Primo trimestre 2021 (+26,6%) - L'editoria italiana nel primo trimestre del 2021 è in forte crescita!

Pagina creata da Veronica Mazza
 
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Primo trimestre 2021 (+26,6%) - L'editoria italiana nel primo trimestre del 2021 è in forte crescita!
Giornata mondiale del Libro: AIE conferma
la crescita del mercato dei libri anche nel
primo trimestre 2021 (+26,6%)

L’editoria italiana nel primo trimestre del 2021 è in forte crescita!
Secondo i dati elaborati dall’Associazione Italiana Editori (AIE), dal primo gennaio al 28 marzo
2021 le vendite dei libri a stampa a prezzo di copertina nei canali trade (librerie, online e grande
distribuzione organizzata) sono cresciute del 26,6% a valore e del 26,7% a copie vendute rispetto
allo stesso periodo dell’anno precedente, consolidando tra l’altro un trend iniziato nella seconda
metà del 2020.

  Sul sito dell’AIE si legge:
  I dati mostrano cambiamenti di grande rilievo nei canali di vendita e nella struttura del mercato. I
  canali fisici (librerie e grande distribuzione) passano dal 73% del 2019 al 57% di fine 2020, al 55%
  a marzo di quest’anno. Le librerie online, che rappresentavano il 27% nel 2019 e il 43% nel 2020,
  raggiungono il 45% nel primo trimestre dell’anno. Le librerie indipendenti, maggiormente
  presenti nelle periferie e nei piccoli centri, passano dal 22% di fine 2019 al 18% di fine 2020 e,
  quindi, al 16% di fine marzo.

  La 18App, in particolare, ha confermato la propria efficacia anche nell’avvio del nuovo anno: tra
  gennaio e febbraio i 18enni hanno utilizzato per l’80% questo strumento per acquisti di libri a
  stampa, pari complessivamente a 75 milioni di euro. Il 91% degli acquisti sono stati effettuati
  nelle librerie online.

  La quota dei piccoli e medi editori, trainata dall’online, è cresciuta costantemente nel corso degli
  anni, passando dal 39,5% del 2011 al 47,5% del 2019, al 50,9% del 2020, fino a toccare il 54,1%
  tra gennaio e marzo 2021.

Il presidente di AIE Ricardo Franco Levi, a proposito di questi ottimi numeri, ha dichiarato:

“Siamo di fronte a un incremento importante che si accompagna alla crescita della lettura, come è
documentato nel libro bianco del Cepell (nel 2020 sono lettori il 61% degli italiani nella fascia d’età
15-74 anni, contro il 58% dell’anno precedente). Questi dati confermano la bontà delle politiche di
sostegno al settore proposte da tutta la filiera del libro unita, l’Associazione Italiana Bibliotecari
(AIB), AIE, Associazione Librai Italiani (ALI), e messe in atto nel 2020 da governo e parlamento. Ci
riferiamo in particolare al sostegno della domanda tramite la 18App, la Carta Famiglia, il
finanziamento degli acquisti delle biblioteche nelle librerie di prossimità, tutte misure che chiediamo
siano confermate e stabilizzate”.
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Complice la pandemia da Coronavirus, le limitazioni agli spostamenti personali e la totale chiusura
di tutti gli altri comparti culturali (cinema, teatri, concerti e spettacoli dal vivo), il libro diventa non
solo il fedele compagno di tante ore passate a casa, ma anche un rifugio, uno sfogo e un’occasione
per la crescita culturale personale che riunisce in sé tanti vantaggi: praticità, economicità e grande,
se non inesauribile, disponibilità di argomenti.

Anche noi di Smart Marketing abbiamo sempre creduto nel valore e potenza del libro e della
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lettura, tanto che, oltre alla nostra rubrica dedicata, anche il nostro nuovo format di dirette
Facebook “Incontri ravvicinati” è nato e si è sviluppato “principalmente” intorno all’oggetto libro
e su quanto possa essere utile per sviluppare le nostre competenze specifiche e soprattutto
trasversali.

In un annus horribilis per il mondo della cultura, è come se tutti noi avessimo compreso il vero
valore delle cose che ci circondano riabilitando un oggetto, il libro e una pratica, la lettura, con i
quali noi italiani non avevamo troppa dimestichezza.

Vuoi vedere che alla fine qualcosa di buono questa pandemia l’ha fatta?

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Il podcast che ti fa scoprire l’A.I. -
L’intelligenza artificiale in azienda? La si
porta così. Con Marina Geymonat

Tutti, o quasi, conosciamo la regola mnemonica per il gioco del Poker per
ricordare il valore dei semi delle carte.
È la famosa “Come Quando Fuori Piove” dove le iniziali delle quattro parole “C – Q – F – P” ci
aiutano a ricordare la gerarchia del valore dei singoli semi “Cuori Quadri Fiori Picche”.
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Ma anche quando parliamo di Intelligenza Artificiale questa tecnica mnemonica può tornarci utile
per comprendere, in particolare, a cosa stare attenti quando decidiamo di adoperare l’I.A. in
azienda, soprattutto nella forma più comunemente utilizzata dalle imprese, ossia quella della
machine learning.

A spiegarci in che maniera il “Come Quando Fuori Piove” possa tornarci utile prima di investire i
nostri budget in sistemi di Intelligenza Artificiale è Marina Geymonat, una grande esperta del
mondo aziendale (infatti è Responsabile Piattaforme di Intelligenza Artificiale per TIM) che, insieme
al giornalista di Radio IT Igor Principe, ci guiderà in questo interessantissimo 11° episodio del
podcast “Alla scoperta dell’Intelligenza Artificiale”, ideato e promosso dall’Associazione
Italiana per l’Intelligenza Artificiale (AIxIA) e Radio IT (il primo podcast network italiano
sull’information technology).

Scopriremo allora che il Come/Cuore serve per comprendere che quando un’impresa decide di
investire in sistemi di Intelligenza Artificiale bisogna tenere lo sviluppo di queste tecnologie il più
possibile vicino al cuore dell’azienda. Perché solo chi lavora dentro le aziende può “guidare” gli
esperti tecnologi e informatici, reclutati in università o centri di ricerca esterni, verso la creazione di
un sistema di I.A. che risolva davvero i problemi posti in essere dall’impresa. Le intelligenze
artificiali che funzionano meglio sono proprio quelle sviluppate ad hoc o quantomeno personalizzate
all’interno delle società che poi li andranno ad utilizzare.

Il mezzo migliore per permettere che la nuova tecnologia di I.A. sia sviluppata vicino al cuore
dell’azienda è la formazione del personale interno; la formazione non deve essere iper-
specialistica, ma preparatoria, e si può attuare attraverso un piccolo master, nell’ordine della decina
di ore; il personale così formato comprenderà passo passo e “parteciperà” allo sviluppo e
all’applicazione di questa nuova tecnologia.

