DOMANDANO PERCHÈ I DETENUTI DOMANDANO PERCHÈ I DETENUTI DOMANDANO PERCHÈ I DETENUTI DOMANDANO PERCHÈ I DETENUTI DOMANDANO - MEDIOBANCA SPA

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I detenuti
     perchè
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Finito di Stampare nel Gennaio 2020

                                                    HOME   INDEX
Introduzione

I detenuti domandano perché nasce nel 2018 con un obiet-
tivo ambizioso: dare una voce agli interrogativi di chi vive in
carcere provando a rispondere alle tante domande che tut-
ti noi quotidianamente ci poniamo, ma che in questi luoghi
sembrano emergere in modo più prepotente.
Un progetto complesso e inconsueto per una realtà come la
nostra, ma in cui abbiamo creduto fin dal primo momento.
Grazie al prezioso supporto della Kasa dei Libri di Andrea
Kerbaker e dell’associazione Vivere con Lentezza, abbiamo
coinvolto scrittori e poeti, le figure per noi più adatte a cer-
care una senso nelle cose, abbiamo raccolto le domande
dei detenuti e siamo partiti per questa avventura.
San Vittore, Beccaria, Bollate, sono solo alcune delle carceri
che abbiamo visitato in queste due edizioni del progetto: un
po’ timorosi il primo anno, non sapendo come ci avrebbero
accolto – vorranno parlarci? saremo all’altezza? – pieni di en-
tusiasmo e e di voglia di raccontarci, il secondo.
Le domande che abbiamo raccolto e su cui abbiamo dibat-
tuto sono state tante, complesse e mai banali. Ma soprat-
tutto sincere. Ci si chiede per esempio ‘Perché si sbaglia?’
‘Perché nella vita ci sono due strade, quella buona e quella
cattiva e si sceglie sempre quella sbagliata?’ oppure ‘Quan-
do usciamo dal carcere come possiamo continuare a viv-
ere? E a dimenticare?’

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GIOVANNA GIUSTI DEL GIARDINO

Il tema della scelta ricorre frequentemente così come quello
del futuro, unita alla paura di non essere all’altezza del mon-
do che li aspetta fuori.
Certo non esistono risposte univoche: ci si mette in gioco e
si prova a ragionare insieme. L’unicità di questi momenti sta
proprio nel reciproco dare e ricevere. Noi offriamo il nostro
tempo e la nostra esperienza; loro ci regalano emozioni, at-
tenzioni inaspettate e una ‘normalità’ che spesso sorprende.
Ho sempre usato la parola noi per raccontare questa espe-
rienza perché I detenuti domando perché quest’anno ha
visto protagonisti numerosi colleghi che hanno partecipato
come volontari agli incontri e hanno contribuito al successo
di questa iniziativa con il loro entusiasmo e il loro impegno.
Per provare a condividere questa esperienza speciale abbia-
mo chiesto agli scrittori coinvolti nel 2019 di scriverci le loro
testimonianze che abbiamo raccolto in questo piccolo libro
dal titolo appunto I detenuti domandano perchè.
Buona lettura a tutti
                                   Giovanna Giusti del Giardino
                          Head of Group Sustainability Mediobanca

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Scheda del Progetto

I detenuti domandano perché è un progetto promosso da
Mediobanca, dalla Kasa dei Libri e dalla ONLUS l’Arte di viv-
ere con Lentezza per favorire l’inclusione sociale negli istituti
detentivi attraverso la lettura.
     Nato nel 2018 in occasione di Tempo di Libri, la manifes-
tazione dedicata alla lettura della città di Milano, I detenuti
domandano perché si pone l’obiettivo di mettere a confron-
to alcune delle firme più autorevoli della narrativa italiana
con i “perché” raccolti tra le persone detenute in carcere.
     Dopo il successo della prima edizione il progetto è cre-
sciuto nel 2019 ampliando il numero di detenuti e scrittori
coinvolti e includendo anche volontari di Mediobanca.
      L’iniziativa si è articolata in due fasi: nella prima i volon-
tari di Mediobanca hanno visitato i detenuti e dialogato con
loro in piccoli gruppi aiutandoli a far emergere dubbi e do-
mande; successivamente hanno incontrato gli scrittori e in-
sieme hanno posto loro tali interrogativi.
      Complessivamente sono stati coinvolti circa 200 dete-
nuti provenienti da 6 istituti penitenziari (Casa Circondariale
di San Vittore, di Pavia, di Lodi e di Piacenza, Casa di Reclu-
sione di Bollate e Istituto Penale per Minorenni Cesare Becca-
ria di Milano) e 25 dipendenti di Mediobanca.
      Gli scrittori coinvolti sono stati sei: Isabella Bossi Fedrigot-
ti, Gianni Biondillo, Marco Balzano, Giuseppe Lupo, Pier Luigi
Vercesi e Andrea Kerbaker.

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Sommario

Quei cancelli che sbattevano .....................................................................                                   9
MARCO BALZANO

Il filo di Arianna ..............................................................................................................   17
GIANNI BIONDILLO

Andare in carcere .....................................................................................................             23
ISABELLA BOSSI FEDRIGOTTI

Dare da mangiare agli affamati ...............................................................                                      29
ANDREA KERBAKER

La libertà in un libro ..................................................................................................           35
GIUSEPPE LUPO

Ma che buono ‘sto caffè ..................................................................................                          39
PIER LUIGI VERCESI

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Marco Balzano
Marco Balzano è nato a Milano nel 1978. Oltre a saggi
e raccolte di poesie ha scritto quattro romanzi. Per Sellerio
ha pubblicato Il figlio del figlio (premio Corrado Alvaro),
Pronti a tutte le partenze (Premio Flaiano), L’ultimo arrivato
(Premio Volponi e Premio Campiello). Per Einaudi è uscito
nel 2018 Resto qui (tra gli altri, premio Bagutta,
premio Isola d’Elba, premio Asti, finalista al premio Strega
e Prix Méditerranée) e nel 2019 il saggio Le parole sono
importanti (Premio Città delle Rose). I suoi libri sono tradotti
in quindici paesi. Collabora con le pagine culturali
del Corriere della Sera.

