Il VOLO la ballata dei picchettini - Teatro delle Albe / Ravenna Teatro RAVENNA FESTIVAL 2015
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RAVENNA FESTIVAL 2015 Teatro delle Albe / Ravenna Teatro il VOLO la ballata dei picchettini Teatro Rasi giovedì 25 giugno, ore 21
Sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Italiana con il patrocinio di Senato della Repubblica Camera dei Deputati Presidenza del Consiglio dei Ministri Ministero per i Beni e le Attività Culturali Ministero degli Affari Esteri con il sostegno di Comune di Ravenna con il contributo di Comune di Cervia Comune di Comacchio Comune di Forlì Koichi Suzuki Hormoz Vasfi Comune di Russi partner
RAVENNA FESTIVAL RINGRAZIA Associazione Amici di Ravenna Festival Apt Servizi Emilia Romagna ARCUS Arte Cultura Spettacolo Autorità Portuale di Ravenna BPER Banca Cassa dei Risparmi di Forlì e della Romagna Cassa di Risparmio di Ravenna Classica HD Cmc Ravenna Cna Ravenna Comune di Cervia Comune di Comacchio Comune di Forlì Comune di Otranto Comune di Ravenna Comune di Russi Confartigianato Ravenna Confindustria Ravenna Coop Adriatica Cooperativa Bagnini Cervia Credito Cooperativo Ravennate e Imolese Eni Federazione Cooperative Provincia di Ravenna Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna Gruppo Hera Gruppo Mediaset Publitalia ’80 Gruppo Nettuno Hormoz Vasfi Itway Koichi Suzuki Legacoop Romagna Micoperi Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo Poderi dal Nespoli PubbliSOLE Publimedia Italia Quotidiano Nazionale Rai Uno Rai Radio Tre Reclam Regione Emilia Romagna Sapir Setteserequi Sigma 4 SVA Plus Concessionaria Volkswagen Unicredit Unipol Banca UnipolSai Assicurazioni Venini
Antonio e Gian Luca Bandini, Ravenna Presidente Francesca e Silvana Bedei, Ravenna Gian Giacomo Faverio Maurizio e Irene Berti, Bagnacavallo Mario e Giorgia Boccaccini, Ravenna Vice Presidenti Paolo e Maria Livia Brusi, Ravenna Leonardo Spadoni Margherita Cassis Faraone, Udine Maria Luisa Vaccari Glauco e Egle Cavassini, Ravenna Roberto e Augusta Cimatti, Ravenna Paolo Fignagnani Ludovica D’Albertis Spalletti, Ravenna Giuliano Gamberini Marisa Dalla Valle, Milano Maria Cristina Mazzavillani Muti Letizia De Rubertis e Giuseppe Scarano, Giuseppe Poggiali Ravenna Eraldo Scarano Ada Elmi e Marta Bulgarelli, Bologna Gerardo Veronesi Rosa Errani e Manuela Mazzavillani, Ravenna Segretario Dario e Roberta Fabbri, Ravenna Pino Ronchi Gioia Falck Marchi, Firenze Gian Giacomo e Liliana Faverio, Milano Paolo e Franca Fignagnani, Bologna Aziende sostenitrici Domenico Francesconi e figli, Ravenna Alma Petroli, Ravenna Giovanni Frezzotti, Jesi CMC, Ravenna Idina Gardini, Ravenna Consorzio Cooperative Costruzioni, Stefano e Silvana Golinelli, Bologna Bologna Dieter e Ingrid Häussermann, Credito Cooperativo Ravennate e Bietigheim‑Bissingen Imolese Lina e Adriano Maestri, Ravenna FBS, Milano Silvia Malagola e Paola Montanari, Milano FINAGRO, Milano Franca Manetti, Ravenna Kremslehner Alberghi e Ristoranti, Gabriella Mariani Ottobelli, Milano Vienna Pietro e Gabriella Marini, Ravenna L.N.T., Ravenna Manfred Mautner von Markhof, Vienna Rosetti Marino, Ravenna Maura e Alessandra Naponiello, Milano SVA Concessionaria Fiat, Ravenna Peppino e Giovanna Naponiello, Milano Terme di Punta Marina, Ravenna Giorgio e Riccarda Palazzi Rossi, Ravenna TRE - Tozzi Renewable Energy, Ravenna Gianna Pasini, Ravenna Gian Paolo e Graziella Pasini, Ravenna Desideria Antonietta Pasolini Dall’Onda, Ravenna Giuseppe e Paola Poggiali, Ravenna Carlo e Silvana Poverini, Ravenna Paolo e Aldo Rametta, Ravenna Stelio e Grazia Ronchi, Ravenna Stefano e Luisa Rosetti, Milano Giovanni e Graziella Salami, Lavezzola Guido e Francesca Sansoni, Ravenna Francesco e Sonia Saviotti, Milano Roberto e Filippo Scaioli, Ravenna Eraldo e Clelia Scarano, Ravenna Leonardo Spadoni, Ravenna Gabriele e Luisella Spizuoco, Ravenna Paolino e Nadia Spizuoco, Ravenna Thomas e Inge Tretter, Monaco di Baviera Ferdinando e Delia Turicchia, Ravenna Maria Luisa Vaccari, Ferrara Roberto e Piera Valducci, Savignano sul Rubicone Gerardo Veronesi, Bologna Luca e Riccardo Vitiello, Ravenna
RAVENNA FESTIVAL Direzione artistica Cristina Mazzavillani Muti Franco Masotti Angelo Nicastro Fondazione Ravenna Manifestazioni Soci Comune di Ravenna Regione Emilia Romagna Provincia di Ravenna Camera di Commercio di Ravenna Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna Confindustria Ravenna Confcommercio Ravenna Confesercenti Ravenna CNA Ravenna Confartigianato Ravenna Archidiocesi di Ravenna-Cervia Fondazione Arturo Toscanini Consiglio di Amministrazione Presidente Fabrizio Matteucci Vicepresidente Mario Salvagiani Consiglieri Ouidad Bakkali Galliano Di Marco Lanfranco Gualtieri Sovrintendente Antonio De Rosa Segretario generale Marcello Natali Responsabile amministrativo Roberto Cimatti Revisori dei conti Giovanni Nonni Mario Bacigalupo Angelo Lo Rizzo
Domenico Mazzotti, morto sul lavoro nel marzo del 1947, ha insistito perché si raccontasse questa storia. La sua foto è visibile sotto l’unica gru rimasta, nella darsena di città. In arabo Dar Essena’a, Casa dell’industria, dell’arte e del fare. Tahar e Luigi, nati rispettivamente il 24 e il 25 dicembre del 1958, il primo ad Algeri, il secondo a Ravenna, hanno deciso di tenere, assieme a tre musicisti, una Conferenza sul Marzo per raccontare di fabbrica, porti, lavoro, incidenti, cormorani, nebbia e fuochi. Insieme ripercorrono anche la tragedia della Mecnavi, dove persero la vita, nel marzo 1987, tredici picchettini: morirono soffocati come topi nei cunicoli della nave gasiera “Elisabetta Montanari”. Nello spettacolo si alternano narrazioni e testi in musica, ispirati alle ballate popolari e alla cultura hip hop.