Il Quando/Quadri rappresenta invece i tempi e i soldi che l’azienda decide di investire in
tecnologie di I.A.. Il problema principale quando un’azienda decide di investire negli algoritmi
dell’Intelligenza artificiale è che ha fretta di vedere i risultati “mirabolanti” di cui tanto si sente
parlare in giro; ed allora succede che dopo la creazione e lo sviluppo del sistema di I.A.
personalizzato (che, come abbiamo detto, nel campo aziendale sono soprattutto sistemi di machine
learning) il management abbia fretta di risultati e spesso decida di abbandonare la nuova tecnologia,
prima che le sia stato permesso di apprendere ed elaborare i dati raccolti nel mondo reale. La fase
più importante per gli algoritmi di I.A., usciti dal laboratorio e messi al lavoro nella vita vera, sul
campo, è proprio questa fase di “addestramento”, perché più dati l’I.A. raccoglie, più evolve e più
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precise e performati saranno i suoi risultati.

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eymonat, responsabile Piattaforme di Intelligenza Artificiale per TIM.

C’è poi il Fuori/Fiori, due parole perfette secondo Marina Geymonat per spiegare, attraverso
l’esempio di un “fiore trilobato” (con tre lobi/petali), quali sono gli attori necessari di cui
bisogna tener conto quanto si decide di sviluppare ed adottare in azienda delle nuove tecnologie di
I.A..

Il primo lobo del Fiore sono gli utilizzatori finali, che quelle tecnologie e quegli algoritmi
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dovranno poi utilizzare. L’errore più comune delle aziende è quello di far calare dall’alto le nuove
tecnologie di I.A. che spesso dopo tanto tempo e denaro spesi per il loro sviluppo finiscono per non
essere adoperate sul campo, diventando degli investimenti fallimentari. Far partecipare “gli
utilizzatori finali” ai vari processi di trasformazione tecnologica, anche attraverso una formazione
propedeutica, è la migliore assicurazione che poi quelle stesse tecnologie vengano effettivamente
utilizzate.

Il secondo lobo del Fiore sono gli esperti di I.A., interni ed esterni all’azienda, che si sono
reclutati per sviluppare la nuova tecnologia, far dialogare i vari esperti tra loro, con il management
dell’azienda e con gli utilizzatori finali; esso permetterà di sviluppare, testare e far funzionare al
meglio le nuove tecnologie che si andranno ad adottare.

Terzo ed ultimo lobo del Fiore è rappresentato da tutto il comparto aziendale dell’information
technology: sembra paradossale, parlando di soluzioni informatiche, ma spesso gli esperti di I.A. e
gli esperti di I.T. già presenti in azienda non dialogano tra loro, decretando il fallimento della nuova
tecnologia che si va sviluppando. Questo succede perché le tecnologie dell’intelligenza artificiale
sono ritenute cosi innovative da venire isolate, o da isolarsi, dai settori dell’I.T., che invece sono non
solo fondamentali al loro sviluppo, ma saranno anche i principali fruitori dei risultati e delle soluzioni
di I.A. che si adotteranno in azienda.

Infine, l’ultimo seme, il Piove/Picche, è perfetto per spiegare tutto quello che non bisogna fare
quando si decide di sviluppare ed adottare in azienda una nuova tecnologia di Intelligenza
Artificiale. Secondo Marina Geymonat innanzitutto bisogna non rimanere ancorati alle abitudini ad
al modo di lavorare del passato, bisogna passare da una modalità lavorativa per requisiti ad una
modalità per dati ed obiettivi, poi bisognerebbe abbandonare le modalità di lavoro a “silos”, a
compartimenti stagni, che nelle aziende del passato era un metodo vantaggioso che funzionava;
nelle aziende moderne, ancor di più se decidono di adottare tecnologie dell’I.A., avere un
vocabolario comune e far lavorare i vari comparti in modalità end-to-end è fondamentale.

Il lavoro nelle aziende deve svilupparsi in ampiezza, coinvolgendo tutti quei settori che, a priori,
sembrano avere poco o nulla a che fare con l’adozione di una nuova tecnologia di I.A., perché per
addestrare al meglio le intelligenze di silicio prima bisogna formare, far dialogare ed interagire le
intelligenze degli esseri umani che lavorano fra loro e che lavoreranno con le nuove tecnologie
dell’Intelligenza Artificiale.

Se volete scoprire come utilizzare al meglio la tecnica mnemonica del “Come Quando Fuori Piove”
per capire quali sono i passi fondamentali da intraprendere in azienda prima, dopo e durante
l’acquisizione di nuove tecnologie dell’I.A., non vi resta che infilare le cuffie ed ascoltarvi questo
interessatissimo 11° episodio del podcast di “Alla scoperta dell’Intelligenza Artificiale”, che ci
propone una vera roadmap per orientarci in questi nuovi e spettacolari territori.

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Il caso dell’operaio tarantino licenziato
per aver condiviso un post su Facebook
dimostra innanzitutto, ed ancora una
volta, il nostro analfabetismo digitale
Una delle notizie che sta tenendo banco in questi giorni è quella relativa all’impiegato Riccardo
Cristello, 45 anni, sposato, con due figli, che è stato licenziato per “giusta causa” da ArcelorMittal
perché nei giorni scorsi aveva postato su Facebook uno screenshot, ritenuto denigratorio
dall’azienda, che invitava alla visione della fiction Mediaset “Svegliati amore mio”, incentrata sulla
storia di un’acciaieria e delle conseguenze sulla salute che causava alla città dove operava.

Sarebbero tante le cose da dire su questa faccenda, a cominciare dalla messa in discussione della
libertà di pensiero sancita dalla nostra Carta Costituzionale che, all’Articolo 21, nel primo
comma, afferma chiaramente che: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio
pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.
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k di Riccardo Cristello

Poi potremmo continuare con le implicazioni in materia di privacy che, anche se in questo caso
paiono strettine, visto che parliamo di social, comunque ci sono: il profilo dell’operaio tarantino
rimane un profilo privato che, “ipoteticamente” ed in linea di principio, può raggiungere solo un
definito numero di contatti.

Poi ci sarebbero le sempre presenti e, ahimè, mai sufficientemente approfondite questioni etiche e
morali.

Infine, le “opinioni personali” sugli aspetti comunicativi della faccenda: su quanto sia stato
avventato o meno il post di Riccardo Cristello e su quanto sia stata esagerata o meno e,
probabilmente, alla fine controproducente la reazione di ArcelorMittal, che forse poteva fermarsi
all’ammonimento ed alla sospensione, senza arrivare al licenziamento.