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Quei cancelli
                       che sbattevano
                                    MARCO BALZANO

La prima volta che sono entrato in carcere avevo ventitré
anni. Mi ci aveva portato il mio prof dell’università, un mae-
stro a cui devo tanto non solo in termini culturali, ma anche
umani (altrimenti non avrei usato la parola maestro, sarebbe
bastato dire prof). Ci teneva molto che andassi e quando gli
ho chiesto perché mi ha risposto che entrare in galera era un
buon modo per capire se davvero volevo fare l’insegnante.
Secondo lui lavorare in condizioni di difficoltà era un’ottima
maniera per mettere alla prova desideri e ambizioni.
     Ricordo i cancelli di ferro che si chiudevano alle mie
spalle. Lo senti quando sbattono che stai perdendo progres-
sivamente tutto, prima di ogni cosa la luce. Poi il movimento,
i passi. Libertà è camminare, è larghezza, spazio. Non è un
caso che i carcerati li chiamino anche “ristretti”, uno dei tanti
termini che per la sua bruttezza è capace di far luce sull’idea
esclusivamente repressiva che sta alla base della detenzio-
ne. Uno dei tanti termini che dimostra come Beccaria non lo
abbiamo ancora studiato abbastanza. I cancelli sbattevano
e dopo i cancelli un secondino ha chiuso la porta della mia
classe, un’aula stretta e spoglia del carcere di Opera. Stret-
ta, appunto, nonostante “aula” in greco voglia dire “spazio
aperto”. Quando quell’ultima porta ha sbattuto i ragazzi e gli
uomini che avevo davanti si sono accorti del mio smarrimen-
to, anzi della mia paura, e si sono messi a ridere. Uno in dia-

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MARCO BALZANO

letto siciliano ha detto “Tranquillo, non ti facciamo niente…”.
L’ha detto in modo malizioso, dando di gomito al compagno
di banco, che aveva una faccia affilata. Ho cercato (senza
riuscirci) di dissimulare l’imbarazzo e ho iniziato subito a spie-
gare, perché il mio prof aveva detto di non perdere tempo
e, soprattutto, di non perdersi in chiacchiere. “Che perder
tempo a chi più sa più spiace” amava ripetere citando Dan-
te. Ho parlato di Machiavelli, partendo da quella frase che
lui non ha mai detto: il fine giustifica i mezzi. L’ho trasformata
in una domanda: il fine giustifica i mezzi?
       Ne è nata una discussione accesa, nonostante i rumori di
altri cancelli che sbattevano, di sirene della polizia, di urla che
provenivano da corridoi lontani. Mi è bastata quella lezione,
piena di imbarazzo e insieme di entusiasmo, per comprende-
re la vera difficoltà di insegnare in carcere. Per i detenuti fare
scuola è un momento di respiro, non ci sono guardie intorno,
lo spazio ristretto della classe è comunque più ampio di quello
della cella, c’è una compagnia variegata di persone. E si può
dialogare. Non semplicemente parlare, ma dialogare, che è
una cosa molto diversa. Il dialogo è ascolto, ragionamento,
rispetto dell’altro, democrazia, dunque è libertà. La difficoltà,
allora, era evitare che la lezione venisse usata come una scu-
sa per parlare di se stessi, trasformando l’ora di italiano in una
sorta di psicoterapia di gruppo e la classe in una specie di
confessionale. Non che questo, in fondo, sia un uso improprio
della letteratura, ma perché la letteratura, per diventare una
lente di approfondimento della nostra dimensione esistenzia-
le, ha bisogno di studio. Prima di ogni altra cosa è necessa-
rio leggerla e imparare a rispettare quella che Umberto Eco
chiamava “l’intenzione del testo”. In classe, allora, ho sempre
cercato di leggere le pagine che mi sembrano imprescindibili
nella formazione di un individuo. Così, se negli incontri succes-

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Quei cancelli che sbattevano

sivi quei cancelli che sbattevano continuavano a inquietarmi,
la porta della classe che il secondino chiudeva era diventato
un gesto che vivevo serenamente perché avevo capito che
per i carcerati significava contemplare un orizzonte di libertà.
Dopo l’analisi di un brano iniziava il momento delle doman-
de sulle questioni che quel testo poneva e in quei perché
sentivo che loro realmente cercavano di tirare fuori i rovelli,
le tessere mancanti, le angosce, i pregiudizi. Mi convincevo
che tra quelle mura si poteva imparare soltanto intavolando
discussioni su discussioni. Ogni altro approccio sarebbe risul-
tato vecchio e pedante. Certo, a volte le lezioni fallivano, ma
un’altra cosa che avevo imparato dal mio maestro è che il
fallimento è un’esperienza interessante per chi fa questo me-
stiere. Non dovevo averne paura. Anzi, insegnare è avvez-
zarsi al fallimento: non tutti ti ascolteranno, almeno uno non
ti ascolterà mai, almeno uno cercherà sempre di ascoltarti.
Parlavo di Manzoni o di Pirandello, di Montale o di Sciascia e
capitava che un detenuto alzasse la mano e iniziasse a rac-
contarmi di sua moglie, del suo paese, della rapina andata
male. O che mi chiedesse cosa succedeva davvero là fuori,
se quelle che superavano i muri del carcere e arrivavano fin
nelle celle erano notizie vere o dicerie di poco conto. Alcu-
ni mi trattavano come se nutrissero la speranza che potessi
depositare una prova a loro favore, una testimonianza au-
torevole che accelerasse il sogno di uscire, di non sentire più
sirene e cancelli che sbattono. Il bisogno più grande, man
mano che ci conoscevamo meglio, era convincermi che non
erano finiti lì dentro per colpa loro. Al contrario, si trovavano
in galera perché erano stati abbandonati. Colpa del posto
dove sei nato, della famiglia da cui arrivi, della gente che
incontri e che dice di volerti aiutare. Colpa del fine che non
giustifica i mezzi. Così tante volte il dialogo l’ho alimentato
solamente io. Nei momenti di scoramento mi aggrappavo al

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MARCO BALZANO

pensiero che comunque, a furia di dannarmi a parlare, alcu-
ni nomi gli sarebbero entrati in testa e forse qualcuno di loro
quando sarebbe uscito, passeggiando per una piazza che
porta il nome di Petrarca o di Ungaretti, si sarebbe ricordato
che il carcere è stato anche scuola.
       Poi sono diventato uno scrittore. Un mestiere strano in
cui rileggi le tue esperienze e le mescoli con la fantasia, con
le ferite, con il tuo sguardo sul presente, con le tue indigna-
zioni. Il carcere faceva ormai parte del mio immaginario e
così non ho potuto fare a meno di raccontarlo. Il nonno, che
è stato il mio primo protagonista, è stato arrestato perché
non aveva mai preso la tessera del partito fascista. Aveva
un carattere ribelle e il suo cruccio era non aver saputo in
tempo che dopo l’8 settembre si potesse salire in montagna
a combattere. Quando la notizia era arrivata nelle campa-
gne pugliesi dove era tornato, lui non poteva più lasciare il
lavoro. La miseria era tanta e chi non era partito per il fronte
l’aveva patita quasi quanto i soldati. Sua moglie, la nonna,
aveva addosso la paura della guerra e anche delle bombe
sganciate dagli americani venuti a liberarci.
      Nel secondo romanzo ho raccontato di quando andavo
a insegnare in carcere e se non fosse parecchio sgradevole
autocitarsi riporterei quella pagina dove vado a una festa di
scarcerazione perché è una cosa che ho fatto davvero. Ho
proprio preso il treno e sono andato fino a Genova. Gugliel-
mo ha dato una festa strepitosa, ho mangiato le trenette al
pesto più buone della mia vita e ho visto dei fuochi d’artificio
dalla terrazza che hanno illuminato a giorno uno squarcio di
cielo e un pezzetto di mare. Lui mi presentava a tutti come
il suo insegnante e quando gli invitati – che forse avevano
avuto esperienze simili alle sue – alzavano appena la testa per
salutare lui si scusava con me della loro ignoranza. Aveva in-

