64 CARTOLINE CONTRO L'OCCUPAZIONE - Cineforum del Circolo
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64 i quaderni del cineforum Marcello Perucca CARTOLINE CONTRO L’OCCUPAZIONE Viaggio nel cinema palestinese
Marcello Perucca CARTOLINE CONTRO L’OCCUPAZIONE Viaggio nel cinema palestinese CIRCOLO FAMILIARE DI UNITÀ PROLETARIA CINEFORUM DEL CIRCOLO Gennaio - Febbraio 2019
Introduzione O rmai da qualche decennio, al cinema, vengono proposti film ambientati in Palestina e che evidenziano i vari problemi che affliggono quella terra in cui, ormai da 70 anni, si sono radicati forti contrasti fra ebrei immigrati e popolazione araba locale. Una conflittualità esacerbata dalle politiche espansionistiche dei vari governi israeliani – e dal mondo occidentale - che mai hanno riconosciuto il diritto ai palestinesi di vivere in uno stato proprio, nonché dalla costruzione di un muro della lunghezza complessiva di oltre 700 km che costringe la popolazione araba a vivere in una vera e propria prigione a cielo aperto. È comprensibile come, in siffatte condizioni, fare film per i registi palestinesi sia un’impresa eccezionale, limitati come sono nei movimenti e dai ridotti budget a disposizione. Fortunatamente di Palestina hanno trattato anche cineasti di altri nazioni. Spesso si tratta di registi israeliani come, ad esempio, Uri Barbash (Oltre le sbarre, 1984; Terra di conquista, 1987), Eran Riklis (Il giardino di limoni, 2008), Amos Gitai ( Guerra e pace a Vesoul, 1997, realizzato con il regista palestinese Elia Suleiman; Freezone, 2005), Ari Folman (Valzer con Bashir, 2008). Ma anche filmaker di altre nazioni hanno sentito l’esigenza e il dovere di documentare, con opere di fiction o documentari, il dramma della Palestina e del suo popolo. In un elenco per nulla esaustivo vanno citati, fra gli altri, gli italiani Saverio Costanzo (Private, 2004), Pippo Delbono (Guerra, 2004), Stefano Savona (Piombo fuso, 2009), Maurizio Fantoni Minella (Caos totale, 2010; Il lato d’ombra, 2011; Ad est di Gerusalemme, 2011), Marco Proserpio, con il suo reentissimo L’uomo che rubò Banksy, 2018; il libanese Ziad Doueiri (L’insulto, 2017) o lo statunitense Oliver Stone che, con Persona non grata (2003) ha realizzato un ritratto dello storico leader palestinese Yasser Arafat Ma è nel 2002, con ancora in corso la seconda Intifada, che il cinema palestinese fatto da palestinesi, è assurto agli onori della cronaca. Quando cioè il film Intervento divino, di Elia Suleiman, ottenne la nomination all’Oscar come miglior film in lingua straniera. Purtroppo l’Academy (Academy of Motion Picture Arts and Sciences, cioè l’organizzazione statunitense che seleziona i film candidati all’Oscar e assegna i premi) rifiutò la candidatura in quanto, secondo la motivazione ufficiale, vengono accettati solo film “provenienti da paesi riconosciuti come Stati dall'ONU”. La stessa Academy, nel 2006, ha accettato come candidato alla “statuetta” per miglior film straniero Paradise Now, di Hany Abu-Assad, regista palestinese nato a Nazareth e di passaporto israeliano. Paradise Now non ha vinto l’Oscar, ma è comunque stato acclamato a livello internazionale vincendo numerosi premi – fra cui un Golden Globe – e rendendo visibile una cinematografia che, per i motivi sopra esposti, aveva e ha tutt’ora enormi problemi di visibilità. Quella della visibilità è, forse, la maggior preoccupazione dei cineasti palestinesi. Infatti, come scrive lo studioso Edward Said, nell’introduzione al saggio sul cinema palestinese “Dreams of a Nation” di Hamid Dabashi, 2006, “Tutta la storia della lotta palestinese ha a che fare con il desiderio di essere visibili”. È con questa aspirazione che può essere spiegato come, negli ultimi vent’anni, a partire dal 2000, ci sia stato una nuova ondata di cineasti che hanno permesso al mondo di conoscere una cinematografia così radicata nella propria terra che mostrava, in svariati modi e temi, le problematiche che, a patire dal 1948, anno della nascita ufficiale dello Stato di Israele – e di 3
i quaderni del cineforum 64 conseguenza della Nakba, cioè l’esodo forzato dei palestinesi espulsi dalle loro terre – affliggono questo lembo di terra affacciato sul Mediterraneo. Ma il cinema palestinese, per quanto minoritario nel panorama mondiale, era già presente da anni, anche se in Europa – e in particolare in Italia dove tuttora i film palestinesi stentano ad avere un mercato – prima del nuovo millennio difficilmente ha trovato spazio. È possibile individuare alcuni periodi distinti nella cinematografia palestinese. In “Palestinian Cinema. Landscape, Trauma and Memory” di Nurith Gertz e George Khleifi, saggio del 2008), ne vengono individuati quattro. Il pri- mo va dal 1935 al 1948, anno della Nakba (letteralmente la Catastrofe). Il secondo che va dal 1948 al 1967, che gli autori chiamano “L’epoca del silenzio”, nel quale nessun film palestinese è stato prodotto. Un terzo, dal 1968 al 1982, dopo la Guerra dei Sei Giorni e l’occupazione di Gaza e della Cisgiordania, con film prodotti per lo più in esilio e l’ultimo che arriva sino ai giorni nostri a partire dall’invasione del Libano da parte di Israele e i massacri di Sabra e Shatila da parte delle Falangi e di milizie libanesi con la complicità dell’esercito israeliano. Forse, a questi quattro periodi chiave, ne andrebbe aggiunto un quinto a partire dal 2000, anno della seconda Intifada, che ha visto la realizzazione di numerosi film con una profonda connotazione politica. Si tratta di film di finzione o di documentari che, in molti casi hanno varcato i confini palestinesi approdando in Occidente sia nel mercato cine- matografico ufficiale (e come abbiamo visto, in vari Festival in giro per il mondo), sia in circuiti alternativi. Al di là del loro valore qualitativo (come tutti i film possono essere più o meno riusciti), rappresentano in ogni caso un modo per dare visibilità a un popolo in lotta, che alcuni vorrebbero scomparisse. In realtà definire un film come palestinese non è facile, per la natura apolide di un cinema che rappresenta 9,7 mi- lioni di palestinesi sparsi per il mondo (è stimato come il 74% dei palestinesi viva all’estero). Il regista nato a Beirut ma di origini palestinesi Omar al-Qattan definisce “palestinese ogni film impegnato con la Palestina”. Da questo punto di vista potrebbe essere definiti “palestinesi” anche film realizzati da registi di tutt’altra origine. Tuttavia in questa breve rassegna si è preferito dar voce a registi nati in Palestina o, comunque di origine palestinese. Verranno pertanto presentati quattro lungometraggi di fiction che affrontano in maniera diversa lo stesso tema: quello della difficoltà dei palestinesi a vivere nella propria terra e ad uscirne come cittadini liberi. Ogni film sarà preceduto da interventi di esperti in questioni palestinesi che porteranno un valido contributo alla comprensione di ciò che la Palestina sta vivendo. Aprirà la rassegna Paradise Now di Hany Abu-Assad (2005), film drammatico che narra le ultime 48 ore di due gio- vani abitanti di Nablus che hanno scelto di sacrificare la loro vita per la Palestina diventando kamikaze. A seguire l’ultimo film di Elia Suleiman Il tempo che ci rimane (2009) che, utilizzando un registro comico e grottesco, realizza un excursus, suddiviso in quattro parti, della storia palestinese dal 1948, anno della proclamazione dello Stato di Israele, ai