non solamente in fabbrica, ma nel marketing e nella capacità di essere attrattivi per clienti e mercati internazionali. Le opportunità ci sono, dovremo “solo” essere capaci a coglierle, ed è forse nel rischiare che le nostre aziende non sono bravissime a fare, ma sono sicura che guidate e consigliate dalle persone giuste, ce la faremo. D. Qual è il consiglio che ti senti di dare ad una startup italiana che oggi vuole entrare nel mercato ed avere successo? R. Darei tre consigli che sono molto legati tra di loro: non innamoratevi dell’idea, ma testatela con il vostro mercato di riferimento, che non è esclusivamente quello italiano ma è anche quello estero, usando i dati per capire quale strada sia quella corretta da percorrere. Spesso chi si occupa di startup si focalizza sull’idea, con la paura che qualcuno gliela possa copiare. Nonostante siano anni che lo dico, mi trovo ancora a dover firmare degli accordi di non divulgazione (NDA) prima di fare un meeting per discutere dell’idea di un app o di una piattaforma di e-commerce. Colgo l’occasione per ribadire che nessuno vi ruba davvero l’idea, perché l’idea vale solo l’1% di un progetto imprenditoriale. Quello che davvero conta è come sviluppare quell’idea e soprattutto come ottimizzare quel prodotto digitale nel tempo, secondo i dati raccolti, le metriche di business e il
mercato di riferimento, che deve crescere velocemente. Ne approfitto anche per dire che è bello parlare di blockchain o di intelligenza artificiale, ci fa sembrare più interessanti al pubblico, ma non ci garantisce scorciatoie a lungo termine. La tecnologia è solo un abilitatore di un progetto, e spesso, nella fase iniziale è importante davvero testare la nostra idea con gli strumenti che abbiamo a disposizione, e pensare che se ciò funziona, allora possiamo integrare la tecnologia per crescere in modo esponenziale. Il focus deve sempre rimanere sulla relazione tra prodotto digitale e utenti, se ciò non avviene fin dalle prime fasi, beh, ottimizzate affinché questa relazione diventi un’abitudine o lasciate perdere, perché la situazione non potrà che peggiorare. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter I nuovi anni ‘20: gli anni ruggenti dei social e della tecnologia Come saranno i nuovi anni ‘20? Niente a che fare con lo swing e le collane di perle questa volta, possiamo scommetterci. Al posto dell’essenzialità di Coco Chanel ci accontenteremo dell’onniscenza di Alexa; e la luce di lustrini e paillettes sarà facilmente sostituita da quella di schermi di smartphone e tablet. E voilà…ecco gli anni ruggenti della tecnologia! Inutile chiedersi se sia meglio o peggio, se tutto questo digitale e web 2.0 o 3.0 ci abbia fatto bene, abbia migliorato le nostre vite o noi stessi. Probabilmente sì, da un canto ci ha facilitato la vita, ha semplificato molte delle nostre attività, e dall’altro lato ci ha reso pigri, incapaci di approfondire, schiavi degli schermi. Come già detto è inutile chiederselo ed è altrettanto inutile rispondersi, perchè il progresso avanza e non possiamo di certo andargli contro. Il punto è trovare la
formula giusta, affrontarlo come esseri pensanti e consapevoli, usarlo come un alleato e non come un mero semplificatore. Negli ultimi 20 anni abbiamo rincorso il web, affascinati dalle sue potenzialità, dall’opportunità di connetterci facilmente con ogni punto del mondo e di ottenere ogni tipo di informazione. Le aziende hanno iniziato a sognare sempre più in grande, ammaliate dall’idea di non avere confini per il proprio business. E così il primo must have fu il sito web, ben presto accompagnato dalla presenza sui social. Una presenza spesso un po’ casuale, poco curata, ma che marcava il territorio e diceva “ci sono anche io”, presupponeva un “come potrei non esserci?” e nascondeva spesso anche un “e ora che ci faccio?” O “a cosa mi serve?”