La teologia tra devozione, dedizione e distrazione: Davide Zordan e il cinema - Davide Zordan Lecture 2018 - FBK-ISR

Pagina creata da Filippo Bevilacqua
 
CONTINUA A LEGGERE
Davide Zordan Lecture 2018

La teologia tra devozione,
dedizione e distrazione:
Davide Zordan e il cinema
Questo fascicolo contiene quattro riflessioni sul cinema di Davide Zordan,
scelte e curate da Paolo Costa in occasione della terza edizione della
Davide Zordan Lecture. L’evento, promosso e organizzato dal Centro per le
Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler, prevede quest’anno una
lezione magistrale sul tema «Teologia e fioritura umana. Una riflessione sui
modi di intendere la salvezza oggi» tenuta dal teologo inglese Clive Marsh.

Trento, 17 dicembre 2018
Fondazione Bruno Kessler
www.fbk.eu

Progettazione e realizzazione
Moira Osti
FBK | Unità Supporto alla Ricerca | Polo delle Scienze Umane e Sociali

In copertina
Riccardo Schweizer, bozzetto dell’affresco di 75m2 realizzato per la sede FBK di Trento
(particolare), 1986.

Fly-56 | 12-2018_ISR
______________________________________________________________________________________
Copyright © 2018 by Fondazione Bruno Kessler, Trento. Tutti i diritti sono riservati
Sommario

«Entrate: anche qui sono gli dèi», di Paolo Costa       p. 5

Quello iato tra non morire e vivere, di Davide Zordan     9
La fede, l’abito e la maschera, di Davide Zordan         15
Prima del Verbo, l’immagine, di Davide Zordan            21
Il cinema, la fede e il visibile, di Davide Zordan      25

Profilo biografico di Davide Zordan                      31
«Entrate: anche qui sono gli dèi»
di Paolo Costa

All’inizio del De partibus animalium (I. 5) Aristotele si serve di un aned-
doto sulla vita di Eraclito per giustificare a monte l’investigazione
approfondita che farà in quell’opera di un argomento apparentemente
triviale: piante e animali, cioè enti caduchi che, a differenza dei corpi
celesti, «partecipano della generazione e della corruzione».

   Non si deve […] nutrire un infantile disgusto verso lo studio dei viventi più umili:
   in tutte le realtà naturali v’è qualcosa di meraviglioso. E come Eraclito, a quanto
   si racconta, parlò a quegli stranieri che desideravano rendergli visita, ma che una
   volta arrivati, ristavano vedendo che si scaldava presso la stufa della cucina (li
   invitò ad entrare senza esitare: «anche qui, disse, vi sono dèi») – così occorre
   affrontare senza disgusto l’indagine su ognuno degli animali, giacché in tutti v’è
   qualcosa di naturale e di bello.1

La curiosità che Davide Zordan aveva per le forme anche più umili
di devozione popolare, per esperienze di fede non convenzionali e, in
un contesto secolare, per l’industria dell’intrattenimento (cinema, TV,
fumetto, sport, ecc.) mi ha sempre ricordato questo celebre passo
dell’opera aristotelica. Quella sua forma di apertura fiduciosa e non
intellettualistica al mondo era sicuramente un tratto caratteriale: il
segno esteriore di una personalità ben integrata, per nulla spaventata
dalla contaminazione dell’«impuro». Per altro verso, però, era anche
una mossa strategica nel suo itinerario intellettuale.
Per formazione, Davide era consapevole del carattere controllato, «iper-
mediato», del discorso teologico in ambito cattolico. Abbiamo a che
fare qui con un sapere della fede che non ha nulla di spontaneo. I suoi
vincoli interni sono la Scrittura, il Magistero, la comunità di fede con le
sue varie incarnazioni storiche e, se vogliamo, anche la città «terrena»,
con le sue emergenze e le sue opportunità saldamente collocate nel
tempo e nello spazio. Un giorno Davide mi ha riassunto questa sua
visione realistica del rapporto tra la libertà intellettuale e le istituzioni
utilizzando un’immagine cara al gesuita francese Michel de Certeau:
bisogna fare i conti con la «legge del luogo» (loi du lieu)2.
6                                                              Paolo Costa

Un teologo, detto in parole semplici, non parla mai nel vuoto. Si de-
termina, cioè, sempre in relazione a un’istituzione storica che limita la
sua identità e al contempo definisce le condizioni per i suoi progressi
accidentati. Ciò significa, evidentemente, venire a patti con una pres-
sione costante all’adattamento, se non addirittura al conformismo.
Ma è proprio a quel punto che la persona è chiamata a dimostrare il
proprio valore. Questo valore, però, non ha nulla di cavalleresco. Non
si manifesta cioè opponendo virilmente il petto alle frecce dei nemici.
Il punto è trovare il giusto mix di prudenza, lentezza, tempestività, che
consenta al numero più ampio possibile di ragioni di diffondersi nel
mondo e di fecondarlo impercettibilmente, nell’attesa di una, per il
momento imprevedibile, mietitura.
La fede, tuttavia, è nel suo fondo anche nuda vita e, proprio come il
fenomeno della vita, è sfuggente, sinuosa, imprevedibile. Se uno vuole
afferrarne i contenuti ne deve cercare le manifestazioni e le tracce nei
luoghi che le persone effettivamente frequentano nella loro epoca. Il
teologo, per usare le categorie della psicologa Alison Gopnik, deve sicu-
ramente avere una potente «coscienza-faro», ma non può prescindere
dalla meno educata «coscienza-lanterna»3. Pur restando sempre vigile
e accorto, deve cioè essere anche ricettivo, curioso e ingenuamente
esplorativo.
Non a caso oggi, quando ripenso all’intelligenza di Davide, prima ancora
che i suoi scritti mi vengono in mente le conversazioni che facevamo,
a voce o per email, sugli argomenti più disparati: l’ultima giornata del
campionato di calcio, la differenza tra una canzone di Roberto Vecchioni
e una di Eugenio Finardi, l’educazione dei figli, andare per funghi, la
preghiera, i maestri del fumetto, la superstizione, l’anoressia.
In effetti, quando nel 2013 ho tanto insistito perché scrivessimo un
libro a quattro mani, quello che mi prefiggevo segretamente era tra-
sferire sulla pagina scritta quell’atmosfera di pensosità spensierata
che sperimentavo durante conversazioni informali che, per quanto mi
riguarda, sarebbero potute durare in eterno. Ma, ovviamente, per come
sono fatte le nostre disciplinatissime vite, quelle chiacchierate a ruota
libera potevano esistere solo sotto forma di intermezzi della vita seria.
Così anche nel nostro libro, il dialogo finale – che è la cosa più simile
a quelle chiacchierate che siamo riusciti a produrre battendo i tasti
del computer – fa un po’ la figura della glassa sopra la torta, anche
se nelle nostre intenzioni il rapporto tra sostanza e accidente sarebbe
dovuto essere esattamente l’opposto.4
«Entrate: anche qui sono gli dèi»                                        7