giorni nostri. Giraffada, di Rani Massalha (2013) narra in maniera delicata attraverso la vicenda di Yacine, veterinario allo zoo di Qalqilya in Cisgiordania, e di suo figlio Ziad, la difficoltà della vita in quelle zone. Successivamente, ancora un film di Hany Abu-Assad, The Idol (2015), che ambienta la vicenda nella povertà di Gaza. Ispirato alla vera storia di Mohammed Assaf, giovane cantante palestinese che riuscì a uscire rocambole- scamente dalla Striscia per andare in Egitto a partecipare alla seconda edizione dell’Arab Idol, famoso concorso canoro dei paesi arabi. Chiuderà la rassegna una serata dedicata ai cortometraggi di artisti vari provenienti dal Palestine Short Film Festi- val. Alle origini del cinema palestinese Il cinema palestinese prima di Al-Fatah Se la nazionalità di un film venisse determinata esclusivamente in base al luogo d’origine del suo autore, si po- trebbe affermare che il secondo lungometraggio prodotto in un paese arabo – e il primo realizzato in Egitto - sia stato palestinese: Un bacio nel deserto (Qubla fi al-sahra), diretto dai fratelli Lama e presentato al cinema Cosmograf di Alessandria il 5 maggio 1927. Infatti solo qualche mese dopo - precisamente il 16 novembre – ebbe luogo la proiezione di Layla, il film cui la critica egiziana attribuisce il merito di aver aperto la storia della cinematografia na- zionale. I fratelli Lama non fecero ritorno al paese d’origine ed è pertanto impossibile attribuire loro una qualsiasi paternità sul cinema palestinese, per risalire alla nascita del quale occorre avvalersi della testimonianza di un regista iracheno, Qasim Hawal. Egli ricorda: 4
i quaderni del cineforum 64 Nel corso delle ricerche che avevo compiuto sulle origini del cinema palesti- nese avevo potuto appurare che uno dei primi nomi che compari- vano nelle cronache cinematografiche locali era quello di Muhammad Salih al-Kaiyaly, un operatore che pareva avesse realizzato un cortometraggio negli anni Quaranta ed un altro film sull’Esercito di Liberazione della Palestina (Jaish al-tahrir al-Filastini) agli inizi degli anni Sessanta. In mancanza di precisi riferimenti sulle modalità produttive e le strutture con le quali al-Kaiyaly aveva realizzato i propri filmati, non mi era stato possibile approfondirne la figura e l’opera. Nel marzo del 1974, avendo Ibrahim Hasan Sarhan. Primo filmaker palestinese iniziato a lavorare ad un progetto cinematografico con alcuni palestinesi, mi recai per una proiezione nel campo profughi di Shatila, non lontano da Beirut, dove ebbi occasione di conoscere Ibrahim Hasan Sarhan – classe 1916 - che sapevo essere stato regista e operatore. Entrando nella sua abitazione, fui attratto da una foto appesa ad una parete. Essa ritraeva un uomo intento a studiare, attraverso il mirino di una cinepresa, un’inquadratura. Attorno alla testa dell’operatore era chiaramente visibile un auricolare. Fu in quel momento che ebbi l’intuizione di essere arrivato al punto essenziale della mia ricerca storica e di aver probabilmente individuato colui che aveva dato origine alla cinematografia palestinese. Ibrahim Hasan Sarhan ebbe il primo approccio col cinema nel 1935, quando il Re dell’Higiaz - l’attuale Arabia Saudita - visitò la Palestina e il viaggio venne filmato lungo il percorso che conduceva da al-Lidd a Tal Abib (Tel Aviv) attraverso Yaffa. Alle riprese assistette anche un testimone, al-Haj Amin al-Husaini, che indicò a Sarhan quali avrebbero dovuto essere i momenti da documentare: i banchetti, le passeggiate e gli incontri con la popolazione. Il Alm venne presentato dapprima nel corso di una festa a Robin - una località di villeggiatura – quindi al cinema Amir di Tal Abib. Poiché si trattava di un film muto - prosegue Hawal nella descrizione dell’incontro con Sarhan -, il regista mi spiegò che ne aveva accompagnato la proiezione con musiche riprodotte da un grammofono. Venni inoltre a sapere che il girato durava 20 minuti e che era stato realizzato con una cinepresa a molla del costo di 50 dinari. La cosa dispiaceva ancora a Sarhan, il quale avrebbe preferito lavorare con un apparecchio a batteria per ottenere un ritmo più costante di ripresa. L’operatore - per propria ammissione - non era a conoscenza delle decisioni che il Congresso Ebraico Internazio- nale aveva assunto a Basilea nel 1897 circa l’utilizzo del mezzo cinematografico per propagandare il diritto ebraico alla Palestina. Sarhan si rese tuttavia conto - aggiunge Hawal - che gli ebrei giunti in città si preoccupavano soprattutto di riprendere le strade sporche e i bambini vestiti con indumenti consunti e che i film da essi realizzati, alternando riprese di terreni incolti con sequenze in cui veniva- no mostrati coloni al lavoro, sottolineavano la produttività dei nuovi insediamenti ed ignoravano quanto veniva quotidianamente svolto dalla popolazione palestinese. Fu proprio per contrastare la tendenziosità di queste immagini che l’operatore decise di specializzarsi nel documentario. Sarhan, dopo il cortometraggio del 1935, realizzò agli inizi degli anni Quaranta un filmato di 45 minuti dal titolo Sogni avverati. In precedenza egli aveva ricevuto da alcuni ebrei residenti in Palestina l’offerta di dirigere film veri e propri. Benché l’idea lo avesse affascinato, rifiutò, perché diffidava dell’inesperienza di un gruppo di mercanti, i quali probabilmente avrebbero utilizzato il suo mestiere più per realizzare guadagni immediati che per dare vita ad una struttura produttiva vera e propria. E precisava che non aveva voluto assecondare le opinioni politiche di chi favoriva il permanere in Palestina di una situazione di gravissima tensione. Dopo la realizzazione di Sogni av- verati, Sahran aprì uno studio professionale e col materiale girato in occasione della sua inaugurazione montò un documentario che venne proiettato al cinema Faruq di Gerusalemme per due settimane. Il regista, che conosceva anche la tecnica di laboratorio e possedeva l’attrezzatura per lo sviluppo, realizzava abitualmente i propri film con velocità impressionante. In occasione della visita a Gerusalemme e Yaffa di un membro del Consiglio superiore arabo - il Pascià Ahmad Hilmi - Sahran fu in grado di ultimare le riprese alle quindici e di presentare il filmato alle diciotto presso il cinema al-Hamra. Col ricavato della vendita di quella pellicola - circa trecento sterline pale- stinesi - acquistò una moviola più perfezionata. Fu in quel periodo che si fece strada nella mente di Sarhan l’idea di trasformare lo studio che possedeva in un più grande e moderno stabilimento cinematografico. Il progetto 5