Ma quello che secondo il mio parere è forse il punto vero della situazione, e parlo da direttore
responsabile di un magazine online che si occupa di comunicazione e social media oltre che di
marketing, è un altro.

Quello che emerge con forza dal post di Riccardo Cristello è l’illusione, forse l’ingenuità, che la
nostra vita online e la nostra vita vera siano in qualche modo separate, due compartimenti stagni
che rispondono a regole e leggi differenti.

Questa idea degli universi paralleli la vediamo all’opera con forza in tanti ambiti dalla
contrapposizione fra bullismo/cyberbullismo, fra odio dal vivo/odio in rete, fra le affermazioni
pubbliche/sui post, siamo, almeno molti di noi e soprattutto in determinate fasce di età, convinti,
fermamente convinti, che le leggi e le regole sociali e di buon senso NON si applichino alle nostre
vite ed esperienze online.
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Beh, mi dispiace dirvelo, ma non è così. E, se ancora dopo più di 20 anni dalla rivoluzione digitale
siamo ancora qui ad interrogarci con la domanda: “vabbè, ma in fondo era solo un post, mica ha
rilasciato un’intervista”, vuol dire che non abbiamo capito nulla del mondo in cui viviamo e delle
“convenzioni” che lo regolano.

Quello che, a mio avviso, emerge da questa triste faccenda è, ancora una volta, la generale
incompetenza digitale di noi Italiani, un analfabetismo digitale che alle volte, come questa
storia dimostra, può costarci molto caro.

Dovremmo studiare internet, il web e i social (e questi termini non sono sinonimi!) a scuola fin dalle
elementari, per sviluppare una sensibilità, una coscienza, una maturità quanto mai necessarie per
utilizzare al meglio e per il nostro progresso gli strumenti della rivoluzione digitale che, mi preme
ridirlo in chiusura, ha ormai più di 20 anni.

Si tratta di una rivoluzione “adulta” a tutti gli effetti, mentre noi, la maggior parte almeno, siamo
ancora adolescenti.

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12 aprile 1961: il primo passo dell'uomo
verso la conquista dell'ultima frontiera, lo
spazio
  Quell’aprile si incendiò

  Al cielo mi donai

  Gagarin figlio dell’umanità

  E la terra restò giù

  Più piccola che mai

  Io la guardai non me lo perdonò

  E l’azzurro si squarciò

  Le stelle trovai lentiggini di Dio

  Col mio viso sull’oblò

  Io forse sognai

  E ancora adesso io volo…

Sono queste le prime strofe della canzone “Gagarin” di Claudio Baglioni, pubblicata nell’album
“Solo” del 1977. Il cantautore disse in un’intervista che si era ispirato all’articolo di un quotidiano
che riportava alcune dichiarazioni del cosmonauta russo.

Il 12 aprile del 1961, 60 anni fa, in piena Guerra fredda, l’Unione Sovietica riesce nell’impresa di
portare in orbita il primo uomo, Jurij Gagarin.
Gagarin era nato il 9 marzo 1934 nel villaggio russo di Klušino, nella provincia di Smolensk. Era un
pilota dell’aviazione russa, con un curriculum ideale per le richieste dei responsabili del programma
russo. Il padre era un falegname, e la mamma era contadina. Il primo cosmonauta della storia era
sposato con una infermiera, Valentina, ed all’epoca del suo storico primo volo orbitale Jurij era padre
di due figlie.

Fu questo l’ultimo schiaffo in faccia agli USA nella corsa allo spazio: la Russia aveva stravinto
inanellando una serie di vittorie scientifiche, ma soprattutto politiche, che la propaganda seppe
utilizzare al meglio per dimostrare la supremazia politica, sociale, economica e tecnologica del
Comunismo sul Capitalismo occidentale e, in particolare, sugli Stati Uniti d’America.

  L’URSS aveva infatti mandato nello spazio nell’ordine:
  4 ottobre 1957 lo Sputnik 1, il primo satellite artificiale mandato in orbita intorno alla Terra;

  3 novembre 1957 lo Sputnik 2, con a bordo il primo essere vivente lanciato nello spazio: si
  tratta della cagnolina Laika;

  12 aprile del 1961, il Vostok 1 (in russo: “Oriente”), con a bordo, Jurij Gagarin, il primo uomo
  ed il primo essere umano nello spazio;

  16 giugno 1963, il Vostok 6, con Valentina Tereškova, la prima donna nello spazio;

  18 marzo 1965 il Voschod 2 (in russo “Alba”), con a bordo il cosmonauta Aleksej Archipovič
  Leonov, il primo essere umano a fare una passeggiata spaziale.

Insomma, la corsa allo spazio sembrava pressoché vinta dall’URSS, e fu allora che il presidente degli
Stati Uniti John Kennedy e il vice presidente Johnson diedero una impressionante accelerata –
anche di fondi – ad un progetto che potesse catturare l’immaginazione collettiva, il Programma
Apollo (concepito, come la NASA, dall’amministrazione guidata da Dwight Eisenhower) che, come
dichiarò il presidente John Kennedy, durante una storica sessione congiunta al Congresso avvenuta
il 25 maggio 1961, aveva l’obbiettivo di far “atterrare un uomo sulla Luna entro la fine del
decennio”.

Ma la corsa allo spazio ed in particolare alla Luna furono soprattutto una prova di forza politica dei
due blocchi contrapposti. A dimostrazione di questo, basti pensare che, nelle 17 missioni del
Progetto Apollo (anche se ufficialmente furono 33), anche se quest’ultimo programma stimolò
progressi in molti settori delle scienze e delle tecnologie, tra cui avionica, informatica e
telecomunicazioni, solo uno scienziato riuscì a mettere piede sulla Luna, il geologo Harrison
Schmitt della missione Apollo 17, lanciata il 7 dicembre 1972 ed allunata il 11 dicembre e che
chiuse, definitivamente, il Programma Apollo e l’interesse degli USA per la corsa al nostro satellite.
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ij Gagarin, primo uomo nello spazio il 12 aprile 1961.

Oggi assistiamo all’interesse per Marte, sia da parte delle nazioni che dei privati, e lo spazio, e
l’ignoto e l’avventura che rappresenta, stanno stimolando il progresso tecnologico e scientifico come
poche altre sfide mai intraprese. La scienza, e quindi la conseguente cooperazione internazionale,
sembra farla da padrone, anche se per adesso a dettare legge è ancora il cinema con tutta una serie
di film che cercano di anticipare i sogni, le ansie, le problematiche e le possibili implicazioni
filosofiche, psicologiche ed etiche di una colonizzazione spaziale che parta proprio dal pianeta rosso.