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Quei cancelli che sbattevano

teriorizzato l’importanza di andare a scuola, aveva compreso
quant’è fondamentale incontrare qualcuno con cui puoi dia-
logare e portare avanti dei ragionamenti. Ovviamente non
conta nulla che quel qualcuno fossi io, conta ciò che in quel
momento rappresentavo. Alla fine della festa, quando gli invi-
tati iniziavano ad andare a casa e io a sentirmi stanco, mi ha
portato in corridoio e mi ha regalato un crocifisso. Piccolo, di
finto avorio. Mi ha confidato che a lui in galera l’avevano te-
nuto in piedi i romanzi che gli davo da leggere e la fede. Me
lo voleva regalare perché desiderava che anch’io diventassi
credente. Non si dava pace che non lo fossi e quando mi ha
chiesto un’ultima volta perché io non ho saputo rispondere.
     Nel terzo romanzo il protagonista parla da una cella. Se
ne sta sdraiato sulla branda del carcere di Opera con le mani
dietro la nuca e ripensa alla sua storia. Ha paura di uscire per-
ché sa che fuori sarà obbligato a rifarsi una vita. Il carcere è
diventato per lui – ma capita a tanti – una paradossale prote-
zione dalle proprie responsabilità e dalle proprie prospettive.
Ninetto è come il novanta percento dei carcerati: a scuola
non ci va. Trascorre le sue giornate tra ozio e noia, immobile
su se stesso, fissando gli occhi su un punto del muro. Eppure il
ricordo di cui va più fiero è quando, in fabbrica, si era preso
la terza media con le 150 ore, o quando andava a scuola
da un maestro che per lui era un vero e proprio idolo. La sua
depressione è mancanza di scuola. Rifiuto della parola. Ho
sempre chiesto con insistenza ai detenuti che venivano alle
lezioni o ai cicli di incontri dov’erano finiti gli altri che c’erano
le volte scorse, quanti erano i loro compagni di cella che non
partecipavano e, soprattutto, perché. Borbottavano, azzar-
davano risposte, scuotevano il capo, ma non sapevano dar-
mi una ragione concreta né dirmi perché fossero così tanti.
Ci vorrebbero degli insegnanti che vadano cella per cella,

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MARCO BALZANO

detenuto per detenuto, a spiegare quanto è fondamentale
alzarsi dal letto e andare in classe. Forse è questo che più di
ogni altra cosa mi piacerebbe fare nelle volte che riattraver-
serò i cancelli: andare a spiegare che “scuola” e “parola”
indicano movimento, coinvolgimento dell’altro e che quindi
sono il contrario della detenzione, della staticità, dell’affli-
zione, della volontà di punire. Proselitismo scolastico, questo
bisognerebbe fare. Ne ho parlato tante volte anche con i
docenti che insegnano per mestiere in prigione e che più di
una volta mi sono sembrati rassegnati, a volte stanchi di es-
sere lasciati soli a portare avanti un compito così complesso.
Come non comprenderli. Gli alunni cambiano continuamen-
te, il livello di istruzione (o di alfabetizzazione) è troppo varie-
gato all’interno di ogni gruppo, l’abbandono della frequen-
za è molto alto, il materiale di lavoro non viene fornito, e via
dicendo. I docenti, poi, benché conoscano più di ogni altro i
detenuti non hanno nessuna voce in capitolo verso chi deci-
derà della loro sorte, che quasi sempre è qualcuno che non li
conosce affatto. Quell’aspirazione che mi hanno tante volte
trasmesso gli studenti in fondo era legittima: un insegnante li
conosce perché ci dialoga, potrebbe essere un tramite per
parlare di loro con cognizione di causa e con elementi alla
mano che nessun altro possiede.
      Ecco perché uno scrittore che entra in prigione – in que-
sto luogo generalmente inospitale, brutto, non a norma, mol-
te volte inumano già nell’aspetto – assume sempre un ruolo
importante. Le sue parole, quelle che ha scritto e quelle che
dirà, a differenza di una lezione ordinaria, potranno più fa-
cilmente essere un punto comune per tutto l’insieme etero-
geneo di persone che gli sta davanti. Le storie e le parole, in
fondo, sono dei grandi perché che si incarnano in voci e per-
sonaggi e non hanno bisogno di nessun requisito particolare

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Quei cancelli che sbattevano

per smuovere la mente, dunque possono coinvolgere tutti. E
poco importa che la risposta a quei perché quasi mai arrivi.
Anzi, è proprio di questo che bisogna gioire. La mancata ri-
sposta è l’unica condizione che ci permetterà di continuare
a darci appuntamenti e di dialogare ancora.
    Fino al tempo della libertà e oltre.

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Gianni Biondillo
Gianni Biondillo (Milano, 1966), narratore, architetto,
psicogeografo, pubblica per Guanda dal 2004.
Come saggista s’è occupato di leggere e interpretare
lo spazio della metropoli contemporanea. Come autore
s’è occupato di narrativa di genere, viaggi, teatro, eros,
fiabe. Nel 2011 il romanzo noir I materiali del killer ha vinto
il Premio Scerbanenco e nel 2014, in Francia, il Prix
Violeta Negra. Nel 2018 il romanzo storico Come sugli alberi
le foglie ha vinto il Premio Bergamo. Il suo ultimo romanzo
è Il sapore del sangue (2018). Scrive per il cinema
e la televisione. Fa parte della redazione di Nazione Indiana,
collabora con Abitare, Lampoon ed altre riviste nazionali.
È tradotto in varie lingue europee.

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Il filo di Arianna

                                     GIANNI BIONDILLO

Ad Andrea Kerbaker piace mandarmi in galera. Lo fa tutte le
volte che può. Ma la cosa a me non disturba affatto. Pense-
rete che abbia a che fare col mio scrivere “gialli” (virgolette
obbligatorie). Non è esattamente così. Per capirci: nel 2005
un mio romanzo partecipò a un premio letterario assai curio-
so. Si chiamava “Premio Franco Fedeli”. Era – ed è, mi auguro
che esista ancora! – organizzato dal SIULP (il Sindacato Italia-
no Unitario Lavoratori Polizia) di Bologna.
      La particolarità del premio stava nella giuria selezionatri-
ce, composta da magistrati e esponenti delle forze dell’ordi-
ne. La fortuna volle che quell’anno lo vincessi io. Salito sul pal-
co, durante la premiazione, l’imbarazzo per me era palpabile.
Davanti ai miei occhi, oltre che semplici curiosi e lettori appas-
sionati, c’erano carabinieri, guardie di finanza, poliziotti. Alcuni
anche in alta uniforme. A un certo punto il presentatore della
serata, un poliziotto, lesse le motivazioni. In pratica mi diceva-
no che avevo raccontato un commissariato nella sua auten-
ticità, come se lo conoscessi alla perfezione. Poi il poliziotto mi
porse il microfono chiedendomi se per caso avevo qualcuno
in famiglia che lavorasse nelle forze dell’ordine, perché il gra-
do di aderenza al reale lo trovava impressionante. “Ci conosci
troppo bene!” mi disse. Ripensandoci oggi la mia fu forse una
risposta un po’ fuori luogo: “A dir la verità eravate voi a cono-
scere bene i miei parenti. Non facevate che arrestarli. Diciamo