Nelle nostre conversazioni, infine, un posto speciale l’ha sempre avuto
il cinema. Davide sapeva tutto di cinema – era un vero «cinofilo», come
gli ha detto con un amabile solecismo un compagno di squadra nell’at-
mosfera umida e scanzonata dello spogliatoio di una palestra trentina
– ma, con la sua imperturbabile equanimità, accettava di parlarne anche
con chi come me ne sapeva giusto quanto può saperne uno spettatore
saltuario e disimpegnato. Che fosse l’ultimo film di Nanni Moretti o
una vecchia pellicola dei fratelli Coen o magari un episodio della serie
televisiva «Mad Men», era a Davide che mi rivolgevo puntualmente per
chiarirmi le idee e, da quegli scambi, ne uscivo sempre con la testa
zeppa di pensieri nuovi e brulicanti.
Qualche volta, in queste occasioni, vincendo la sua proverbiale modestia,
Davide mi spediva una recensione che aveva scritto per «Vita trentina»
o «Munera» (giornali sui quali teneva una rubrica cinematografica) o,
se voleva farmi un cadeau speciale, un articolo più impegnativo che
aveva preparato per «Cabiria» o un paper presentato a qualche con-
vegno in giro per il mondo. Io li leggevo sempre avidamente e non di
rado li saccheggiavo per sciogliere un crampo mentale o nutrire la mia
asfittica immaginazione teologica.
Proprio per ricordare e onorare lo sforzo di Davide di entrare in dialogo
con la contemporaneità, in occasione della terza edizione della Davide
Zordan Lecture, il Centro per le Scienze Religiose di FBK ha deciso di
raccogliere una selezione di recensioni scritte da Davide nell’ultimo
periodo della sua vita. Riguardano film molto diversi per stile, contenuto
e pubblico di riferimento, e tale varietà dovrebbe consentire al lettore
di formarsi un’idea non troppo vaga di quale fosse il tipo di uso crea-
tivo che egli riusciva a fare di oggetti culturali non meno effimeri delle
creature al cui studio Aristotele ha dedicato tanto tempo ed energia. In
sovrappiù, come è capitato spesso anche a me, il lettore paziente potrà
ricavarne consigli utili per una serata piacevole o un regalo intelligente.
La cosa che colpisce di più in questi scritti è il connubio tra densità
di pensiero e chiarezza espositiva. In poche pagine il lettore si trova
proiettato in un mondo in cui si viene sollecitati a confrontarsi con temi
come l’evoluzione umana, il destino, il rapporto tra bellezza e santità
morale, la religione in un’età secolare, senza però sentirsi intimiditi o,
peggio ancora, catechizzati. L’impressione, piuttosto, è quella di venire
gradualmente familiarizzati con una strana zona di chiaroscuro in cui il
visibile e l’invisibile si mescolano. Come Davide ha osservato nel testo
che chiude questo opuscolo, «l’incontro tra cinema e fede si realizza qui,
8                                                                                      Paolo Costa

nell’ambito del pienamente visibile, di ciò che è accessibile a tutti pur
restando oscuro a chi – regista o semplice spettatore – non possiede
una sensibilità adeguata e una attenzione davvero partecipativa». La
fiducia di Davide nella distribuzione omogenea, e più diffusa di quanto
in genere gli accademici si immaginino, di questa sensibilità tra i ranghi
della società umana, era una delle principali fonti della sua creatività
intellettuale e il motivo per cui si muoveva con così tanta disinvoltura
nel complicato reticolo di luci e ombre che ci accoglie ogni mattino
al risveglio.5

1
   Cfr. Aristotele, Le parti degli animali, a cura di M. Vegetti, in Aristotele, Opere biologiche, a
cura di D. Lanza e M. Vegetti, UTET, Torino 1971, p. 582.
2
   Cfr. M. de Certeau, L’invenzione del quotidiano, trad. it., Edizioni Lavoro, Roma 2010.
3
   Cfr. A. Gopnik, Il bambino filosofo. Come i bambini ci insegnano a dire la verità, amare e
capire il senso della vita, trad. it., Bollati Boringhieri, Torino 2010, cap. 4.
4
   Cfr. P. Costa - D. Zordan, In una stanza buia. Filosofia e teologia in dialogo, FBK Press,
Trento 2014, cap. 4.
5
   Si ringrazia la rivista «Munera», in particolare il suo Direttore Stefano Biancu, per
avere gentilmente autorizzato la pubblicazione delle recensioni di Davide Zordan in
questo opuscolo.
Quello iato tra non morire e vivere
di Davide Zordan

Titolo			                     Croods (The Croods)
Regia e sceneggiatura         Chris Sanders e Kirk DeMicco
Montaggio		                   Darren T. Holmes
Scenografia		                 Christophe Lautrette
Fotografia		                  Yong Duk Jhun
Art director		                Paul Duncan
Produzione		                  DreamWorks Animation, Stati Uniti 2013
Durata			                     98’

Alla base della scarsa considerazione che molte persone, una volta
uscite dall’infanzia, nutrono nei confronti dei film d’animazione, c’è un
dato tecnico ben preciso, anche se spesso non esplicitato come tale.
Il fatto cioè che, nell’animazione, l’effetto del movimento è ottenuto
non attraverso la macchina da presa, che «registra» tale movimento
dal mondo reale, ma attraverso il proiettore. Non è tanto la natura
«disegnata» dell’immagine a infastidire, quanto il fatto che ciò che è
disegnato, realizzato con l’argilla, la plastilina o altro, non ha «vita» se
non sullo schermo dove è proiettato, a differenza delle immagini foto-
grafiche che certificano gesti e azioni esistenti prima che noi li vediamo
riprodotti in sala. È per questo che siamo normalmente meno disposti
a «credere» alle immagini di animazione, o, più esattamente, siamo più
restii ad accordare loro quella sospensione di incredulità necessaria
per accedere al piacere della fruizione cinematografica.
C’è però un altro modo di vedere le cose. In fondo, un film ci coinvolge
perché vogliamo lasciarci coinvolgere, quale che sia il suo grado di
«realismo», e cioè più esattamente l’illusione di realtà che esso predi-
spone. Si tratta pur sempre di non opporre resistenza a quella materia
illusoria, di consentirle di catturarci e, anzi, di contribuire alla sua ve-
rosimiglianza con la nostra capacità immaginativa. Se è così, allora, è
proprio quando il cinema più si allontana dalla sua natura fotografica
che sfida maggiormente la nostra immaginazione, che le richiede di es-
sere più intensa, più collaborativa. Considerato in quest’ottica, il cinema