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LOL: Chi ride è fuori. Il successo
strepitoso del format Amazon che
intercetta il nostro bisogno di disimpegno
e fancazzismo
Lo scorso 8 aprile, con la pubblicazione sulla piattaforma Amazon Prime Video delle ultime 2
puntate, si è concluso il trionfale, e per molti aspetti inatteso, successo della prima stagione del
nuovo format “LOL: Chi ride è fuori”.

Semplicissima, quasi banale, la regola del programma, che prevedeva di riunire in un teatro video
sorvegliato da un’infinità di telecamere (in realtà un set perfettamente ricostruito negli studi di
Cinecittà) 10 comici e farli interagire per 6 ore, al fine di farli ridere; ma chi ride per due volte
consecutive viene eliminato, finché non rimane un solo concorrente che vince, con l’impegno di
devolvere in beneficenza la bella somma di 100mila euro.

Insomma, in pratica, si tratta del gioco, praticato da tutti noi alle elementari e medie, di fissarsi negli
occhi e vedere chi scoppia a ridere per primo. Infatti il successo strepitoso di questo format non è
certo nella scrittura, praticamente assente, ma proprio nella formula di questo gioco infantile che,
però, tutti quanti noi conosciamo e nel quale in un certo senso ci riconosciamo.

Fra le ragioni del successo, sicuramente c’è anche il cast di questa prima serie di 6 puntate,
composto in egual misura da comici navigati e nuove leve, che sono: Elio, Frank Matano, Caterina
Guzzanti, Katia Follesa, Michela Giraud, Ciro e Fru dei The Jackal, Angelo Pintus, Lillo e Luca
Ravenna. E se a molti di noi Michela Giraud non viene subito in mente, e il giovane ma talentoso
stand-up comedy man Luca Ravenna non ci dice nulla, per gli altri 8 concorrenti davvero non c’è
bisogno di presentazione, rappresentando, nel loro insieme, un bellissimo spaccato del gotha della
comicità italiana degli ultimi 20 anni.

Sicuramente hanno avuto il loro merito i due presentatori, Fedez e Mara Maionchi, già
ampiamente rodati da tante co-conduzioni di talent e programmi di successo.

Il programma ha fatto pure vedere quanto talento, studio e metodo si celi nella naturalezza delle
improvvisazioni singole e di gruppo dei vari comici, con alcune scene, momenti e gag che, siamo
sicuri, entreranno nella storia della programmazione televisiva, oltre a diventare un’infinità di meme
e tormentoni sui vari social.

Ma non sono stati i comici, i conduttori, né la formula semplice del gioco a decretare il successo di
questo format, quello che credo davvero sia successo (ed in questo sono d’accordo con l’analisi di
Stanlio Kubrick su Esquire) è che un programma come “LOL: Chi ride è fuori” intercetti e
soddisfi quell’impellente bisogno di leggerezza, disimpegno e “sano” fancazzismo che in questo anno
di pandemia ci è tanto mancato.

La voglia di stare con gli amici riuniti in un ambiente (chiuso!) a dire cazzate e farsi scherzi è il
motore del successo di questo programma, sono convinto che molti fan avrebbero voluto essere lì
con i loro idoli comici per passare 6 ore, questa la durata dell’intera performance, a cercare di far
scoppiare a ridere tutti gli altri concorrenti.

Chi di noi non avrebbe voluto vedere le imitazioni di Pintus? Chi di noi non avrebbe voluto soffrire
con il povero Frank Matano, diventato il bersaglio di molti colleghi, fra cui Elio? Chi non avrebbe
voluto vedere le strepitose gag di Katia Follesa e Ciro dei The Jackal? Od ancora, chi di noi non
avrebbe riso a crepapelle davanti alle performance surreali e geniali di Lillo, vero mattatore del
programma, o non avrebbe voluto provare a scardinare la granitica imperturbabilità di Caterina
Guzzanti?

Insomma, il successo di “LOL. Chi ride è fuori” è imputabile in buona parte al nostro bisogno di
normalità, quella normalità semplice e un po’ banale pre-Covid19, in cui si rideva e scherzava al
tavolino di un bar con tre o quatto amici e si parlava di cose buffe, leggere, semplici, ma non per
questo meno necessarie al nostro equilibrio psicofisico.

“LOL. Chi ride è fuori” celebra la leggerezza e ci permette, almeno per una mezz’oretta, la durata
di ognuna delle 6 puntate, di dimenticarci di tutta la pesantezza e drammaticità che questo virus ha
portato nelle nostre vite.

Se non lo avete ancora visto, fatelo, “LOL. Chi ride è fuori” è un vero e proprio farmaco, un piccolo
ma preziosissimo regalo che farete al vostro morale, alla vostra salute mentale, ai muscoli facciali, al
diaframma ed a tutti gli altri organi coinvolti nell’atto del ridere, atto fondamentale e da troppo
tempo assente nella quotidianità delle nostre vite.

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Il dubbio dell’Autistico: e se la diversità
fosse un valore, un vantaggio evolutivo o,
meglio ancora, una modalità esistenziale
alternativa?
Uno dei libri più eccezionali che io abbia letto nella mia vita è senza alcun dubbio “Un antropologo
su Marte” del famoso neurologo Oliver Sacks, uscito in Italia nel 1995 per i tipi della Adelphi in
contemporanea con l’edizione inglese. Posseggo ancora l’edizione Club degli Editori, comprata lo
stesso anno, con una bella copertina arancione su cui era riprodotta una splendida opera di Paul
Klee, “Manifesto per i comici”, del 1938.

Il libro era, ed è, straordinario per molti motivi, primo fra tutti la bravura nel narrare la scienza del
suo autore, Oliver Sacks, che univa una cultura enciclopedica con una rara capacità di semplificare,
ma non banalizzare, complessi concetti della neurologia confezionandoli in un racconto coerente ed
addirittura avvincente. Senza dubbio Sacks è stato un precursore dello storytelling applicato alla
divulgazione scientifica, quando ancora non era di moda.

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Ma erano, e sono, le storie che il libro conteneva ad essere il motivo principale del suo appeal e del
successo editoriale che ebbe all’epoca. Il saggio, come d’altronde spiegava bene il sottotitolo,
raccontava “sette racconti paradossali” riferiti a sette casi clinici esemplari di persone affette da
diversi tipi di patologie o sindromi neurologiche, che però erano state “brillantemente” utilizzate,
non solo per vivere al meglio le loro vite, ma in molti casi per trasformare quello specifico handicap
neurologico o cognitivo nel tratto principale e distintivo del loro successo professionale.