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GIANNI BIONDILLO

che un rapporto con le forze dell’ordine l’ho comunque avu-
to. Dalla parte sbagliata!”
     Risero tutti, con sportività. Anche se la mia non era una
battuta.
       Sono cresciuto in una famiglia sottoproletaria, in un
quartiere complicato di Milano, Quarto Oggiaro. Una fami-
glia di semianalfabeti, di emigranti alla ricerca di fortuna.
Una pletora di ragazzi e ragazze che fuggivano la miseria e la
fame, illusi dal sogno del motore economico della Nazione.
C’era nella mia meridionale e numerosa famiglia chi si por-
tava dietro un’etica dell’onestà quasi preindustriale e c’era
chi l’aveva perduta per strada. Non solo nella mia famiglia,
ben inteso, ma anche a quella dei miei vicini di casa, dei miei
compagni di classe, dei miei amici del cortile. Bande di bam-
bini con le madri che facevano le pulizie nelle case dei ricchi
professionisti del centro e i padri che scontavano i domiciliari
magari perché quelle stesse case avevano provato a svali-
giarle. Ragazzini che giocavano a nascondino nelle scale dei
falansteri di periferia usando come base per il “libera tutti”
una stella a cinque punte cerchiata, simbolo delle Brigate
Rosse. Erano anni così. Alcuni dei miei compagni di cortile
hanno studiato, altri sono diventati operai, falegnami, carroz-
zieri. Altri ancora spacciatori. Qualcuno è morto di overdose.
      In queste condizioni sociali le sfumature sono importanti.
Per quanto, a parole, si è manichei – tutto è bianco o nero
nelle chiacchiere di cortile – poi, nella realtà quotidiana, tut-
to sfuma in una gamma infinita di grigi, più o meno intensi.
      Nelle lunghe natalizie partite a carte in famiglia, quan-
do si poteva essere anche in venti in un bilocale dove già in
quattro si stava stretti, nessuno chiedeva il certificato penale
ai presenti. C’era chi lavorava onestamente ai mercati rionali

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Il filo di Arianna

e chi era appena uscito da San Vittore. Per me bambino era-
no tutti sullo stesso piano. Non c’erano buoni o cattivi, ma zii,
amici, parenti.
      Chi “sbagliava” sapeva di aver sbagliato. Quella cosa
che i criminali si reputano tutti innocenti è roba da film. C’e-
ra coscienza di aver fatto qualcosa di illegale. Di sbagliato.
Qualcuno con un bicchiere di troppo provava pure a giu-
stificarlo, adducendo motivazioni vagamente sociologiche,
ma in fondo ci credeva poco. Ho sbagliato e ho pagato.
Punto. Il conto era in pari. Gente pratica. Non c’è mai sta-
ta una mitologia del crimine, una esaltazione della vita fuori
dalla legge. Queste sono retoriche romanzesche, romantici-
smi borghesi, di chi vagheggia una fuga dal proprio censo
sociale che reputa poco emozionante. I “criminali” che mi
toccava frequentare erano assai poco romantici. Fosse stato
per loro avrebbero cambiato all’istante le loro emozionanti
vite sottoproletarie con le pacifiche e oneste vite borghesi.
In fondo, nel rubare una macchina, o scippare un portafogli,
nello spacciare sostanze illegali o rapinare una tabaccheria,
c’era un desiderio di saltare la fila, di arrivare prima a quella
tranquillità economica tipica delle persone oneste. Nessuna
giustificazione, però. Sapevano di sbagliare e accettavano
la pena. Magari inalberandosi, con un pizzico di rabbia, con-
tro la sfortuna o l’idiozia del complice o chissà quale altra
ragione, ma la consapevolezza di aver fatto qualcosa di sba-
gliato non era mai messa in dubbio. Ed anzi, non c’era volta
che non sentivo dire, ai più piccoli: “Non fate questa vita,
non ne vale la pena.” O anche: “Se ti trovo a fare qualcosa
di sbagliato giuro che ti spacco la testa.”
     Se sono una persona onesta, mi viene da dire, lo devo
forse di più agli insegnamenti della parte “disonesta” della
mia famiglia, piuttosto che ai tetragoni dettami morali impar-

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GIANNI BIONDILLO

titimi da mia madre, donna di una onestà specchiata, persi-
no ossessiva.
      In quelle fumose serate natalizie, o pasquali, o ferra-
gostane, quando la famiglia si allargava comprendendo,
cristianamente, anche i rei, io passavo il mio tempo ad
ascoltare le loro storie. Se c’era un ladro, attorno a quel
tavolo, ero di certo io. Ho rubato per anni le loro narrazioni,
le ho immagazzinate, le ho fatte diventare materiale da
modellare, decenni appresso, nei miei romanzi. Il debito
che devo a quelle persone non sarà mai per davvero sal-
dato. Perché crescere in un mondo dove tutti s’era perso-
ne, ognuna con la propria storia, chi giusta chi sbagliata,
ma persone, piene di sentimenti, illusioni, speranze, amori
– io ragazzino giudizioso che provava per primo a andare
a scuola dopo le medie (sapeva di salto nel buio per la mia
numerosissima famiglia, sembrava quasi oltrepassassi le
colonne d’Ercole) – crescere in un mondo così, dicevo, mi
ha insegnato a non giudicare mai, soprattutto utilizzando i
comodi luoghi comuni. Quelli che nella scuole del centro
che frequentavo, continuavo a sentire quando si parlava
del mio quartiere.
      In questi ultimi anni sono stato spesso in carcere. Credo
di averne visitati una almeno decina (e non sempre per colpa
di Andrea), più e più volte. Entro e esco in giornata, sia ben
chiaro. Lo dico per mia madre, che so potrebbe restarci male.
(Ricordo, era il giorno del mio compleanno, quando mia ma-
dre mi telefonò per farmi gli auguri, ma io chiusi la telefonata
in fretta. “Scusami” le dissi. “Non posso parlare, sto entrando
in carcere.” Ho il sospetto le sia venuto un mezzo infarto. An-
che perché le notizie girano in fretta in certi quartieri. Il giorno
appresso, mentre andava a fare la spesa, una sciura le chiese
cosa avessi combinato, dato che mi avevano visto a San Vit-