Recensione pubblicata in «Munera. Rivista europea di cultura», 1, 2014, pp. 93-97.
10                                                               Davide Zordan

d’animazione non appare più come una tipologia di cinema anomala e
quasi difettosa, insomma un cinema di facile fruizione destinato a un
pubblico di eterni Peter Pan, ma al contrario come una delle forme di
cinema meno disponibili a essere consumate senza vera collaborazio-
ne. Non «roba per bambini» quindi, ma per persone che non lesinano
sull’immaginazione, intesa come capacità di figurarsi spazi di novità
possibili per sé e per il mondo.
Non è forse un caso che, a partire dall’ultima decade del secolo scor-
so, e poi in modo sempre più convinto negli anni più recenti, il cinema
di animazione si sia imposto come uno dei settori più creativi e di
successo dell’industria cinematografica, grazie alle straordinarie pos-
sibilità offerte dalla tecnologia digitale, ma anche a una vera e propria
rinascita dell’animazione tradizionale a cartoni animati. Di fronte a certi
capolavori firmati Disney o Pixar, ad esempio, si ha l’impressione che
proprio la grande libertà immaginativa del cinema d’animazione, e il
fatto di non essere mai confinato entro un genere definito, consenta
di esplorare temi e questioni che il cinema tradizionale mainstream
difficilmente potrebbe affrontare senza banalizzare. Si pensi al modo
in cui un film come Ratatouille (2007) allude, senza dar l’impressione di
farlo, alle questioni così complesse che riguardano l’istinto e la libertà di
autodeterminazione, o alla sensibilità inusuale con cui vengono trattati
i temi abusati della vecchiaia e della nostalgia in Up (2009).
I Croods, distribuito nelle sale da DreamWorks nel 2013, non è certo
all’altezza dei due titoli appena citati, eppure, proprio perché non si
tratta di un capolavoro, meritano attenzione la naturalezza e l’efficacia
con cui il film ci conduce a riflettere su questioni estremamente intri-
cate come quelle che riguardano la nostra vicenda evolutiva profonda.
Pensandoci bene, quali mezzi potrebbe mettere in campo il cinema se
non proprio quelli dell’animazione – e dunque della pura immaginazio-
ne – per raccontare la storia lentissima e oscura dell’umanizzazione
dell’animale homo sapiens? Una storia così incredibilmente lontana da
noi. Eppure è la nostra, e dobbiamo imparare a raccontarcela.
A un livello immediato, I Croods è un film sulla famiglia, che ambienta in
una preistoria esotica e assolutamente fantasiosa dinamiche e conflitti
generazionali tipici del moderno nucleo familiare, senza lesinare sugli
stereotipi: lo scontro tra il padre autoritario e la figlia adolescente, una
madre comprensiva e mediatrice, il figlio un po’ tonto (da che mondo è
mondo, i maschi maturano tardi), la figlioletta minore pestifera e una
suocera impertinente e mal sopportata. Ma ciò che caratterizza le grandi
Quello iato tra non morire e vivere                                       11

produzioni animate è la molteplicità dei livelli di lettura autorizzati, vera
chiave per il successo di ogni prodotto di massa. Ecco allora che, a un
secondo livello, la famiglia del film si trova confrontata a qualcosa di ben
diverso dalla quotidianità piccolo borghese dei Flintstones, i protagonisti
della celebre saga Hanna-Barbera. Il prologo del film, realizzato con uno
stile che si ispira alle incisioni rupestri, delinea efficacemente il quadro
in cui si svolge l’azione: quello di un’aspra lotta per la sopravvivenza
che impegna ogni stilla di energia e quel poco di ingegno sviluppato
dai nostri cavernicoli, confrontati a un mondo inospitale nel quale essi
non sono, né si sentono, razza dominante. Certo la lotta per soprav-
vivere e procacciarsi il cibo è descritta da subito con brio e vivacità,
come un’esaltante partita di football con in palio l’uovo succulento di
un bizzarro struzzo primordiale. Ma il tono scanzonato non nasconde
la drammatica precarietà della vita dei Croods. Grug, il padre, ripete
ossessivamente ai suoi pargoli la regola aurea di sopravvivenza: «Mai
non avere paura!» Paura sempre, e di tutto, per provare a sopravvivere.
È interessante come nel film non ci sia un cattivo contro cui combattere.
Il «nemico» è, da un lato, il mondo minaccioso che circonda la casa-ca-
verna dei Croods, anzi forse la vita stessa nella sua cecità selettiva;
dall’altro, però, è anche dentro di noi, sebbene Grug fatichi non poco
a realizzarlo: il nemico è la paura quando, da istinto prezioso che ci
rende capaci di prevenire i pericoli per superarli, diventa un freno che
blocca qualsiasi possibilità di cambiamento. Nel film il cambiamento
è rappresentato da Guy, un giovane che, a differenza dei Croods, non
si protegge standosene rintanato nel fondo di una caverna buia, ma
utilizzando quelle prime rudimentali tecnologie (il fuoco, le calzature)
che fanno di lui l’emblema di uno stadio più avanzato dell’evoluzione.
Attraverso la conflittualità e poi l’alleanza tra Grug e Guy, tra prudenza
paralizzante e apertura intrepida, il film ci aiuta a immaginare come
certi elementi di novità possano essersi manifestati nel lungo corso
del processo evolutivo e suggerisce, soprattutto, che un tale emergere
del nuovo possa essere considerato come qualcosa di diverso da un
puro determinismo biologico, come una vera «crisi», come qualcosa
in cui la libertà – un certo grado di libertà – è in gioco ben prima che
l’essere umano diventi capace di riconoscerla e identificarla come
tale. Nel mettere in scena questo processo, che si distende nell’arco
di milioni di anni, I Croods ovviamente semplifica, trascura e volgarizza
senza scrupoli e senza la minima velleità pedagogica e tuttavia riesce
a richiamare numerosi elementi distintivi di quella che, con troppa faci-
lità (come osservava il compianto Robert Bellah nel suo ultimo grande
12                                                            Davide Zordan

libro, Religion in Human Evolution), chiamiamo la nostra «preistoria» e
che dovremmo, invece, cominciare a considerare come la parte più du-
revole e decisiva della nostra storia, indispensabile per capire chi siamo
davvero. Pensiamo solo all’atteggiamento «animista» manifestato dai
protagonisti del film alle prese con la scoperta del fuoco, o al raccon-
tarsi storie come modalità decisiva per accedere all’espressione della
propria identità e del proprio orizzonte «morale» implicito, o ancora al
passaggio tra il dormire abbracciati come utile rimedio contro il freddo
alle prime manifestazioni «immotivate» di affetto. Pensiamo soprattutto
a ciò che precede e permette tutto questo, e cioè il dischiudersi di un
tempo e uno spazio disponibili per qualcosa che non sia mera lotta
per la sopravvivenza, presentito con urgenza nel film da Eep, la figlia
maggiore, quando prende le distanze dal padre esclamando: «Questo
non è vivere, è non morire!».
Si noti il paradosso: come in ogni film d’animazione, l’espediente dell’u-
manizzazione di ciò che è diverso da noi per rendercelo familiare (l’esem-
pio classico è quello degli animali parlanti) è qui largamente utilizzato
e non potrebbe essere altrimenti. Ma ciò che viene «umanizzato» ne
I Croods è precisamente quello stadio del processo evolutivo profondo
della nostra razza attraverso il quale i nostri antenati ominidi avanzano
«in cerca» di una umanizzazione a venire. E dunque all’umanizzazione
traslata e ironica tipica del genere si sovrappongono certi elementi
che vanno chiaramente in senso contrario, per denotare lo stato di
esistenza pre-umana dei Croods in cui è la pura istintualità animale a
determinare i comportamenti, come quando la nonna, in preda ai mor-
si della fame, azzanna alla caviglia il paffuto nipote Tonco. Anche la
realizzazione grafica dei personaggi si muove chiaramente in questa
direzione, mostrandoci i Croods come veri selvaggi nelle fattezze e nei
modi, dotati di forza bruta e grande rapidità, ed evitando di far loro
replicare una gestualità umana «acculturata», riconoscibile invece nel
personaggio di Guy.
L’operazione è complessa, al di là del tentativo del film di rendere
ugualmente comici sia gli elementi di umanizzazione precoce sia
quelli contrari, di fronte ai quali anche al pubblico più giovane viene il
sospetto che l’allegra banda dei Croods non sia proprio così uguale a
noi. Senza dubbio i due processi – l’umanizzazione allegorica dell’omi-
nide e l’«animalizzazione» come segno distintivo di un diverso pur così
simile a noi – sono giustapposti in modo non del tutto riuscito, ma è
significativa la scelta degli autori del film di procedere consapevolmente
Quello iato tra non morire e vivere                                     13