i quaderni del cineforum 64 venne finanziato attraverso l’emissione di titoli che furono acquistati in breve tempo da circa duemila azionisti e attraverso la costituzione della Società araba del cinema. La struttura che ne derivò immediatamente - lo Studio Palestina - venne riconosciuta dalle autorità britanniche e registrata a Gerusalemme. L’attività della nuova società di produzione si concretizzò nella realizzazione di due lungometraggi: Nella notte della festa, un film comico nel quale vennero impiegati alcuni semplici effetti speciali, e Tempesta in casa. Con lo scoppio della guerra del 1948 Sarhan fu costretto a sospendere l’attività e a rifugiarsi in Giordania, paese nel quale prese parte alla realizzazione del film Lotta a Jarash (Sira’un fi Jarash, 1957-l958), opera con cui concluse la propria parabola professionale. Il film, che narrava le disavventure di un turista alle prese con una banda di malfattori, poté essere proiettato in pubblico grazie al personale interessamento di Re Hussein. Tuttavia sull’attribuzione a Sarhan della piena paternità del film gli storici del cinema non sono concordi: mentre le dichiarazioni rilasciate dallo stesso cineasta palestinese a Qasim Hawal farebbero concludere che l’anziano operatore sia stato il regista del primo film giordano, i titoli di testa del film segnalano che l’autore di Lotta a Jarash sarebbe Wasif al-Shaikh Yasîn e che Sarhan avrebbe preso parte al film in qualità di operatore. Il nuovo cinema palestinese Gli anni intercorsi tra la nascita dello Stato ebraico (1948) e la costituzione di al-Fatah (1º gennaio 1965) non regi- strarono pressoché alcuna attività cinematografica. Agli inizi del l968 venne creata ad Amman, sotto l’egida della stessa al-Fatah e per volontà di Hanî Jawhariya, Sulafa Jadallah e Mustafa Abu Ali, l’Unità del cinema palestinese (Wihdat Aflam Filastin). L’organismo, dotato di scarsissimi mezzi, all’inizio si specializzò in reportage fotografici. La prima produzione cinematografica dell’Unità fu La terra bruciata (1968), un documentario sugli attacchi militari israeliani nella regione di al-Aghwar. Nel 1969, dopo aver esposto una serie di immagini relative alla battaglia di Karama, il collettivo cinematografico di al-Fatah diresse No alla resa (La li al-hai al-silmi), il film che sancì ufficial- mente l’atto di nascita della cinematografia palestinese. Nel settembre del 1970 l’UCP riuscì a documentare, grazie alle riprese di Hanî Jawhariya, i massacri perpetrati dall’esercito giordano. Il materiale, mostrato da Yasser Arafat alla riunione dei Capi di Stato del Cairo, provocò profonda emozione e venne montato da Mustafa Abu Ali sotto il titolo di Con l’anima e col sangue (Bi al-ruh bi al-dam). Il film ottenne il premio per il miglior documentario alla prima edizione del Festival del Cinema Giovane di Damasco (1972), prima pellicola palestinese citata dalla stampa all’in- terno di una manifestazione a carattere internazionale. Nel l971 l’Unità cinematografica si trasferì a Beirut, dove ebbe la possibilità di incrementare le proprie attrezzature tecniche. L’anno successivo anche la sezione culturale dell’OLP cominciò a produrre film e nel 1973 il collettivo cinematografico di al-Fatah dette vita al Gruppo dei cineasti palestinesi (Jama’at al-sinima al-Filastinia), struttura produttiva che aderì al Centro di ricerche palestinesi (Markaz al-abhath al-Filastinia) e che ereditò le diverse espe- rienze compiute fino a quel momento dai vari organismi cinematografici operanti dal l965 in poi. Il GCP non diresse tuttavia che un film, Scene di occupazione a Gaza (Mashahid min al-ihtilat fi Ghaza) di Mustafa Abu Ali. Nel 1974 diede origine a un’ulteriore struttura: l’Organizzazione del cinema palestinese. Nel 1975, dopo dieci anni di attività, erano stati realizzati 35 film (di cui 19 dall’Unità del cinema palestinese, 5 dal Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, uno dalla fazione di George Habash, 5 dalla sezione culturale dell’OLP, 3 dal Fronte Democratico di Liberazione della Palestina, uno dal Gruppo del cinema palestinese e un altro dalla Samed Produzioni). Nel 1979, anno in cui diede vita all’Istituto del cinema palestinese, Mustafa Abu Ali affermava che non era possi- bile racchiudere l’esperienza cinematografica del movimento di liberazione della Palestina in una semplice defini- zione geografica, poiché tutto il cinema che documentava quell’esperienza di lotta poteva essere a giusta ragione definito palestinese. L’affermazione di Abu Ali non conteneva esclusivamente una valutazione politica, ma si ba- sava soprattutto sull’osservazione del carattere cosmopolita del cinema palestinese: una caratteristica di fondo che si sarebbe ulteriormente accentuata negli anni successivi. Alla crescita di questa cinematografia non contribuirono solo i cineasti palestinesi. Momenti importanti della sua storia furono scritti non solo da registi arabi – l’egiziano Tawfîq Salih, il libanese Burhan Alawiya, gli iracheni Qa- sim Hawal e Qais al-Zubaydi, i siriani Khalid Hamadah, Muhammad Shahin, Marwan Mud’in, Nabil al-Malih -, ma anche da registi occidentali (Jean-Luc Godard tra gli altri). Su questo cinema di intervento e di lotta si ritiene opportuno citare una sintesi autorevole: 6
i quaderni del cineforum 64 Il cinema palestinese può essere ricondotto a tre componenti essenziali: 1) i cinegiornali. Fin dall’inizio il cinema palestinese si è concentrato sugli avvenimenti per registrarli, commentarli ed analizzarli nei loro mutamenti e nella loro evoluzione. In rapporto alla rivoluzione palestinese i fatti più importanti sono stati: il piano Rogers del 1969 e le sue conseguenze, la repressione del 1970 in Giordania, i bombardamenti selvaggi dei campi profughi del 1972 e del 1974 e gli assalti militari israeliani nel Libano meridionale (1971) e a Kafr Kuba (1974). La maggior parte delle testimonianze filmate sugli avvenimenti del periodo sono state realizzate dall’organismo del cinema palestinese mediante la produzione di cinegiornali; 2) i documentari, che possono a loro volta essere suddivisi in due ulteriori filoni: a) le produzioni basate sull’utilizzo parziale o totale di materiale d’archivio (Tutto va bene, una produzione siriana, Scene d’oc- cupazione a Gaza, La Palestine vaincra, una produzione francese, e Storia di Sarhan, libanese); b) i filmati riguardanti le fasi della lotta di liberazione e gli aspetti della vita del popolo palestinese nelle basi militari e nei campi profughi: La vita al campo di Nahr al-barid, Le nostre piccole case, (due film realizzati dal FPLP), Lontano dalla patria e Perchè?, prodotti rispettivamente in Siria ed in Egitto. Bisogna inoltre citare i film realizzati in base a illustrazioni o canzoni: Ricordi e fuoco, La chiamata urgente (prodotti dalla sezione culturale dell’OLP) e Testimonianze di bambini al momen- to della guerra (realizzato in Siria); 3) i film di fiction. Se si eccettua Sanaud, coprodotto dall’OLP e dall’ONCIC algerino nel 1973, i film di fiction sono tutte rea- lizzazioni arabe non palestinesi: Gli ingannati di Tawfiq Salih (Egitto), Kafr Qasim di Burhan Alawiya (Libano) e Ombre sull’altra riva di Ghalib Sha’ath. A partire dalla metà degli anni Ottanta la maggior parte della produzione palestinese è stata realizzata attraverso l’Istituto del cinema palestinese – riorganizzato a Tunisi nel 1987 - e la sezione cinematografica del Dipartimento cultura dell’OLP, attiva nella capitale tunisina dal 1985. Tra i titoli di maggior rilievo realizzati in questo periodo hanno un’importanza particolare i seguenti: Il sogno (1986) del siriano Muhammad Malas, mediometraggio di fi- ction sulle aspirazioni dei profughi che vivevano nei campi libanesi prima dell’invasione israeliana del 1982; Cronaca di un popolo (1988) di Qais al-Zubaydi, documentario dedicato alla storia del popolo palestinese dall’inizio del seco- lo agli anni Settanta; Il cinema documentario in Palestina di George Khlaifi e Ziad al-Fahum, cronaca del primo anno d’Intifada; Il pessi-ommista (1990) di Muhammad Bakri, un efficace one-man show del celebre interprete del film israeliano Oltre le sbarre di Uri Barbash; e Hanna K di Costa-Gavras, tratto dall’omonimo romanzo