Il VOLO la ballata dei picchettini - Teatro delle Albe / Ravenna Teatro RAVENNA FESTIVAL 2015

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Il VOLO la ballata dei picchettini - Teatro delle Albe / Ravenna Teatro RAVENNA FESTIVAL 2015
RAVENNA FESTIVAL 2015

Teatro delle Albe / Ravenna Teatro
il VOLO
la ballata dei picchettini

Teatro Rasi
giovedì 25 giugno, ore 21
Il VOLO la ballata dei picchettini - Teatro delle Albe / Ravenna Teatro RAVENNA FESTIVAL 2015
Sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Italiana

con il patrocinio di
Senato della Repubblica
Camera dei Deputati
Presidenza del Consiglio dei Ministri
Ministero per i Beni e le Attività Culturali
Ministero degli Affari Esteri

con il sostegno di

Comune di Ravenna

con il contributo di

Comune di Cervia                Comune di Comacchio         Comune di Forlì

                                                            Koichi Suzuki
                                                            Hormoz Vasfi
Comune di Russi

partner
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RAVENNA FESTIVAL
    RINGRAZIA

Associazione Amici di Ravenna Festival

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ARCUS Arte Cultura Spettacolo
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BPER Banca
Cassa dei Risparmi di Forlì e della Romagna
Cassa di Risparmio di Ravenna
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Cmc Ravenna
Cna Ravenna
Comune di Cervia
Comune di Comacchio
Comune di Forlì
Comune di Otranto
Comune di Ravenna
Comune di Russi
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Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna
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Antonio e Gian Luca Bandini, Ravenna        Presidente
Francesca e Silvana Bedei, Ravenna          Gian Giacomo Faverio
Maurizio e Irene Berti, Bagnacavallo
Mario e Giorgia Boccaccini, Ravenna         Vice Presidenti
Paolo e Maria Livia Brusi, Ravenna          Leonardo Spadoni
Margherita Cassis Faraone, Udine            Maria Luisa Vaccari
Glauco e Egle Cavassini, Ravenna
Roberto e Augusta Cimatti, Ravenna          Paolo Fignagnani
Ludovica D’Albertis Spalletti, Ravenna      Giuliano Gamberini
Marisa Dalla Valle, Milano                  Maria Cristina Mazzavillani Muti
Letizia De Rubertis e Giuseppe Scarano,     Giuseppe Poggiali
Ravenna                                     Eraldo Scarano
Ada Elmi e Marta Bulgarelli, Bologna        Gerardo Veronesi
Rosa Errani e Manuela Mazzavillani,
Ravenna                                     Segretario
Dario e Roberta Fabbri, Ravenna             Pino Ronchi
Gioia Falck Marchi, Firenze
Gian Giacomo e Liliana Faverio, Milano
Paolo e Franca Fignagnani, Bologna          Aziende sostenitrici
Domenico Francesconi e figli, Ravenna       Alma Petroli, Ravenna
Giovanni Frezzotti, Jesi                    CMC, Ravenna
Idina Gardini, Ravenna                      Consorzio Cooperative Costruzioni,
Stefano e Silvana Golinelli, Bologna        Bologna
Dieter e Ingrid Häussermann,                Credito Cooperativo Ravennate e
Bietigheim‑Bissingen                        Imolese
Lina e Adriano Maestri, Ravenna             FBS, Milano
Silvia Malagola e Paola Montanari, Milano   FINAGRO, Milano
Franca Manetti, Ravenna                     Kremslehner Alberghi e Ristoranti,
Gabriella Mariani Ottobelli, Milano         Vienna
Pietro e Gabriella Marini, Ravenna          L.N.T., Ravenna
Manfred Mautner von Markhof, Vienna         Rosetti Marino, Ravenna
Maura e Alessandra Naponiello, Milano       SVA Concessionaria Fiat, Ravenna
Peppino e Giovanna Naponiello, Milano       Terme di Punta Marina, Ravenna
Giorgio e Riccarda Palazzi Rossi, Ravenna   TRE - Tozzi Renewable Energy, Ravenna
Gianna Pasini, Ravenna
Gian Paolo e Graziella Pasini, Ravenna
Desideria Antonietta Pasolini Dall’Onda,
Ravenna
Giuseppe e Paola Poggiali, Ravenna
Carlo e Silvana Poverini, Ravenna
Paolo e Aldo Rametta, Ravenna
Stelio e Grazia Ronchi, Ravenna
Stefano e Luisa Rosetti, Milano
Giovanni e Graziella Salami, Lavezzola
Guido e Francesca Sansoni, Ravenna
Francesco e Sonia Saviotti, Milano
Roberto e Filippo Scaioli, Ravenna
Eraldo e Clelia Scarano, Ravenna
Leonardo Spadoni, Ravenna
Gabriele e Luisella Spizuoco, Ravenna
Paolino e Nadia Spizuoco, Ravenna
Thomas e Inge Tretter, Monaco di Baviera
Ferdinando e Delia Turicchia, Ravenna
Maria Luisa Vaccari, Ferrara
Roberto e Piera Valducci, Savignano sul
Rubicone
Gerardo Veronesi, Bologna
Luca e Riccardo Vitiello, Ravenna
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RAVENNA FESTIVAL

Direzione artistica
Cristina Mazzavillani Muti
Franco Masotti
Angelo Nicastro

Fondazione
Ravenna Manifestazioni

Soci
Comune di Ravenna
Regione Emilia Romagna
Provincia di Ravenna
Camera di Commercio di Ravenna
Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna
Confindustria Ravenna
Confcommercio Ravenna
Confesercenti Ravenna
CNA Ravenna
Confartigianato Ravenna
Archidiocesi di Ravenna-Cervia
Fondazione Arturo Toscanini

Consiglio di Amministrazione
Presidente Fabrizio Matteucci
Vicepresidente Mario Salvagiani
Consiglieri
Ouidad Bakkali
Galliano Di Marco
Lanfranco Gualtieri

Sovrintendente
Antonio De Rosa

Segretario generale
Marcello Natali

Responsabile amministrativo
Roberto Cimatti

Revisori dei conti
Giovanni Nonni
Mario Bacigalupo
Angelo Lo Rizzo
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Domenico Mazzotti, morto sul lavoro nel marzo
del 1947, ha insistito perché si raccontasse questa
storia. La sua foto è visibile sotto l’unica gru rimasta,
nella darsena di città. In arabo Dar Essena’a, Casa
dell’industria, dell’arte e del fare.
Tahar e Luigi, nati rispettivamente il 24 e il 25
dicembre del 1958, il primo ad Algeri, il secondo
a Ravenna, hanno deciso di tenere, assieme a tre
musicisti, una Conferenza sul Marzo per raccontare
di fabbrica, porti, lavoro, incidenti, cormorani,
nebbia e fuochi.
Insieme ripercorrono anche la tragedia della
Mecnavi, dove persero la vita, nel marzo 1987, tredici
picchettini: morirono soffocati come topi nei cunicoli
della nave gasiera “Elisabetta Montanari”.
Nello spettacolo si alternano narrazioni e testi in
musica, ispirati alle ballate popolari e alla cultura
hip hop.
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Teatro delle Albe / Ravenna Teatro

il VOLO
la ballata dei picchettini
di Luigi Dadina, Laura Gambi, Tahar Lamri
narrazione Tahar Lamri, Luigi Dadina