. Scopri il nuovo numero > Simply the best A una fase iniziale di scoperta seguì una fase più pragmatica e di sperimentazione, fino alla fase attuale di maturità digitale, in cui c’è addirittura anche chi fa qualche passo indietro. Nell’anno che sta per concludersi, il 2019, hanno infatti fatto scalpore alcune aziende come Lush (a metà Aprile) e Unicredit (a Giugno) che hanno deciso di abbandonare i social. Stanche, forse spaventate dalla comunicazione a due vie, del crescente potere, e diritto di parola, dei consumatori o dalle regole del gioco (leggasi algoritmo). Visualizza questo post su Instagram We’re switching up social. Increasingly, social media is making it harder and harder for us to talk to each other directly. We are tired of fighting with algorithms, and we do not want to pay to appear in your newsfeed. So we’ve decided it’s time to bid farewell to some of our social channels and open up the conversation between you and us instead. Lush has always been made up of many voices, and it’s time for all of them to be heard. We don’t want to limit ourselves to holding conversations in one place, we want social to be placed back in the hands of our communities – from our founders to
our friends. We’re a community and we always have been. We believe we can make more noise using all of our voices across the globe because when we do we drive change, challenge norms and create a cosmetic revolution. We want social to be more about passions and less about likes. Over the next week, our customer care team will be actively responding to your messages and comments, after this point you can speak us via live chat on the website, on email at wecare@lush.co.uk and by telephone: 01202 930051. This isn’t the end, it’s just the start of something new. #LushCommunity – see you there. Un post condiviso da LUSH UK (@lush) in data: 8 Apr 2019 alle ore 12:17 PDT Se ne è discusso tanto per mesi, ci siamo chiesti se fosse un nuovo trend e quante altre aziende avrebbero presto seguito l’esempio, gli addetti ai lavori hanno osservato con terrore questa mossa, preoccupati dalle conseguenze…ma in verità non è successo nulla. Un po’ come quando un amico lascia la festa troppo presto, e tu provi a convincerlo a rimanere ancora un po’, ma in fondo se va via la festa continua in ogni caso. Se i mercati sono conversazioni chiudere delle finestre di dialogo è davvero una buona idea? Gli italiani sui social media sono più di 35 milioni, con un trend sempre crescente. Chi snobberebbe 35 milioni di potenziali clienti? Se i social media ci spaventano ancora, se l’opportunità di dar voce a clienti e consumatori ci infastidisce e se riteniamo che dover destinare delle risorse alla comunicazione web o investire del budget in Ads sia troppo impegnativo…allora stiamo ancora sbagliando qualcosa. Forse quella maturità digitale non c’è ancora, ma è sola assuefazione. Leggo spesso che l’offline è il nuovo online; ovvero che come il web ci ha ammaliati negli ultimi 15 anni… adesso è tutto ciò che è fuori dal web ad attirarci, perchè l’incantesimo si è un po’ spezzato, e noi non vediamo più soltanto i pro dell’online. Siamo affascinati dall’autenticità, dagli incontri dal vivo, dai contatti veri, e dunque il web, sempre capace di adattarsi alle esigenze di chi lo utilizza, diventa strumento abilitante: crea una connessione online che sfocia in un contatto offline. Pensiamo alle community, ai social network, alle app e ai siti di incontri o ai gruppi professionali. Stiamo per entrare nel 2020, un anno che suona subito futuristico, eppure sembra sia passato un attimo dal 2000, o dal 2004, anno ufficiale di nascita di Facebook, il più grande social network al mondo. Ci siamo lanciati un po’ alla cieca in questo nuovo mondo del web, lo abbiamo osservato e plasmato negli anni. Se esserne schiavi o padroni possiamo deciderlo noi. Ignorarlo non è un’opzione valida, dominarlo grazie alle giuste competenze e alla conoscenza approfondita delle sue potenzialità è sicuramente la scelta vincente. E allora tornando al trend dell’offline, ancora una volta dobbiamo parlare di comunicazione integrata: stare online non vuol dire non stare offline. La buona comunicazione, il buon marketing è un mix del tutto, è l’utilizzo sapiente di tutti i mezzi utili ad uno scopo, che si combinano come i pezzi di un puzzle. Ed è possibile costruirlo solo conoscendo la tecnica, quali pezzi incastrare,