di Emile Habibi. Nell’ambito delle produzioni palestinesi realizzate all’estero assume un rilievo particolare l’opera di Michel Kh- leifi, una delle figure più rappresentative del cinema palestinese degli anni Ottanta. Nato a Nazareth nel 1950, ha compiuto gli studi a Bruxelles, diplomandosi all’INSAS nel 1977. Khleifi ha esordito nel lungometraggio con La memoria fertile (Al-dhajira al-khisa, l980), nel quale ha affrontato il tema dei rapporti culturali e affettivi che le- gano le diverse generazioni di esiliati alla madrepatria. Attraverso la descrizione del viaggio di ritorno in Palestina di due don- ne – un’operaia e una scrittrice - il regista fornisce non solo un’acuta testimonianza dell’oppressione cui è soggetto il popolo palestinese ma anche un’appassionata ana- lisi della condizione femminile nel mon- do arabo. Il suo secondo lungometraggio, Nozze in Galilea (Urs fi al-Jalil), presentato con successo alla Quinzaine des réalisat- eurs nel 1988, è una commossa e vibrante riflessione sulle difficoltà di realizzare nei territori occupati la pacifica coesistenza di arabi ed ebrei. Il terzo, Il cantico delle pietre Il regista Michel Khleifi 7
i quaderni del cineforum 64 (Nashid al-hajar), 1990), è un ulteriore con- tributo ai temi della lotta di liberazione del popolo palestinese. Michel Khlaifi ha ulti- mato nel 1993 il suo quarto lungometrag- gio: L’ordine del giorno (Jadwal amal). Il cinema palestinese, nell’arco degli oltre vent’anni della propria vita, ha dovuto af- frontare numerosi problemi. I risultati, non sempre positivi, debbono essere inter- pretati alla luce delle specifiche condizioni in cui esso si è formato. In primo luogo occorre sottolineare l’effetto che la stessa diaspora palestinese ha avuto sullo svilup- Una scena tratta dal film Gli ingannati, di Tawfiq Salih po di questa cinematografia, dati i conti- nui spostamenti da un paese all’altro a cui sono state costrette istituzioni e strutture. Al cinema palestinese sono mancati gli elementi di base per la creazione di una rete produttiva e distributiva e per la costituzione di un circuito di sale vere e proprie. Per di più ha risen- tito - e risente tuttora – delle tensioni politiche che il dramma vissuto dalla popolazione palestinese ha creato sia all’interno che all’esterno del mondo arabo. Nello stesso tempo si è potuto giovare di alcune condizioni favorevoli: la coerenza con cui i cineasti palestinesi si sono applicati al cinema di diretta documentazione sociale e lo stretto rapporto venutosi a creare tra i cineasti stessi e le popolazioni dei campi. Più in generale il terreno arduo e contrad- dittorio della “questione palestinese” ha formato gran parte dei documentaristi arabi contemporanei e l’esperienza che alla cinematografia palestinese è derivata dalla lunga consuetudine all’osservazione e alla documentazione del reale ha fornito loro la struttura portante. La lezione realista impartita dal conflitto palestinese ha investito anche il cinema di fiction, fornendo ad esso non solo soggetti di estremo interesse, ma anche l’esatta chiave metodologica per coglierne i dati essenziali. I migliori lungometraggi dedicati alla questione palestinese - Gli ingannati di Tawfiq Salih, Kap Qasim di Burhan Alawiya e Il ritorno in patria di Qasim Hawal - hanno infatti saputo coniugare gli elementi drammaturgici propri della narrazione di fiction ad una solida intelaiatura realistica mutuata da un’attenta analisi della situazione presa in esame. La natura essenzialmente politica della cinematografia palestinese non ha tuttavia soddisfatto le aspirazioni dei suoi cineasti. Al contrario, essi hanno manifestato in più occasioni il desiderio di assumere funzioni più complesse e di elaborare progetti linguisticamente più raffinati. Le dichiarazioni rilasciate dal regista Jibril Awad nel corso di una tavola rotonda promossa nel 1988 dalla rivista “al-Alam” esemplificano chiaramente queste posizioni: Senza dubbio il cinema palestinese, soprattutto a partire dagli inizi degli anni Settanta, ha svolto una funzione molto importante ed ha raggiunto un prestigio internazionale non indifferente. Tuttavia esso deve ancora giungere ad un livello sufficientemente alto di maturità linguistica ed è ancora prigioniero dello stile proprio dell’argomentazione politica. La realtà palestinese è molto ricca e complessa ed il cinema, rivolgendosi ad essa, deve essere in grado di coglierne i diversi aspetti e di ricavarne trame ed argomenti in cui l’elemento estetico si sposi con la riflessione propriamente politica. Il cinema deve impegnarsi affinché al popolo palestinese siano restituiti i diritti perduti e pretendere di allinearsi ad un più alto livello espressivo. Jibril Awad traeva spunto dal dibattito sul ruolo del cinema nella società palestinese per osservare che nel mondo arabo i programmi culturali hanno sempre rincorso i progetti politici. Ad ogni manifestazione involutiva del sistema politico ha puntualmente corrisposto un grave fenomeno di riflusso culturale. Il cineasta palestinese ha vissuto in prima persona questo conflitto ed ha dovuto convivere non solo con i meccanismi censori messi in atto dai regimi autoritari presenti sulla scena politica araba, ma anche con il diffuso scetticismo di chi rifiuta di assegnare alle manifestazioni della cultura e dell’arte il giusto rilievo. In molti paesi arabi il cinema palestinese è stato - ed è tuttora - considerato uno strumento di sovversione politica ed al cineasta che ne è portavoce è stato concesso un tasso di libertà che variava sulla base degli equilibri tattici del momento. Queste condizioni non ci hanno mai impe- dito di affrontare gli argomenti che avevamo scelto; hanno in determinati momenti semplicemente impedito che la classe politica araba spontaneamente ci offrisse l’opportunità di trattarli. 8
i quaderni del cineforum 64 Il cinema palestinese non ha trovato avversari solo all’esterno. Spesso le conseguenze del clima politico generale sono ricadute sulla società palestinese con effetti ancora più gravi: il dialogo tra la rappresentanza politica palesti- nese ed i cineasti ha subito bruschi contraccolpi. Adnan Madanat, uno dei più autorevoli critici giordani ed esperto di cinema palestinese, ha in varie occasioni dichiarato che in realtà il cinema palestinese, fin dalle origini, ha dovuto sempre faticosamente difendere la propria autonomia dall’invadente tutela dei rappresentanti politici. Ai registi che cercavano di ottenere finanziamenti venivano richieste precise garanzie e soprattutto si ingiungeva loro di praticare esclusivamente la strada del documentario. Il controllo politico sul cinema palestinese -prosegue Madanat - si è esteso anche a questa forma di rappresentazione ed in diverse occasioni si è giunti alla situazione paradossale per cui era comunque assai arduo realizzare un progetto cinematografico, documentario o di fiction che fosse. Per concludere questo veloce excursus sulla cinematografia palestinese occorre riportare l’opinione, condivisa da parte della critica araba, secondo cui una delle vittime più illustri della censura operante in numerosi paesi arabi è stato proprio il cinema palestinese. Impedendo al pubblico di accostarvisi, è stata minata alla base la sua autonomia produttiva. In questo modo il cinema palestinese non solo non ha potuto creare le giuste opportunità di autofinan- ziamento, ma è stato emarginato persino