Teatro delle Albe / Ravenna Teatro il VOLO la ballata dei picchettini di Luigi Dadina, Laura Gambi, Tahar Lamri narrazione Tahar Lamri, Luigi Dadina basso e percussioni Francesco Giampaoli, Diego Pasini rap Lanfranco-Moder-Vicari musiche Francesco Giampaoli testi rap Lanfranco-Moder-Vicari scene e costumi Pietro Fenati, Elvira Mascanzoni tecnica Fagio, Danilo Maniscalco regia Luigi Dadina organizzazione e promozione Marcella Nonni, Serena Cenerelli ufficio stampa Rosalba Ruggeri fotografie Davide Baldrati coproduzioneTeatro delle Albe/Ravenna Teatro, Ravenna Festival si ringraziano per i suggerimenti e le suggestioni, Sauro Cordelli, Gerardo Guccini, Franco Masotti, Michele Pascarella, Federica Tamburini e Paolo Trabucco, per lo sguardo stimolante, Igiaba Scego, per la collaborazione paziente e preziosa, Max Penombra, e infine per la disponibilità degli spazi e il sostegno, il Cisim di Lido Adriano
Omelia di S.E. Mons. Ersilio Tonini Arcivescovo di Ravenna e Cervia C’è qualcosa di assoluto in questa tragedia. C’è un valore assoluto in queste vite stroncate. C’è un amore assoluto che è stato ferito: quello di padri e madri e fratelli e sorelle, e c’è un amore assoluto che è stato vilipeso e ferito, ed è l’amore di Dio, l’amore della Sorgente. E quando è amore che ha dato la vita, non può accettare che la vita sia offesa. Il no dei nostri giovani di ieri è un eco di quel NO profondo, totale, assoluto, infinito di cui rintrona l’universo: NO! Non doveva! Non poteva! Non dovrà! Lasciatemi dire: è un’affermazione dell’universo, è l’anticreazione, è il delitto assoluto. E noi l’abbiamo avvertito: la tenerezza per le vite, e anche l’ira uscita dal cuore è espressione di questo NO. C’è qualcuno, qui, in mezzo a noi che ha intonato l’animo al pensiero di Cristo Signore: sono i famigliari, i parenti. Perché loro sì che son l’immagine dell’amore di Dio, loro sì che sono lo specchio in cui si riverbera quell’amore assoluto. Quando un uomo e una donna hanno messo al mondo un figlio, quel figlio diventa il fine dell’universo. È da loro che si può apprendere la regola e la base fondamentale del convivere civilmente, la misura del valore inalienabile, intangibile di ogni esistenza umana. Hanno concepito, hanno visto nascere, si sono assunti la responsabilità di dare la vita. E ne han fatto il proprio bene, l’amore puro, amore totale, amore che è pronto a scambiare vita con vita, molto di più, a sacrificare la vita per la vita. Fossero andati i genitori a visitare quei cunicoli avrebbero detto: “No, figlio mio! Meglio povero, ma con noi!”. Avrebbero avvertito l’umiliazione spaventosa, la disumana umiliazione. Un ragazzo di 17-18 anni che è costretto a passare 10 ore in cunicoli dove, posso dirla la parola? Non vorrei scandalizzare, dove possono camminare i topi! Uomini e topi! Parola dura, detta da un Vescovo dall’altare: eppure deve essere detta, perché mai gli uomini possano essere ridotti a topi! E niente legittima, niente serve da scusa, niente diminuisce la responsabilità! Gli uomini della civiltà occidentale hanno imparato dalla predicazione del Vangelo che ogni uomo che nasce è dovuto alla responsabilità di Dio, si deve a Dio, è stato preceduto da una scelta personale, tu per tu: chiamato per nome! Li chiameremo ad uno ad uno col nome loro, come Colui che li ha chiamati per nome ad uno ad uno. (...) Il Vostro Vescovo vuol ricordare qui, in questo luogo che sa di confine, di frontiera tra il finito e l’infinito, il tempo e 9
l’eterno, vuole ricordare qui che questi nostri fratelli vengono dall’eternità, sono avvolti in eterno, sono frutto di decisioni eterne, definitive! Su questo valore, di fondo, “l’uomo visto con gli occhi di Dio”, è nato l’umanesimo: l’umanesimo umano a misura dell’umanesimo di Dio. Tutto questo io lo ricordo, per segnalare che un processo strano si va compiendo: una crescita stupefacente della tecnologia che moltiplica i beni della vita e, a rovescio, un’altra corrente di pensiero e di condotta che va sminuendo la vita umana come valore. E qui lasciatemi fare un passaggio: è il mondo del lavoro il luogo dove più si compie questo processo stranissimo, dove s’incontrano progresso tecnologico infinito, segno della potenza immensa umana e nello stesso tempo delle degradazione del cuore dell’uomo. Non è vero che il mondo del lavoro sia quel mondo pacifico, tranquillo che ha raggiunto la sua sicurezza! Non è vero che tutto è rivolto al benessere di ogni singolo uomo: non è vero! E da Ravenna, dalla stiva di quella nave, nasce una denuncia: il Vostro Vescovo non fa nomi, non è contro questo o contro quello, ma la denuncia è che davvero l’umanità sta distruggendo senza saperlo i tesori della propria ricchezza di umanità: il tesoro dell’amore, la capacità di amare! Chi poi nel mondo del lavoro più risente di questo processo sono proprio i giovani. Non per niente il maggior numero delle vittime di Ravenna sono giovani, condannati al ricatto. Vengon presi questi ragazzi e lanciati, dove? Là dove non sanno che cosa li aspetta. E aggiungo: l’attuale generazione giovanile è forse la migliore dalla fine della guerra in poi. Non merita questa generazione tanta umiliazione. La nostra generazione di adulti, che ha salutato con festa il superamento del terrorismo, non s’accorge che va riproducendo la tentazione del terrorismo. A questo punto vorrei richiamare l’attenzione di tutti, comunità cristiana e comunità civile, su un valore di fondo racchiuso in un termine latino, di sapore cristiano: coscientia. All’origine della tragedia di Ravenna ci sta proprio questo: la degradazione della coscienza. Bisogna pur dire che si sta perdendo il confine tra bene e male: il guadagno, il successo, la riuscita, la propria gratificazione prendono il posto di quell’attenzione alla coscienza che, anche nella nostra Romagna, gli stessi atei han conservato come tesoro prezioso da trasmettere ai propri figli: l’onesto. Il bene che si compie a costo di qualsiasi perdita, il male che si evita a costo di rinunciare a qualsiasi guadagno, lieti della coscienza onesta, pulita. Ma la coscienza per arricchirsi deve pur avere un punto di riferimento a questi ragazzi, questi nostri figlioli che son morti ci dicono alla fin fine che il valore attorno al quale la coscienza si deve puntonare e impostare è l’amore, il valore della vita: nulla potrà essere lecito che sminuisca il valore della vita, e tutto dovrà essere tentato che aumenti lo sviluppo della vita. (...) Ci ritroveremo per studiare cosa si può fare per riparare alla mancanza d’amore, come si può correre là dove c’è il vuoto, come 10