basso e percussioni Francesco Giampaoli, Diego Pasini
rap Lanfranco-Moder-Vicari

musiche Francesco Giampaoli
testi rap Lanfranco-Moder-Vicari
scene e costumi Pietro Fenati, Elvira Mascanzoni
tecnica Fagio, Danilo Maniscalco
regia Luigi Dadina

organizzazione e promozione Marcella Nonni, Serena Cenerelli
ufficio stampa Rosalba Ruggeri
fotografie Davide Baldrati

coproduzioneTeatro delle Albe/Ravenna Teatro, Ravenna Festival

si ringraziano
per i suggerimenti e le suggestioni, Sauro Cordelli, Gerardo Guccini,
Franco Masotti, Michele Pascarella, Federica Tamburini e Paolo Trabucco,
per lo sguardo stimolante, Igiaba Scego,
per la collaborazione paziente e preziosa, Max Penombra,
e infine per la disponibilità degli spazi e il sostegno, il Cisim di Lido Adriano
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Omelia di S.E. Mons. Ersilio Tonini
   Arcivescovo di Ravenna e Cervia

    C’è qualcosa di assoluto in questa tragedia. C’è un valore
assoluto in queste vite stroncate. C’è un amore assoluto che è
stato ferito: quello di padri e madri e fratelli e sorelle, e c’è un
amore assoluto che è stato vilipeso e ferito, ed è l’amore di Dio,
l’amore della Sorgente. E quando è amore che ha dato la vita,
non può accettare che la vita sia offesa. Il no dei nostri giovani
di ieri è un eco di quel NO profondo, totale, assoluto, infinito
di cui rintrona l’universo: NO! Non doveva! Non poteva! Non
dovrà! Lasciatemi dire: è un’affermazione dell’universo, è
l’anticreazione, è il delitto assoluto. E noi l’abbiamo avvertito: la
tenerezza per le vite, e anche l’ira uscita dal cuore è espressione
di questo NO.
    C’è qualcuno, qui, in mezzo a noi che ha intonato l’animo al
pensiero di Cristo Signore: sono i famigliari, i parenti. Perché
loro sì che son l’immagine dell’amore di Dio, loro sì che sono
lo specchio in cui si riverbera quell’amore assoluto. Quando un
uomo e una donna hanno messo al mondo un figlio, quel figlio
diventa il fine dell’universo. È da loro che si può apprendere
la regola e la base fondamentale del convivere civilmente, la
misura del valore inalienabile, intangibile di ogni esistenza
umana. Hanno concepito, hanno visto nascere, si sono assunti
la responsabilità di dare la vita. E ne han fatto il proprio bene,
l’amore puro, amore totale, amore che è pronto a scambiare vita
con vita, molto di più, a sacrificare la vita per la vita.
    Fossero andati i genitori a visitare quei cunicoli avrebbero
detto: “No, figlio mio! Meglio povero, ma con noi!”.
    Avrebbero avvertito l’umiliazione spaventosa, la disumana
umiliazione. Un ragazzo di 17-18 anni che è costretto a passare
10 ore in cunicoli dove, posso dirla la parola? Non vorrei
scandalizzare, dove possono camminare i topi! Uomini e topi!
Parola dura, detta da un Vescovo dall’altare: eppure deve essere
detta, perché mai gli uomini possano essere ridotti a topi! E
niente legittima, niente serve da scusa, niente diminuisce la
responsabilità! Gli uomini della civiltà occidentale hanno
imparato dalla predicazione del Vangelo che ogni uomo che
nasce è dovuto alla responsabilità di Dio, si deve a Dio, è stato
preceduto da una scelta personale, tu per tu: chiamato per nome!
Li chiameremo ad uno ad uno col nome loro, come Colui che li ha
chiamati per nome ad uno ad uno. (...)
    Il Vostro Vescovo vuol ricordare qui, in questo luogo che
sa di confine, di frontiera tra il finito e l’infinito, il tempo e

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l’eterno, vuole ricordare qui che questi nostri fratelli vengono
dall’eternità, sono avvolti in eterno, sono frutto di decisioni
eterne, definitive! Su questo valore, di fondo, “l’uomo visto con
gli occhi di Dio”, è nato l’umanesimo: l’umanesimo umano a
misura dell’umanesimo di Dio. Tutto questo io lo ricordo, per
segnalare che un processo strano si va compiendo: una crescita
stupefacente della tecnologia che moltiplica i beni della vita
e, a rovescio, un’altra corrente di pensiero e di condotta che va
sminuendo la vita umana come valore. E qui lasciatemi fare
un passaggio: è il mondo del lavoro il luogo dove più si compie
questo processo stranissimo, dove s’incontrano progresso
tecnologico infinito, segno della potenza immensa umana e nello
stesso tempo delle degradazione del cuore dell’uomo. Non è vero
che il mondo del lavoro sia quel mondo pacifico, tranquillo che
ha raggiunto la sua sicurezza! Non è vero che tutto è rivolto al
benessere di ogni singolo uomo: non è vero!
     E da Ravenna, dalla stiva di quella nave, nasce una denuncia:
il Vostro Vescovo non fa nomi, non è contro questo o contro
quello, ma la denuncia è che davvero l’umanità sta distruggendo
senza saperlo i tesori della propria ricchezza di umanità: il
tesoro dell’amore, la capacità di amare! Chi poi nel mondo del
lavoro più risente di questo processo sono proprio i giovani. Non
per niente il maggior numero delle vittime di Ravenna sono
giovani, condannati al ricatto. Vengon presi questi ragazzi e
lanciati, dove? Là dove non sanno che cosa li aspetta. E aggiungo:
l’attuale generazione giovanile è forse la migliore dalla fine della
guerra in poi. Non merita questa generazione tanta umiliazione.
La nostra generazione di adulti, che ha salutato con festa il
superamento del terrorismo, non s’accorge che va riproducendo
la tentazione del terrorismo. A questo punto vorrei richiamare
l’attenzione di tutti, comunità cristiana e comunità civile, su
un valore di fondo racchiuso in un termine latino, di sapore
cristiano: coscientia. All’origine della tragedia di Ravenna ci sta
proprio questo: la degradazione della coscienza. Bisogna pur
dire che si sta perdendo il confine tra bene e male: il guadagno,
il successo, la riuscita, la propria gratificazione prendono il
posto di quell’attenzione alla coscienza che, anche nella nostra
Romagna, gli stessi atei han conservato come tesoro prezioso da
trasmettere ai propri figli: l’onesto. Il bene che si compie a costo
di qualsiasi perdita, il male che si evita a costo di rinunciare a
qualsiasi guadagno, lieti della coscienza onesta, pulita. Ma la
coscienza per arricchirsi deve pur avere un punto di riferimento
a questi ragazzi, questi nostri figlioli che son morti ci dicono
alla fin fine che il valore attorno al quale la coscienza si deve
puntonare e impostare è l’amore, il valore della vita: nulla potrà
essere lecito che sminuisca il valore della vita, e tutto dovrà essere
tentato che aumenti lo sviluppo della vita. (...)
     Ci ritroveremo per studiare cosa si può fare per riparare alla
mancanza d’amore, come si può correre là dove c’è il vuoto, come

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si possano aprire spazi a questi nostri ragazzi i quali, per sapere
che cosa valgono per padre e madre, non devono aver bisogno
di tragedie come queste e per constatare che cosa divengano dei
genitori quando, come stavolta, gli uccidono il figlio: il sole non è
più sole, il cielo non è più cielo, il bianco non è più bianco, niente
più ha valore, niente più ha valore.