e avendo ben presente l’immagine intera da voler costruire alla fine. Niente di più facile o forse niente di più difficile. Giudicate voi. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter Vita e lavoro da nomade digitale. Intervista a Gianni Bianchini. Da qualche anno si sente parlare sempre più con insistenza della nascita di nuove modalità di lavoro o, meglio, di nuovi modi di intendere il lavoro. La consuetudine ci porta a pensare al lavoro, soprattutto quello d’ufficio, come a qualcosa di statico e poco flessibile. L’immagine che ci viene in mente pensando ad esempio a lavori come lo sviluppatore, il commercialista, il social media manager, il traduttore, e molti altri ancora, è quella di una persona seduta per 8 ore alla scrivania, quando va bene, con un Pc davanti, ad illuminare il viso, ed una piantina, magari finta, a fare da corredo. Ma questa immagine tradizionale a poco a poco sta subendo delle mutazioni. Come qualsiasi altro ambito della vita, anche il mondo del lavoro sta facendo i conti con la rivoluzione digitale e con internet. Leggi anche:
■ L’evoluzione del mercato del lavoro nel marketing e nella comunicazione (digitale). Intervista a Cristiano Carriero. Il WEB è riuscito a dare all’uomo la possibilità di “manipolare” lo spazio-tempo aumentando di fatto le sue facoltà e creando nuove opportunità. Due sono le novità più importanti: lo smart working ed il nomadismo digitale. Alla base di questi nuovi modi di intendere il lavoro c’è la voglia di riappropriarsi del proprio tempo e di organizzarlo secondo le proprie necessità, mantenendo comunque elevati i livelli di produttività. Una di queste rivoluzioni nel mondo del lavoro è certamente lo smart working, ossia alcune aziende consentono ai loro dipendenti di lavorare da casa (o in un coworking presenti nella propria città) uno o più giorni a settimana, in base ad accordi specifici. Per approfondire: ■ Dallo smartphone allo smart working: la nostra vita a tutto smart ■ Coworking, coliving, cooperation: tutti i vantaggi di un nuovo modo di intendere il posto di lavoro Semplificando, il lavoratore diviene così “proprietario” del suo tempo, decidendo di organizzarlo come meglio crede. Ciò che conta (e per questo si può parlare di rivoluzione) non sono più le ore passate in ufficio ma gli obiettivi da raggiungere. Alla base di questo nuovo modo di lavorare, va da sé, vi deve essere una totale fiducia tra le parti ed un forte senso di responsabilità. L’altra rivoluzione è il nomadismo digitale. In questo caso non si parla più di lavoratori dipendenti ma di freelance. E, in questo caso, il nuovo ufficio non è la propria abitazione usuale, come avviene per lo smart working, ma il mondo. Semplificando, i nomadi digitali utilizzano le nuove tecnologie per svolgere la propria professione, online e da remoto, spostandosi di paese in paese. Insomma chi compie la scelta di diventare un nomade digitale sente dentro di sé il bisogno di conoscere nuove culture, esplorare il mondo e vivere la vita che ha sempre desiderato. Il digitale ha consentito a queste persone di continuare a sviluppare la propria professione lasciando loro la libertà di scegliere il dove, il come e il quando: rivoluzionario. Queste sono le due definizioni e, a grandi linee, cosa si intende per smart working e nomadismo digitale. Ma se per il primo caso non si fa troppa fatica a immaginare cosa possa significare realmente approcciarsi a questa modalità di lavoro, credo fermamente che per parlare con cognizione di causa di nomadismo digitale non ci si possa fermare ad una semplice ricerca su Google. Per questo motivo ho voluto intervistare Gianni Bianchini, nomade digitale dal 2013, che ha già visitato 42 paesi e 110 siti Unesco con il solo bagaglio a mano.