Il libro parlava, ad esempio, del pittore che in seguito ad un incidente all’età di 65 anni aveva subito
un trauma che aveva compromesso la sua capacità di percepire i colori, ma che non gli impedì di
continuare la sua carriera di artista, dipingendo solo opere in bianco e nero. Oppure del ragazzo,
Virgil, nato con una rara malattia agli occhi che aveva prodotto una specie di cataratte molto spesse
e non asportabili, che grazie ad un geniale dottore erano, da adulto, state poi asportate, consentendo
a Virgil, che aveva visto il mondo attraverso il tatto, di poterlo vedere con gli occhi. Una storia così
particolare, quest’ultima, che è poi diventata un film, “A prima vista” (1999) di Irwin Winkler, con
Val Kilmer nei panni di Virgil. Od ancora, il caso del medico affetto dalla Sindrome di Tourette e
che proprio grazie ai movimenti repentini, precisi, ripetitivi ma involontari, caratteristici della
sindrome, era diventato un chirurgo molto più bravo dei suoi colleghi “normali”.

                 Un antropologo su Marte

                                     Sette racconti paradossali
  Autore: Oliver Sacks

  Editore: Adelphi

  Anno: 1998 – 12ª ediz.

  Pagine: 445 + 16 tavv. f.t.

  Isbn: 9788845913969

  Prezzo: € 16,00
Ma la storia a suo modo più emblematica del libro, il caso neurologico più straordinario, e che ha
dato il titolo al libro, è quello della biologa ed ingegnere nonché professoressa associata della
Colorado State University, Temple Grandin, forse la personalità più famosa al mondo affetta da
disturbo dello spettro autistico. La Grandin diventò celebre proprio grazie al libro di Sacks, ma
lei stessa negli anni successivi è diventata un’importante attivista sia del movimento in tutela dei
diritti degli animali che del movimento dei diritti delle persone autistiche, dai quali a sua volta è
frequentemente citata. Celebre, in tempi recenti, è stata la sua partecipazione alla TED Conference
del 2010, dove parlò dell’importanza e dell’apporto costruttivo e fondamentale che tutti i tipi di
menti, anche quelle autistiche, possono portare al progresso dell’umanità.

La Grandin raccontò a Oliver Sacks, durante il loro primo incontro, che quando si trattava di capire
gli animali era a suo agio, forse perché come lei pensano per immagini, mentre quando si trattava di
capire ed interagire con gli umani, soprattutto in campo emozionale, non riusciva a comprendere le
astrazioni verbali tipiche dei processi mentali delle persone “normali” (la comunità degli autistici ha
coniato un neologismo per definire tutte le persone non autistiche: neurotipiche). Durante la
chiacchierata, citata nel libro, la Garndin disse: “Quando si tratta di capire la gente mi sento
come un antropologo su Marte”, ed a Sacks la definizione piacque così tanto che ne fece il titolo
del suo saggio.

Un antropologo su Marte: che definizione straordinariamente efficace per spiegare il proprio
disorientamento di fronte ad un compito che sovrasta le nostre capacità! A cosa serve, infatti, un
antropologo, ossia uno che studia i tipi e gli aspetti umani soprattutto dal punto di vista morfologico,
fisiologico, psicologico, su un pianeta alieno come Marte?

A nulla! Perché sul pianeta rosso, vista l’assenza dell’uomo, sarebbero molto più utili scienziati di
altro tipo.

Ma perché vi ho parlato di questo libro?
Perché mi è tornato in mente ieri, quando ho ricevuto la newsletter della MondadoriStore che mi
ha ricordato che il 2 Aprile sarebbe stata la Giornata Mondiale della Consapevolezza
dell’Autismo, e fra i libri a tema proposti dell’editore online spiccava Il cervello autistico di
Temple Grandin e Richard Panek; allora ho voluto rileggere il capitolo dedicato alla Grandin nel libro
di Oliver Sacks, ed ho capito ancora meglio di quando lo lessi la prima volta, 25 anni fa, quanto sia
straordinaria la volontà umana e quanto sia necessario, come afferma la Grandin stessa sia nella
TED Conference che nei vari libri ed articoli che ha scritto, che l’autismo come altre patologie e
sindromi neurologiche possano essere delle intelligenze “altre” utili per il progresso dell’umanità e
modalità esistenziali alternative, ma non inferiori, a quelle dei “cosiddetti normali”, di noi altri
insomma.
Non c’è che dire, leggere il libro della Grandin, ascoltare la sua TED Conference, o rileggersi “Un
antropologo su Marte” di Oliver Sacks rappresenta un bagno di umiltà quanto mai necessario per
tutti noi, che già prima, ma ancor di più in tempi di pandemia, ci scopriamo, spesso e volentieri,
tuttologi incalliti, depositari delle verità ultime, oltre che esperti virologhi ed epidemiologhi, e, cosa
ancora più grave, “decidiamo” senza alcun approfondimento culturale o studio specifico cosa sia
normale e cosa invece non lo è.

E questo sì, è davvero strano!

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La Copertina d’Artista – Remote life
L’immagine che osserviamo sulla Copertina d’Artista di questo numero sembra l’istantanea perfetta
dei tempi che corrono. Una ragazzina è seduta sul divano con in mano il tablet e con le cuffie alle
orecchie. Indossa un paio di jeans, una canotta, ma è senza scarpe, probabilmente sta seguendo una
lezione in DAD o, forse, ascolta la sua musica preferita, non possiamo saperlo. E d’altronde cosa
importa, perché l’elemento, che in ognuno dei due casi, in un certo senso, stride e ci fa saltare
all’occhio quest’immagine, confermandoci il suo essere istantanea di questo specifico periodo, è il
divano.

Già, il divano: più ancora delle cuffie, molto più del tablet e sicuramente più dell’abbigliamento,
l’elemento che, come un marcatore GPS, localizza l’immagine e ci dice che siamo qui ed ora è il
divano! Perché, se è vero che le nostre case rispecchiano il gusto e lo stile di chi le abita, ancor di
più definiscono la “geografia” personale di ognuno di noi.
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o magazine, realizzata da Luisa Valenzano.
In questo anno abbondante di lockdown, Zone Rosse, coprifuoco e restrizioni, le nostre fotografie, i
nostri selfie, sono radicalmente cambiati, in essi sono entrati prepotentemente gli elementi di arredo
delle nostre abitazioni e le abitazioni stesse. Dapprima le librerie, così rassicuranti e facili, per
definire in videoconferenza la nostra professionalità; poi le cucine, i bagni, i corridoi, luoghi buoni
come altri nelle nostre case divenute piccole ed improvvisamente affollate ad ogni ora del giorno per
una riunione di lavoro, o un video aperitivo con gli amici; ed infine anche i divani, meno “informali”
dei nostri letti, ma abbastanza “pratici”, forse dimessi, per diventare le nostre nuove scrivanie, i
nostri uffici o i nostri nuovi banchi di scuola.