si possano aprire spazi a questi nostri ragazzi i quali, per sapere che cosa valgono per padre e madre, non devono aver bisogno di tragedie come queste e per constatare che cosa divengano dei genitori quando, come stavolta, gli uccidono il figlio: il sole non è più sole, il cielo non è più cielo, il bianco non è più bianco, niente più ha valore, niente più ha valore. (in occasione dei funerali delle tredici vittime della tragedia della Mecnavi, avvenuta al Porto di Ravenna sulla nave “Elisabetta Montanari”, il 13 marzo del 1987) 11
Conversazione di Igiaba Scego con Luigi Dadina, Laura Gambi, Tahar Lamri Attraverso questo spettacolo avete capito qualcosa sulla vostra identità ravennate? Luigi Dadina Credo che l’identità sia quello che abbiamo vissuto durante la vita. Ho un legame molto forte con questa terra. Noi del Teatro delle Albe abbiamo scelto di fare teatro a Ravenna e in quegli anni – più di trent’anni fa – era impensabile. Il mio legame con questa terra è fatto dalle persone con le quali ho scelto di crescere. Tra queste molte sono straniere, come Tahar Lamri o Mandiaye N’Diaye. Ho parenti in Africa, come ho parenti qui. La mia identità è questa. Mi sono accorto a un certo punto che quello che hai fatto è quello che sei. Tahar Lamri La mia identità ravennate non la conosco, certamente posso provare a conoscerla attraverso il confronto. Mia madre non potrebbe mai leggere un mio testo perché non sa leggere in nessuna lingua. Però se venisse a vedermi a teatro vedrebbe i miei gesti, la mia mimica. Forse sarebbe contenta o forse sarebbe molto arrabbiata con me. A Ravenna io sono sospeso come qualsiasi immigrato e rimarrò sempre sospeso fino alla fine, ormai qui come in Algeria. Scrivendo questo testo sono tornato a cose molto intime, mi sono guardato bambino ad Algeri e ho provato tenerezza per me stesso. E la frase finale dice: “da bambini le cose sembrano tutte al loro posto”. Laura Gambi Abbiamo sollecitato Tahar a scrivere della sua vita ad Algeri e sono venute fuori delle cose molto belle che, come dice lui, sono intime. Utili per costruire un rispecchiamento, un confronto con Ravenna. Luigi e Tahar non sono due personaggi, portano in scena se stessi in prima persona. C’è stato un lavoro di avvicinamento alla complessità delle singole identità. Tahar Lamri Io ho pensato che dovevo anche cantare, perché Algeri fosse presente anche tramite il canto. Una cosa che salta all’occhio è la complessità temporale, i piani temporali che si intersecano. Per me il tempo non è mai lineare, ma ciclico.
Qual’è il vostro rapporto con il tempo nella narrazione scenica? Tahar Lamri La questione del tempo è fondamentale. La situazione di partenza dello spettacolo è una “conferenza sul mese di marzo”. Una cosa strana già di per sé. Quasi all’inizio cito Sant’Agostino, il nostro africano, e dico “Ma cos’è il tempo? se nessuno me lo chiede lo so, se invece lo devo spiegare a chi me lo chiede non lo so più” . Laura Gambi Ci sono tre diversi tempi. Il primo è quello del dubbio e dell’incertezza: la voce di un morto chiama e non si capisce bene che cosa chieda di ricordare. Poi c’è un tempo della “ri‑memorazione”, in cui si racconta, si rivive la tragedia della Mecnavi. La memoria è necessaria per elaborare e andare avanti. L’ultimo tempo è quello della meraviglia, un tempo in cui si ritrova il senso delle cose del mondo e di se stessi. Luigi Dadina In alcune pagine dedicate alla fabbrica, Simone Weil parla del taylorismo, dell’ossessione del tempo nell’organizzazione del lavoro in fabbrica, “un tempo che uccide”, dice lei. Avete parlato di classe operaia. Oggi non si parla più di operai, però ci sono lo stesso e sono ancora sottopagati. Che tipo di operaio esce fuori dallo spettacolo? Questa storia di fabbrica e di morti sul lavoro può dire qualcosa agli operai di oggi, che sono schiacciati non dalla crisi, ma soprattutto – penso – dal dolore? Luigi Dadina Da parte degli operai, fino a pochi decenni fa, c’era una consapevolezza della propria condizione. In un passaggio dello spettacolo racconto del bar del quartiere operaio in cui sono cresciuto. Lì, dopo la mezzanotte, si apriva una stanza magica dove gli operai andavano a giocare a poker. Era bellissimo! E noi ragazzini potevamo entrare, ma non potevamo farne parola con nessuno, tantomeno con le mamme. Se un operaio perdeva più della paga di un anno veniva messo in castigo per sette anni. Cioè non lo facevano più giocare, c’era una protezione sociale, lo aiutavano a rimettersi in sesto. Nel testo, in un passaggio brevissimo, diciamo: “adesso si gioca davanti al video poker”. Questo è successo alla classe operaia, ha perso la coscienza. Forse in occidente ci sono meno operai, ma ce ne sono milioni in Africa e nel resto del mondo. Quindi c’è una scelta di fondo da fare, che riguarda il modo di vivere, il rifiutare che qualcuno sia schiavo. Un altro aspetto che mi ha colpita è quello del passaggio generazionale, che è molto presente nel testo. Tra voi e i 14
morti, ma anche, sulla scena: tra voi e i musicisti, che sono più giovani, trentenni, e la storia che raccontate l’hanno vissuta in modo diverso. Io penso che la memoria sia come il testimone nelle staffette dell’atletica leggera: una generazione trasmette all’altra delle storie. Il tempo è circolare. Le storie passano, ma ritornano. Allora, io mi chiedevo, come avviene la trasmissione? Perché a volte il passaggio di storie è molto complicato. Luigi Dadina Per me è stato fondamentale fare riferimento all’idea di comunità. La comunità la inventi, non è che ce l’hai a disposizione. Noi abbiamo costruito una comunità teatrale di artisti e di spettatori, che a ogni progetto si amplia, si restringe, si modifica, cresce. Abbiamo lavorato sulle generazioni, perché se non lo si fa si rimane soli. Moder, ad esempio, l’ho incontrato a un laboratorio teatrale, quando lui aveva sedici anni e con questo spettacolo, per la prima volta, siamo in scena assieme. È interessante il lavoro di scrittura che avete fatto tutti e tre insieme. Quali dinamiche si sono instaurate? E il passaggio dalla scrittura al palcoscenico... perché è una storia dove vi mettete in gioco come identità, come persone, non come personaggi. Laura Gambi Noi ci conosciamo da quasi venticinque anni. Questa scrittura è stata strana, un po’ magica. Luigi ha iniziato a scrivere perché era in ansia, scriveva, faceva leggere a me, poi mandava a Tahar. E mi chiedeva “Ma Tahar scrive?” E Tahar non scriveva, aspettava. E Tahar mi diceva “Adesso lo tengo un po’ sulle spine, poi scriverò anch’io”. E Luigi diceva “Ma perché Tahar non scrive?”