in questa direzione, operando una commistione di elementi antitetici
potenzialmente rischiosa per la fruibilità della narrazione. Forse anche
per questo la trama del film è molto semplice e perfino banale, priva
com’è di peripezie e sviluppi inaspettati. La ricerca di un luogo sicuro
in cui vivere di fronte alla minaccia di imminenti sconvolgimenti natu-
rali è il tema ricorrente dell’animazione di ambientazione preistorica,
da Alla ricerca della valle incantata (1988) a Dinosauri (2000) fino alla
fortunata saga de L’era glaciale, e la ripresentazione del medesimo
topos fa nascere il sospetto che non sia a livello dell’originalità della
trama che gli autori de I Croods abbiano voluto investire le loro risorse
creative. Scompare qui, peraltro, anche il ricorso continuo alla citazione
e alla parodia, che ha fatto la fortuna della DreamWorks con la saga di
Shrek, ma che ha esaurito da tempo il suo vigore. L’estrema linearità
e fruibilità della vicenda e la rimozione di espedienti ormai fini a se
stessi come il citazionismo a oltranza lasciano spazio, da un lato, a
sketch godibili di pura azione che esaltano le possibilità del cinema 3D;
mentre, dall’altro, evitano di distogliere il pubblico dal compito primario
di identificare lo strano statuto dei suoi protagonisti, quei Croods che
avanzano in equilibrio precario tra animalità e umanizzazione, tra non
morire e vivere, consapevoli però che, come afferma proprio il recal-
citrante Grug: «una cosa è certa, non possiamo più tornare indietro».
La fede, l’abito e la maschera
di Davide Zordan

Titolo		                Ida
Regia		                 Pawel Pawlikowski
Sceneggiatura           Pawel Pawlikowski e Rebecca Lenkiewicz
Fotografia              Ryszard Lenczewski e Lukasz Zal
Scenografia             Jagna Dobesz
Interpreti principali   Agata Kulesza, Agata Trzebuchowska, Dawid Ogrodnik, Jerzy Trela,
			                     Adam Szyszkowski
Produzione              Opus Film
			                     in collaborazione con Phoenix Film Investments, Canal+ Polska,
			                     Phoenix Film Poland, Polonia-Danimarca-Francia-UK 2013
Durata		                82’

Pawel Pawlikowski è un regista polacco di nascita, ma paneuropeo per
vocazione. Ha vissuto a Torino e Wuppertal prima di stabilirsi a Londra e di
completare la sua formazione a Oxford, dove ha studiato letteratura tedesca
e filosofia. Relativamente poco noto in Italia, Pawlikowski ha avuto una
carriera apprezzabile dapprima, negli anni Novanta, come documentarista
della televisione inglese, poi come sceneggiatore e autore di film di finzione
ambiziosi anche quando non del tutto riusciti – si pensi per esempio a La
femme du Vème (2011), di produzione franco-britannica e non distribuito in
Italia. Giunge ora anche nelle nostre sale il suo film più recente, Ida, che
ha mietuto premi nel circuito internazionale dei festival e ricevuto ampi
apprezzamenti dalla critica.
Ida è un film che usa poche parole e ne suscita molte, eppure il parlarne,
o scriverne, lascia un po’ a disagio. Raccontare il film, come pur bisogna
fare, rischia di essere soprattutto in questo caso fuorviante. Perché sul-
lo schermo a «parlare» sono le immagini, nella splendida e curatissima
fotografia in bianco e nero che ricorda un maestro quale Béla Tarr; sono
l’economia estrema della narrazione e la staticità del quadro cinema-
tografico; sono i personaggi laconici ma intensi. Tutti elementi che è
difficile esplicitare a parole senza farne una mera questione tecnica o
formale. Eppure qui la forma e il contenuto, o la narrazione, non sono
davvero disgiungibili. Sono proprio le reticenze narrative e i silenzi a ren-
dere attenti alle «cuciture» del film, al modo in cui prende in contropiede

Recensione pubblicata in «Munera. Rivista europea di cultura», 1, 2014, pp. 93-97.
16                                                                 Davide Zordan

pubblico e critica scegliendo di presentarsi come tipicamente «polacco»
(lento, grave, quasi del tutto privo di ironia), ma poi sorprende per la sua
incisività e modernità.
Primo film girato da Pawlikowski nella natìa Polonia, Ida è ambientato
nei primi anni Sessanta del secolo scorso, al tempo dell’infanzia del
regista e durante un regime per certi versi unico tra i Paesi del blocco
comunista sovietico: un regime opprimente eppure già slabbrato, tra le cui
crepe affiorano non solo i segni inequivocabili di una radicata tradizione
cattolica, ma anche una singolare tolleranza nei confronti dei costumi
culturali d’oltrecortina. Il film rievoca una pagina oscura e feroce di storia,
ma non si presta a tirare bilanci netti. Non si affretta a suggerirci da che
parte stare, ma ci invita a cogliere i dettagli, le sfumature. In un’intervista
a proposito del film, Pawlikowski cita Cechov come fonte di ispirazione.
Come il drammaturgo russo, egli vuole trattenersi dal giudicare: «Essere
morale nel raccontare la mia storia, ma senza proporre una morale». La
sequenza di apertura di Ida è in questo senso paradigmatica, nel suo
soffermarsi sui gesti silenziosi e ripetuti di un gruppo di monache, come
se quella routine celasse il segreto della loro fede. Proprio quello della
fede emerge come uno dei temi centrali, anche se non sbandierati, del
film, su cui si soffermerà la mia analisi.
Ma andiamo con ordine. Protagonista della vicenda è Anna, un’orfana ac-
colta in tenera età in un monastero di religiose la quale, giunta ai diciotto
anni, decide di prendere i voti. A pochi giorni dalla solenne professione, la
superiora del monastero invita Anna a recarsi in visita da una zia, la sola
parente che le resta. L’obbedienza all’ingiunzione della superiora vince
l’esitazione della giovane, desiderosa solo di abbracciare la clausura e
legarsi in modo definitivo a quella che è sempre stata la sua casa. Ida
lascia dunque il monastero per alcuni giorni, che però cambieranno per
sempre la sua vita. Se la storia fin qui vi suona familiare, non avete torto.
Così iniziava infatti Viridiana (1961) di Louis Buñuel, realizzato nella me-
desima epoca in cui è ambientato Ida. Il film di Pawlikowski ne ripropone
non solo l’esatto incipit narrativo, ma anche alcuni sviluppi drammatici
fondamentali. Eppure, come si vedrà, è un’opera diversissima per lo stile,
il tono e l’intenzione che la guida.
L’incontro con zia Wanda, magistrato un tempo ammirato e temuto, ma
oramai assegnato a mansioni secondarie a causa della sua promiscuità
sessuale e della dipendenza dall’alcol, mette brutalmente Anna di fronte alla
verità mai conosciuta del suo passato: il suo vero nome è Ida Lebenstein,
è ebrea ed è con la zia la sola superstite della sua famiglia, sterminata
La fede, l’abito e la maschera                                                17