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Il filo di Arianna

tore. “Chi l’avrebbe mai detto, un così bravo ragazzo!”).
     Vado a parlare con i detenuti e ogni volta mi chiedo
se faccio bene. Conosco il sospetto implicito di chi viene ad
ascoltarmi in quell’ora che frantuma la noia della detenzio-
ne. Chi è questo? Che vuole da noi? Cosa crede di venirci
a raccontare? Cosa sa della vita? Hanno il culo al caldo e
vengono qui a lavarsi la coscienza!
      Ci vado ogni volta sapendo tutto ciò. E sapendo soprat-
tutto che non ho niente da insegnare. Vado, col mio trucco
da prestigiatore in tasca. Mi siedo e rompo il ghiaccio rac-
contando dove vivevo da ragazzo. Uno di Quarto Oggiaro
lo trovo sempre. Che mi guarda in tralice, con diffidenza, si
avvicina con la sedia, mi chiede di tale o tal altro. Quando
supero il test tutto si fa più facile.
      Questi uomini, queste donne, questi ragazzi, hanno den-
tro di sé interi mondi di emozioni, di sofferenze, di dolori, di
rimorsi. Che aspettano solo di essere ascoltati. Più che par-
lare cerco di farli parlare. Di liberarsi. Il loro silenzio è come
una biblioteca in fiamme, non possiamo permettercelo. Le
loro storie sono le vite che avremmo potuto vivere, semplice-
mente se al momento giusto, al posto di un sentiero non ne
avessimo imboccato un altro. Non tutti hanno la fortuna di
avere una bussola in tasca. C’è chi si perde lungo la strada,
spesso di continuo. C’è chi non ha ancora imparato il modo
di orientarsi nella vita. A maggior ragione le loro esperienze
sono insegnamenti fondamentali, per tutti noi. Offrire loro un
capo del gomitolo, come Arianna, è il minimo che dobbia-
mo fare affinché non si perdano per sempre nel labirinto dei
loro errori. Conviene a tutti. A noi per primi, qualunque cosa
quel “noi” possa significare.
Andare in carcere, incontrare dei detenuti, parlare con loro?

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Isabella Bossi Fedrigotti
Collabora al Corriere della Sera scrivendo articoli culturali
e di costume. Il suo esordio nella narrativa è stato
col romanzo Amore mio, uccidi Garibaldi (1980).
I suoi libri sono stati tradotti in varie lingue e ha vinto
il Premio Campiello con Di buona famiglia (Longanesi).
Ha inoltre partecipato al volume collettivo sull’handicap
infantile dal titolo Mi riguarda (Roma, Edizioni Sandra Ozzola
E/O 1994). Nel 2019 le viene conferito il Premio della
Fondazione Campiello alla carriera.

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Andare in carcere

                          ISABELLA BOSSI FEDRIGOTTI

Sì, ci sono i volontari che con gli educatori organizzano questi
incontri perché ritengono che sia importante creare collega-
menti tra il mondo di dentro e il mondo di fuori, un modo
per preparare i detenuti al dopo, a quando torneranno liberi,
un modo per aiutarli a riabilitarsi con letture, conversazioni,
discussioni. Sono uguali a noi, persone normali. Sono giova-
ni e meno giovani, simpatici, antipatici, allegri, tristi, silenziosi,
chiacchieroni, brillanti e meno brillanti, preparati o ignoranti,
sinceri o bugiardi.
– Va bene, ma perché sono in carcere? Hanno spacciato,
rubato, rapinato, ferito, violentato, ammazzato?
– Sì, tutto questo, ma è ovvio, ai loro reati non si parlerà,
altrimenti per loro sarà come stare in tribunale. Si parlerà in-
vece di letteratura, di poesia, di filosofia, anche di religione,
di quello, insomma, di cui avranno voglia di parlare.
Sono appunto persone normali.
      Va bene, persone normali. Però all’arrivo al carcere ci
si rende conto subito che dopotutto così normali non sono,
che devono anzi essere abbastanza speciali. Ancora prima
di mettere piede all’interno dell’edificio, si moltiplicano infatti
barriere e controlli. E la guardia armata sulla torretta smenti-
sce l’eventuale superficiale impressione di trovarsi su un im-
pianto sportivo momentaneamente vuoto di atleti.

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ISABELLA BOSSI FEDRIGOTTI

–   Portarsi la borsa o lasciarla nell’automobile?
– La può lasciare in macchina. Non c’è posto più sicuro di
questo parcheggio. Garantito.
      Poi dentro. Controlli e ricontrolli per le borse, le borset-
te, le tasche; un cancello, un altro cancello, si salgono e si
riscendono scale, si percorre un corridoio lungo le celle.
– Tenetevi il più possibile lontani dalle porte, dice l’educa-
tore.
      Il perché non viene spiegato (e nessuno chiede) ma è
inevitabile la fantasia che attraverso gli spioncini i detenu-
ti potrebbero allungare all’improvviso le braccia e afferrare
qualcuno per le gambe.
      Si arriva in una stanzetta con una decina di sedie in cir-
colo contro il muro e un mobiletto al centro su cui sono appa-
recchiate con cura delle bevande (niente alcolici) e dei vas-
soietti con biscotti e patatine, bicchieri di plastica, tovaglioli.
Sono stati i detenuti a procurare e imbandire tutto questo per
l’incontro. Persone normali, appunto, che quando arriva un
ospite si danno da fare, mettono in ordine, non vogliono sfi-
gurare.
     Poi entrano. Sono undici, un gruppo ormai coeso, scel-
to dagli educatori, un gruppo in un certo senso allenato alla
conversazione. Insieme leggono infatti Dante, Shakespeare,
Foscolo, Leopardi e poi ne discutono. Mi guardano, anzi, mi
scrutano, ed è la prima impressione che ne ho. Spero di es-
sermi vestita giusta – mi dico – in ordine ma senza apparire. Mi
soppesano, ma capisco che non è il vestito né il trucco o la
pettinatura che stanno esaminando, bensì se sono affidabile,
credibile, se varrà la pena sottopormi le loro domande o se,
invece, sarà una perdita di tempo. Sarà una chiacchierona,
questa – si stanno domandando – venuta per riempirci di pa-

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Andare in carcere

role vuote, una pennivendola abituata a infinocchiare i gon-
zi? O sarà magari una damazza di San Vincenzo entrata qui
per fare la sua buona azione quotidiana? Sento che non ci
sarebbe da parte loro nessuna pietà se appartenessi a uno di
questi generi. Lo leggo nei loro occhi attenti, sospettosi. Non
venga a prenderci in giro è il messaggio che mi mandano.
      Buongiorno. Buongiorno. Buongiorno. La conversazione
non si preannuncia facile tra un gruppo di elementi cauti,
diffidenti da una parte e un elemento timido dall’altra. Toc-
cherà all’educatore fare in modo che si rompa il ghiaccio?
Invece no, c’è il tipo mondano che si fa avanti, sorridente,
loquace. Ha una stazza imponente, sembra sulla quarantina
e su di me è ampiamente informato – non so come perché in
carcere internet è assente. In maniera affabilmente salottiera
mi parla del Trentino, delle sue bellezze, dei suoi vini – sa che
la mia famiglia è produttrice – fa il nome di varie cantine, di
agenti, di rappresentanti. “Il tale è un amico mio, lo cono-
sce? E il talaltro?” Chissà cosa ha fatto questo signore –mi
domando – che pare assolutamente normale, un tipo festo-
so, chiacchierone, bon vivant, buona forchetta e buona bot-
tiglia, a suo agio tra la gente, di quelli che riescono a parlare
anche con i muri. Avrà rubato, rapinato, imbrogliato?
      In ogni modo ha contribuito a rompere il ghiaccio. Mi
presentano la lista delle domande che hanno preparato per
me: sono domande filosofiche, su temi profondissimi, cui in
verità nessuno ha risposte, domande sulla vita, sulla morte,
sulla giustizia e sull’ingiustizia, sulla verità, sulla punizione, sulla
paura e sul coraggio, su chi vince e su chi perde, sulla corsa
al denaro e sul destino degli umani.
      Mi erano state anticipate alcuni giorni prima perché mi
potessi preparare ma mi accorgo presto che, al di là dei con-
cetti espressi dalla lista, più che delle risposte i miei interlocu-