. E io “... ma scriverà”. Un giorno abbiamo iniziato a rivedere assieme una prima stesura del testo e ognuno aveva le sue aspettative, ma abbiamo tagliato e spostato tante cose, con una certa tranquillità, ascoltandoci. Arrivati in fondo a questa prima giornata di lavoro assieme, abbiamo capito che forse ce l’avremmo fatta. Tahar Lamri Il mio amico Luigi mi ha convinto a prendere parte allo spettacolo anche come attore e, per dissipare i miei dubbi e le mie paure sull’imparare a memoria la parte, mi ha detto che non sarebbe stato così diverso dall’imparare il Corano. Sul momento, lusingato, non ho pensato ai dolori che hanno accompagnato questo mio imparare a memoria il Corano da piccolo: non ultima la falaqa, bastonate sui piedi per permettere all’intelligenza di salire dai piedi alla testa. Così dicevano. 15
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Le musiche di Franco Masotti La musica nello spettacolo è concepita quasi come un vero e proprio sound-track, c’è una dimensione narrativa e anche un po’ filmica del tutto. Lo spettacolo riesce a mettere assieme una tradizione – quella brechtiana – dell’intervento della canzone, che qui non è canzone, ma è musica che ne sottolinea i momenti e i passaggi drammaturgici. Si intercala con il parlato e si fonde alla narrazione. L’intero spettacolo, partendo dalla forma di una conferenza, con l’innesto della forma della ballata diventa qualcosa di estremamente particolare. Le sonorità partono dal blues e quindi c’è una dimensione liquida, che però è apparentemente lontana dal suono abbastanza secco dei bassi, che oltretutto sono suonati in buona parte con la penna. Il suono rimanda anche a una dimensione di blues del delta e, quindi, a una dimensione di acqua, di palude. Quello del basso è, per gran parte, un suono lento ma, nello stesso tempo, è un suono che prende la pancia, i visceri. C’è un’analogia tra l’altezza dei suoni, il timbro e la dimensione acquatica che rimanda al ventre della nave, al metallo, mentre il rap si innesta meravigliosamente nel dialogo tra i due bassi e le voci dei due narratori. In passato ho avuto difficoltà con il rap, ho faticato a dargli un valore musicale alto, invece, in questo caso non potrei pensare a niente di più perfetto. Il lavoro tra testo, ritmo e musica funziona e conferisce allo spettacolo una dimensione drammatica, ma anche di nenia incantatoria. Il rap riesce a farsi, in qualche modo, anche canto funebre e questo per me è un inedito mai sentito. La musica e il canto riescono a raggiungere una dimensione rituale, che si ritrova nel breve canto Gnawa: la musica come cura della memoria. Cura della persona umana. 17
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La città e il cuore dell’uomo di Tahar Lamri Allora vennero fuori dall’Erebo le anime dei morti: giovani spose e ragazzi, e vecchi che avevano molto sofferto, ingenue fanciulle con un dolore recente nel cuore e tanti uomini colpiti dal bronzo delle lance e morti in battaglia, con le armi grondanti sangue. (Odissea, xi, vv. 37-41) Senza le cose presenti sensibili e tangibili non potremmo mai avere sogni. Così le tradizioni in ogni luogo su questa terra insegnano che i defunti si fanno vedere di notte oppure nei meandri delle foreste: cosa più vicina alla verità di tutta la finzione teologica che ci separa dai morti e li relega in luoghi appartati. E quando Ulisse convoca le ombre dei morti attorno alla fossa riempita di sangue, descrive in modo perfetto, in un potente gioco dell’immaginazione, come in una bella e perfetta sinfonia, il rapporto tra i vivi e i morti. Sono ombre impalpabili, appena abbozzate, così come sono le nostre deboli e inconsistenti immagini dei ricordi, poiché è vero, profondamente vero, che immaginiamo soltanto attraverso azioni indistinte le cose attorno a noi, come fuoco e fumo. Come tratti. Tutto è quindi armonia in questa evocazione. Tutto. Fino alla spada di Ulisse che gli permette di farsi largo fra questa folla di ombre per mettere ordine in questo commovente sogno ad occhi aperti. È l’azione che supera il sogno e la volontà non può cambiare che tramite vivi movimenti del corpo. Movimenti diretti. Con destrezza. La spada, utensile tuttofare, testimone più affidabile del braccio e della mano. Ed è il sentimento poetico che vede più giusto del sapere: si può essere eruditi e ignorare che l’unico mezzo per cambiare idea è quello di cambiare azione. Si cerca invano di esorcizzare pensieri con altri pensieri. L’antico esorcismo tramite il gesto rimane quello più efficace e saggio. Lo sanno ancora oggi i Gnawa del Nord Africa, lo sanno ancora oggi i Lebu del Senegal: i primi tramite i numerosi gesti del canto, i secondi tramite i gesti della rappresentazione. L’esorcismo con l’azione è senza dubbio il migliore. Tutto in questo racconto fantastico è vero: Achille morto dice: “meglio schiavo tra i vivi che re tra i morti”. Discorso umano. Parola viva. Orione il cacciatore continua la caccia fra le ombre, insegue le ombre delle 19
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bestie che ha ucciso. Tutto diventa ombra. Le bestie anche. E gli alberi. E anche il terreno di caccia. L’immagine diventa pensiero, negata e conservata. Platone ha immaginato Omero senza mai sbagliarsi sul suo conto, perché aveva l’arte del credere che mette tutti i problemi sotto una buona luce. L’incredulità invece è l’anima di questa teologia triste che nega l’apparenza. Quando, a sua volta, Virgilio scende negli inferi, il ramo d’oro in mano e condotto dalla Sibilla cumana, le ombre, passioni morte, sono già diversamente collocate. Non più secondo arcani intrighi degli dei, ma rispondenti ad una inflessibile determinazione. O, giovane degno di pietà, se solo tu potessi rompere il tuo fato crudele, tu sarai Marcello. (Eneide, iv, 882) Marcello, speranza dell’impero, morto di morte prematura, prima di nascere. Inflessibile determinazione dove la speranza di ogni essere è presa e schiacciata. In Dante la discesa è più sicura, i passi sono più fermi, la potenza degli alberi annuncia la solidità del terreno e la verginità della schiena della terra. Dante segue Virgilio. Giudizio