(in occasione dei funerali delle tredici vittime della tragedia della Mecnavi, avvenuta
al Porto di Ravenna sulla nave “Elisabetta Montanari”, il 13 marzo del 1987)

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Conversazione di Igiaba Scego con
   Luigi Dadina, Laura Gambi, Tahar Lamri

Attraverso questo spettacolo avete capito qualcosa sulla
vostra identità ravennate?
    Luigi Dadina
Credo che l’identità sia quello che abbiamo vissuto durante la
vita. Ho un legame molto forte con questa terra. Noi del Teatro
delle Albe abbiamo scelto di fare teatro a Ravenna e in quegli
anni – più di trent’anni fa – era impensabile. Il mio legame
con questa terra è fatto dalle persone con le quali ho scelto di
crescere. Tra queste molte sono straniere, come Tahar Lamri o
Mandiaye N’Diaye. Ho parenti in Africa, come ho parenti qui.
La mia identità è questa. Mi sono accorto a un certo punto che
quello che hai fatto è quello che sei.
    Tahar Lamri
La mia identità ravennate non la conosco, certamente posso
provare a conoscerla attraverso il confronto. Mia madre non
potrebbe mai leggere un mio testo perché non sa leggere in
nessuna lingua. Però se venisse a vedermi a teatro vedrebbe i
miei gesti, la mia mimica. Forse sarebbe contenta o forse sarebbe
molto arrabbiata con me.
A Ravenna io sono sospeso come qualsiasi immigrato e rimarrò
sempre sospeso fino alla fine, ormai qui come in Algeria.
Scrivendo questo testo sono tornato a cose molto intime, mi
sono guardato bambino ad Algeri e ho provato tenerezza per me
stesso. E la frase finale dice: “da bambini le cose sembrano tutte
al loro posto”.
    Laura Gambi
Abbiamo sollecitato Tahar a scrivere della sua vita ad Algeri e
sono venute fuori delle cose molto belle che, come dice lui, sono
intime. Utili per costruire un rispecchiamento, un confronto
con Ravenna. Luigi e Tahar non sono due personaggi, portano
in scena se stessi in prima persona. C’è stato un lavoro di
avvicinamento alla complessità delle singole identità.
    Tahar Lamri
Io ho pensato che dovevo anche cantare, perché Algeri fosse
presente anche tramite il canto.

Una cosa che salta all’occhio è la complessità temporale, i
piani temporali che si intersecano. Per me il tempo non è
mai lineare, ma ciclico.
Qual’è il vostro rapporto con il tempo nella narrazione scenica?
    Tahar Lamri
La questione del tempo è fondamentale. La situazione di
partenza dello spettacolo è una “conferenza sul mese di marzo”.
Una cosa strana già di per sé.
Quasi all’inizio cito Sant’Agostino, il nostro africano, e dico “Ma
cos’è il tempo? se nessuno me lo chiede lo so, se invece lo devo
spiegare a chi me lo chiede non lo so più” .
    Laura Gambi
Ci sono tre diversi tempi. Il primo è quello del dubbio e
dell’incertezza: la voce di un morto chiama e non si capisce
bene che cosa chieda di ricordare. Poi c’è un tempo della
“ri‑memorazione”, in cui si racconta, si rivive la tragedia della
Mecnavi. La memoria è necessaria per elaborare e andare avanti.
L’ultimo tempo è quello della meraviglia, un tempo in cui si
ritrova il senso delle cose del mondo e di se stessi.
    Luigi Dadina
In alcune pagine dedicate alla fabbrica, Simone Weil parla del
taylorismo, dell’ossessione del tempo nell’organizzazione del
lavoro in fabbrica, “un tempo che uccide”, dice lei.

Avete parlato di classe operaia. Oggi non si parla più di
operai, però ci sono lo stesso e sono ancora sottopagati.
Che tipo di operaio esce fuori dallo spettacolo?
Questa storia di fabbrica e di morti sul lavoro può dire
qualcosa agli operai di oggi, che sono schiacciati non dalla
crisi, ma soprattutto – penso – dal dolore?
    Luigi Dadina
Da parte degli operai, fino a pochi decenni fa, c’era una
consapevolezza della propria condizione. In un passaggio dello
spettacolo racconto del bar del quartiere operaio in cui sono
cresciuto. Lì, dopo la mezzanotte, si apriva una stanza magica
dove gli operai andavano a giocare a poker. Era bellissimo! E
noi ragazzini potevamo entrare, ma non potevamo farne parola
con nessuno, tantomeno con le mamme. Se un operaio perdeva
più della paga di un anno veniva messo in castigo per sette anni.
Cioè non lo facevano più giocare, c’era una protezione sociale, lo
aiutavano a rimettersi in sesto.
Nel testo, in un passaggio brevissimo, diciamo: “adesso si gioca
davanti al video poker”. Questo è successo alla classe operaia, ha
perso la coscienza.
Forse in occidente ci sono meno operai, ma ce ne sono milioni in
Africa e nel resto del mondo. Quindi c’è una scelta di fondo da fare,
che riguarda il modo di vivere, il rifiutare che qualcuno sia schiavo.

Un altro aspetto che mi ha colpita è quello del passaggio
generazionale, che è molto presente nel testo. Tra voi e i

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morti, ma anche, sulla scena: tra voi e i musicisti, che sono
più giovani, trentenni, e la storia che raccontate l’hanno
vissuta in modo diverso. Io penso che la memoria sia
come il testimone nelle staffette dell’atletica leggera: una
generazione trasmette all’altra delle storie.
Il tempo è circolare. Le storie passano, ma ritornano.
Allora, io mi chiedevo, come avviene la trasmissione?
Perché a volte il passaggio di storie è molto complicato.
    Luigi Dadina
Per me è stato fondamentale fare riferimento all’idea
di comunità. La comunità la inventi, non è che ce l’hai a
disposizione. Noi abbiamo costruito una comunità teatrale di
artisti e di spettatori, che a ogni progetto si amplia, si restringe,
si modifica, cresce.
Abbiamo lavorato sulle generazioni, perché se non lo si fa si
rimane soli. Moder, ad esempio, l’ho incontrato a un laboratorio
teatrale, quando lui aveva sedici anni e con questo spettacolo, per
la prima volta, siamo in scena assieme.