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ISABELLA BOSSI FEDRIGOTTI

tori si aspettano soprattutto delle parole: a loro interessa par-
lare, di me, di quel che mi piace leggere, del mio lavoro, dei
colleghi famosi. (“Conosce Feltri? Com’è dal vivo?”, “E Gra-
mellini?” “E De Bortoli?”). Ovviamente è la tv il loro principale,
probabilmente unico canale d’informazione. Vogliono ap-
profondire, andare oltre la vista che offre loro la sola finestra
sul mondo che hanno a disposizione; in concreto vogliono
sapere di chi fidarsi e di chi non fidarsi, chi è vero e chi invece
fa finta. Cosa che, peraltro, vorremmo tutti, soltanto che “noi
di fuori” abbiamo più opportunità per valutare i personaggi.
     In una certa maniera cauta e indiretta vogliono però
parlare anche di sé. Di quel che leggono, di quel che pensa-
no: soprattutto per la difficoltà di comunicare con fuori, sen-
za internet in tempo di internet; tempi biblici per loro tra una
domanda e una risposta, “a stretto giro di posta”. Salvo un
paio di eccezioni, sono tutti calabresi e il dato fotografa con
l’immediatezza di un click, la nostra geografia economica: la
Calabria è la regione più povera d’Italia.
      Parlano bene, in italiano corretto, senza gli stenti lingui-
stici che eventualmente mi sarei aspettata. Si sente che il
gruppo non soltanto legge ma è abituato a conversare, a
chiarire. Il più spigliato, quello che parla di più, che chiede di
più e di più commenta le mie risposte è un ragazzo campa-
no, al massimo venticinquenne. È lui, informano gli educatori,
che ha preparato il rinfresco, che ha procurato bibite, salatini
e biscotti e li ha apparecchiati. Sembra l’alunno più vivace
della classe che si fa carico di tutte le curiosità dei compagni
meno spigliati, tuttora intimiditi dalla pur mite professoressa.
Ci sono, infatti, alcuni che non parlano mai, che in silenzio sol-
tanto mi osservano e ascoltano, ombrosi fino quasi alla fine,
evidentemente non davvero convinti di potersi fidare. Facile
capire che sono tra i più sofferenti poiché si sa che, dentro

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Andare in carcere

come fuori dal carcere, chi riesce a comunicare ha vita un
po’ più facile.
      Persone normali. Dopo una mezz’ora è assolutamente
questa la sensazione: di essere alla presentazione di un libro,
con persone interessate intorno che pongono interrogativi
non soltanto sul libro, che vogliono sapere della vita dell’au-
tore, sul suo percorso professionale, che introducono bran-
delli di autobiografia, che perfino chiedono consigli. Alla fine
più di uno dei miei interlocutori domanda: tornerà? E il porta-
voce campano esprime a nome, così sembra, non soltanto
suo, la soddisfazione per il buon andamento dell’incontro e
conclude assegnandomi un voto abbastanza alto.
      Più tardi un educatore mi confiderà che per quel ragaz-
zo, sul punto di aver scontato la sua pena, è stato trovato in
un’azienda un impiego a mille euro al mese. Peccato che
il suo commento sia stato: “Ma mille euro io li guadagno in
un pomeriggio con il mio vecchio lavoro (di spaccio, ndr)!”
E che il salottiero amante del buon cibo, che conosce i vini
trentini ed è amico di agenti e rappresentanti ha ammazzato
un tipo che lo prendeva in giro con 43 coltellate.

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Andrea Kerbaker
Milano, 1960, ha lavorato a lungo nella comunicazione
dell’industria privata, occupandosi prevalentemente
di organizzazione culturale. I suoi libri di narrativa
e saggistica sono tradotti in molte lingue del mondo.
Tra gli ultimi, Celebrity (La nave di Teseo) e Vite da presepe
(Interlinea), entrambi del 2019. Insegna Istituzioni e Politiche
Culturali all’Università Cattolica, collabora con il Corriere
della Sera e il supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore.
È segretario del Premio Bagutta, il più antico
riconoscimento letterario italiano.

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Dare da mangiare
                     agli affamati
                                    ANDREA KERBAKER

Vi ricordate le sette opere di misericordia corporale? Die-
tro quella buffa dizione obsoleta si elencavano i vari co-
mandamenti pratici da seguire per essere bravi cristiani; te
le insegnavano a catechismo quando eri bambino, all’età
in cui il massimo sforzo che si fa per venire incontro agli altri
è quello di offrire a un compagno di classe una patatina
dal prezioso sacchetto che la mamma ti ha appena com-
perato. “Dare da mangiare agli affamati” era sicuramente
un’indicazione che riusciva a renderti un filo più generoso.
Il resto era meno immediato; ma qualcosa, in fondo, rima-
neva sempre. “Visitare gli infermi”, per esempio: un’attività
che col tempo si impara a fare; o anche “vestire gli ignu-
di”, non fosse altro che per non scandalizzare le regole del
buon costume.
      “Visitare i carcerati”, soprattutto oggi, è certamente
meno comune. Non quando sei uno scrittore, però: in quel
caso più volte ti viene chiesto di farlo. Ci vai, ovviamente, di
buon grado, con lo scopo precipuo di “consolare gli afflitti”
(che fa parte delle altre sette opere di misericordia, quelle
spirituali, tra cui ce n’è una che mentre avanzo con l’età tro-
vo sempre più difficile da applicare: “sopportare le persone
moleste”; ma questo è un altro discorso).
       Le mie visite in carcere sono state quasi sempre molto
simili tra loro, un po’ sul modello delle riunioni che leggen-