e libertà. Libertà non più pubblica ma privata. Non più di destino, ma di delitto, castigo, purificazione e salvezza. È il momento della colpa, del pentimento e del rimorso. Gli dei agli inferi, l’umano sui ripidi pendii e la luce sulle cime. La luce come unica giustizia. Nel 1860 Charles Baudelaire sosteneva che “le città cambiano più velocemente del cuore di un uomo”. Da allora le città si sono molto accelerate e in queste condizioni le memorie, necessariamente lacerate, possono essere ricomposte soltanto con un “lavoro che implica fatica”, se si vuole evitare il rischio sempre incombente di una specie di “revisionismo storico” della propria presenza nel passato e quindi nel presente con linguaggi interiori e trame narrative di sé incompiuti. Le città d’Europa sono cariche di storia, ad ogni passo si può inciampare nella Storia o abbracciarla. A volte basta incrociare lo sguardo fisso e eloquente di una fotografia incastrata in una lapide lungo la strada che guarda il mare, nella Darsena di città. Ne il Volo la ballata dei picchettini, è lo sguardo di Domenico, “vittima” del lavoro nel lontano marzo del 1947 che cattura lo sguardo di Luigi, dando inizio a un lungo dialogo inizialmente frantumato. Poi via via, in un processo di ascolto autobiografico, si ricompone la memoria e i passi si fanno più sicuri sul selciato dell’oggi. Era Ermete Trismegista che chiamava i morti “uomini nel mondo [...] giacché ciò che resta di lui, o meglio, egli tutto intero, per quanto possa essere intero un uomo nel senso della vita, è salito migliore al cielo”. 21
Tuttavia, per noi, come per gli antichi, la rimemorazione convoca riti, temporanea sospensione del giudizio, incomprensione per poter rientrare in possesso di ciò che è naturalmente nostro. La memoria. Collettiva e individuale. Così Il Volo, ripercorrendo antichi riti, si snoda in tre tempi essenziali: 1) Il tempo del dubbio, riassunto subito da un’enigmatica affermazione di Agostino da Ippona proprio sulla difficoltà di definire il tempo. 2) Il tempo della tragedia. Qui la tragedia della Mecnavi diviene anche un canto rap fortemente ispirato alle parole dell’allora vescovo di Ravenna, Mons. Ersilio Tonini. 3) Infine, il tempo della meraviglia, del racconto, della vicinanza, riassunto nella frase finale che chiude lo spettacolo “Da bambini, le cose sono sempre al loro posto”. E solo così, con questa frase finale, viene illuminato di nuova luce il racconto che apre lo spettacolo, quello del bambino che ricorda gli odori della giacca del nonno. Odori resi permanenti della nebbia di lunghi mesi. Il tempo circolare, il tempo del racconto, il tempo del viaggio e del viaggiatore che arriva carico di storie per fecondare la comunità di arrivo: storie di altri porti, di altre città, di un altro sole, di altre Casbah. Viaggiatore ancora carico di canti che vuole condividere con il suo interlocutore, prima sordo poi man mano attento, attentissimo, perché scopre che Ravenna dall’alto è un giardino. Non si supporrebbe questa trasformazione, in un uomo ossessionato dal petrolchimico, dalla lunga agonia dell’industria che non riesce ancora a diventare pienamente archeologia. Il tempo circolare richiede un mese centrale che è, per noi, il mese di marzo e richiede anche un tavolo rettangolare che è, per noi, il metodo della conferenza. Marzo è lo specchio di dicembre, mese di nascita dei protagonisti alle prese con la Memoria. Per fugare ogni dubbio che si tratti di pura finzione, i protagonisti declinano subito le loro generalità: “Io sono Luigi Dadina, sono nato a Imola...”, “Io sono Tahar Lamri, nato il 24 dicembre...” Declinare le generalità è attestare che i nomi citati in precedenza, Domenico Mazzotti e Marco Saporetti, così come i nomi che seguiranno, quelli dei tredici della Mecnavi, sono parte di noi, ma si dà del “tu” durante tutto lo spettacolo soltanto a Domenico, perché Domenico è il guardiano del faro, purtroppo rimasto a lungo inascoltato. Io, Signore, certamente mi arrovello su questo fatto, ossia mi arrovello su me stesso. Sono diventato per me un terreno aspro, che mi fa sudare abbondantemente. Non stiamo scrutando le regioni celesti, né misurando le distanze degli astri o cercando la ragione dell’equilibrio terrestre. Chi ricorda sono io, io lo spirito. Non è così strano che sia lungi da me tutto ciò che non sono io; ma c’è nulla più vicino a me di me stesso? 22
RAVENNA FESTIVAL 2015 gli arti sti
Teatro delle Albe/Ravenna Teatro Nel 1983 Marco Martinelli, Ermanna Montanari, Luigi Dadina e Marcella Nonni fondano il Teatro delle Albe. La compagnia sviluppa il proprio percorso intrecciando alla ricerca del “nuovo” la lezione della tradizione teatrale: il drammaturgo e regista Martinelli scrive i testi ispirandosi agli antichi e al tempo presente, pensando le storie per gli attori, che diventano così veri e propri co-autori degli spettacoli. Nel 1988 la compagnia incontra dei griots senegalesi, tra cui Mandiaye N’Diaye (“colonna” africana della compagnia da allora fino alla sua scomparsa, nel giugno 2014). La formazione diventa afro- romagnola e pratica un originale meticciato teatrale, esempio unico in Italia, che coniuga drammaturgia e danza, musica e dialetti, invenzione e radici. Gli spettacoli valgono alle Albe un grande successo di critica e di pubblico, evidenziando una poetica rigorosa, raffinata e emozionante, capace di restituire alla scena la sua antica e potente funzione narrativa. Fondamentale all’interno del Teatro delle Albe – oltre alla direzione artistica di Marco Martinelli, alle accensioni visionarie e la vocalità inquietante di Ermanna Montanari e al lavoro di attore-autore (nonché Presidente della cooperativa) di Luigi Dadina – è l’apporto di attori e attrici cresciuti nella fucina della non-scuola: Alessandro Argnani, Luca Fagioli, Roberto Magnani, Michela Marangoni, Laura Redaelli e Alessandro Renda, che dal ’98 a oggi, hanno segnato con la loro presenza scenica il percorso della compagnia. Il Teatro delle Albe produce da trent’anni spettacoli che hanno un circuito nazionale e internazionale ricevendo 25