È interessante il lavoro di scrittura che avete fatto tutti e
tre insieme.
Quali dinamiche si sono instaurate?
E il passaggio dalla scrittura al palcoscenico... perché è
una storia dove vi mettete in gioco come identità, come
persone, non come personaggi.
    Laura Gambi
Noi ci conosciamo da quasi venticinque anni. Questa scrittura è
stata strana, un po’ magica. Luigi ha iniziato a scrivere perché era
in ansia, scriveva, faceva leggere a me, poi mandava a Tahar. E mi
chiedeva “Ma Tahar scrive?”
E Tahar non scriveva, aspettava.
E Tahar mi diceva “Adesso lo tengo un po’ sulle spine, poi
scriverò anch’io”.
E Luigi diceva “Ma perché Tahar non scrive?”. E io “... ma scriverà”.
Un giorno abbiamo iniziato a rivedere assieme una prima stesura
del testo e ognuno aveva le sue aspettative, ma abbiamo tagliato
e spostato tante cose, con una certa tranquillità, ascoltandoci.
Arrivati in fondo a questa prima giornata di lavoro assieme,
abbiamo capito che forse ce l’avremmo fatta.
     Tahar Lamri
Il mio amico Luigi mi ha convinto a prendere parte allo
spettacolo anche come attore e, per dissipare i miei dubbi e le
mie paure sull’imparare a memoria la parte, mi ha detto che non
sarebbe stato così diverso dall’imparare il Corano. Sul momento,
lusingato, non ho pensato ai dolori che hanno accompagnato
questo mio imparare a memoria il Corano da piccolo: non ultima
la falaqa, bastonate sui piedi per permettere all’intelligenza di
salire dai piedi alla testa. Così dicevano.

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Le musiche
   di Franco Masotti

     La musica nello spettacolo è concepita quasi come un vero e
proprio sound-track, c’è una dimensione narrativa e anche un
po’ filmica del tutto. Lo spettacolo riesce a mettere assieme una
tradizione – quella brechtiana – dell’intervento della canzone,
che qui non è canzone, ma è musica che ne sottolinea i momenti
e i passaggi drammaturgici. Si intercala con il parlato e si fonde
alla narrazione. L’intero spettacolo, partendo dalla forma di
una conferenza, con l’innesto della forma della ballata diventa
qualcosa di estremamente particolare.
     Le sonorità partono dal blues e quindi c’è una dimensione
liquida, che però è apparentemente lontana dal suono
abbastanza secco dei bassi, che oltretutto sono suonati in buona
parte con la penna. Il suono rimanda anche a una dimensione di
blues del delta e, quindi, a una dimensione di acqua, di palude.
Quello del basso è, per gran parte, un suono lento ma, nello
stesso tempo, è un suono che prende la pancia, i visceri.
     C’è un’analogia tra l’altezza dei suoni, il timbro e la
dimensione acquatica che rimanda al ventre della nave, al
metallo, mentre il rap si innesta meravigliosamente nel dialogo
tra i due bassi e le voci dei due narratori.
     In passato ho avuto difficoltà con il rap, ho faticato a dargli un
valore musicale alto, invece, in questo caso non potrei pensare a
niente di più perfetto. Il lavoro tra testo, ritmo e musica funziona
e conferisce allo spettacolo una dimensione drammatica, ma
anche di nenia incantatoria.
     Il rap riesce a farsi, in qualche modo, anche canto funebre
e questo per me è un inedito mai sentito. La musica e il canto
riescono a raggiungere una dimensione rituale, che si ritrova nel
breve canto Gnawa: la musica come cura della memoria. Cura
della persona umana.

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La città e il cuore
   dell’uomo
   di Tahar Lamri

   Allora vennero fuori dall’Erebo le anime dei morti:
   giovani spose e ragazzi,
   e vecchi che avevano molto sofferto,
   ingenue fanciulle con un dolore recente nel cuore
   e tanti uomini colpiti dal bronzo delle lance e morti in battaglia,
   con le armi grondanti sangue.
                                                    (Odissea, xi, vv. 37-41)

    Senza le cose presenti sensibili e tangibili non potremmo
mai avere sogni. Così le tradizioni in ogni luogo su questa
terra insegnano che i defunti si fanno vedere di notte oppure
nei meandri delle foreste: cosa più vicina alla verità di tutta la
finzione teologica che ci separa dai morti e li relega in luoghi
appartati. E quando Ulisse convoca le ombre dei morti attorno
alla fossa riempita di sangue, descrive in modo perfetto, in un
potente gioco dell’immaginazione, come in una bella e perfetta
sinfonia, il rapporto tra i vivi e i morti. Sono ombre impalpabili,
appena abbozzate, così come sono le nostre deboli e inconsistenti
immagini dei ricordi, poiché è vero, profondamente vero, che
immaginiamo soltanto attraverso azioni indistinte le cose
attorno a noi, come fuoco e fumo. Come tratti.
    Tutto è quindi armonia in questa evocazione. Tutto. Fino alla
spada di Ulisse che gli permette di farsi largo fra questa folla di
ombre per mettere ordine in questo commovente sogno ad occhi
aperti.
    È l’azione che supera il sogno e la volontà non può cambiare
che tramite vivi movimenti del corpo. Movimenti diretti. Con
destrezza. La spada, utensile tuttofare, testimone più affidabile
del braccio e della mano. Ed è il sentimento poetico che vede
più giusto del sapere: si può essere eruditi e ignorare che
l’unico mezzo per cambiare idea è quello di cambiare azione. Si
cerca invano di esorcizzare pensieri con altri pensieri. L’antico
esorcismo tramite il gesto rimane quello più efficace e saggio. Lo
sanno ancora oggi i Gnawa del Nord Africa, lo sanno ancora oggi
i Lebu del Senegal: i primi tramite i numerosi gesti del canto, i
secondi tramite i gesti della rappresentazione. L’esorcismo con
l’azione è senza dubbio il migliore. Tutto in questo racconto
fantastico è vero: Achille morto dice: “meglio schiavo tra i
vivi che re tra i morti”. Discorso umano. Parola viva. Orione il
cacciatore continua la caccia fra le ombre, insegue le ombre delle

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bestie che ha ucciso. Tutto diventa ombra. Le bestie anche. E gli
alberi. E anche il terreno di caccia. L’immagine diventa pensiero,
negata e conservata.
    Platone ha immaginato Omero senza mai sbagliarsi sul suo
conto, perché aveva l’arte del credere che mette tutti i problemi
sotto una buona luce. L’incredulità invece è l’anima di questa
teologia triste che nega l’apparenza.
    Quando, a sua volta, Virgilio scende negli inferi, il ramo d’oro
in mano e condotto dalla Sibilla cumana, le ombre, passioni
morte, sono già diversamente collocate. Non più secondo
arcani intrighi degli dei, ma rispondenti ad una inflessibile
determinazione.

   O, giovane degno di pietà, se solo tu potessi rompere il tuo fato crudele,
   tu sarai Marcello. (Eneide, iv, 882)

    Marcello, speranza dell’impero, morto di morte prematura,
prima di nascere. Inflessibile determinazione dove la speranza di
ogni essere è presa e schiacciata.
    In Dante la discesa è più sicura, i passi sono più fermi, la
potenza degli alberi annuncia la solidità del terreno e la verginità
della schiena della terra. Dante segue Virgilio. Giudizio e libertà.
Libertà non più pubblica ma privata. Non più di destino, ma
di delitto, castigo, purificazione e salvezza. È il momento della
colpa, del pentimento e del rimorso. Gli dei agli inferi, l’umano
sui ripidi pendii e la luce sulle cime. La luce come unica giustizia.