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ANDREA KERBAKER

dariamente fanno gli alcolisti anonimi (“sono Gaspare, non
tocco un goccio di vino da ventisei giorni”…) Piccoli gruppi
di carcerati selezionati, uno spazio comune generalmente
poco più che angusto, odori vagamente cattivi che girano
per l’aria, spesso rumori di fondo che distraggono e condi-
zionano il dialogo. All’inizio ci si presenta, poi si scambiano
opinioni sulle diverse vicende del mondo. Sono sempre stati
incontri piuttosto profondi, anche se qualche aspetto non mi
ha mai convinto appieno.
      Troppo spesso, in particolare, mi è capitato di sentire la
frase “Noi abbiamo sbagliato”, ripetuta come un mantra:
parole che mi sanno sempre di appiccicaticcio, di falso, di
qualcosa suggerito dagli avvocati per far vedere ai giudici
un ravvedimento che chissà se c’è davvero. Tante volte mi è
capitato invece di cercare di indovinare il vero pensiero alle
spalle di quelle espressioni di buonismo, una affermazione
tipo “E invece sono felicissimo, ho ammazzato quel tipo che
si era portato a letto mia moglie, l’ho fatto e lo rifarei molto,
molto volentieri”.
     Al di là di questo, in generale sono sempre uscito da
questi incontri con l’impressione di aver trascorso un paio
d’ore con persone variamente piacevoli, qualunque cosa
avessero fatto. Una sensazione rinforzata dai molti dubbi che,
viceversa, mi suscitano gli uomini “probi”: troppe volte ab-
biamo visto persone scagionate in primo grado, poi condan-
nate a pene lunghissime in appello, o viceversa – in base a
un’incertezza di giudizio dove i concetti di assoluzione e con-
danna mi paiono sempre molto, molto soggetti al raziocinio
umano, così fallibile. E mi viene sempre in mente un grande
autore francese, André Gide che dopo un’esperienza come
giudice popolare al tribunale di Rouen decise di fondare una
collana di libri dal suo editore di riferimento, Gallimard. Titolo?

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Dare da mangiare agli affamati

Ne jugez paz, Non giudicare. Per me è inevitabile pensarci
ogni qualvolta metto piede in carcere.
      Quando per l’iniziativa i detenuti domandano perché mi
è stato chiesto di andare a Bollate ho quindi immaginato una
replica, con attori diversi, di queste piccole sedute quasi di
autocoscienza in un ambiente più o meno angusto. Niente di
più sbagliato; Bollate, è noto, è un modello: dove tante delle
caratteristiche deteriori delle altre carceri sono alle spalle. Un
aspetto che si nota fin dall’ingresso, quando si percorrono le
lunghe distanze che portano al posto dell’incontro. I cortili
sono ampi; i corridoi larghi, luminosi. Alle pareti qualcuno ha
riprodotto alcuni dei classici della pittura novecentesca: una
grande Danza di Matisse, altre opere ugualmente famose.
Diciamo che un’imitazione perfetta è un’altra cosa, ma la
sola idea di togliere ai muri la patina di grigio che nelle altre
carceri regna sovrana è già di per sé consolante. E così è l’ar-
rivo nella biblioteca del carcere, sede dell’incontro, prece-
duto da un grande cartello: Colloquio con l’autore, e il mio
nome rosso fuoco: un riguardo che mi piacerebbe avessero
nelle librerie dove abitualmente si presentano i miei libri.
      La biblioteca occupa uno spazio grande, luminoso, ario-
so, con un’ampia distesa di sedie spalleggiate da scaffalatu-
re in metallo con tanti libri in generale di bell’aspetto: spesso
rilegati, con sovraccoperte in ordine. I titoli non sono ordinari:
molti sono ricercati (anche troppo, si direbbe), che invano si
cercherebbero nelle biblioteche degli uomini liberi. Mentre
qualcuno dispone le sedie per l’incontro – tante, tantissime,
ma quanti sono? – vago lungo gli scaffali annusando i testi
in bell’ordine. “E molto letti”, mi assicura Lele, il bibliotecario
volontario che cura il rifornimento, avvalendosi dell’aiuto da
case editrici illuminate. Siamo in anticipo; prima, mi dicono,
c’è da registrare un’intervista. Devo aver capito male: Regi-

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ANDREA KERBAKER

strare? Qui in carcere dove non si può portare neanche un
telefonino? Ma sì, certo: c’è un accordo con Radio Popolare,
per cui un paio dei detenuti fanno delle domande ai visitatori
che poi manderanno in onda nel fine settimana. Così Ivan e
Edson mi portano in uno stanzino adiacente, dove mi chie-
dono dei libri, dell’amore per la lettura et similia. Ovviamente
si sono preparati su chi stava arrivando – anche questo ti fa
subito capire che sei sì in una prigione, ma anomala.
       Nel frattempo i detenuti sono arrivati in ordine sparso.
Quando rientriamo nella biblioteca, le sedie sono tutte occu-
pate; altri parlottano nelle retrovie e staranno seduti sui tavo-
li o in piedi. Per antica abitudine li conto: un’ottantina – altro
che piccolo gruppo di autocoscienza. Partiamo; brevi battute
di preambolo di una volontaria e ci presentiamo. I volontari di
Mediobanca sono oggetto di molta curiosità e qualche ironia.
C’è ancora qualche chiacchiera di fondo, ma l’attenzione in
generale è piuttosto elevata. Nessuno dorme, cosa che vorrei
poter dire delle mie lezioni in università o delle mie presentazioni
di libri. I perché dei bollatiani riguardano soprattutto temi for-
ti: Perché la rabbia? Perché la compassione e perché talvolta
proviamo diffidenza verso di essa? Pochi giorni prima mi è ca-
pitato di ascoltare Liliana Segre, che raccontava come aves-
se trovato la forza di raccontare pubblicamente di Auschwitz
quando aveva capito di non odiare più i suoi aguzzini (Ma non
li ho perdonati, aveva specificato: differenza non da poco). Mi
pare un incipit ideale, da integrare poi con qualche iracondo
letterario, a partire dal Mersault dello Straniero di Camus.
      L’abitudine alle lezioni universitarie – con studenti che di
solito ignorano qualsiasi riferimento che non riguardi la cro-
naca spicciola o le nozioni apprese al liceo – mi ha abituato
a dare per scontato che tutti ignorino anche i riferimenti per
me più evidenti.

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Dare da mangiare agli affamati

      Quindi anche qui mi sforzo di dire frasi come Albert Ca-
mus, uno scrittore francese che vinse anche il Premio Nobel,
oppure Oriana Fallaci, la giornalista che intervistava i potenti
della terra con domande che ogni volta li facevano arrab-
biare moltissimo. Ben presto mi accorgo però che la cono-
scenza media dei fatti e delle persone di cui parlo è piutto-
sto diffusa; e il monologo diventa rapidamente dialogo, con
tanti che hanno voglia di intervenire. Parla Alì, un giovane
nordafricano che si sta laureando in filosofia, e si sente. Inter-
viene Aristide, un uomo in età che presto – mi informano – è
uscito; vicino a lui Ermanno, un tipo pelato che non nascon-
de una certa simpatia per il centrodestra e gli altri chiamano
scherzosamente “Silvio”. E poi Giuseppe, un giovane che si
sta laureando in astrofisica delle particelle. Scusi, ma non le
sembra che la rabbia possa essere anche un veicolo di cose
positive, in certi casi? Bella intuizione, accidenti: vorrei averci
pensato prima di entrare. Certo che sì: mi viene in mente Bob
Beamon, il saltatore in lungo di colore statunitense che a Cit-
tà del Messico, avvertito della squalifica di due atleti neri che
sul podio avevano salutato con il pugno del black power, si
era così arrabbiato da stabilire un record del mondo desti-
nato a rimanere imbattuto per decenni. L’episodio è noto a
quasi tutti, altri contribuiscono con esempi da sport diversi.
Ecco Paolo, detenuto volontario bibliotecario. Sulla negati-
vità della testata di Zinedine Zidane a Materazzi siamo tutti
d’accordo, e non perché la maggioranza di noi è italiana.
     Così parlando le due ore scorrono veloci. E da subito
mi rendo conto che Bollate è stato anche questo: un posto
dove parlare di molti argomenti con la gradevole sensazione
di condividere quasi tutte le informazioni di base. Non sono
certo di poter dire la stessa cosa del 90% degli ambienti che
conosco, dove si radunano gli uomini liberi.