numerosi premi e riconoscimenti in Italia e all’estero. Nel 1991 il Teatro delle Albe ha dato vita a Ravenna Teatro – Stabile di Innovazione riconosciuto dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali – che si è posto fin dall’inizio come “stabile corsaro”, portando avanti con il sostegno del Comune di Ravenna un’originale pratica di “coltura” teatrale della città, intrecciando le programmazioni di Teatro Contemporaneo al Teatro Rasi, la stagione di teatro di tradizione al Teatro Alighieri e i laboratori della non-scuola nei licei e negli istituti tecnici e professionali di Ravenna che coinvolgono circa 400 adolescenti ogni anno, assumendo l’importanza e il riconoscimento di un vero e proprio passaggio formativo. A partire dal 2001 il Teatro delle Albe ha portato l’esperienza teatral-pedagogica della non-scuola in tante città italiane: da Milano a Napoli-Scampia e in diversi luoghi in Europa e nel mondo (Chicago, Dakar, Caen e Limoges, Rio de Janeiro, Mons). Nell’edizione 2011, del Festival di teatro internazionale-Santarcangelo 41, diretto da Ermanna Montanari, si è sviluppato un nuovo festoso corso della non-scuola del Teatro delle Albe, Eresia della felicità, “versione majakovskiana” della ventennale esperienza, con 200 giovani di tutto il mondo che hanno impugnato i versi di Vladimir Majakovskij, diretti da Marco Martinelli. Un grande laboratorio teatrale a cielo aperto che ha trasformato lo Sferisterio di Santarcangelo in un campo incandescente di energia e eretica bellezza. 26
Luigi Dadina © Claire Pasquier Nel 1983, fonda il Teatro delle Albe (con Marco Martinelli, Ermanna Montanari e Marcella Nonni), di cui è attore-autore, contribuendo all’originale percorso del gruppo che unisce ricerca e tradizione, invenzione di linguaggi contemporanei e attenzione al proprio patrimonio etnico. Come attore partecipa a numerosi spettacoli della compagnia, scritti e diretti da Marco Martinelli, tra cui: Ruh, Romagna più Africa uguale, Siamo asini o pedanti?, Bonifica, Lunga vita all’albero, I Refrattari, Incantati, All’inferno!, Perhindérion. Nel 1991, con la nascita di Ravenna Teatro, prosegue il suo percorso teatrale in due direzioni: attore, nei lavori di Marco Martinelli, e autore e regista. Nel 1993, con l’attore senegalese Mandiaye N’Diaye, da’ vita a Griot Fulêr spettacolo che – per l’originalità delle storie africane e romagnole narrate – riceve la menzione al Premio Nazionale Stregagatto (1995-96). Griot Fulêr è diventato anche un libro, a cura di Laura Gambi (edizione AIEP). Nel 1996 mette in scena il lungo racconto Narrazione della pianura, frutto di un viaggio che parte dalla Romagna per arrivare nel cuore dell’Africa. Nel suo personale lavoro Dadina prende spunto dalla tradizione dei narratori che, nel secolo scorso, girovagavano nelle campagne romagnole di casa in casa, di stalla in stalla, a raccontare fole. Su questa scia, nasce l’idea di alcuni progetti teatrali che si rinnovano di anno in anno: Voci della Resistenza, con i protagonisti di quegli eventi storici; Le vie dei canti, tra teatro, musica e letteratura rivolto alle comunità immigrate; Trebbi nella pineta di Classe, narrazioni notturne intorno al camino, con ospiti speciali come Michele Serra, Gianni Mura, Antonio Moresco, Gerardo Guccini, Eraldo Baldini, Giorgio Terruzzi. Nel 2001 realizza Lido Adriano, porta d’Oriente, una serie di interventi-eventi e indagini socio-culturali sull’atipico sviluppo di quel territorio. Nel 2001 debutta Al placido Don, narrazione scritta con Renata Molinari, di cui è regista e unico interprete. Dal 2000 prende parte agli spettacoli di Marco Martinelli con interpretazioni memorabili: Baldus, Sogno di una notte di mezza estate, Salmagundi (2004), il dittico formato da LEBEN, drammaturgia di Marco Martinelli, e Sterminio di 27
Werner Schwab (2006 ), Stranieri di Antonio Tarantino (2008), L’Avaro (2010). Per il ruolo del padre in PANTANI viene candidato ai premi Ubu 2013 come “miglior attore non protagonista”. Nel 2013 realizza, con Massimiliano Benini, il documentario Pascoli e Pantani. La scorsa stagione debutta Amore e Anarchia, scritto con Laura Gambi, di cui è regista e interprete con Michela Marangoni. Dal 1994 è guida dei laboratori non-scuola e, dal 2001, segue con il gruppo rap “Il Lato Oscuro della Costa”, il laboratorio con adolescenti italiani e stranieri a Lido Adriano. Attualmente è presidente di Ravenna Teatro. 28
Laura Gambi Laureata in Filosofia teoretica, ha lavorato in servizi rivolti agli immigrati condividendo con questi ultimi un intenso percorso di lavoro culturale. Ha pubblicato tra gli altri: I Wolof del Senegal. Lingua e cultura (L’Harmattan, 1995), Awa che vive due volte (Aiep, 1998, ripubblicato da Elle-Unità Multimedia. Premio di studio “Luciana Sassatelli” del Centro Cabral, Bologna), il romanzo Le strade di Lena (Aiep, 2005), Il pieno e il vuoto: storie di uomini e donne tra l’Emilia-Romagna e l’Argentina (Torino, Altritalie, 2008). Dal 1997 è presidente di Libra, cooperativa sociale di ricerca e intervento, per cui ha coordinato numerose attività. Per lo spettacolo Griot Fuler, Laura Gambi ha curato l’omonimo volume di Luigi Dadina e Mandaye N’Diaye (Guaraldi-Aiep, 1994), dopo aver preso parte all’esperienza del Teatro delle Albe in Senegal. Nel 2014 per il teatro ha scritto, assieme a Luigi Dadina, Amore e Anarchia, storia dei due anarchici ravennati Maria Luisa Minguzzi e Francesco Pezzi, interpretato da Luigi Dadina e Michela Marangoni. In passato, sempre con Dadina, ha ideato Le vie dei canti, progetto tra teatro, musica e letteratura per le comunità di immigrati (1993) e pubblicato Lido Adriano. Porta d’oriente (Danilo Montanari, 2008), narrazione polifonica della genesi e dello sviluppo di un paese turistico, nato sulla costa romagnola negli anni ’60, oggi abitato da immigrati. Nel 2009 con il gruppo rap “Il Lato Oscuro della Costa”, ha promosso la nascita del centro culturale Cisim di Lido Adriano, di cui è direttrice artistica e per il quale collabora alla redazione di «Cisim Review». 29