    Nel 1860 Charles Baudelaire sosteneva che “le città cambiano
più velocemente del cuore di un uomo”. Da allora le città si
sono molto accelerate e in queste condizioni le memorie,
necessariamente lacerate, possono essere ricomposte soltanto
con un “lavoro che implica fatica”, se si vuole evitare il rischio
sempre incombente di una specie di “revisionismo storico” della
propria presenza nel passato e quindi nel presente con linguaggi
interiori e trame narrative di sé incompiuti.
    Le città d’Europa sono cariche di storia, ad ogni passo si può
inciampare nella Storia o abbracciarla. A volte basta incrociare
lo sguardo fisso e eloquente di una fotografia incastrata in una
lapide lungo la strada che guarda il mare, nella Darsena di città.

     Ne il Volo la ballata dei picchettini, è lo sguardo di Domenico,
“vittima” del lavoro nel lontano marzo del 1947 che cattura lo
sguardo di Luigi, dando inizio a un lungo dialogo inizialmente
frantumato. Poi via via, in un processo di ascolto autobiografico,
si ricompone la memoria e i passi si fanno più sicuri sul selciato
dell’oggi. Era Ermete Trismegista che chiamava i morti “uomini
nel mondo [...] giacché ciò che resta di lui, o meglio, egli tutto
intero, per quanto possa essere intero un uomo nel senso della
vita, è salito migliore al cielo”.

                                                                           21
Tuttavia, per noi, come per gli antichi, la rimemorazione
convoca riti, temporanea sospensione del giudizio,
incomprensione per poter rientrare in possesso di ciò che è
naturalmente nostro. La memoria. Collettiva e individuale. Così
Il Volo, ripercorrendo antichi riti, si snoda in tre tempi essenziali:
1) Il tempo del dubbio, riassunto subito da un’enigmatica
affermazione di Agostino da Ippona proprio sulla difficoltà
di definire il tempo. 2) Il tempo della tragedia. Qui la tragedia
della Mecnavi diviene anche un canto rap fortemente ispirato
alle parole dell’allora vescovo di Ravenna, Mons. Ersilio Tonini.
3) Infine, il tempo della meraviglia, del racconto, della vicinanza,
riassunto nella frase finale che chiude lo spettacolo “Da bambini,
le cose sono sempre al loro posto”. E solo così, con questa frase
finale, viene illuminato di nuova luce il racconto che apre lo
spettacolo, quello del bambino che ricorda gli odori della giacca
del nonno. Odori resi permanenti della nebbia di lunghi mesi.

    Il tempo circolare, il tempo del racconto, il tempo del viaggio
e del viaggiatore che arriva carico di storie per fecondare la
comunità di arrivo: storie di altri porti, di altre città, di un altro
sole, di altre Casbah. Viaggiatore ancora carico di canti che vuole
condividere con il suo interlocutore, prima sordo poi man mano
attento, attentissimo, perché scopre che Ravenna dall’alto è un
giardino. Non si supporrebbe questa trasformazione, in un uomo
ossessionato dal petrolchimico, dalla lunga agonia dell’industria
che non riesce ancora a diventare pienamente archeologia.
    Il tempo circolare richiede un mese centrale che è, per noi,
il mese di marzo e richiede anche un tavolo rettangolare che
è, per noi, il metodo della conferenza. Marzo è lo specchio di
dicembre, mese di nascita dei protagonisti alle prese con la
Memoria. Per fugare ogni dubbio che si tratti di pura finzione, i
protagonisti declinano subito le loro generalità: “Io sono Luigi
Dadina, sono nato a Imola...”, “Io sono Tahar Lamri, nato il 24
dicembre...” Declinare le generalità è attestare che i nomi citati
in precedenza, Domenico Mazzotti e Marco Saporetti, così come i
nomi che seguiranno, quelli dei tredici della Mecnavi, sono parte
di noi, ma si dà del “tu” durante tutto lo spettacolo soltanto a
Domenico, perché Domenico è il guardiano del faro, purtroppo
rimasto a lungo inascoltato.

     Io, Signore, certamente mi arrovello su questo fatto, ossia mi arrovello
     su me stesso. Sono diventato per me un terreno aspro, che mi fa
     sudare abbondantemente. Non stiamo scrutando le regioni celesti, né
     misurando le distanze degli astri o cercando la ragione dell’equilibrio
     terrestre. Chi ricorda sono io, io lo spirito. Non è così strano che sia
     lungi da me tutto ciò che non sono io; ma c’è nulla più vicino a me di
     me stesso?

22
RAVENNA
FESTIVAL
2015

gli
arti
sti
Teatro delle Albe/Ravenna Teatro

     Nel 1983 Marco Martinelli, Ermanna Montanari, Luigi
Dadina e Marcella Nonni fondano il Teatro delle Albe. La
compagnia sviluppa il proprio percorso intrecciando alla
ricerca del “nuovo” la lezione della tradizione teatrale: il
drammaturgo e regista Martinelli scrive i testi ispirandosi agli
antichi e al tempo presente, pensando le storie per gli attori, che
diventano così veri e propri co-autori degli spettacoli. Nel 1988
la compagnia incontra dei griots senegalesi, tra cui Mandiaye
N’Diaye (“colonna” africana della compagnia da allora fino alla
sua scomparsa, nel giugno 2014). La formazione diventa afro-
romagnola e pratica un originale meticciato teatrale, esempio
unico in Italia, che coniuga drammaturgia e danza, musica e
dialetti, invenzione e radici. Gli spettacoli valgono alle Albe
un grande successo di critica e di pubblico, evidenziando una
poetica rigorosa, raffinata e emozionante, capace di restituire alla
scena la sua antica e potente funzione narrativa. Fondamentale
all’interno del Teatro delle Albe – oltre alla direzione artistica
di Marco Martinelli, alle accensioni visionarie e la vocalità
inquietante di Ermanna Montanari e al lavoro di attore-autore
(nonché Presidente della cooperativa) di Luigi Dadina – è
l’apporto di attori e attrici cresciuti nella fucina della non-scuola:
Alessandro Argnani, Luca Fagioli, Roberto Magnani, Michela
Marangoni, Laura Redaelli e Alessandro Renda, che dal ’98 a
oggi, hanno segnato con la loro presenza scenica il percorso della
compagnia. Il Teatro delle Albe produce da trent’anni spettacoli
che hanno un circuito nazionale e internazionale ricevendo

                                                                   25
numerosi premi e riconoscimenti in Italia e all’estero.
     Nel 1991 il Teatro delle Albe ha dato vita a Ravenna Teatro
– Stabile di Innovazione riconosciuto dal Ministero per i Beni e
le Attività Culturali – che si è posto fin dall’inizio come “stabile
corsaro”, portando avanti con il sostegno del Comune di Ravenna
un’originale pratica di “coltura” teatrale della città, intrecciando
le programmazioni di Teatro Contemporaneo al Teatro Rasi, la
stagione di teatro di tradizione al Teatro Alighieri e i laboratori
della non-scuola nei licei e negli istituti tecnici e professionali
di Ravenna che coinvolgono circa 400 adolescenti ogni anno,
assumendo l’importanza e il riconoscimento di un vero e proprio
passaggio formativo. A partire dal 2001 il Teatro delle Albe ha
portato l’esperienza teatral-pedagogica della non-scuola in
tante città italiane: da Milano a Napoli-Scampia e in diversi
luoghi in Europa e nel mondo (Chicago, Dakar, Caen e Limoges,
Rio de Janeiro, Mons). Nell’edizione 2011, del Festival di teatro
internazionale-Santarcangelo 41, diretto da Ermanna Montanari,
si è sviluppato un nuovo festoso corso della non-scuola del
Teatro delle Albe, Eresia della felicità, “versione majakovskiana”
della ventennale esperienza, con 200 giovani di tutto il mondo
che hanno impugnato i versi di Vladimir Majakovskij, diretti da
Marco Martinelli. Un grande laboratorio teatrale a cielo aperto
che ha trasformato lo Sferisterio di Santarcangelo in un campo
incandescente di energia e eretica bellezza.