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Giuseppe Lupo
Insegnante di letteratura italiana contemporanea
presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Milano
e Brescia, ha esordito nella narrativa con il romanzo
L’americano di Celenne (Marsilio 2000). Successivamente
ha pubblicato i romanzi Ballo ad Agropinto (Marsilio, 2004),
L’ultima sposa di Palmira (Marsilio 2011), Viaggiatori
di nuvole (Marsilio 2013); L’albero di stanze (Marsilio 2015),
Gli anni del nostro incanto (Marsilio 2017), Breve storia
del mio silenzio (Marsilio 2019). È autore inoltre della raccolta
di scritti Atlante immaginario.
Nomi e luoghi di una geografia fantasma (Marsilio 2014)
e del pamphlet Mosè sull’arca di Noè. Un’idea di letteratura
(Editrice La Scuola 2016). È consulente presso alcuni editori,
dirige la collana Novecento.0 presso Hacca Editore
e la collana Atlante letterario presso l’Editrice La Scuola.
Collabora alle pagine culturali dei quotidiani Il Sole 24 Ore
e Avvenire.

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La libertà in un libro

                                         GIUSEPPE LUPO

Ciò che mi colpisce ogni volta che incontro i detenuti, come
in quest’ultima occasione presso il carcere di Piacenza, è il
confronto sul tema della libertà: un discorso che non emer-
ge mai durante la conversazione o, se lo fa, è quasi sempre
in maniera indiretta, eppure credo sia l’argomento più rile-
vante. Libertà da intendersi non tanto come frequentazione
di un quotidiano nel quale far trascorrere il tempo, cioè nel
più comune dei modi, ma come esercizio di una condizione,
specie per chi, come i detenuti, è un problema da risolvere.
La libertà a cui penso ha a che fare con i libri, perché già
nel termine “libri” c’è la stessa radice di libertà. I libri rendono
liberi, sono il frutto di una libertà che magari sembrerebbe
negata – la libertà di viaggiare nel tempo, di immaginare
una vita alternativa, di entrare e uscire dall’esistenza degli
altri – e che soltanto le storie narrate hanno la possibilità di
conoscere e di frequentare. Quando si vive reclusi, quando si
è impediti di poter fare ciò che veramente ognuno vorrebbe
fare, avere tra le mani un libro è un modo di sentirsi uomini
senza vincoli. A questo io penso quando incontro le facce
dei detenuti che mi osservano mentre io parlo. Ci sarà in loro
un bisogno che li attrae verso il racconto? Qual è questo
bisogno? Come si esplicita? Sono queste le domande che
continuamente mi pongo. E la risposta che ogni volta riesco
a dare è sempre la stessa: siamo fatti di storie e abbiamo bi-
sogno di vestirci con le situazioni che in esse sono contenute,

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GIUSEPPE LUPO

magari inventate da noi o ricevute dalla bocca di altri, ma
sempre con la presunzione di credere che attraverso di esse
riusciremo a scavalcare i muri che ci costringono a stare al di
qua di uno spazio. Un po’ questa era la vicenda interiore che
Giacomo Leopardi descriveva quando parlava della siepe
che non gli faceva guardare oltre. Lo spazio negato, quello
che sta al di là del muro, non lo vediamo, ma possiamo dise-
gnarlo sulla base delle parole che ci vengono regalate dai
libri o dai personaggi che vivono in essi. Adesso mi pongo
dalla parte di chi sta in carcere. Il problema non è soltanto
quello di ascoltare la voce di chi ci viene a visitare o trascorre
in nostra compagnia un tempo delimitato, semmai di parte-
cipare a un’avventura che si compone di parole, di gesti,
di sguardi e che culmina con il racconto delle storie: le uni-
che a interessare veramente tutti e a renderci uguali, senza
muri o impedimenti, visitatori e visitati, ognuno con lo stesso,
identico bisogno di avere una storia dentro, da conservare
nei momenti di solitudine, come antidoto o come medicina.
Io so, quando incontro i detenuti, che dopo una o due ore
mi separerò da loro e che le nostre esistenze, non appena il
cancello d’uscita si chiuderà alle mie spalle, continueranno
a avere traiettorie diverse. Però so anche che una parte di
me sarà rimasta tra i muri che mi hanno ospitato, con chi
trascorre mesi e anni là dentro, magari in attesa di un giudizio
che non arriva o di una sentenza che metta fine a uno stilli-
cidio. Anch’io, percorrendo le innumerevoli strade aperte di-
nanzi a me, continuerò a trattenere fra le mani un pezzo della
quotidianità che ho incontrato. Credo sia questo il segreto
che si nasconde fra me e i detenuti ogni volta: un reciproco
regalo fatto di parole, nient’altro che frammenti di dialogo in
attesa di ricomporsi, tessera dopo tessera, come un grande
mosaico a cui senza volerlo con il nostro silenzio, con le nostre
pause e le domande irrisolvibili, aggiungiamo qualcosa.

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Pier Luigi Vercesi
Pier Luigi Vercesi, si è laureato in Economia e Commercio
all’Università di Pavia, nell’86 è tra fondatori di ItaliaOggi.
È attualmente inviato speciale del Corriere della Sera.
Ha collaborato con La Stampa dal 1989 al 2000, dopo
essere stato agli Esteri, alle Cronache Italiane e alla Cultura,
è stato condirettore di Specchio, il settimanale del
quotidiano torinese. Nel 2000 è tra i fondatori del primo
giornale nato su Internet, Il Nuovo, di cui assumerà
la direzione. Nel 2003 è diventato vicedirettore vicario
del quotidiano romano Il Tempo e, nel 2005, direttore
del mensile Capital. In Rcs dal 2007, dove ha ricoperto
diversi incarichi prima di assumere la direzione di Sette,
il settimanale del Corriere della Sera, dal marzo 2012
all’aprile 2017. Ha insegnato Teoria e Tecniche dei Nuovi
Media all’Università di Parma e è autore di saggi storici.
Tra i più recenti: Il naso di Dante (Neri Pozza), La notte in cui
Mussolini perse la testa (Neri Pozza), Fiume, l’avventura
che cambiò l’Italia (Neri Pozza), Il Marine, storia di Raffaele
Minichiello, il soldato italo-americano che sfidò gli Stati Uniti
(Mondadori), Ne ammazza più la penna (Sellerio) e Storia
del giornalismo americano (Mondadori). È anche autore di
documentari televisivi su la Roma di Nerone, sulla storia della
Germania nel Novecento e sulla Prima guerra mondiale.

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