Tahar Lamri Scrittore, intellettuale dal profilo multiforme e figura di riferimento molto attiva sui temi dello scambio tra culture e le trasformazioni che investono il Mediterraneo. Nasce ad Algeri, il 24 dicembre 1958. Si trasferisce in Libia nel 1979, dove conclude gli studi in Legge, specializzandosi in Rapporti Internazionali. Lavora come traduttore al consolato di Francia a Bengasi e, in seguito, si sposta in Francia e poi in Italia. Vive a Ravenna dal 1987. Il suo percorso letterario ha inizio alla fine degli anni ’80, con racconti brevi in lingua italiana. Risalgono al 1994 il videoracconto La casa dei Tuareg (Teatro Rasi di Ravenna) e la narrazione teatrale Wolf o le elecubrazioni di un kazoo (Ravenna Teatro). Del 1995 è il racconto Solo allora sono certo potrò capire (premio per la narrativa – concorso letterario Eks&Tra), un’esplorazione delle contraddizioni della migrazione tra Africa e Europa. L’anno successivo scrive E della mia presenza, solo il silenzio, tra le prime e più importanti riflessioni critiche della letteratura della migrazione, in cui si avanza l’idea dell’Italiano “come lingua neutra, nella quale l’Europa della ragione e il Mediterraneo della passione e del cuore possano convivere”. Del 2006 è il romanzo epistolare I sessanta nomi dell’amore. Oltre ai racconti e il teatro, ha instaurato anche collaborazioni musicali: nel 1997, con il gruppo I Metissage e la cantante Teresa De Sio, scrive La ballata di Riva. Lo spettacolo Il pellegrinaggio della voce, interpretato dallo stesso Lamri, viene presentato a Santarcangelo di Romagna e poi ripreso in Italia, Europa e USA (2001-2008). È organizzatore di eventi con l’associazione culturale “Insieme per l’Algeria”. È stato direttore artistico del Festival delle Culture di Ravenna. Ha collaborato con «Internazionale», fa parte della redazione di «Città meticcia» – periodico bimestrale e progetto di comunicazione interculturale. 30
Francesco Giampaoli Musicista, compositore, fonico e produttore. Ha suonato con Bob Moses. Nel 1998 vince il concorso “Iceberg ’98” (sezione jazz) e partecipa alla Biennale Giovani Artisti Europei a Roma. Nel 2010 suona con il “Rhis Chatham guitar trio”. Nel 2009 fonda l’etichetta discografica “Brutture Moderne” insieme ad Andrea Scardovi. Ha pubblicato tre album solisti: A Caso (2009), Mi Sposto (2011), Danza Del Ventre (2013). Fa parte del gruppo “Sacri Cuori” attivo da anni a livello internazionale, con cui ha composto la colonna sonora del film Zoran, il mio nipote scemo (2013) e buona parte del loro nuovo disco Delone (2015). Con la Classica Orchestra “Afrobeat”, di cui è fondatore assieme a Marco Zanotti e Valeria Montanari, pubblica Shrine On You (2011) e Regard Sur Le Passe (2013). Nel 2013 l’orchestra è invitata in Inghilterra, in apertura del festival di Glastonbury. In collaborazione con il Teatro Delle Albe ha scritto le musiche per i Trebbi (2014). Dal 2003 suona nel “Quartetto Klez”. Nel 2009 scrive brani per la colonna sonora del documentario Over the Rainbow di Maria Martinelli e Simona Cocozza. Tra i dischi e le collaborazioni si segnalano: Quartetto Klez (2005) e Quartetto Klez II (2010), Sur (2006), Sur Il limite (2010), Parlare con Anna (2010) con la partecipazione speciale di Vinicio Capossela e Valdazze (2012) del gruppo “Saluti da Saturno”; Rosario (2010) dei “Sacri Cuori”. E ancora: Dan Stuart - The Deliverance Of Marlowe Billings (2012); Woody Jackson - Dos Manos (2012); Hugo Race - We Never Had Control (2012), Pan del Diavolo - FolkRockaBoom (2014), Giant Sand Heartbreak Pass (2015), Godblesscomputers - Plush and Safe (2015). Dal 2010 a oggi lavora anche in veste di produttore e musicista e tra i tanti dischi citiamo i titoli: Dots della cantautrice ravennate Mara, Musica per Autoambulanze di Giacomo Toni, Caulonia Limbo Ya Ya dei Granturismo, Songs From The Underground di Emanuelle Sigal (2015). Ha registrato dischi assieme a Jim Keltner, Marc Ribot, David Idalgo, Isobel Campbell, John Convertino, Kologbo. Dal 2011 suona in tour italiani ed europei con Richard Buckner, Hugo Race, Dan Stuart, Robyn Hitchock, Evan Lurie, Tav Falco, Howe Gelb. 31
Diego Pasini Nasce a Ravenna nel 1985. Bassista, allievo di Francesco Giampaoli. È laureato in Scienze del comportamento e delle relazioni sociali. Nel 1999 fonda il gruppo “Actionmen”, eccentrica band punk‑rock conosciuta in Italia e all’estero grazie ai dischi The Game (2007) e Ramadama (2013). Nel 2011, con l’inseparabile Matteo Pozzi, dà vita a “Cacao”, un duo strumentale di chitarra e basso legato all’improvvisazione e alla composizione in tempo reale. Nel 2012 conosce Luciano Titi, ideatore del progetto didattico musicale “Tititom”, e lo segue come assistente in numerosi laboratori di musica. Nello stesso anno entra a far parte della band “Ronin”, guidata da Bruno Dorella, coinvolta in progetti musicali collaterali tra i quali la sonorizzazione del film L’isola di Kim Ki Duk, all’interno del Mosaico Film Festival di Ravenna, e la registrazione della colonna sonora del film Il terzo tempo diretto da Enrico Maria Artale. Con i “Ronin” registra Adagio furioso, ultimo disco della band uscito nel 2014. 32
Lanfranco- MODER-Vicari (Lato oscuro della Costa) Moder - alias di Lanfranco Vicari nasce a Ravenna nel 1983. Nei primi anni Novanta segue il rap italiano e dall’inizio del 2000 si cimenta con l’arte dell’mcing. Nello stesso periodo fonda il gruppo rap “Alleanze Scisse” (A.S. Click) insieme a Max Penombra e Dj Mastafuck. Nel 2001 pubblica il suo primo EP solista, Diari, con testi autobiografici. Nel 2003 dalla fusione con un’altra band di Ravenna nasce “Il Lato oscuro della Costa”. Il nuovo gruppo è inizialmente formato da Moder, Penombra, Polly, Tesuan, Dj Nada e Dj Mastafuck prende parte a molti live che consolidano l’affinità della band. Nel 2006 esce il disco Artificious (Minoia Records) che racchiude due anni di lavoro con partecipazioni speciali di Asher Kuno, Kiave, Esa aka El Presidente, Mistaman, Maxi B e Zampa. Il disco viene molto apprezzato dalla critica specializzata. Moder continua, in parallelo, l’attività solista. Nel 2007 esce Delitto perfetto che miscela l’hip hop a sonorità più elettroniche, in cui spicca la collaborazione con gli statunitensi “Kill the Vultures”. Nel 2008 la band sceglie di percorrere il filone “avant-hip hop” che porta alla creazione di Grand Guignol, un concept ep. Nel 2010, il secondo album de “Il Lato oscuro della Costa” – Amore, morte, rivoluzione – ha la produzione esecutiva di Brutture Moderne/Semai, etichetta indipendente. Un lavoro più orientato all’elaborazione dell’alternative-rock, come fonte di campionamento e ispirazione, ma sempre fedele alle influenze hip hop. I live del gruppo toccano tutta l’Italia e sono molto richiesti. Nello stesso periodo Moder inizia a lavorare a un nuovo progetto solista che pubblica nel 2011, Niente da dirti (mixtape) che lo porta in giro per l’Italia. Il mixtape apre la strada al successivo EP, Sottovalutato (2013), primo atto di un progetto che prevede l’uscita di almeno altri ep, con l’intento di riunire artisti della scena underground che non hanno la visibilità che meritano. 33