                      Scopri il nuovo numero: Remote life
  A distanza da un anno dal primo lockdown, siamo ancora qui a confrontarci con chiusure
  più o meno generalizzate e con abitudini di vita e di lavoro che fatichiamo ancora a fare
                 nostre. Ecco i nostri suggerimenti per la vostra remote life.

Quest’anno di lockdown, sembra dirci l’artista di questo numero, Luisa Valenzano, l’apatia ha
lavorato silenziosamente, ma potentemente, nelle nostre vite. Limitando non solo il nostro naturale
orizzonte visuale, ma, e questo è assai più grave, la nostra visione del futuro. Dalle nostre foto, così
come dalle nostre esperienze e dalle nostre vite, sono scomparsi i panorami, i tramonti, le foto di
gruppo, ossia tutto quello che ci parlava di possibilità, di potenzialità, di prospettive; i nostri mondi
si sono ridotti, compressi, miniaturizzati, le nostre case, volenti o nolenti, sono diventate i nostri
nuovi set, le nostre scenografie, sono diventate sia i nostri nidi ed i nostri gusci che le nostre gabbie
e le nostre prigioni.

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di Luisa Valenzano.

Eppure, io leggo nell’opera della Valenzano un barlume di speranza. Lo vedo chiaramente, sul viso
della ragazzina, illuminato dalla luce diafana del suo tablet, è accennato un sorriso, un sorriso
sincero, sereno, perfino ironico, che mi fa sperare, mi fa credere, mi fa sognare che il futuro non
sarà chiuso fra le mura delle nostre abitazioni, ma sarà di nuovo aperto e gravido di ogni promessa.
E, se ancora non fosse chiaro, questo futuro sarà “abitato” dai nostri giovani, che ci dimostreranno
che si può passare, con estrema disinvoltura, dal divano all’esterno, dal chiuso all’aperto. Speriamo
che anche noi adulti, noi genitori, noi mamme e papà riusciremo a tenere il loro passo.

  Luisa Valenzano (classe 1977) è un’artista
  figurativa e collabora a diversi progetti di
  promozione dell’arte contemporanea. Consegue il
  diploma di pittura nel 2000 presso l’Accademia di
  Belle Arti di Bari, cominciando ad esporre in
  mostre personali e collettive ad iniziare dallo
  stesso anno. La sua ricerca si dipana come una
  sorta di diario personale, spesso i soggetti delle
  sue tele sono emotivamente legati a lei e
  raccontano momenti personali che diventano
  comuni a tutto il mondo femminile. Le sue opere
  pittoriche sono incentrate sugli stati emotivi di soggetti in conflitto tra equilibrio e contrarietà.
  Questa è la sua seconda Copertina d’Artista per il nostro mensile, dopo quella per il numero
  “Simply the best”, del dicembre 2018.

  Per informazioni e per contattare                   l’artista: luisavalenzano@gmai.com –
  www.luisavalenzano.jimdo.com

Ultime mostre:

2020

Vincitrice del 1° Premio Realnart a Gioia del Colle (BA);

Selezionata al Premio Basilio Cascella ad Ortona (CH) (2017, 2019, 2020);

2018

Selezionata al 3+10 Prize a Venezia;

“Sub-terranea” Festival delle arti, Museo del Sottosuolo, Napoli;

International Art Festival “AR[t]CEVIA”, Palazzo dei Priori, Arcevia (An);

“Display 2.0”, ‘O Vascio Room Gallery, Somma Vesuviana (Na);

“II RASSEGNA DI PITTURA SEGHIZZI”, Galleria di Arte Contemporanea Seghizzi, Gorizia;

“HUMAN RIGHTS?#EDU”, Fondazione opera Campana dei Caduti, Colle di Miravalle, Rovereto
(Tn);

“Lungo il confine”, Teatro Lux, Pisa, a cura di FUCO Fucina Contemporanea
“La mente artistica – Giovani donne artiste a confronto, VI ed.”, Pio Sodalizio dei Piceni, Roma, a
cura dell’Ass. Culturale ArtisticaMente

2017

Selezionata a “Ronzii – arte urbana in subbuglio”, Stazione Leopolda, Pisa, a cura di FUCO Fucina
Contemporanea.

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Remote life – L’editoriale di Raffaello
Castellano
Ed anche quest’anno, nel passaggio da sabato 27 a domenica 28
marzo, abbiamo perso un’ora di sonno, perché, come accade dal
1996 in tutta Unione Europea (compresi Liechtenstein, Andorra,
Monaco, San Marino, Svizzera, Norvegia e Città del Vaticano), è
scattata la controversa Ora Legale.

Come tutti noi sappiamo, si spostano le lancette in avanti, perdendo un’ora di sonno, per guadagnare
un’ora di luce naturale in più, l’ultima domenica di marzo, per ripristinare poi l’Ora Solare
nell’ultima domenica di ottobre.

  La storia ci insegna che, in tempi moderni, l’idea dell’ora legale era venuta per primo nel 1784 a
  Benjamin Franklin, che la propose, in un articolo scritto per il quotidiano francese Journal de
  Paris, per risparmiare sulla spesa per le candele, principale mezzo di illuminazione dell’epoca.

  L’idea riprese vigore durante la Prima Guerra Mondiale, grazie all’imprenditore britannico
  William Willett, che la propose come mezzo migliore per un risparmio energetico quanto mai
  utile in tempi di guerra. Nel 1916 la Camera dei Comuni diede il via libera al British Summer
  Time, che implicava lo spostamento delle lancette un’ora in avanti durante l’estate e, dopo
  l’Inghilterra, piano piano seguirono tutte le altre nazioni europee.

Ma che vantaggi comporta l’adozione dell’ora legale?
Secondo i dati di Terna (la società italiana responsabile della gestione e distribuzione di energia
elettrica sulla rete ad alta tensione), dal 2004 al 2020 il minor consumo di elettricità per l’Italia
dovuto all’ora legale è stato di circa 10 miliardi di kilowattora e ha comportato, in termini
economici, un risparmio per i cittadini di 1,72 miliardi di euro.

Solo nel 2020 i benefici dell’ora legale hanno determinato un risparmio pari a 400 milioni di kWh
(quanto il consumo medio annuo di elettricità di circa 150 mila famiglie), un valore corrispondente
a minori emissioni di CO2 in atmosfera per 205 mila tonnellate e a un risparmio economico pari a
circa 66 milioni di euro.

Questo 2021 sarebbe dovuto essere l’ultimo anno dell’entrata in vigore dell’ora legale, ma la
direttiva provvisoria del 26 marzo 2019 sull’abbandono della doppia ora, legale e solare, è stata
votata ed approvata solo dal Parlamento Europeo e, per diventare direttiva europea effettiva e
vincolante, deve essere valutata ed approvata anche dal Consiglio Europeo, che ha rimandato la
discussione perché nel frattempo è arrivata la pandemia da Coronavirus che ha scompaginato e
rivoluzionato agende e priorità.
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Ed infatti in questo periodo sospeso, in questo strano limbo, in cui siamo tutti immersi, e del quale
ho parlato anche in un mio recente articolo, poco, o nulla, importa che oggi, domenica 28
Marzo, mentre scrivo questo mio editoriale, abbiamo guadagnato un’ora di luce o perso un’ora di
sonno.