durante il nazismo. Ma se Anna/Ida ha vissuto fino a quel giorno senza
sapere chi fosse, accettando semplicemente la sua condizione di orfana
senza radici ma con un rifugio sicuro, è in realtà un intero popolo, quello
polacco, che vive nell’oblio di una pagina terribile della propria storia, cioè
precisamente del trattamento riservato agli ebrei durate l’occupazione
tedesca e la guerra. È noto che prima del 1939 la maggioranza degli ebrei
europei viveva in Polonia e che in territorio polacco persero la vita più
della metà di tutte le vittime dell’Olocausto. Meno noto è il fatto che, oltre
a coloro che perirono nei campi di concentramento, molti ebrei polacchi
furono vittime di pogrom cui alcuni concittadini presero parte attiva e
che molti altri finsero di non vedere; come pure che l’antisemitismo nella
cattolica Polonia si perpetuò oltre la fine della guerra e, alimentato dal
nuovo regime sovietico, si rivolse non di rado contro i sopravvissuti di
ritorno alle loro terre, nel frattempo espropriate.
Wanda e Ida sono messe a confronto con tutto ciò nel corso del viaggio
in auto che le riporta al villaggio d’origine, alla ricerca di indizi riguardanti
l’uccisione dei loro cari, e poi da qui sulle tracce della persona che le
aveva protette durante il conflitto. Le due donne non potrebbero essere
più distanti l’una dall’altra, come Wanda non manca di sottolineare con i
suoi modi spicci («io sono una puttana e tu una santa!»), eppure tra loro
si crea un legame singolare. Ciascuna è per l’altra non solo l’occasione
non cercata per fare i conti con il passato – lacerante e rimosso per la
zia, oscuro e impensabile per la nipote – ma anche per confrontarsi con
le proprie responsabilità e scelte. Wanda, che da vittima si era presto
trasformata in oppressore, assumendo nel dopoguerra un ruolo decisivo
nei processi farsa contro i nemici del popolo fino a meritarsi il sopran-
nome di «Wanda la sanguinaria», nasconde dietro il cinismo graffiante e
la ricerca di piaceri passeggeri un acuto senso di colpa, che la vicinanza
della giovane novizia rende lancinante. Ida, che ha consegnato la sua esi-
stenza alla struttura accogliente e rigorosa del monastero ricevendone in
cambio una fede intensa e assertiva, si trova improvvisamente esposta al
caos di un mondo segnato da un male diffuso e insensato, che mette alla
prova il suo credo. Per tutta la durata del viaggio Ida continua a recitare
le sue preghiere, ma non può evitare di domandarsi chi sia colei che in
quel modo si affida a un Dio che non è quello dei suoi padri.
Entrambi i personaggi femminili, interpretati in modo intenso e convin-
cente, hanno agganci con persone e fatti reali. Il passato di Wanda evoca
alcune efferate protagoniste delle purghe staliniane, quali i colonnelli Julia
Brystiger e Helena Wolińska, responsabili dell’arresto ed eliminazione di
18                                                                 Davide Zordan

molti resistenti antinazisti e antibolscevichi in Polonia. Wolińska, moglie
di un professore universitario di Oxford, fu anche personalmente cono-
sciuta da Pawlikowski, che avrebbe voluto fare un documentario su di
lei. La vicenda di Ida ricorda quella di Romuald Jakub Weksler-Waszkinel,
il quale scoprì le proprie origini ebraiche solo in età adulta, dopo la sua
ordinazione come sacerdote cattolico, avviando allora un processo di
riavvicinamento all’ebraismo che lo ha spinto a lasciare il servizio pasto-
rale per provare a realizzare in Israele una singolare convivenza tra le due
fedi cui sente di appartenere. Al suo itinerario di difficile ibridazione tra
ebraismo e cristianesimo cattolico la regista israeliana Ronit Kerstner,
ella pure venuta a conoscenza in età adulta delle sue origini ebraiche,
ha dedicato un intenso documentario intitolato Torn (2011). Per Anna/
Ida, come per Romuald/Jakub e molti altri ebrei perseguitati, la salvezza
è venuta dall’essere stati rivestiti di una nuova identità, la cattolica, che
ha nascosto a tutti, anche a loro stessi, la radice innominabile da cui
provenivano.
Alla fine del viaggio le due protagoniste del film provano a tornare ciascuna
alla propria vita, ma per entrambe sarà impossibile. Anna/Ida, rientrata
al monastero, nel silenzio sembra volgersi ancora confidente verso una
statua lignea di Gesù. Rinuncia però a emettere la professione religiosa
e partecipa, con emozione mista a un sottile distacco, alla cerimonia
nel corso della quale una consorella, che con lei aveva condiviso l’intero
percorso vocazionale, si consacra a Dio. Wanda torna a vedere le sue
angosce riflesse sul fondo del bicchiere e a condividere le notti con uo-
mini che non possono strapparla alla sua solitudine. Per lei soprattutto,
il viaggio verso il passato è stato senza ritorno. I fantasmi dissotterrati
non taceranno più. In una scena la cui costruzione ricorda l’incipit ful-
minante di Così bella, così dolce (1969) di Robert Bresson, la donna si
suicida gettandosi dalla finestra di casa.
Così ora anche per Ida il rivolgimento è radicale. Quando la giovane si ritro-
va nell’appartamento vuoto della defunta zia sente di doversi appropriare
di tutto ciò verso cui aveva rivolto fino ad allora uno sguardo non tanto
di condanna quanto di estraneità. Ciò che le è sempre stato alieno – il
fumo, l’alcol, la musica, infine il sesso – diventa l’unica via per provare non
a comprendere ma almeno a misurare ciò che è accaduto, la sofferenza
in cui Wanda era sprofondata senza aver più alcuna preghiera da poter
recitare, e dunque l’unico legame ormai possibile con la sua famiglia, la
sua identità negata, la sua storia mai saputa. Dismesso l’abito religioso,
Ida indossa gli indumenti femminili ed eleganti di Wanda. È per lei una
La fede, l’abito e la maschera                                              19