D: Ciao Gianni, presentati e raccontaci brevemente la tua storia: cosa facevi, cosa fai e soprattutto quando e perché hai deciso di intraprendere questa nuova vita. R: Per dieci anni dal 2004 fino al 2013, ho lavorato in ufficio come tester e traduttore di videogiochi per la Sony e per la Nintendo. Prima in Inghilterra e in seguito in Germania. Facevo un lavoro che avevo sempre sognato. Mi pagavano praticamente per giocare. Avevo un buono stipendio e contratti a tempo indeterminato. Ma nonostante questo c’era qualcosa dentro di me che mi spingeva a desiderare altro. Ho sempre avuto un’anima nomade. In quei dieci anni ho viaggiato ovunque in Europa durante i pochi giorni di vacanza che avevo e durante i fine settimana. Ma non mi bastava. Soprattutto non riuscivo ad immaginarmi a fare sempre quella vita per anni. Seduto ad una scrivania, per 8 ore al giorno. Lavorando per qualcun altro. Vendendo il mio tempo e i miei giorni a un datore di lavoro, che probabilmente non mi conosceva neanche, viste le dimensioni di queste multinazionali. Così mentre gli anni passavano cominciavo a prendere seriamente in considerazione l’idea di lasciare tutto e viaggiare. Mi vedevo con uno zaino leggero, visitare le nazioni del mondo e conoscerne gli abitanti, la cultura, il cibo, e ammirare le meraviglie di questo pianeta. Dall’idea sono semplicemente passato all’azione. Per 14 mesi ho pianificato la mia nuova vita, risparmiando ed evitando spese inutili. Conducendo una vita più minimalista e frugale. Ho smesso anche di fumare per realizzare il mio sogno. Ad ottobre del 2013, il mio sogno diventa realtà, quando, dopo essermi licenziato, volo verso Bangkok con un biglietto di sola andata. Conoscevo già il nomadismo digitale a livello internazionale. Leggevo molti blog americani e inglesi, e molti di questi erano nomadi digitali e lavoravano online. Così ho pensato di fare lo stesso creando un blog in inglese che si chiama “Nomad is Beautiful”. Quando sono arrivato in Thailandia sin da subito ho cominciato a pubblicare articoli e far crescere il blog. Questo blog di viaggi è ora il mio lavoro che posso portare ovunque lavorando dal mio laptop. D: In base alla tua esperienza, cosa consiglieresti a chi volesse diventare un nomade digitale? R: È fondamentale capire quali sono le tue skills. Fai un brainstorming mettendo nero su bianco le tue competenze, ma anche le tue passioni. Tutto quello che ti passa per la testa, dalla passione per la cucina a quella per la fotografia, dal saper usare i fogli di calcolo Excel al saper disegnare. Quando avrai scritto questa lista cerca di analizzarla e capire come poter utilizzare alcune di queste passioni e competenze in qualcosa che potresti fare online. Ti può aiutare molto fare ricerca su Google. Ci sono migliaia di lavori che si possono fare online, ma devi cercare e capire quello che fa specificatamente al caso tuo. Leggi anche: ■ Cercare il lavoro nell’era di LinkedIn, di Google e del digitale: guida e consigli pratici. Un altro suggerimento che vorrei dare è quello di fare networking con altre persone. Entra a far
parte delle community e partecipa, sia online, nei gruppi Facebook, in Instagram o in Twitter, sia offline di persona. Frequenta i posti dove ci sono altri nomadi digitali e fai amicizia con chi ha già dell’esperienza. Se hai la possibilità vai nelle città famose per essere meta di nomadi digitali. Chiang Mai in Thailandia, Ubud in Indonesia, Medellin in Colombia, Las Palmas de Gran Canaria in Spagna. Potrai avere tanta ispirazione da altri nomadi ma anche suggerimenti, condivisione, collaborazione. Senza l’aiuto degli altri non potremmo mai crescere. Fare networking è la chiave per il successo personale e lavorativo. D: Un ulteriore precisione o consiglio utile: cosa metteresti in valigia/zaino? R: Pochissimo. Viaggiare deve farti sentire libero. Viaggiare con tanta ‘zavorra’, ti appesantisce, non è facile e crea anche preoccupazione, perché