26
Luigi Dadina

© Claire Pasquier

    Nel 1983, fonda il Teatro delle Albe (con Marco Martinelli,
Ermanna Montanari e Marcella Nonni), di cui è attore-autore,
contribuendo all’originale percorso del gruppo che unisce
ricerca e tradizione, invenzione di linguaggi contemporanei e
attenzione al proprio patrimonio etnico. Come attore partecipa
a numerosi spettacoli della compagnia, scritti e diretti da
Marco Martinelli, tra cui: Ruh, Romagna più Africa uguale, Siamo
asini o pedanti?, Bonifica, Lunga vita all’albero, I Refrattari, Incantati,
All’inferno!, Perhindérion. Nel 1991, con la nascita di Ravenna
Teatro, prosegue il suo percorso teatrale in due direzioni: attore,
nei lavori di Marco Martinelli, e autore e regista. Nel 1993,
con l’attore senegalese Mandiaye N’Diaye, da’ vita a Griot Fulêr
spettacolo che – per l’originalità delle storie africane e romagnole
narrate – riceve la menzione al Premio Nazionale Stregagatto
(1995-96). Griot Fulêr è diventato anche un libro, a cura di Laura
Gambi (edizione AIEP). Nel 1996 mette in scena il lungo racconto
Narrazione della pianura, frutto di un viaggio che parte dalla
Romagna per arrivare nel cuore dell’Africa. Nel suo personale
lavoro Dadina prende spunto dalla tradizione dei narratori che,
nel secolo scorso, girovagavano nelle campagne romagnole di
casa in casa, di stalla in stalla, a raccontare fole. Su questa scia,
nasce l’idea di alcuni progetti teatrali che si rinnovano di anno
in anno: Voci della Resistenza, con i protagonisti di quegli eventi
storici; Le vie dei canti, tra teatro, musica e letteratura rivolto alle
comunità immigrate; Trebbi nella pineta di Classe, narrazioni
notturne intorno al camino, con ospiti speciali come Michele
Serra, Gianni Mura, Antonio Moresco, Gerardo Guccini, Eraldo
Baldini, Giorgio Terruzzi. Nel 2001 realizza Lido Adriano, porta
d’Oriente, una serie di interventi-eventi e indagini socio-culturali
sull’atipico sviluppo di quel territorio. Nel 2001 debutta Al placido
Don, narrazione scritta con Renata Molinari, di cui è regista
e unico interprete. Dal 2000 prende parte agli spettacoli di
Marco Martinelli con interpretazioni memorabili: Baldus, Sogno
di una notte di mezza estate, Salmagundi (2004), il dittico formato
da LEBEN, drammaturgia di Marco Martinelli, e Sterminio di

                                                                        27
Werner Schwab (2006 ), Stranieri di Antonio Tarantino (2008),
L’Avaro (2010). Per il ruolo del padre in PANTANI viene candidato
ai premi Ubu 2013 come “miglior attore non protagonista”. Nel
2013 realizza, con Massimiliano Benini, il documentario Pascoli
e Pantani. La scorsa stagione debutta Amore e Anarchia, scritto
con Laura Gambi, di cui è regista e interprete con Michela
Marangoni. Dal 1994 è guida dei laboratori non-scuola e, dal
2001, segue con il gruppo rap “Il Lato Oscuro della Costa”, il
laboratorio con adolescenti italiani e stranieri a Lido Adriano.
Attualmente è presidente di Ravenna Teatro.

28
Laura Gambi

    Laureata in Filosofia teoretica, ha lavorato in servizi rivolti
agli immigrati condividendo con questi ultimi un intenso
percorso di lavoro culturale. Ha pubblicato tra gli altri: I Wolof
del Senegal. Lingua e cultura (L’Harmattan, 1995), Awa che vive due
volte (Aiep, 1998, ripubblicato da Elle-Unità Multimedia. Premio
di studio “Luciana Sassatelli” del Centro Cabral, Bologna), il
romanzo Le strade di Lena (Aiep, 2005), Il pieno e il vuoto: storie di
uomini e donne tra l’Emilia-Romagna e l’Argentina (Torino, Altritalie,
2008). Dal 1997 è presidente di Libra, cooperativa sociale di
ricerca e intervento, per cui ha coordinato numerose attività.
Per lo spettacolo Griot Fuler, Laura Gambi ha curato l’omonimo
volume di Luigi Dadina e Mandaye N’Diaye (Guaraldi-Aiep,
1994), dopo aver preso parte all’esperienza del Teatro delle Albe
in Senegal.
    Nel 2014 per il teatro ha scritto, assieme a Luigi Dadina,
Amore e Anarchia, storia dei due anarchici ravennati Maria Luisa
Minguzzi e Francesco Pezzi, interpretato da Luigi Dadina e
Michela Marangoni. In passato, sempre con Dadina, ha ideato
Le vie dei canti, progetto tra teatro, musica e letteratura per le
comunità di immigrati (1993) e pubblicato Lido Adriano. Porta
d’oriente (Danilo Montanari, 2008), narrazione polifonica della
genesi e dello sviluppo di un paese turistico, nato sulla costa
romagnola negli anni ’60, oggi abitato da immigrati. Nel 2009
con il gruppo rap “Il Lato Oscuro della Costa”, ha promosso
la nascita del centro culturale Cisim di Lido Adriano, di cui
è direttrice artistica e per il quale collabora alla redazione di
«Cisim Review».

                                                                    29
Tahar Lamri

     Scrittore, intellettuale dal profilo multiforme e figura di
riferimento molto attiva sui temi dello scambio tra culture e le
trasformazioni che investono il Mediterraneo.
     Nasce ad Algeri, il 24 dicembre 1958. Si trasferisce in Libia
nel 1979, dove conclude gli studi in Legge, specializzandosi in
Rapporti Internazionali. Lavora come traduttore al consolato di
Francia a Bengasi e, in seguito, si sposta in Francia e poi in Italia.
Vive a Ravenna dal 1987.
     Il suo percorso letterario ha inizio alla fine degli anni
’80, con racconti brevi in lingua italiana. Risalgono al 1994 il
videoracconto La casa dei Tuareg (Teatro Rasi di Ravenna) e la
narrazione teatrale Wolf o le elecubrazioni di un kazoo (Ravenna
Teatro). Del 1995 è il racconto Solo allora sono certo potrò capire
(premio per la narrativa – concorso letterario Eks&Tra),
un’esplorazione delle contraddizioni della migrazione tra
Africa e Europa. L’anno successivo scrive E della mia presenza, solo
il silenzio, tra le prime e più importanti riflessioni critiche della
letteratura della migrazione, in cui si avanza l’idea dell’Italiano
“come lingua neutra, nella quale l’Europa della ragione e il
Mediterraneo della passione e del cuore possano convivere”. Del
2006 è il romanzo epistolare I sessanta nomi dell’amore. Oltre ai
racconti e il teatro, ha instaurato anche collaborazioni musicali:
nel 1997, con il gruppo I Metissage e la cantante Teresa De Sio,
scrive La ballata di Riva. Lo spettacolo Il pellegrinaggio della voce,
interpretato dallo stesso Lamri, viene presentato a Santarcangelo
di Romagna e poi ripreso in Italia, Europa e USA (2001-2008). È
organizzatore di eventi con l’associazione culturale “Insieme per
l’Algeria”. È stato direttore artistico del Festival delle Culture
di Ravenna. Ha collaborato con «Internazionale», fa parte della
redazione di «Città meticcia» – periodico bimestrale e progetto
di comunicazione interculturale.