sorta di nuova vestizione, cui il film assegna la medesima forza rituale. A
differenza di Viridiana, che si mette il vestito da sposa della defunta zia
come un travestimento momentaneo per rafforzare l’immagine che nutre
di se stessa, Ida va in cerca, rivestendosi con l’abito dell’altra, di un’iden-
tità che sa di non possedere. Quello di Buñuel è un cinema di maschere
indossate per il gusto di strapparle, di travestimenti che mettono a nudo
e svelano contraddizioni e ipocrisie. Nel film di Pawlikowski, al contrario,
non c’è alcun gesto disvelante e giubilatorio, ma il tentativo faticoso di
raccogliere i pezzi sconnessi di un soggetto frammentato e dolorosa-
mente incerto. La notte d’amore di Ida con il giovane saxofonista, che
porta a compimento il suo percorso di «uscita» dal rifugio monastico e di
assunzione cosciente del mondo e della propria corporeità, non è segnata
da alcun senso di ribellione, né è il raggiungimento di una «verità» finora
ignorata. È un nuovo e prezioso passo su un cammino accidentato, che
consente a Ida di accrescere la propria consapevolezza e di mettersi in
condizioni di scegliere. Il ragazzo la invita a seguirla. Lei sorride dolente
e lo lascia partire.
Nell’ultima scena del film vediamo Ida camminare da sola lungo una
strada di campagna, in direzione contraria ai radi veicoli in transito. Veste
di nuovo l’abito da suora. È forse sulla via del ritorno verso il monastero;
in ogni caso l’abito attesta che ella intravvede un modo per integrare la
sua fede cristiana e la sua vocazione con ciò che ha scoperto di sé e
del mondo che la circonda. Quest’ultima scena segna, dal punto di vista
formale, uno stacco netto rispetto al resto del film. Fin qui, come già
accennato, la macchina da presa è sempre stata fissa o si è concessa
solo piccoli movimenti su cavalletto. In forte contrasto con la struttura
da road movie del film, questa modalità di ripresa – accentuata dal clas-
sico formato 4/3 scelto dal regista – comunicava il senso di una realtà
bloccata, appesantita dalle zavorre di un passato oscuro e incombente.
Ora invece la ripresa che precede Ida sul viottolo dissestato, effettuata
con camera a spalla, è nervosa e traballante. Essa consente al pubblico
di entrare in sintonia con il nuovo atteggiamento della protagonista, che
ha la strada davanti a sé (noi però non vediamo dove sia diretta, a diffe-
renza di quanto accade nella classica inquadratura di chiusura in cui il
protagonista si allontana verso la linea dell’orizzonte seguito a distanza
dal nostro sguardo) e avanza tranquilla, se pur controcorrente e soppor-
tando le asperità del percorso.
Non è Ida ad essersi strappata una maschera (ha invece rivestito nuova-
mente l’abito religioso), è il punto di vista narrante ad aver abbandonato
20                                                                  Davide Zordan

una fissità precostituita, esteticamente appagante ma non in grado di
trasmettere il disordine del mondo e della storia, che ora Ida ha accettato
di portare con sé. È di conseguenza il nostro stesso sguardo che si ritrova
liberato. In molte delle scene precedenti, peraltro, la fissità dell’inquadratura
funzionava come un’occlusione alla vista: le protagoniste della vicenda,
ma soprattutto Ida, per l’intera durata del film sfuggono ai bordi del qua-
dro, se non oltre i suoi margini. In alcuni casi, specie in alcune scene di
dialogo, il suo capo appare innaturalmente «tagliato» e la ripresa inquadra
il vuoto sopra di esso, a suggerire forse la mancata adesione di Ida alla
sfera della corporeità, o la sua tendenza a estraniarsi dalla storia e dai
suoi drammi. Solo nel finale il nostro sguardo è libero di posarsi su di lei
per così dire nella sua interezza e nel suo incedere in uno spazio aperto.
Già la scena delle suore che trasportano la statua del Cristo all’inizio del
film esprime simbolicamente l’idea di una religiosità non statica, che si
muove e muta con coloro che se ne fanno carico. Se nell’incipit de La
dolce vita (1960) di Fellini la statua di Gesù trasportata in elicottero nei
cieli di Roma annunciava la fuoriuscita della religione e della fede dalla
città degli umani, qui la fede è, da un lato, già marginale, confinata nello
spazio chiuso e periferico del monastero, e, dall’altro, disponibile per
nuovi inveramenti, a misura della libertà e del rischio degli individui che,
come Ida, sono disposti ad assumerne l’orizzonte di senso nonostante
l’incertezza in cui vivono.
L’impianto narrativo di Buñuel viene in definitiva riutilizzato da Pawlikowski
per rovesciarne l’assunto. Solo apparentemente, si può ad esempio notare,
Wanda svolge nel film il medesimo ruolo di don Jaime, lo zio di Viridiana che
si toglie la vita quando questa decide di ritornare al convento e che, con il
suo gesto, impone alla nipote di tornare sui suoi passi. Ida, a differenza di
Viridiana, non ha bisogno di emanciparsi da una fede opprimente. E non
deve nemmeno «trovare» se stessa, ma piuttosto accettare e custodire i
frammenti di ciò che è e di ciò che l’ha condotta fin lì. Non è la sua fede
a impedirle di farlo, né essa è sufficiente per riuscire nell’impresa. La fede
è qui solo uno degli elementi in gioco, nei confronti del quale il regista
mantiene uno sguardo distaccato, che sospende il giudizio per guadagna-
re una prospettiva più adeguata, integralmente umana. Né salvifica né
ipocrita, la fede di Ida chiede di essere colta per quello che è: un vestito,
un habitus con il quale attraversare l’esistenza senza per questo sentirsi
al riparo dai suoi colpi. Sapendo che forgiare da essa, e solo da essa, la
propria identità, rischierebbe di trasformarla in una maschera.
Prima del Verbo, l’immagine
di Davide Zordan

Titolo		                Su Re
Regia		                 Giovanni Columbu
Sceneggiatura           Giovanni e Michele Columbu
Fotografia              Massimo Foletti, Uliano Lucas, Francisco Della Chiesa e Leone Orfeo
Scenografia             Sandro Asara
Interpreti principali   Fiorenzo Mattu, Pietrina Menneas, Tonino Murgia, Paolo Pillonca,
			                     Antonio Forma, Luca Todde
Produzione              Sacher Film, Italia 2012
Durata 		               80’

Negli studi di cinema di area anglosassone la distinzione tra Jesus film e
Christ figure si può oramai ritenere convenzionalmente accolta. Con tali
categorie si intende, nel primo caso, la rappresentazione attraverso la
finzione cinematografica della vicenda di Gesù, desunta dai vangeli o da
altre fonti; mentre nel secondo, una tipologia di personaggi del cinema che,
per vari motivi, rimandano esplicitamente alla figura di Gesù, ripercorrendo
un cammino per certi versi analogo al suo. Con la prima espressione si
indica dunque un genere, o sottogenere, ben attestato nella storia del
cinema fin dalle sue origini, mentre con la seconda ci si riferisce a ciò che,
in base a un rimando analogico più o meno esplicito, caratterizza certi
personaggi di finzione e i film che li mettono in scena. Si tratta dunque di
categorie ben distinte, anche se non prive di rimandi, nel vasto intreccio
intertestuale del prodotto cinematografico.
Una volta assunta tale utile categorizzazione, non si può non riconoscere
che il contributo del cinema italiano al genere del Jesus film sia stato
decisivo, a partire da un film pionieristico e ambizioso come Christus del
1916, passando per i capolavori di Pasolini e di Rossellini, fino al Gesù
di Zeffirelli, che è riuscito a imporre nella cultura popolare una sorta di
immagine «canonica» di Gesù.
Il cinema di casa nostra sembra però anche convinto che non ci si debba
fermare ai fasti del passato e che, in altri termini, sia ancora possibile
fare film su Gesù senza riproporre un’immagine già vista e una storia già
raccontata, ma anzi allestendo un cinema vitale e capace di interrogare