si hanno troppe cose con sé. La mia scelta è quella di viaggiare con bagaglio a mano. Una scelta minimalista che può non andar bene per tutti. Ma ti assicuro quando si viaggia in questa maniera, tutto è più facile. Segui Gianni Bianchini per condividerne le esperienze ed essere aggiornato sul nomadismo digitale. Questi sono i suoi canali: Instagram – YouTube. Il laptop è essenziale, meglio se uno superleggero. Poi dipende da cosa si fa, si può decidere di portare altro tipo di elettronica, come macchine fotografiche, dischi esterni, videocamere, droni. Questa tecnologia fa parte del mio lavoro, quindi mi è necessaria. Quello che non è necessario è portarsi tanto cambio di vestiti, troppi pantaloni, magliette, scarpe; in ogni parte del mondo ci sono lavanderie e negozi dove comprare quello che ti serve. Articoli per l’igiene, anche questi si trovano dappertutto, inutile portarteli da casa, si comprano di volta in volta. E non portarti neanche asciugamani, asciugacapelli, cuscini e cose simili. Si trovano in qualsiasi stanza d’albergo o Airbnb. D: Non c’è dubbio che il nomadismo digitale porti con sé tutta una serie di immagini positive (libertà, gestione del tempo, viaggio, scoperta, ecc.) ma quali possono essere i lati negativi (es. incertezza del futuro, problemi economici o affettivi, ecc.) a cui si potrebbe andare incontro compiendo questa scelta? R: Vivendo come nomade digitale si può sentire spesso la mancanza di familiari e amici. Fortunatamente la stessa tecnologia che usiamo per lavorare ci viene in aiuto per comunicare con i nostri cari. Grazie a Skype, Whatsapp e Facebook. Certo, magari guardarsi e salutarsi in webcam non è la stessa cosa, ma ti assicuro che aiuta molto nel sentirsi meno lontani.
N e l l a f o t o : G i a n n i B i a nchini, nomade digitale dal 2013. Anche il fatto di non avere un indirizzo fisico permanente crea alcune difficoltà. I rapporti con la banca, la burocrazia. Anche farsi spedire un pacco da Amazon diventa complicato. Per risolvere questo problema di solito ci si affida all’indirizzo dei propri familiari o di amici. Un altro aspetto negativo è che la gente non capisce che lavoro fai, soprattutto se vivi e lavori con un blog. È difficile spiegare che attività hai e come lavori. Il concetto di lavoro online sembra in Italia ancora un’utopia, ma di fatto in tutto il mondo non lo è. E per finire, il bisogno essenziale di WiFi. Si è completamente dipendenti dalla connessione internet. Diventa quindi difficile viaggiare e lavorare in paesi con accesso limitato. Molti paesi nel mondo sono ancora arretrati con la diffusione del WiFi. In altri, vige un sistema di censura, che tuttavia può essere bypassato con sistemi di VPN. D: Carta bianca: lasciaci delle tue considerazioni personali su questa nuova forma di vita e di lavoro. R: Personalmente credo che in futuro sempre più persone lavoreranno da remoto, viaggiando, ma anche solo da casa, o negli spazi di coworking della propria città. La tecnologia, e in particolare internet, ci ha aperto infinite possibilità. Moltissimi lavori scompariranno e altri nasceranno. La tecnologia ci aiuta nel momento in cui se ne fa un buon uso. Molta gente ha paura ed è critica verso la tecnologia. Ha paura dei social media, dei video giochi, degli smartphone. Ma la tecnologia è dannosa solamente quando se ne fa un uso sbagliato. Se si ha un approccio di diffidenza verso tutto questo, si rimane tagliati fuori, sia a livello di rapporti sociali e di crescita, sia per quanto riguarda la possibilità di lavorare per se stessi e di conseguenza di poter viaggiare, essere liberi e crearsi un proprio destino. La rete e la tecnologia, oggi, ci aiutano anche a far questo. E i nomadi