Come abbiamo passato questa domenica?
Probabilmente con un’Italia quasi interamente rossa o arancione rinforzato, spaventati, disillusi, o
peggio rassegnati, siamo rimasti in casa, magari davanti al computer, ad un tablet, ad uno
smartphone o ad una TV, cercando, in ogni modo, di riallacciare i fili di una socialità che man mano
che i giorni ed i mesi passano si fanno sempre più sfilacciati: non possiamo uscire senza un
giustificato motivo, non possiamo andare al teatro, al cinema, ad un concerto, oggi a Taranto, come
in tante altre città non possiamo neanche andare a fare la spesa, visto che perfino gli alimentari sono
chiusi.

Più passa il tempo, più il nostro orizzonte di possibilità si restringe, la nostra possibilità di scelta
diminuisce, le nostre occasioni di socialità vere, non virtuali, non mediate da uno schermo, insomma,
si esauriscono.

Cosa fare in questo new normal, come lo chiamano gli esperti, che ha trasformato le nostre vite in
vite in remoto, in Remote life, come recita appunto il titolo di questo mese del nostro magazine?

                      Scopri il nuovo numero: Remote life
  A distanza da un anno dal primo lockdown, siamo ancora qui a confrontarci con chiusure
  più o meno generalizzate e con abitudini di vita e di lavoro che fatichiamo ancora a fare
                 nostre. Ecco i nostri suggerimenti per la vostra remote life.

Non so se ci sono soluzioni davvero sostitutive delle esperienze che abbiamo perduto da più di un
anno ormai, tutto quanto si sta spostando sul web, su internet, dove impazzano tutorial e video corsi
di ogni tipo, da come fare pilates a casa a come preparare la focaccia al pomodoro, dalla formazione
professionale a quella di approfondimento culturale (delle quali ci siamo occupati nello scorso
numero), dai concerti alle presentazioni di libri.

Insomma, la nostra vita è diventata, per forza di cose, una remote life, e lungi da me l’idea di dirvi,
come fanno in molti, che il web può sostituire le esperienze dal vivo, in presenza, perché, ahimè, non
è vero. Noi di Smart Marketing, fedeli all’ottimismo che contraddistingue la nostra filosofia e linea
editoriale fin dalla nostra nascita nel maggio 2014, vogliamo proporvi un numero che faccia il
punto della situazione, sul qui e ora, e che provi a proporre una serie di “soluzioni” o, quantomeno,
“suggerimenti” che ci permettano di utilizzare al meglio questi giorni, mesi, di clausura forzata.

Nelle pagine di questo numero troverete interessanti articoli sulle app per la meditazione, una
pratica antica quanto mai utile per affrontare lo stress di questi giorni complicati; o su di
interessanti iniziative culinarie che ci permettano non solo di preparare e gustare prelibati piatti
gourmet a casa nostra, ma pure di aiutare un comparto come quello della ristorazione, fra i più
colpiti dalla crisi economica della pandemia; od ancora scopriremo delle scarpe virtuali, prodotte
da un noto brand del lusso, che possiamo acquistare ed indossare solo online, pagandole però con
soldi veri; oppure potremo approfondire la conoscenza con il disturbo del burnout e su come la
work life balance può aiutarci a contrastarlo; od ancora capiremo quanto sia sottile e sfumato il
confine fra le nostre vite e i videogiochi, nei quali, in questo periodo, sembriamo come quegli eroi
fermi sempre allo stesso livello, incapaci di andare avanti o battere il cattivo.

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Questo numero sulla “Remote life” non vuole essere un’ottimistica, e fine a se stessa, rivalutazione
delle nostre vite limitate dal lockdown, ma è stato pensato e scritto da tutti i nostri collaboratori
come un supporto, uno strumento, un ausilio, per cercare di contrastare la paura, la rassegnazione e
la vera e propria disperazione, che molti di noi stanno provando in questo periodo. Noi di Smart
Marketing ci proviamo, cerchiamo, come tutti, di fare il meglio che possiamo con quello che
abbiamo a disposizione, nutrendo la sottile, ma inesauribile, speranza che tutto questo che stiamo
vivendo un domani ci possa tornare utile.

Il prossimo 4 aprile compirò 48 anni, e vedo come un segno che il prossimo aprile anche il nostro
mensile compirà gli anni, 8 anni di articoli, di rubriche, di notizie, di contenuti, che speriamo vi
siano state utili, perché noi tutti, io, Ivan e la redazione al completo, li abbiamo scritti sempre con
dedizione, rigore, professionalità e passione, perché il nostro lettore meritava tutta l’attenzione di
cui eravamo, siamo e saremo capaci.

Fatemi concludere questo editoriale alla mia maniera, con una massima d’autore: visto l’imminente
doppio compleanno, mio e di Smart Marketing, ho scelto le parole di Abraham Lincoln, che
adesso mi sembrano ancora più vere e potenti:

              Non sono gli anni della tua vita che contano, ma la vita nei tuoi anni.

Buona lettura.
Raffaello Castellano

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Il Focolaio – Da Bergamo al contagio
nazionale di Francesca Nava ci racconta
una storia che pensavamo di conoscere e
della quale scopriamo non sapere nulla
  Quest’anno vi propongo un libro al mese, forse due, per raccontare chi siamo, da dove veniamo,
  dove vorremmo andare e come ci vogliamo arrivare. Perché la lettura può essere svago,
  intrattenimento, ma anche un valido esercizio per imparare a pensare e sviluppare una certa idea
  del mondo.

  Un libro al mese, in piccole schede, in poche battute, per decidere se vale la pena comprarlo e
  soprattutto leggerlo. Perché la lettura, come diceva Woody Allen, è anche un esercizio di legittima
  difesa.

Le verità più false sono spesso quelle che diamo più per scontate.
Prendiamo una storia come quella che ci racconta la giornalista e documentarista Francesca Nava
nel suo “Il Focolaio – Da Bergamo al contagio nazionale”. La Nava ci narra appunto di un
focolaio, anzi del focolaio, di Covid-19 più famoso d’Italia, eppure scorrendo le pagine del suo
documentatissimo saggio ci accorgiamo che molte delle cose che davamo per certe sono invece
false.

Partiamo da un data che è per tutti “famigerata”: se vi chiedessi quando è stata istituita la
“Zona Rossa” nella Lombardia cosa mi rispondereste?