dagli stessi circuiti culturali; con il risultato che neppure i critici hanno potuto conoscerlo in profondità ed hanno finito col dimenticare che esso non si limitava agli aspetti puramente cronachistici della documentazione sociale. Jean Alexan, Il cinema nel mondo arabo, Consiglio Nazionale della Cultura, delle Arti e della Letteratura - Ministero della Cultura, Kuwait City, 1982, pag. 26 (pubblicazione in lingua araba). Qasim Hawal, Il cinema palestinese, Dar al-Hadaf e Dar al-Anda, Beirut, 1979, pag. 9 (pubblicazione in lingua ara- ba). Jean Alexan, Il cinema nel mondo arabo, Consiglio Nazionale della Cultura, delle Arti e della Letteratura - Ministero della Cultura, Kuwait City, 1982, pag. 208 (pubblicazione in lingua araba). Hassan Abu Ghanima, Le cinéma palestinien, dossier pubblicato a cura della Cinémathèque Francaise e della Cinémathèque Algérienne, Algeri, 1976. Per quanto riguarda i film arabi che hanno trattato più o meno diretta- mente la questione palestinese, Abu Ghanima ha successivamente pubblicato una filmografia composta di 220 titoli (cfr. Guy Hennebelle, Khemais Khayati, a cura di, La palestine et le cinéma, E 100, Paris, s.d., pp. 243-272) “Al-Alam” (tavola rotonda a cura della redazione di), Il cinema palestinese: il cammino e gli ostacoli, 4 giugno 1988, pag. 50 (in lingua araba). Jibril Awad (intervento di) in “Al-Alam”, Il cinema palestinese. Il cammino e gli ostacoli (tavola rotonda a cura della re- dazione), cit., pag. 10 (in lingua araba). Testo tratto da: Andrea Morini, Erfan Rashid, Anna Di Martino, Adriano Aprà, Il cinema dei Paesi arabi, Venezia, Marsilio, l993, pagine: 165-174 Il cinema palestinese nel terzo millennio Secondo quanto scrive Maurizio Fantoni Minella nel suo saggio “Spezzare l’assedio – Il cinema del conflitto isra- elo-palestinese” (Zambon ed., 2013), se Nozze in Galilea di Michel Khleifi è considerato il capostipite della prima nuova fase del cinema palestinese iniziata verso la metà degli anni Ottanta del XX secolo, Paradise Now di Hany Abu-Abbas può rappresentare la pellicola che ha dato l’avvio a una nuova stagione della cinematografia palestinese negli anni 2000. Il film, realizzato nel 2005, racconta l’ultima giornata di due giovani abitanti di Nablus che hanno scelto la via dell’estremo sacrificio accettando di diventare kamikaze. Primo film palestinese candidato ufficialmen- te all’Oscar come migliore film in lingua straniera, Paradise Now è anche la prima opera di un regista palestinese a ottenere una buona distribuzione nei circuiti ufficiali del mondo occidentale e a riscuotere un discreto successo di pubblico. Sotto questo punto di vista Fantoni Minella ha ragione a considerare il film di Abu–Abbas come il punto di partenza della nuova fase del cinema palestinese. Anche perché il nuovo millennio aveva già visto importanti opere di altri cineasti palestinesi di un certo livello, ma tutte con scarsa o nessuna distribuzione anche se con buona visibilità nei festival. Pensiamo ad esempio al regista palestinese e cittadinanza israeliana Elia Suleiman che, nel 2002 con Intervento divino, 9
i quaderni del cineforum 64 vinse il Premio della Giuria al Festival di Cannes e venne poi selezionato per essere nominato all’Oscar, candidatura non anda- ta a buon fine in quanto, ufficialmente, la Palestina non era riconosciuta come stato dall’Onu (anche se per altri le motivazioni dell’esclusione furono di natura politica). Il film di Suleiman, qui al suo secondo lun- gometraggio, racconta con uno stile grot- tesco che a molti ha ricordato l’arte di Jac- ques Tati, indimenticato attore francese, la difficoltà quotidiana del vivere in Palestina, di sviluppare rapporti fra persone sepa- rate dai checkpoint presidiati dai militari israeliani. Una terra in cui la libertà viene raggiunta solo metaforicamente, magari con un palloncino con la faccia di Yasser Arafat che vola nel cielo, superando i posti di blocchi e planando sulla Spianata delle Moschee nel centro di Gerusalemme. Altri registi a partire dal 2000 hanno scritto capitoli importanti della storia del cinema della Palestina. Del 2002 è Ticket to Jerusalem In alto: Elia Suleiman in una scena tratta da Intervento divino; di Rashid Masharawi, regista e sceneggia- Sopra: i registi di Route 181 Michel Khleifi ed Eyal Sival tore di Gaza. Anche in questo caso il tema principale è quello della difficoltà di movi- mento in condizioni di segregazione. Nonostante il discreto successo riscosso fra il pubblico specializzato, il film di Masharawi ha avuto, da noi, una distribuzione tardiva e solo in home video, a riprova della scarsa attenzione che nel nostro paese viene data a questa cinematografia, con film che raramente escono al cinema e che, ancor più raramente, vengono immessi sul mercato dell’home video doppiati in italiano. Del 2004 è Route 181 – Frammenti di viaggio in Palestina-Israele, monumentale documentario della durata di oltre quattro ore realizzato a quattro mani dall’israeliano Eyal Sivan e dal palestinese Michel Khleifi. Il titolo del film fa riferimento alla risoluzione 181 con la quale l’Onu nel 1947 ha definito la divisione della Palestina in due stati, uno ebreo, l’altro arabo, con al centro una zona internazionale. Una frontiera virtuale che avrebbe portato a un conflitto lacerante che dura da oltre settant’anni. I due registi, nel 2002, hanno intrapreso un viaggio dal nord al sud del loro paese, tracciando sulla mappa il percorso e chiamandolo simbolicamente “Route 181”. Nel corso del loro viaggio incontrano uomini e donne, palestinesi e israeliani di ogni età, civili e militari, riprendendoli nella loro quotidianità. Ognuno di essi ha un modo proprio per evocare quel confine, che ha disegnato soprattutto un solco profondo nelle menti e nei cuori delle persone Nel 2008 Annemarie Jacir, con Il sale di questo mare è la prima donna palestinese a dirigere un lungometraggio. Il film ottiene un buon successo di critica a Cannes e in numerosi altri festival, senza però essere distribuito nel nostro pa- ese, dimostrando ancora una volta la scarsa lungimiranza dei nostri distributori. La Jacir si rifarà poi nel 2017 con la distribuzione nel normale circuito cinematografico del suo ultimo film, Wajib - Invito al matrimonio che vede, come protagonisti un padre e un figlio, rispettivamente interpretati da Mohammed e Saleh Bakri, padre e figlio anche nella vita reale. Un film incentrato sui contrasti (e sulla ricerca di un equilibrio): la contrapposizione fra tradizione e modernità, che si esplicita nel rapporto fra padre e figlio; un film sulle tensioni fra israeliani e palestinesi. Tutta la pellicola è permeata da questo dissidio, dalla prevaricazione di un popolo su un altro. Mohammed Bakri è una figura fondamentale della cinematografia palestinese. Personaggio di carisma, iniziò negli anni Settanta la sua carriera di attore teatrale per poi dedicarsi al cinema. È stato protagonista di numerosi film diretti da registi di varie nazionalità: israeliani, palestinesi, italiani ed europei, per poi diventare egli stesso regista nel 2002. Lo ricordiamo, ad esempio, in Hanna K. del regista greco Costa-Gavras (1983), in Oltre le sbarre, dell’israelia- 10