Recensione pubblicata in «Munera. Rivista europea di cultura», 3, 2013, pp. 75-79..
22                                                                 Davide Zordan

l’umanità del nostro tempo. Prova ne sono opere significative quali Io
sono con te (2010) di Guido Chiesa, che si concentra sui vangeli dell’in-
fanzia provando in qualche modo a riattualizzarne l’impianto midrashico,
e soprattutto Su Re di Giovanni Columbu, incentrato sugli eventi della
Passione e distribuito nelle sale a fine marzo di quest’anno grazie al so-
stegno convinto della Sacher Film di Nanni Moretti. Ciò che più colpisce
in Su Re è proprio la problematizzazione radicale della categoria di Jesus
film e di quella complementare di Christ figure, che segna uno scarto
vigoroso all’interno di un genere apparentemente così ben consolidato
del cinema religioso.
Girato nel nuorese, tra le rocce aspre e lunari che attorniano Monte Corrasi,
Su Re (in italiano «Il Re») si avvale di attori non professionisti che recitano
nella loro lingua sarda e vestono i costumi della tradizione locale. Una
scelta in linea con strategie ben collaudate dell’arte cristiana, che fanno
rivivere gli eventi della vita di Gesù nella cornice di un presente storico
di volta in volta riadattato. Tuttavia il film non si accontenta di ripetere,
adeguandoli, i modelli della tradizione iconografica, ma introduce scelte
di rottura molto ardite.
La vicenda si apre nel sepolcro dove il corpo senza vita di Gesù giace
tra le braccia di Maria e fa rivivere, attraverso una serie di flashback
apparentemente sconnessi, alcuni momenti della vita e, soprattutto,
della passione di Gesù stesso.
Le riprese sono state effettuate esclusivamente con camera a spalla, il
cui sommovimento costante, percepibile anche nei campi lunghi, non
consente in alcun momento una visione rilassata ed «estatica». Chi
cerchi la bella immagine in grado di rendersi ospitale nei confronti del
sentimento religioso suscitato dai fatti narrati è destinato a rimanere
deluso. Non è per questa via, come si vedrà, che il film vuole condurci
incontro al personaggio di Gesù.
Un cartello iniziale individua nei quattro vangeli canonici la fonte del film,
evidenziando così un rimando al tempo stesso palese, ma comunque
non sufficiente a definire le coordinate ideali dell’opera. Affermare che
Su Re è «tratto» dai vangeli è materialmente corretto. Il fatto è però che
l’ambizione del film è quella di porsi in qualche modo a monte della
scrittura dei vangeli, pur esplicitamente evocata, a monte della tradizio-
ne orale che tale scrittura ha originato, fino al momento in cui l’evento
stesso della morte di Gesù avvia, nella mente e nel cuore dei suoi primi
e prime seguaci, il lavorio della memoria. Una memoria inizialmente
Prima del Verbo, l’immagine                                                23

fatta di frammenti, di pezzi di frasi, di promesse ancora informi, o solo
parzialmente comprensibili. Una memoria ricomposta faticosamente
attraverso il riaffiorare di suoni, gesti, perfino quasi di odori; attraverso
squarci improvvisi, brandelli di sogni o speranze (apparentemente) deluse.
Quale immagine è possibile ricomporre da una simile accozzaglia di
elementi spuri, non ancora filtrati da una comprensione teologica, non
ancora regolati dai meccanismi della narrazione, non ancora strutturati in
un abbozzo di dogma, dunque alla fine non ancora credibili? Un’immagine
priva di forma, e perciò, anzitutto, di bellezza. Con intuizione finemente
teologica, Columbu ha il coraggio di rompere in maniera netta con la
tradizione iconografica consegnataci da venti secoli di arte cristiana,
dal buon (e bel) Pastore delle catacombe al Gesù imberbe e delicato
dei preraffaelliti, fino alla lunga serie dei Gesù cinematografici la cui
presenza attoriale attira magneticamente l’attenzione dello spettatore.
L’irrinunciabile bellezza di questi ritratti, sembra suggerire Columbu, è in
realtà un riflesso. Più che rappresentarci Gesù, essa identifica l’ideale di
perfezione umana che noi da sempre proiettiamo in lui. Abbiamo certo
buone ragioni per farlo, giacché quello stesso ideale si nutre della fede
che egli ha suscitato in noi. Ma è possibile immaginare un ritratto di
Gesù che prescinda da tale fede? Che ne delinei la figura spogliandola,
per così dire, della sua bellezza teologica, mostrandoci in lui l’uomo che
soffre attorniato dal disprezzo della sua gente, la sua regalità irrisa, le
sue esigue parole confuse nella cacofonia di una umanità vociante e
turbata? Mostrandoci, insomma, l’immagine «prima» del Verbo? Certa-
mente ciò è possibile, ma soprattutto di fronte a tale ritratto informe,
sapremo ancora riconoscere il Cristo della fede?
Questa è, mi pare, la sfida che pone Su Re, una sfida anzitutto estetica,
ma anche teologica, nella misura in cui provoca la fede, o l’assenza di
fede, dello spettatore trascinandola in un territorio inospitale e invitandola
a ritrovare in questo luogo le proprie ragioni.
Columbu giustifica la sua scelta di un Gesù tozzo e sgraziato sulla base
del riferimento alla pericope del Deutero Isaia che apre il film, pronunciata
da una voce fuori campo (forse quella di Giuseppe d’Arimatea, o forse
quella anonima che suggerisce un primo abbozzo di interpretazione
teologica): «Non aveva aspetto né bellezza da incantare. Non aveva
niente. Sembrava castigato da Dio». Sul piano meramente esegetico
l’interpretazione appare forzata, ma si rivela efficacissima sul piano ci-
nematografico, per il modo in cui invita il pubblico a prendere posizione.
24                                                               Davide Zordan