Probabilmente molti di voi direbbero l’8 Marzo 2020, con l’entrata in vigore della zona arancione
(non rossa, si badi bene) in gran parte della Lombardia. Eppure questa risposta sarebbe sbagliata,
perché nella regione più industrializzata d’Italia la vera Zona Rossa viene istituita “solamente” il
22 Marzo 2020 con il Dpcm “Chiudi Italia”, ben 14 giorni dopo, il che, con una pandemia in
corso, significa moltissimo in fatto di vite umane.

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  più o meno generalizzate e con abitudini di vita e di lavoro che fatichiamo ancora a fare
                 nostre. Ecco i nostri suggerimenti per la vostra remote life.

Nella Bergamasca, nel territorio della Val Seriana, fra i comuni di Nembro ed Alzano Lombardo, lo
stesso territorio, per intenderci, con il più alto numero di imprese per km quadrato (4,1 per km
quadrato contro una media nazionale dell’1,6) dell’intera regione Lombardia, centinaia di migliaia
di lavoratori hanno continuato a lavorare e spostarsi senza alcun problema per 14 giorni!

Due settimane in cui la maggioranza di quei lavoratori è diventata il vettore principale del
virus SarsCov2.

La cosa più strana che emerge dai primi capitoli di questo libro è che nella regione Lombardia si è
applicato il criterio due pesi e due misure, perché a Codogno e in altri dieci Comuni del territorio
limitrofo la Zona Rossa, con la conseguente quarantena e il cordone sanitario, viene istituita subito
dopo la scoperta dei primi contagiati, ossia dal 23 febbraio 2020. Da quest’ultima data all’altra,
quella del 22 marzo 2020, passa un mese, perché?
Il Focolaio

                                 Da Bergamo al contagio nazionale
  Autore: Francesca Nava

  Editore: Laterza

  Anno: 17 settembre 2020

  Pagine: 246

  Isbn: 9788858142257

  Prezzo: € 15,00

Eppure, il 18 marzo 2020 i telegiornali nazionali avevano scioccato l’opinione pubblica, mandando
in onda le crude e sommesse immagini della carovana di 30 camion militari in uscita da Bergamo
con 65 bare a bordo, perché nei cimiteri della città e in quelli vicini non c’era più posto, i forni
crematori erano allo stremo, non riuscivano a bruciare abbastanza cadaveri.

Il libro illumina le molte, purtroppo, zone oscure della gestione pandemica nella regione più
produttiva d’Italia, individuando responsabilità, omissioni, ingiustificabili ritardi e delineano, il più
delle volte, il comportamento al limite del criminale di chi poteva e doveva decidere diversamente ed
invece non lo ha fatto.

Perché dovremmo leggere Il Focolaio – Da Bergamo al contagio nazionale?

Il libro di Francesca Nava è il perfetto esempio dell’inchiesta giornalistica, ma non è per i dati, le
cifre, le omissioni della politica, le pressioni degli industriali e gli infiniti scandali che mette in fila, o
perché ci mostra le fragilità della tanto blasonata eccellenza sanitaria lombarda, né tantomeno per le
inchieste e i processi giudiziari che ha contribuito ad avviare che dovremmo leggerlo. Il libro
andrebbe letto innanzitutto per dare dignità alle migliaia di morti che Bergamo e la sua provincia
hanno pagato in tributo ad una “ragione economica” cieca, sorda e soprattutto spietata (+464% dei
decessi nel 2020 rispetto alla media degli anni precedenti, l’incremento più alto al mondo). Un
modello tristemente noto, quello che contrappone la salute al lavoro, e che abbiamo visto già altre
volte applicato e promosso nel nostro Paese, e che io, da tarantino, ahimè, conosco troppo bene.

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“Terni, 10 Marzo 2023”: un corto che ci
ricorda, con ironia ed amarezza, a cosa ci
porterà l’astinenza da cultura
Una schermata nera ci avvisa con un cartello, come nel film Halloween di John Carpenter, dove
siamo ed in che anno: Terni, 10 marzo 2023, subito seguito da una seconda scritta che recita
Tredicesimo Lockdown, il tutto scandito da una musica dal ritmo martellante e spiccatamente
ansiogena. Un ragazzo con la mascherina si aggira, con fare circospetto, per la periferia di una città
deserta, il cui silenzio è squarciato solo dal suono delle sirene che ben si armonizza con la musica
extradiegetica in sottofondo. I colori sono freddi, verrebbe da dire plumbei. Ma ciò che cattura il
nostro interesse è la voglia di scoprire dove il ragazzo sia diretto.

La nostra curiosità è presto soddisfatta: ad un certo punto in un seminterrato, in un garage
condominiale, il ragazzo raggiunge il suo interlocutore, anche lui con la mascherina, con il quale
intraprende il classico dialogo fra spacciatore e cliente. Ecco, ci siamo, ecco l’ennesimo video sul
degrado delle nostre periferie, sul problema della droga, sul problema delle piazze di spaccio,
insomma una scena da Gomorra “de noi altri”, senza gli stessi mezzi cinematografici, le stesse
risorse economiche e gli stessi attori, come Marco D’Amore e Salvatore Esposito.

Ed invece no!
Perché proprio adesso, al 40° secondo, questo piccolo cortometraggio svolta, con il classico “colpo
di scena” che più inaspettato di così non poteva essere. Perché lo scambio di “roba” non riguarda
la droga ma un’altra cosa altrettanto “stupefacente”, i libri. Infatti la “roba colombiana” proposta
al cliente dallo spacciatore è “Cent’anni di solitudine” del Premio Nobel, appunto colombiano,
Gabriel García Márquez. Ed è qui che il corto si sviluppa secondo il suo vero arco narrativo, che
non vi vogliamo spoilerare oltre, per non togliervi il piacere di vederlo.

Il messaggio, molto forte, di questo geniale corto di 2 minuti e 45 secondi (ed è di questo che
vogliamo parlare) è che in un futuro distopico e dispotico la fame di cultura sarà così tanta da
causare non solo problemi di astinenza, ma probabilmente anche quelli relativi alla nascita di un
mercato nero, clandestino, della cultura, dove libri, film e spettacoli teatrali verranno scambiati
come la marijuana, la cocaina o LSD.

Vi sembra inverosimile???

La solita esagerazione di un gruppo di irriducibili intellettuali italiani,
che vogliono farci credere che la cultura sia un bene primario come
l’acqua ed il cibo???

No, non è così!
Perché se è vero che dietro questo geniale e godibilissimo cortometraggio si trova un collettivo di
animatori ed operatori culturali, l’idea originale dello script appartiene ad un corto francese di
qualche mese prima, realizzato da Hugues Duquesne e Kader Nemer dell’associazione “Contre
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