i quaderni del cineforum 64 no Uri Barbash (1984). In Italia ha lavorato con Saverio Costanzo in Private (2004) sull’occupa- zione militare della West Bank e Paolo e Vittorio Taviani, ne La masseria delle allodole, 2007. Ha in- terpretato numerosi film diretti da filmaker pa- lestinesi fra i quali Haifa (1996) e Il compleanno di Laila (2008) di Rashid Masharawi; Zindeeq (2009) di Michel Khleifi; le già citate pellicole dirette da Annemarie Jacir Il sale di questo mare e Wajib; Giraffada (2013) di Rani Massalha, film nel quale il protagonista è il figlio Saleh. Mohammed Ba- kri è considerato uno dei pochi attori palestinesi ad aver goduto di ampio successo sia in Israele sia in Palestina. A partire dal 1998 ha affiancato alla sua attività di attore anche quella di regista, esordendo dietro la machia da presa con 1948, documentario sull’esodo palestinese dopo la proclamazione dello stato di Israele e, successi- vamente girando Jenin, Jenin (2002), documenta- rio di denuncia dei crimini commessi dall’eserci- to israeliano durante l’attacco al campo profughi di Jenin in quello stesso anno, durante l’opera- zione denominata “Scudo difensivo”. In alto: Annemarie Jacir; Sopra: Mohammed Bakri Parlando di cinema che tratta temi legati alla questione israelo-palestinese, è impossibile fare a meno di citare film che, seppur diretti da registi non arabi, hanno uno sguardo solidale e di denuncia su quanto viene perpetrato sistematicamente ai danni della popolazione che abita la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Oltre ai già citati Hanna K. e Private è d’uopo accennare a Il giardino di limoni (2008) dell’israeliano Eran Riklis, che era assurto a fama internazionale qualche anno prima con La sposa siriana (2004). Nel Giardino di limoni la vicenda narrata, tratta da una storia vera, è quella della battaglia legale di una donna palestinese in difesa del proprio limoneto verso il Ministro della Difesa israeliano che, per ragioni di sicurezza, ne ordina l’abbattimento. Da segnalare ancora il documentario dell’italiano Stefano Savona Piombo fuso (2009), che filma l’esistenza quotidia- na degli abitanti della città di Gaza che, dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009, sono stati assediati con bombar- damenti a tappeto dall’esercito israeliano. Il regista italiano è riuscito, quasi per caso, a entrare nell’area con la sua telecamera verso la fine del massacro, raccontando con le immagini il dramma che la popolazione stava vivendo. Oggi il cinema con tematiche legate alla Palestina e al conflitto arabo-israeliano, si fa lentamente strada, pur se fra mille difficoltà, nella normale programmazione delle sale cinematografiche. Wajib - Invito al matrimonio è uscito l’an- no scorso, rimanendo in cartellone varie settimane. All’ultima edizione del Torino Film Festival è stato proiettato L’uomo che rubò Banksy, interessante documentario che il documentarista Marco Proserpio ha realizzato nel 2018 sull’iniziativa che il famoso street artist inglese Banksy ha intrapreso nella città di Betlemme, realizzando i suoi disegni sul muro di divisione eretto da Israele e su numerosi edifici privati. Prossimamente verrà distribuito Sarah & Saleem – Là dove nulla è possibile, prodotto dai fratelli palestinesi Alayan, Muayad nelle vesti di regista e Raimi in quelle di sceneggiatore. Piccoli segnali che fanno sperare che anche da noi il cinema palestinese, con le sue tematiche e le sue problemati- che, possa essere portato alla conoscenza del grande pubblico. 11
i quaderni del cineforum 64 Cronologia Fine XIX secolo: in seno alle comunità ebraiche europee e arabe. americane si sviluppa il Sionismo Moderno, che, prendendo 1920: trattato di pace di Sèvres fra Intesa e Impero Ottomano. spunto dalle teorie del giornalista Theodor Herzl, predica il ritorno Attraverso lo strumento dei mandati Francia e Gran Bretagna degli ebrei nella Terra Promessa, la biblica Israele. Inizia dunque si spartiscono il Medio Oriente: ai primi vengono assegnati un processo di immigrazione verso i territori della Palestina. Libano e Siria, mentre Palestina, Transgiordania e Iraq passano Nello stesso periodo, fra le popolazioni arabe soggette all’Impero agli inglesi. La dichiarazione Balfour viene inclusa nel trattato. Ottomano, nasce un movimento nazionalista che rivendica la Prosegue l’immigrazione ebraica in Palestina: nel corso degli liberazione e l’indipendenza degli arabi dalla Sublime Porta. anni Venti il numero di ebrei salirà di oltre il doppio. Nella sua declinazione panarabista esso prevede la creazione di 1929: rivolta araba in Palestina. Ritenendosi minacciati dal un unico Stato arabo dal Maghreb al Medio Oriente. sostegno britannico alla causa sionista e a seguito di un conflitto 1915: durante la Prima Guerra Mondiale l’Alto Commissario sulla gestione dei luoghi sacri a Gerusalemme, gli arabi danno britannico in Egitto, Henry McMahon, scrivendo ad al-Husayn inizio a tumulti che portano alla morte di centinaia di ebrei Ibn Ali, uno dei leader del nascente panarabismo e sharif della e musulmani. La rivolta culmina nel cosiddetto massacro di Mecca – di fatto il governatore – gli promette l’indipendenza di Hebron, in cui vengono uccisi più di 60 ebrei. tutti i territori abitati dagli arabi a conflitto concluso. In cambio Anni Trenta: con l’ascesa del nazismo in Germania aumenta Husayn si impegna a fomentare la rivolta contro gli ottomani, che fortemente l’immigrazione ebraica in Palestina. Gli ebrei passano avrà effettivamente inizio l’anno successivo. dal 23% nel 1931 ad essere quasi un terzo della popolazione 1916: accordo Sykes-Picot fra Regno Unito e Francia. Le totale agli inizi degli anni Quaranta. due potenze europee organizzano la spartizione dell’intero 1936: ha inizio la Grande Rivolta araba in Palestina. Con il Medio Oriente che avverrà alla fine della guerra. Tale accordo sostegno inglese gli ebrei immigrati avevano intrapreso un è ovviamente in contraddizione con quanto promesso l’anno massiccio acquisto di terre, cacciando e marginalizzando gli arabi precedente a Husayn. che le coltivavano in precedenza. I rivoltosi chiedono dunque 1917: il governo britannico rilascia la dichiarazione Balfour, con una limitazione dell’immigrazione ebraica e dell’acquisizione di la quale si rende disponibile a creare un “focolare nazionale terreni e soprattutto la fine del mandato britannico sulla Palestina. ebraico” in Palestina. Tale dichiarazione è frutto delle richieste del L’esercito inglese, sostenuto da alcune milizie ebraiche, riuscirà a movimento sionista inglese e probabilmente delle pressioni che reprimere la rivolta solo nel 1939, dopo che le autorità del Regno l’alta finanza ebraica americana stava compiendo sul governo Unito avranno emesso restrizioni all’immigrazione ebraica. americano per spingerlo a entrare in guerra a fianco dell’Intesa. 1945: nasce la Lega Araba. Essa riunisce Arabia Saudita, Egitto, La contraddittorietà e la voluta ambiguità sia delle promesse agli Transgiordania (dal 1946 Giordania), Iraq, Libano, Siria e Yemen. arabi sia della dichiarazione Balfour saranno fondamentali per Il suo obiettivo è una cooperazione, che almeno inizialmente è la nascita delle tensioni fra gli ebrei immigrati e le popolazioni caratterizzata da un’ideologia panarabista, ai fini della completa decolonizzazione e dello sviluppo dei paesi membri. 1947: il governo britannico dichiara che le sue truppe saranno ritirate dalla Palestina, ultima fra i mandati inglesi in Medio Oriente non ancora indipendente. Si conclude così un decennio di crescente tensione fra i coloni ebrei (spesso organizzati in milizie paramilitari) e il Regno Unito, che era stato sempre più restio a permettere l’immigrazione incontrollata, per non scatenare tensioni con i vicini paesi arabi di recente indipendenza. Dopo l’olocausto l’opinione pubblica occidentale – e in particolare quella 1948: Nakba: l’esodo palestinese americana, data la forza 12