Il fatto di lasciarsi interrogare da quell’assenza di grazia e di eleganza
che non attrae lo sguardo, di non consentirle di tenerci a distanza da
Gesù e dalle sue sofferenze, e dunque di mettere in questione l’ideale di
una bellezza armoniosa e scontata, che già ricompone in anticipo i tratti
sfigurati del Volto santo, rende possibile, nel buio della sala cinemato-
grafica, il dispiegarsi di un vero itinerario spirituale. Peraltro a Fiorenzo
Mattu, l’attore che interpreta Gesù, era stato inizialmente assegnato il
ruolo di Giuda, che ha invece nel film dei tratti insolitamente aggraziati
e gentili. Un rovesciamento paradossale che non pare privo di legami
con la tradizione cinematografica – la quale volentieri ha costruito i
personaggi di Gesù e di Giuda sulla base di un immediato contrasto, sul
piano visivo, simbolico e narrativo – ma che qui ancora una volta viene
riscritta da capo a fondo, e suscita nuovi interrogativi. La «bellezza» di
Giuda è solo lo specchio che restituisce accentuata la «bruttezza» di
Gesù, o non è forse anche un richiamo al tema affascinante di Giuda in
quanto «strumento» della grazia divina?
Ma se il film si propone come un itinerario spirituale è anche per il modo
in cui ricusa qualunque elemento formale e narrativo che si presti a essere
«consumato» senza vera partecipazione. In questo senso Su Re è una
sfida continua agli standard della fruizione cinematografica. Il modo, ad
esempio, in cui le diverse sequenze in flashback si susseguono suscita
uno stato di disagio, perché nessun elemento convenzionale aiuta a
cogliere i passaggi dall’una all’altra di esse.
Manca l’accompagnamento musicale, presente solo nel finale, così come
i tipici riferimenti formali che solitamente aiutano a capire quando una
singola unità narrativa si apre o si chiude: i passaggi sono bruschi,
inaspettati, non dettano un ritmo alla vicenda e lasciano perciò lo
spettatore in balia di un flusso di immagini che appare disarticolato,
non ancora composto secondo un ordine intelligibile. Manca la chiave,
l’impalcatura teologica che consente a tutti i singoli pezzetti di essere
collocati al loro posto esatto, e che è andata in frantumi per l’opera di
appassionata decostruzione operata dalla regia. Nessuno allora può
sostituire lo spettatore nel lavoro necessario a ridare un senso a questa
sofferenza, a questa morte, per consentirle di rinviare alle parole che nel
finale giungono, inaspettate, dal buio sepolcro: «Dopo tanto dolore, Lui
torna a splendere, e con Lui il mondo».
Il cinema, la fede e il visibile
di Davide Zordan

Quando si parla delle potenzialità religiose del cinema, dei modi in cui
il mezzo cinematografico riesce a onorare la dimensione spirituale
offrendone una rappresentazione, una delle formule più ricorrenti è
quella del «vedere» o «filmare l’invisibile». L’espressione, che risuona
spesso in occasione dei convegni e si ritrova in varie pubblicazioni sul
tema, sottolinea la capacità di rivelare che il cinema possiede, dando
visibilità a qualcosa che in condizioni normali si sottrae alla nostra
vista. È interessante notare che questo potere di rivelazione del cinema
fu notato e celebrato fin dagli esordi della settima arte, ma non tanto
in relazione al dato religioso. Molto semplicemente si notava come il
cinema permettesse di «vedere l’invisibile» in maniera analoga ad altri
dispositivi ottici capaci di estendere le capacità dell’occhio umano,
come il cannocchiale o il microscopio. È chiaro che se l’invisibile si fa
visibile, in questo contesto, non è per una accresciuta capacità di inda-
gare le zone più misteriose e profonde dell’esperienza, ad esempio la
dimensione spirituale, ma per un mero fatto tecnico – anche se questo
poté apparire come un prodigio agli spettatori dei primi film proiettati.
Riflettere invece a partire da cinema e fede […] significa porre l’accento,
mi pare, non tanto sulle virtualità rivelative del cinema, ma sulla fede
come esperienza umana che non può non documentarsi visivamente.
In questo senso non è l’invisibile a mostrarsi improvvisamente, ma
piuttosto il visibile ad ospitare i percorsi e i gesti della fede di tanti
uomini e donne, e questi gesti interessano il cinema come tutto ciò
che è radicato nell’esperienza umana. «Con le mie opere ti mostrerò
la mia fede», afferma un celebre passaggio della Lettera di Giacomo
(2,18), ed è precisamente così che la fede si mostra nello spazio della
visibilità: attraverso opere, condotte, testimonianze, atti, voti, suppli-
che. Il cinema dell’invisibile, intendendo con questo il cinema che ha
una ambizione spirituale, è chiamato anzitutto a misurarsi con queste
pratiche del visibile, ed è chiamato a restituirle in maniera adeguata,

Testo letto al convegno internazionale «Film and Faith», Pontificia Università Lateranense,
Roma, 1-2 dicembre 2011.
26                                                              Davide Zordan

cioè rispettando il contesto umano e fenomenico del loro prodursi,
senza enfasi inopportune. L’incontro tra cinema e fede si realizza qui,
nell’ambito del pienamente visibile, di ciò che è accessibile a tutti pur
restando oscuro a chi – regista o semplice spettatore – non possiede
una sensibilità adeguata e una attenzione davvero partecipativa.
La rassegna cinematografica di cui mi occupo da alcuni anni, il Religion
Today Film Festival che ha base a Trento, si muove esattamente lungo
questa direttiva. Si tratta di una iniziativa nata nel 1997 dalla volontà di
valorizzare il cinema come mezzo di conoscenza reciproca tra le religioni,
in una società alle prese con un analfabetismo religioso crescente e
con tensioni sociali e politiche alimentate, più o meno strumentalmente,
da motivi religiosi. Uno degli aspetti più caratterizzanti del festival è
la creazione di spazi di confronto e convivenza, durante i pochi giorni
della rassegna, tra registi e professionisti di cinema accomunati da un
interesse per il religioso e per il modo in cui ciò che ha a che fare con
la fede/le fedi può essere espresso in pellicola.
Ogni anno il Religion Today Film Festival offre una rassegna di film di
diverse tipologie (fiction, documentari, cortometraggi) che aiutano a
farsi un’idea della varietà e della complessità dell’universo religioso e
delle sue dinamiche. E proprio complessità e dinamismo mi sembrano,
anche alla luce di quello che raccontano i film presentati al Religion
Today, due elementi che oggi caratterizzano particolarmente l’esperienza
religiosa vissuta a tutte le latitudini. Le religioni veicolano tradizioni
culturali antiche e venerabili ma in continuo mutamento, anche se tale
mutamento può apparire impercettibile. Non solo le forme e le strutture
sono soggette al cambiamento, ma anche i modi dell’adesione personale
di ciascuno. Ora il cinema, arte del tempo, è particolarmente adatto
a cogliere il cambiamento che trapela nel persistere delle credenze.
Nel breve tempo a mia disposizione vorrei presentare in modo piuttosto
sommario tre film selezionati per la rassegna di Religion Today tra il
2008 e il 2009, per esemplificare quanto detto finora. Ho scelto voluta-
mente film che non solo riguardano religioni diverse (islam, ebraismo,
cristianesimo) ma che utilizzano linguaggi diversi e appartengono a
tipologie differenti (un classico film di finzione, un documentario e un
film che si può definire di ricerca, anche dal punto di vista linguistico
ed espressivo), proprio per sottolineare la varietà delle prospettive
possibili. I film hanno però, mi pare, almeno un punto in comune, ed
è il tentativo di problematizzare il discorso attorno alla fede, in modo
rispettoso e direi empatico.
Puoi anche leggere