digitali, o lavoratori da remoto di tutto il mondo, lo stanno dimostrando. Ti è piaciuto? Fammelo sapere nei commenti. Rispondo sempre. Se vuoi rimanere in contatto con me questo è il link giusto: www.linkedin.com/in/ivanzorico Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Stai tranquillo, anche noi odiamo lo spam! Da noi riceverai SOLO UNA EMAIL AL MESE, in concomitanza con l’uscita del nuovo numero del mensile. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter Native Advertising: dalla nascita alle previsioni per il 2020 Parlare di Native advertising significa parlare di una pubblicità su Internet che ha l’obiettivo di attirare gli interessi degli utenti, mimetizzandosi letteralmente all’interno del sito su cui è ospitata per migliorare la user experience. Nel Native advertising, quindi, il contenuto si mimetizza sia dal punto di vista grafico, sia dal punto di vista dei contenuti, che devono essere pertinenti con il sito in cui vengono inseriti. Ad esempio si parla di pubblicità nativa quando si propone una pubblicità di scarpe da calcio in un articolo che parla di una partita o un calciatore. Un po’ di storia del Native Advertising Oggi fare native advertising è una pratica comune per le aziende e la pubblicità nativa è la migliore risposta alla banner blindness, ovvero la capacità dell’utente di non vedere i contenuti pubblicitari
delle pagine web che visita, diventando così indifferente a promozioni e offerte. Si tratta di un fenomeno in costante espansione e, quindi, ogni azienda deve studiare nuove forme di pubblicità per stimolare interesse ed engagement del pubblico di riferimento. Proprio questa tecnica diventa, quindi, particolarmente efficace dato che il contenuto sponsorizzato è immerso nel contenuto editoriale. Per approfondire: ■ L’importanza del piano e del calendario editoriale nel content marketing. Parlare della storia della pubblicità nativa significa risalire al 2008 con il primo investimento significativo da parte del gruppo editoriale Gruner + Jahr, che acquisisce Ligatus, pionieri del native adv. Nascono, successivamente, negli USA piattaforme per gestire la pubblicità nativa per sti diversi come Nativo e Sharethrought, con Dan Greenberg, che per primo parla di native advertising così come viene definito oggi. Si sviluppano poi, via via negli anni, altre piattaforme come WP BrandConnect e Forbes’ Brandvoice e dal 2013 questa forma di pubblicità innovativa compare anche sul New York Times. Nello stesso anno lo IAB (Internet Advertising Bureau) pubblica il Native Advertising Playbook, il primo documento ufficiale sul Native Advertising. Differenze tra Native Advertising e Content Marketing Forse, a prima vista, potresti pensare che pubblicità nativa e content marketing siano la stessa cosa, ma non è così. Ricordiamo, infatti, che il content marketing ha come finalità l’informazione ed è più simile al giornalismo online, che alla scrittura promozionale e commerciale. Per questo possiamo dire che il native advertising è comunicazione commerciale e il content marketing va, invece, oltre l’interrruption marketing fornendo contenuti utili e informativi. Scopri il numero: “Tutto è Comunicazione” Differenze tra Native Advertising e pubblicità tradizionale Dietro la pubblicità nativa c’è il modo di pensare del consumatore, trattandosi di una pubblicità contestuale e ottenendo pertanto maggiore attenzione negli utenti online. Ormai i banner e le pubblicità invadenti non sono più efficaci in termini di persuasione e conversioni e il Native Advertising è una strada che tutte le aziende devono perseguire. Differenze tra Native Advertising e il pubbliredazionale Chi legge una pagina web è interessato all’argomento e, di conseguenza, sarà interessato anche alla pubblicità. Si parla, in questo caso, di pubbliredazionali come contenuti pubblicitari inseriti tra i post dei blog come articoli a sé stanti. Il contenuto del Native Advertising, allo stesso modo, si