i quaderni del cineforum 64 della sua comunità ebraica – guarda con favore alle istanze tutti gli eserciti invasori. sioniste, a tal punto da spingere l’ONU ad approvare un piano di La crisi di Suez aumenta notevolmente il prestigio di Nasser, che spartizione della Palestina in due stati, uno arabo e uno ebraico. diviene il principale portavoce degli interessi del mondo arabo. Il piano viene accettato dai sionisti guidati da Ben Gurion ma 1964: con il sostegno della Lega Araba nasce a Gerusalemme rifiutato dagli arabi della Palestina e dei paesi vicini. l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. All’atto di 1948: il 14 maggio, alla partenza delle truppe inglesi, Ben Gurion fondazione l’OLP si propone la liberazione della Palestina per proclama la nascita dello Stato di Israele. La dichiarazione di mezzo della lotta armata. Indipendenza afferma l’eguaglianza sociale e politica di tutti i 1967: guerra dei Sei Giorni. Dopo la richiesta di Nasser all’ONU cittadini, senza distinzione di religione, razza o sesso. In realtà di ritirare le truppe di stanza in Sinai lì dislocate dopo la crisi di Israele si configura immediatamente come uno Stato ebraico, che Suez e l’alleanza militare fra Egitto e Giordania, Israele sferra un dunque mira, a dispetto dei suoi principi fondativi, all’omogeneità violento attacco a sorpresa contro Egitto, Siria e Giordania. Dopo etnico-religiosa dei suoi abitanti. aver raso al suolo l’aviazione egiziana, l’esercito isreaeliano si Come immediata reazione la Lega Araba attacca il neonato impadronisce in brevissimo tempo dell’intera penisola del Sinai, Stato, ma viene inaspettatamente respinta dagli israeliani, che raggiungendo le rive del canale. Strappa inoltre la Cisgiordania e contrattaccano ed occupano numerosi territori assegnati agli Gerusalemme Est alla Giordania e le alture del Golan alla Siria. arabi con la risoluzione ONU del 1947. La guerra è un totale disastro per gli arabi e produce Fra il 1947 e il 1948 si compie la nakba (letteralmente “catastrofe”): conseguenze di vasta portata: oltre alla nuova ondata di profughi un milione di palestinesi lasciano la propria terra, e si rifugiano palestinesi, essa segna il declino di Nasser e del panarabismo, lo nei paesi vicini, venendo condannati a una condizione di perenne smarcamento dell’OLP rispetto alla politica dei paesi arabi e un povertà e precarietà. Anche molti ebrei da tempo residenti negli atteggiamento più moderato di alcuni Stati della zona, in primis Stati arabi sono costretti a emigrare, la maggior parte proprio la Giordania. La guerra dei Sei Giorni conferma inoltre l’assoluta verso Israele. superiorità bellica di Israele e la grande disorganizzazione degli 1949: gli armistizi fra Israele e i paesi della Lega Araba segnano eserciti arabi. un netto avanzamento del confine (provvisorio in linea di principio) 1969: Yasir Arafat, leader del partito Al Fath, assume la guida per lo Stato ebraico, che annette tutto il territorio della Palestina dell’OLP, che nello stesso periodo pone la sua base operativa in mandataria eccetto striscia di Gaza e Cisgiordania (controllate Giordania. Qui l’organizzazione assume un controllo territoriale rispettivamente da Egitto e Giordania). Gerusalemme, che tale da creare una sorta di Stato nello Stato, ponendo le premesse secondo la divisione del 1947 avrebbe dovuto essere corpus per uno scontro con la monarchia. separatum, viene divisa in due parti e occupata militarmente 1970: Settembre Nero. A causa delle frequenti incursioni dei dalle due fazioni. feddayn dell’OLP nei territori controllati da Israele e dei tentativi 1952: in Egitto l’esercito rovescia la monarchia e assume il dell’organizzazione di rovesciare la monarchia, il re giordano potere. Due anni dopo Gamal Abdel Nasser rimane l’unico Husayn, che dalla guerra dei Sei Giorni si era notevolmente leader del paese e dà inizio ad una politica riformatrice in senso avvicinato alle posizioni occidentali, scatena una dura offensiva socialista e di modernizzazione industriale. Nasser diventa fin contro i guerriglieri palestinesi. L’OLP è dunque costretto a da subito il principale portavoce del panarabismo, promuovendo riparare in Libano. Da questo momento opterà per azioni eclatanti, in politica estera una maggiore collaborazione dei paesi arabi come dirottamenti aerei e l’attentato contro gli atleti israeliani e una marcata indipendenza – anche economica – dalle ex nelle Olimpiadi di Monaco nel 1972 compiuto dall’organizzazione potenze coloniali. parallela Settembre Nero. 1956: Nasser, reagendo al ritiro dei finanziamenti occidentali per la costruzione della diga di Assuan, nazionalizza la compagnia che gestisce il canale di Suez, su cui inglesi e francesi hanno forti interessi. Come reazione Israele invade la penisola egiziana del Sinai, mentre Francia e Gran Bretagna occupano con le loro truppe la zona del canale. L’inaspettata ma ferma condanna di Stati Uniti e Unione Sovietica nei confronti dell’operato delle vecchie potenze coloniali porta al ritiro di 1967: la Guerra dei sei giorni 13
i quaderni del cineforum 64 Il 28 settembre 1970 muore il Presidente egiziano Nasser, a cui del partito Likud, che rappresenta l’ala destra del movimento succede Anwar al-Sadat. Quest’ultimo allenterà notevolmente sionista. i caratteri socialisti del governo del predecessore e assumerà 1978: accordi di Camp David. Con la mediazione del presidente posizioni più vicine agli Stati Uniti, affrancandosi dall’appoggio americano Carter si giunge all’intesa fra Egitto e Israele, che sovietico. sfocerà nel trattato di pace dell’anno successivo. Il Sinai viene 1973: guerra del Kippur. Durante la festività ebraica dello Yom restituito all’Egitto, che in cambio garantisce la normalizzazione Kippur Egitto e Siria attaccano a sorpresa Israele, per tentare dei suoi rapporti con l’Occidente. L’accordo viene in un primo di riconquistare i territori perduti nel 1967. Dopo una prima fase tempo osteggiato da OLP e Stati arabi. di avanzata, le truppe arabe vengono efficacemente contrastate Israele interviene per la prima volta in Libano, occupando la dall’esercito israeliano, che respinge totalmente i siriani dalle parte meridionale del paese, abbandonata poco tempo dopo a alture del Golan. Nonostante le conquiste militari siano modeste, causa delle pressioni dell’ONU. per l’Egitto (che comunque riesce a riprendere il controllo del 1981: Sadat viene ucciso da un gruppo di integralisti islamici. canale di Suez) la guerra è una grande vittoria mediatica: Sadat La sua morte non interrompe l’avvicinamento dell’Egitto ha infatti lavato l’onta del disastro nella guerra dei Sei Giorni all’Occidente. ed è riuscito a infliggere alcune sconfitte all’apparentemente 1982: ritenendosi minacciato dalla massiccia presenza invincibile esercito israeliano. Dopo essere riuscito a consolidare dell’OLP in Libano, Israele invade per la seconda volta il paese, il suo potere, il nuovo Presidente egiziano può ora aprire un raggiungendo persino la capitale Beirut. L’OLP si rifugia dunque canale di trattative