Elvira Mascanzoni È cofondatrice nel 1974 della Compagnia “Drammatico Vegetale”. Nel corso di della sua carriera nel settore del teatro per l’infanzia, condivide con Pietro Fenati l’intero percorso artistico della Compagnia. Con la sua presenza costante, in qualità di attrice e animatrice nell’ideazione e realizzazione degli spettacoli e delle esposizioni interattive, è figura indispensabile nel disegnare l’originale rapporto tra la fisicità dell’attore e la figura propria della compagnia. È socia fondatrice di Ravenna Teatro. 34
Pietro Fenati Comincia ad occuparsi di teatro nel 1974, con lo studio di alcune forme di teatro popolare. Nello stesso anno fonda la Compagnia “Drammatico Vegetale”, una delle prime e più importanti esperienze di teatro per ragazzi in Italia, con sempre più numerosi riconoscimenti in festival internazionali. Nel 1977 si laurea al DAMS di Bologna con una tesi sul teatro di burattini. È socio fondatore di Ravenna Teatro, di cui è direttore artistico del settore dedicato all’infanzia. Alla fine degli anni Ottanta, si avvicina al teatro musicale e firma numerose regie, tra cui per Ravenna Festival: l’opera di Roberto Solci Don Chisciotte (1994); La volpe Renardo, musiche di Luciano Titi, interpretato da Vinicio Capossela; Prossimi al cielo (2005), musiche di Luciano Titi. A partire dal 1996, concepisce e realizza una serie di mostre interattive tra arte, musica e teatro: Materie Disegni (1996), Chroma (1998), La via dei suoni (2003), Wunderkammer la camera delle meraviglie (2006), Pin’occhio (2015). Lo spettacolo Viaggio in aereo del 1996 è finalista al premio ETI-Stregagatto. Nel 1999 realizza lo spettacolo Sogni che dà inizio alla sperimentazione delle nuove tecnologie e all’introduzione delle scene virtuali di Ezio Antonelli. Nel 2003 firma la regia del Piccolo spazzacamino di Benjamin Britten per il Teatro Alighieri di Ravenna e il Teatro del Giglio di Lucca. Con i suoi lavori ha fatto tournée in Francia, Spagna, Germania, Belgio, Svizzera, Norvegia, Polonia, Estonia, Ungheria, Iran. Gli ultimi spettacoli, per la primissima infanzia, Brum, Che sì che no e Uno, due, tre hanno partecipato a importanti festival teatrali in Spagna, Svizzera, Russia, Polonia, Cina, Hong kong, Singapore. 35
luoghi del festival Il Teatro Rasi si insedia sulle strutture dell’antica chiesa monastica di S. Chiara, legata allo scomparso convento delle Clarisse Francescane (sito nell’attuale area della Casa protetta per anziani “Garibaldi”). L’edificio, che rimpiazzava il vecchio monasterium S. Stephani in fundamento, sito sempre nella regione (guayta) di San Salvatore, fu eretto entro la seconda metà del xiii secolo per iniziativa di Chiara da Polenta (1247-1292), figura di spicco dell’illustre famiglia ravennate, la cui intera esistenza fu dedicata alla diffusione del movimento francescano femminile nella zona. L’esterno dell’edificio mononave, nonostante le successive modifiche, appare tuttora leggibile nelle sue linee essenziali, specie nella postica, animata da un fregio di arcatelle pensili e sormontata da una croce infissa su un frammento reimpiegato di pilastrino di recinzione del vi secolo. Nell’interno permangono a vista lacerti della partizione muraria in laterizio, oltre all’intera zona presbiteriale, a pianta quadrata, con strette finestre sulle tre pareti e una copertura a crociera, oggi inglobata nel palcoscenico. Nell’intradosso delle finestre e nelle nervature della volta si notano tracce della preziosa decorazione pittorica di Pietro da Rimini (terzo decennio del xiv secolo), che rivestiva l’intero vano presbiteriale, con scene del Nuovo Testamento (Crocifissione, Annunciazione, Natività) e figure di santi lungo le pareti, Evangelisti e Dottori della Chiesa nelle vele; gli affreschi superstiti, sottoposti allo strappo fra gli anni ’50 e ’70 e recentemente restaurati, si possono oggi ammirare nel refettorio del Museo Nazionale. Il monastero sopravvisse fino al 1805, quando le Clarisse furono trasferite nel convento del Corpus Domini; la chiesa, che aveva appena subito (1794) un rifacimento su progetto di Guglielmo Zumaglini, fu sconsacrata (10 dicembre) e, dopo essere stata utilizzata per breve tempo come sede della compagnia teatrale del conte Pietro Cappi (fino al 1811), venne ceduta (1823) all’Ospedale di S. Maria delle Croci, quindi impiegata (1847-1856) per spettacoli equestri. La trasformazione in vero e proprio teatro risale all’ultimo decennio del secolo, per iniziativa della locale Accademia Filodrammatica, all’epoca priva di sede. Separata la zona presbiteriale affrescata con un muro, l’architetto Cesare Bezzi ricavò dalla navata una platea capace di 220 posti, a cui si aggiunsero in seguito i 90 di una galleria in ferro battuto, poco profonda ma prolungata con ali longitudinali. L’inaugurazione del nuovo Teatro Filodrammatico avvenne l’8 maggio 1892 con la commedia Il deputato di Bombignac di Bisson e un monologo scritto dal celebre attore ravennate Luigi Rasi, a cui la sala sarà poi intitolata nel 1919. L’attività del Teatro Rasi, essenzialmente limitata all’ambito della commedia, dell’operetta e della musica cameristica, per lo più con compagnie e artisti locali, continuò con brevi interruzioni fino al 1959, quando l’edificio, che già aveva subito limitati restauri e migliorie, venne sottoposto ad una radicale ristrutturazione sulla base di un progetto 37
dell’architetto Sergio Agostini, che ha portato alla realizzazione di una nuova galleria e all’ampliamento dello spazio del palcoscenico al vano dell’ex presbiterio. In tale forma il nuovo Teatro Rasi è stato inaugurato nel 1978. Sede delle attività del Teatro delle Albe e della Drammatico Vegetale, riunite dal 1991 in Ravenna Teatro-Teatro Stabile di Innovazione, il Rasi è stato sottoposto di recente a lavori di messa a norma curati dall’architetto Giancarlo Montagna. Ristrutturato negli impianti (elettrici, riscaldamento e condizionamento) grazie alla stretta collaborazione tra il Comune di Ravenna e la dirigenza dello Stabile, anche i suoi interni sono stati completamente ricreati a cura di Ermanna Montanari e Cosetta Gardini: un rivestimento in blu delle pareti e delle poltrone della sala, uno spazio nuovo nel foyer e gli arredamenti disegnati da Raffaello Biagetti. In questa nuova veste è stato inaugurato nell’ottobre 2001 con un evento al quale hanno partecipato 300 ragazzi della “non scuola” diretta da Marco Martinelli.
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