30
Francesco
                              Giampaoli

    Musicista, compositore, fonico e produttore. Ha suonato con
Bob Moses. Nel 1998 vince il concorso “Iceberg ’98” (sezione jazz)
e partecipa alla Biennale Giovani Artisti Europei a Roma. Nel
2010 suona con il “Rhis Chatham guitar trio”. Nel 2009 fonda
l’etichetta discografica “Brutture Moderne” insieme ad Andrea
Scardovi. Ha pubblicato tre album solisti: A Caso (2009), Mi Sposto
(2011), Danza Del Ventre (2013). Fa parte del gruppo “Sacri Cuori”
attivo da anni a livello internazionale, con cui ha composto la
colonna sonora del film Zoran, il mio nipote scemo (2013) e buona
parte del loro nuovo disco Delone (2015). Con la Classica Orchestra
“Afrobeat”, di cui è fondatore assieme a Marco Zanotti e Valeria
Montanari, pubblica Shrine On You (2011) e Regard Sur Le Passe
(2013). Nel 2013 l’orchestra è invitata in Inghilterra, in apertura
del festival di Glastonbury. In collaborazione con il Teatro Delle
Albe ha scritto le musiche per i Trebbi (2014). Dal 2003 suona nel
“Quartetto Klez”. Nel 2009 scrive brani per la colonna sonora
del documentario Over the Rainbow di Maria Martinelli e Simona
Cocozza. Tra i dischi e le collaborazioni si segnalano: Quartetto
Klez (2005) e Quartetto Klez II (2010), Sur (2006), Sur Il limite (2010),
Parlare con Anna (2010) con la partecipazione speciale di Vinicio
Capossela e Valdazze (2012) del gruppo “Saluti da Saturno”; Rosario
(2010) dei “Sacri Cuori”. E ancora: Dan Stuart - The Deliverance Of
Marlowe Billings (2012); Woody Jackson - Dos Manos (2012); Hugo
Race - We Never Had Control (2012), Pan del Diavolo - FolkRockaBoom
(2014), Giant Sand Heartbreak Pass (2015), Godblesscomputers
- Plush and Safe (2015). Dal 2010 a oggi lavora anche in veste di
produttore e musicista e tra i tanti dischi citiamo i titoli: Dots
della cantautrice ravennate Mara, Musica per Autoambulanze
di Giacomo Toni, Caulonia Limbo Ya Ya dei Granturismo, Songs
From The Underground di Emanuelle Sigal (2015). Ha registrato
dischi assieme a Jim Keltner, Marc Ribot, David Idalgo, Isobel
Campbell, John Convertino, Kologbo. Dal 2011 suona in tour
italiani ed europei con Richard Buckner, Hugo Race, Dan Stuart,
Robyn Hitchock, Evan Lurie, Tav Falco, Howe Gelb.

                                                                       31
Diego
                                                     Pasini

    Nasce a Ravenna nel 1985. Bassista, allievo di Francesco
Giampaoli. È laureato in Scienze del comportamento e delle
relazioni sociali.
    Nel 1999 fonda il gruppo “Actionmen”, eccentrica band
punk‑rock conosciuta in Italia e all’estero grazie ai dischi The
Game (2007) e Ramadama (2013). Nel 2011, con l’inseparabile
Matteo Pozzi, dà vita a “Cacao”, un duo strumentale di chitarra
e basso legato all’improvvisazione e alla composizione in tempo
reale. Nel 2012 conosce Luciano Titi, ideatore del progetto
didattico musicale “Tititom”, e lo segue come assistente in
numerosi laboratori di musica. Nello stesso anno entra a far
parte della band “Ronin”, guidata da Bruno Dorella, coinvolta in
progetti musicali collaterali tra i quali la sonorizzazione del film
L’isola di Kim Ki Duk, all’interno del Mosaico Film Festival di
Ravenna, e la registrazione della colonna sonora del film Il terzo
tempo diretto da Enrico Maria Artale. Con i “Ronin” registra
Adagio furioso, ultimo disco della band uscito nel 2014.

32
Lanfranco-
                                       MODER-Vicari
                                       (Lato oscuro della Costa)

    Moder - alias di Lanfranco Vicari nasce a Ravenna nel 1983. Nei
primi anni Novanta segue il rap italiano e dall’inizio del 2000 si
cimenta con l’arte dell’mcing. Nello stesso periodo fonda il gruppo
rap “Alleanze Scisse” (A.S. Click) insieme a Max Penombra e Dj
Mastafuck. Nel 2001 pubblica il suo primo EP solista, Diari, con
testi autobiografici. Nel 2003 dalla fusione con un’altra band di
Ravenna nasce “Il Lato oscuro della Costa”. Il nuovo gruppo è
inizialmente formato da Moder, Penombra, Polly, Tesuan, Dj Nada
e Dj Mastafuck prende parte a molti live che consolidano l’affinità
della band. Nel 2006 esce il disco Artificious (Minoia Records) che
racchiude due anni di lavoro con partecipazioni speciali di Asher
Kuno, Kiave, Esa aka El Presidente, Mistaman, Maxi B e Zampa.
Il disco viene molto apprezzato dalla critica specializzata. Moder
continua, in parallelo, l’attività solista. Nel 2007 esce Delitto perfetto
che miscela l’hip hop a sonorità più elettroniche, in cui spicca la
collaborazione con gli statunitensi “Kill the Vultures”. Nel 2008
la band sceglie di percorrere il filone “avant-hip hop” che porta
alla creazione di Grand Guignol, un concept ep. Nel 2010, il secondo
album de “Il Lato oscuro della Costa” – Amore, morte, rivoluzione
– ha la produzione esecutiva di Brutture Moderne/Semai,
etichetta indipendente. Un lavoro più orientato all’elaborazione
dell’alternative-rock, come fonte di campionamento e ispirazione,
ma sempre fedele alle influenze hip hop.
    I live del gruppo toccano tutta l’Italia e sono molto richiesti.
    Nello stesso periodo Moder inizia a lavorare a un nuovo
progetto solista che pubblica nel 2011, Niente da dirti (mixtape) che lo
porta in giro per l’Italia. Il mixtape apre la strada al successivo EP,
Sottovalutato (2013), primo atto di un progetto che prevede l’uscita
di almeno altri ep, con l’intento di riunire artisti della scena
underground che non hanno la visibilità che meritano.