con gli USA e Israele. a Tunisi. Nasce Hezbollah, organizzazione sciita che ha come La guerra del Kippur ha conseguenze importanti anche per obiettivo la cacciata dell’esercito israeliano e la liberazione del l’occidente: essa è infatti la causa diretta dello shock petrolifero Libano. del 1973. Con la probabile complicità dell’esercito israeliano si verifica 1975: svolta filo-occidentale di Sadat. Nel giro di un anno e un eccidio nei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila, mezzo vengono espulsi i tecnici sovietici dall’Egitto, interrotti i perpetrato dalle Falangi Libanesi e dall’Esercito del Libano del rapporti amichevoli con l’URSS e riaperti i traffici attraverso il Sud, stretti alleati di Israele. canale di Suez. Vengono in tal modo resi possibili accordi fra Anni Ottanta: durante gli anni Ottanta nel rapporto fra israeliani Egitto e Israele, impossibili da immaginare fino a due anni prima. e palestinesi emergono due sostanziali novità. Intorno alla metà In Libano scoppia la guerra civile, che per i venticinque anni del decennio l’OLP guidata da Arafat, così come una parte successivi vedrà contrapporsi le diverse componenti etniche dei paesi della Lega Araba (soprattutto Giordania e Arabia del piccolo Stato pluriconfessionale, variamente sostenute dagli Saudita), iniziano a considerare l’opzione di una trattativa con attori politici del mosaico mediorientale. Il Libano diventa così il Israele, implicitamente subordinata al suo riconoscimento, in principale campo di battaglia della regione. cambio del ritiro dai territori occupati della striscia di Gaza e 1977: per la prima volta nella storia di Israele i laburisti vengono della Cisgiordania. Qui il governo conservatore israeliano aveva sconfitti alle elezioni. Vincitore è Menachem Begin, fondatore fortemente implementato l’insediamento di coloni ebraici, con il Il leader dell’OLP Yasser Arafat nel suo discorso alle Nazioni Unite nel 1974 14
i quaderni del cineforum 64 fine di modificare la composizione etnica della regione. Ciò si precedente si erano avuti ad esempio il massacro di Hebron, rivelerà in futuro uno dei principali ostacoli alla soluzione dei due in cui erano stati uccisi 60 palestinesi e una serie di attentati Stati e all’intero processo di pace. suicidi compiuti da Hamas). L’uccisione di Rabin viene seguita 1987: nei territori palestinesi scoppia la prima intifada, una poco tempo dopo dal ritorno al potere del partito Likud, guidato sollevazione popolare di massa contro l’occupazione israeliana. da Benjamin Netanyahu. Nonostante la repressione da parte dell’esercito, la rivolta è un 2000: a seguito del netto aumento della costruzione di colonie grande successo mediatico: le immagini della enorme disparità ebraiche nei Territori e della provocatoria visita di Ariel Sharon al fra i due fronti, simboleggiata dai manifestanti che lanciano Monte del Tempio a Gerusalemme, esplode la seconda intifada. pietre contro i carri armati, portano ampio sostegno alla causa Rispetto alla rivolta del 1987 si caratterizza per una maggiore palestinese in tutto il mondo. violenza degli scontri e per la partecipazione anche degli arabi Viene fondato il gruppo palestinese Hamas, braccio armato del israeliani. movimento sunnita dei Fratelli Musulmani. Il suo statuto, redatto 2002: viene intrapresa dal governo israeliano la costruzione di l’anno successivo, si prefigge di eliminare lo Stato di Israele e un muro che isola quasi del tutto la Cisgiordania che, se per di sostituirlo con una repubblica islamica palestinese. Nella sua Israele significa la riduzione delle infiltrazioni terroristiche sul storia Hamas si renderà responsabile di molti attacchi terroristici, proprio territorio, per la popolazione palestinese segna un netto in particolare attentati suicidi. peggioramento delle condizioni di vita, dato che tale barriera 1993: accordi di Oslo. Il nuovo primo ministro laburista israeliano, spezza le comunità preesistenti e impedisce agli abitanti delle Itzhak Rabin, e Shimon Peres, suo ministro degli esteri, località di confine l’accesso ai servizi e al luogo di lavoro. decidono di trattare direttamente con l’OLP, considerata come il 2004: l’11 novembre muore Arafat. Insieme all’ascesa di Hamas rappresentante del popolo palestinese, e con il suo leader Arafat. questo fatto contribuisce a ridimensionare l’influenza di Al Fath Gli accordi, raggiunti con la mediazione del presidente americano sui Territori e in particolare sulla striscia di Gaza. Clinton, prevedono il ritiro dell’esercito israeliano da alcune zone 2006: le elezioni legislative nell’Autorità Nazionale Palestinese dei territori occupati, che devono essere governati dalla neonata vedono la vittoria di Hamas, che conquista la maggioranza Autorità Nazionale Palestinese, organismo parallelo dell’OLP. assoluta dei seggi. Nella striscia di Gaza esplode un vero e Gli accordi sono storici, perché dichiarano il diritto all’autogoverno proprio conflitto armato fra i due partiti. del popolo palestinese e prevedono un mutuo riconoscimento fra 2007: Hamas conquista la striscia, mentre in Cisgiordania viene le parti. Tuttavia essi sono caratterizzati da una serie di pesanti formato un governo guidato dal leader di Al Fath e dell’OLP limiti che ne inficieranno fortemente l’efficacia all’interno del Mahmud Abbas. processo di pace negli anni successivi: l’assenza di disposizioni Israele ed Egitto impongono un blocco navale, terrestre e aereo riguardo le colonie ebraiche nei territori e il rientro dei migliaia sulla striscia di Gaza. Da questo momento verranno intraprese di profughi palestinesi sparsi in tutto il Medio Oriente; il nodo dall’esercito israeliano periodiche operazioni militari contro di Gerusalemme Est, occupata da Israele, che considera Hamas, ormai in totale controllo di Gaza. Le più rilevanti sono Gerusalemme la propria capitale nella sua unità; l’opposizione l’operazione Piombo fuso del 2009 e l’operazione Margine di agli accordi – che tenderà a crescere negli anni successivi – da protezione del 2014. parte sia di una larga fetta della destra nazionalista israeliana sia 2011: a Gaza, la sera del 14 aprile 2011, viene rapito da un dei movimenti palestinesi (Hamas in primis, ma anche alcune gruppo terrorista dichiaratosi afferente all’area jihādista salafita frange dell’OLP stesso), nonché di alcuni stati del mondo islamico (anche se tre di loro smentirono in seguito l’appartenenza al (Siria, di cui le alture del Golan sono ancora sotto occupazione gruppo), l’attivista e giornalista italiano Vittorio Arrigoni, unico israeliana, Iran e Libia); gli accordi, infine, non mettono in occidentale a essere rimasto nella città durante i bombardamenti discussione la caratterizzazione di Israele come Stato etnico, e del 2009. Verrà ritrovato privo di vita il giorno successivo. quindi l’equazione fra israeliano ed ebreo, in contrasto con la 2018: il 14 maggio gli Stati Uniti spostano la propria ambasciata caratterizzazione universalistica tipica dello Stato moderno sin a Gerusalemme, riconoscendola ufficialmente come capitale di dalla Rivoluzione Francese. Israele. 1995: Rabin viene assassinato a Tel Aviv da un estremista israeliano. La sua morte è il culmine di un periodo di violenze da parte dei gruppi più radicali di entrambe le fazioni (l’anno Cronologia a cura di Alessandro Perucca 15
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