inserisce con naturalezza nella conversazione sui social media o nella pagina web per parlare al lettore, senza distinzione con il contenuto editoriale. I vantaggi del Native Advertising La caratteristica di integrarsi perfettamente nel contesto in cui è inserita, fa della pubblicità nativa il principale strumento di web marketing delle aziende moderne, con l’obiettivo di creare engagement con il pubblico. Non essendo una forma di pubblicità interruttiva, si tratta di un ottimo strumento di marketing da inserire in ogni strategia di marketing, ancor più delle tradizionali campagne di PPC (Pay Per Click). Si tratta di una tecnica pubblicitaria da adottare soprattutto se sul sito ci sono contenuti gratuiti e di qualità, da intervallare a contenuti di native adv. Ecco alcuni dati a supporto di questa strategia: ■ un annuncio nativo ha il 53% in più di visualizzazioni rispetto alla pubblicità tradizionali; ■ l’intenzione di acquisto aumenta del 18% in seguito a questa tipologia di annunci. Le aspettative del Native Advertising per il 2020 Yahoo e Enders Analysis hanno fatto uno studio denominato “Native Advertising in Europe to 2020” che analizza le stime di crescita del Native Advertising nel 2020: ■ l’aspettativa di crescita è pari al 156% nei prossimi 5 anni; ■ entro il 2020 il Native Advertising sarà il 52% di tutta la pubblicità del display advertising in Europa; ■ entro il 2020 l’investimento in Native Advertising sarà pari al 8,8 milioni di euro in Europa; ■ nel 2020 si arriverà a 6,3 miliardi di euro da investire in social network native advertising; ■ i marketers nel 2020 spenderanno 5,1 miliardi di euro in video in-stream, contro i 2,4 miliardi del 2015. Nel dettaglio il native advertising è la soluzione ideale per gli editori che possono differenziare l’offerta pubblicitaria da proporre ai clienti, andando oltre banner e annunci. Per le agenzie, invece, è una forma di pubblicità più efficiente da proporre ai clienti al posto della pubblicità tradizionale e, soprattutto, evita l’ad blocking non essendo rilevata dai software. Conclusioni Fare Native Advertising è una soluzione win win per il mercato, che rende più efficiente l’investimento pubblicitario per i professionisti dell’adv, offre maggiore valore agli editori ed è di maggiore valore per gli utenti. Inoltre è perfetta per un contesto caratterizzato da smartphone e tablet e proprio la diffusione crescente dei dispositivi mobili è stata e sarà uno dei motivi alla base della crescita del native advertising. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre.
Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Stai tranquillo, anche noi odiamo lo spam! Da noi riceverai SOLO UNA EMAIL AL MESE, in concomitanza con l’uscita del nuovo numero del mensile. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter Comunicare troppo e troppo poco: la sfida alla tecnologia. Che la tecnologia, e in particolare l’avvento di internet e la diffusione capillare degli smartphone, abbia rivoluzionato il nostro modo di comunicare è cosa ormai nota ed evidente. Lungi da me schierarmi contro: sono una grande fan del progresso tecnologico e non guardo mai indietro pensando a “quanto si stava meglio quando si stava peggio”. Al contrario osservo con grande entusiasmo ogni novità e opportunità appena nata o lanciata. Mi piace stupirmi, mi piace immaginare quale sarà lo step successivo e le sue potenzialità, adoro fantasticarci su, pensare a quale possa essere l’impatto di questa nuova introduzione nelle nostre vite. Ad esempio Facebook ha appena lanciato la sua criptovaluta e ho subito pensato che non mi sarei mai fidata; eppure 10 minuti dopo mi immaginavo a spendere soldi (o Libre in questo caso) tramite Facebook con assoluta naturalezza e a trovare strano l’utilizzo delle banconote old style. E’ stato così per internet, che abbiamo iniziato ad usare senza sapere bene per fare esattamente cosa, è stato così con gli smartphone e con i social network, che ci hanno trasformato tutti in comunicatori, anzi che ci hanno fatto scoprire di essere tutti dei comunicatori. Negli ultimi anni abbiamo reinventato il primo assioma della comunicazione, gli abbiamo dato un nuovo significato. Per chi non lo conoscesse, ovvero per i non addetti ai lavori (chi ha studiato comunicazione lo ha ben saldo in mente e lo ripete come un mantra) il primo assioma della