                                                                       33
Elvira Mascanzoni

    È cofondatrice nel 1974 della Compagnia “Drammatico
Vegetale”. Nel corso di della sua carriera nel settore del teatro per
l’infanzia, condivide con Pietro Fenati l’intero percorso artistico
della Compagnia. Con la sua presenza costante, in qualità
di attrice e animatrice nell’ideazione e realizzazione degli
spettacoli e delle esposizioni interattive, è figura indispensabile
nel disegnare l’originale rapporto tra la fisicità dell’attore e la
figura propria della compagnia. È socia fondatrice di Ravenna
Teatro.

34
Pietro Fenati

     Comincia ad occuparsi di teatro nel 1974, con lo studio di
alcune forme di teatro popolare. Nello stesso anno fonda la
Compagnia “Drammatico Vegetale”, una delle prime e più
importanti esperienze di teatro per ragazzi in Italia, con sempre
più numerosi riconoscimenti in festival internazionali. Nel 1977
si laurea al DAMS di Bologna con una tesi sul teatro di burattini.
È socio fondatore di Ravenna Teatro, di cui è direttore artistico
del settore dedicato all’infanzia. Alla fine degli anni Ottanta,
si avvicina al teatro musicale e firma numerose regie, tra cui
per Ravenna Festival: l’opera di Roberto Solci Don Chisciotte
(1994); La volpe Renardo, musiche di Luciano Titi, interpretato
da Vinicio Capossela; Prossimi al cielo (2005), musiche di Luciano
Titi. A partire dal 1996, concepisce e realizza una serie di mostre
interattive tra arte, musica e teatro: Materie Disegni (1996),
Chroma (1998), La via dei suoni (2003), Wunderkammer la camera
delle meraviglie (2006), Pin’occhio (2015). Lo spettacolo Viaggio in
aereo del 1996 è finalista al premio ETI-Stregagatto. Nel 1999
realizza lo spettacolo Sogni che dà inizio alla sperimentazione
delle nuove tecnologie e all’introduzione delle scene virtuali di
Ezio Antonelli. Nel 2003 firma la regia del Piccolo spazzacamino di
Benjamin Britten per il Teatro Alighieri di Ravenna e il Teatro
del Giglio di Lucca. Con i suoi lavori ha fatto tournée in Francia,
Spagna, Germania, Belgio, Svizzera, Norvegia, Polonia, Estonia,
Ungheria, Iran. Gli ultimi spettacoli, per la primissima infanzia,
Brum, Che sì che no e Uno, due, tre hanno partecipato a importanti
festival teatrali in Spagna, Svizzera, Russia, Polonia, Cina, Hong
kong, Singapore.

                                                                  35
luoghi del festival

     Il Teatro Rasi si insedia sulle strutture dell’antica chiesa monastica
di S. Chiara, legata allo scomparso convento delle Clarisse Francescane
(sito nell’attuale area della Casa protetta per anziani “Garibaldi”).
L’edificio, che rimpiazzava il vecchio monasterium S. Stephani in
fundamento, sito sempre nella regione (guayta) di San Salvatore, fu
eretto entro la seconda metà del xiii secolo per iniziativa di Chiara da
Polenta (1247-1292), figura di spicco dell’illustre famiglia ravennate,
la cui intera esistenza fu dedicata alla diffusione del movimento
francescano femminile nella zona.
     L’esterno dell’edificio mononave, nonostante le successive
modifiche, appare tuttora leggibile nelle sue linee essenziali, specie
nella postica, animata da un fregio di arcatelle pensili e sormontata
da una croce infissa su un frammento reimpiegato di pilastrino di
recinzione del vi secolo. Nell’interno permangono a vista lacerti della
partizione muraria in laterizio, oltre all’intera zona presbiteriale, a
pianta quadrata, con strette finestre sulle tre pareti e una copertura a
crociera, oggi inglobata nel palcoscenico. Nell’intradosso delle finestre
e nelle nervature della volta si notano tracce della preziosa decorazione
pittorica di Pietro da Rimini (terzo decennio del xiv secolo), che
rivestiva l’intero vano presbiteriale, con scene del Nuovo Testamento
(Crocifissione, Annunciazione, Natività) e figure di santi lungo le pareti,
Evangelisti e Dottori della Chiesa nelle vele; gli affreschi superstiti,
sottoposti allo strappo fra gli anni ’50 e ’70 e recentemente restaurati,
si possono oggi ammirare nel refettorio del Museo Nazionale.
     Il monastero sopravvisse fino al 1805, quando le Clarisse furono
trasferite nel convento del Corpus Domini; la chiesa, che aveva appena
subito (1794) un rifacimento su progetto di Guglielmo Zumaglini,
fu sconsacrata (10 dicembre) e, dopo essere stata utilizzata per
breve tempo come sede della compagnia teatrale del conte Pietro
Cappi (fino al 1811), venne ceduta (1823) all’Ospedale di S. Maria
delle Croci, quindi impiegata (1847-1856) per spettacoli equestri. La
trasformazione in vero e proprio teatro risale all’ultimo decennio del
secolo, per iniziativa della locale Accademia Filodrammatica, all’epoca
priva di sede. Separata la zona presbiteriale affrescata con un muro,
l’architetto Cesare Bezzi ricavò dalla navata una platea capace di 220
posti, a cui si aggiunsero in seguito i 90 di una galleria in ferro battuto,
poco profonda ma prolungata con ali longitudinali. L’inaugurazione
del nuovo Teatro Filodrammatico avvenne l’8 maggio 1892 con la
commedia Il deputato di Bombignac di Bisson e un monologo scritto
dal celebre attore ravennate Luigi Rasi, a cui la sala sarà poi intitolata
nel 1919. L’attività del Teatro Rasi, essenzialmente limitata all’ambito
della commedia, dell’operetta e della musica cameristica, per lo più con
compagnie e artisti locali, continuò con brevi interruzioni fino al 1959,
quando l’edificio, che già aveva subito limitati restauri e migliorie, venne
sottoposto ad una radicale ristrutturazione sulla base di un progetto

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dell’architetto Sergio Agostini, che ha portato alla realizzazione di una
nuova galleria e all’ampliamento dello spazio del palcoscenico al vano
dell’ex presbiterio. In tale forma il nuovo Teatro Rasi è stato inaugurato
nel 1978.
     Sede delle attività del Teatro delle Albe e della Drammatico
Vegetale, riunite dal 1991 in Ravenna Teatro-Teatro Stabile di
Innovazione, il Rasi è stato sottoposto di recente a lavori di messa a
norma curati dall’architetto Giancarlo Montagna.
     Ristrutturato negli impianti (elettrici, riscaldamento e
condizionamento) grazie alla stretta collaborazione tra il Comune di
Ravenna e la dirigenza dello Stabile, anche i suoi interni sono stati
completamente ricreati a cura di Ermanna Montanari e Cosetta Gardini:
un rivestimento in blu delle pareti e delle poltrone della sala, uno spazio
nuovo nel foyer e gli arredamenti disegnati da Raffaello Biagetti.
     In questa nuova veste è stato inaugurato nell’ottobre 2001 con
un evento al quale hanno partecipato 300 ragazzi della “non scuola”
diretta da Marco Martinelli.
VALORI E IDEE
                 PER NUTRIRE
                 LA TERRA
             L’Emilia-Romagna
                a Expo Milano 2015

coordinamento editoriale e grafica
Ufficio Edizioni Ravenna Festival

stampato su carta Arcoprint Extra White

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per quanto riguarda le fonti iconografiche
non individuate
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