comunicazione dice: “Non si può non comunicare”. Però quando i 5 assiomi furono enunciati dalla Scuola di Palo Alto, era il 1967 e di certo non si contemplava nè immaginava Facebook, Twitter, Instagram, tag, geolocalizzazioni ecc… Si parlava di comunicazione pura e semplice, di interazione, di comunicazione verbale e non verbale, di sguardi ed espressioni, del fatto che anche non rispondere è una risposta di fronte a un interlocutore. C o m u n i c a r e t r o p p o e t r oppo poco: la sfida alla tecnologia. Foto di rawpixel da Pixabay “Non si può non comunicare” non era, fino a qualche anno fa, un concetto semplice da spiegare; servivano esempi, riflessioni e infine si era sempre d’accordo; perchè è vero, è proprio così, ma non risultava immediato perchè non ci rendevamo conto di essere tutti comunicatori, volenti o nolenti. Per anni mi sono trovata a spiegare questo concetto basico della comunicazione a persone inizialmente scettiche e poco convinte. Se dicessi oggi alle stesse persone “Non si può comunicare” loro non avrebbero nulla da obiettare, ma probabilmente sbaglierebbero ad interpretare la frase e l’intenzione della Scuola di Palo Alto. Scopri il numero: “Tutto è Comunicazione” Oggi non possiamo non comunicare nel senso che l’interazione, per lo più digitale, è un must. Siamo, però, comunicatori consapevoli (vogliamo esserlo). Comunicatori di noi stessi, dei nostri punti di vista, della nostra vita sempre più spettacolarizzata, con dinamiche acchiappalike e dinamiche, ahimè, a volte di pochezza rivelata. I social network sono un po’ come dei riflettori, ma il palcoscenico non fa per tutti.
Il punto non è adattarsi alle novità, ma imparare ad utilizzarle. Faccio parte di una generazione a cavallo tra il nuovo e il vecchio modo di vivere e di comunicare. Abbiamo assistito al lancio dei primi cellulari sul mercato italiano, li abbiamo visti cambiare, rimpicciolirsi sempre più, poi crescere ancora, diventare a colori, poi touchscreen, poi riempirsi di app e trasformarsi in una sorta di computer tascabili. Da quel momento non abbiamo più saputo farne a meno. Da lì in poi è cambiato il nostro modo di comunicare, persino il significato stesso e il valore che diamo alla comunicazione. Tutto questo nel bene e nel male. Il paradosso è che abbiamo iniziato a comunicare di più ma in luoghi diversi, per lo più digitali, a discapito della comunicazione tradizionale, quella a tu per tu. La tecnologia ci ha trasformato in comunicatori a distanza. Siamo quelli che escono per godersi momenti di socialità e poi, seduti al tavolo con amici, stanno con il capo chino sullo smartphone, a chattare con altri amici o a scorrere sul feed di Facebook o Instagram, perdendosi buona parte della comunicazione: quella non verbale, che completa e impreziosisce la comunicazione verbale. Siamo diventati così: comunicatori distratti, con la luce dello schermo riflessa in viso. Il futuro sarà la riscoperta dell’offline; portare ciò che nasce online fuori dalla rete, dare valore alla presenza. Ne sono sicura: è vero che ci sarà sempre più virtual reality, automazione ecc.. Ma io immagino già gli “aperitivi senza smartphone”, lo switch off vero nel weekend o in vacanza… la libertà dal digitale che ci ha conquistati e allo stesso tempo ci ha resi un po’ suoi schiavi. Ammettiamolo, è solo colpa nostra! La comunicazione ci è un po’ sfuggita di mano. Ci siamo entusiasmati e forse basterebbe, di tanto in tanto, aggiustare il tiro. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Stai tranquillo, anche noi odiamo lo spam! Da noi riceverai SOLO UNA EMAIL AL MESE, in concomitanza con l’uscita del nuovo numero del mensile. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter
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