DOMANDANO PERCHÈ I DETENUTI DOMANDANO PERCHÈ I DETENUTI DOMANDANO PERCHÈ I DETENUTI DOMANDANO PERCHÈ I DETENUTI DOMANDANO - MEDIOBANCA SPA
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I detenuti perchè domandano HOME INDEX
© Copyright 2020 Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte può essere riprodotta in alcun modo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) senza il permesso scritto di Mediobanca SpA. Progetto grafico: 4FOURSOLUTIONS Srl - Milano Finito di Stampare nel Gennaio 2020 HOME INDEX
Introduzione I detenuti domandano perché nasce nel 2018 con un obiet- tivo ambizioso: dare una voce agli interrogativi di chi vive in carcere provando a rispondere alle tante domande che tut- ti noi quotidianamente ci poniamo, ma che in questi luoghi sembrano emergere in modo più prepotente. Un progetto complesso e inconsueto per una realtà come la nostra, ma in cui abbiamo creduto fin dal primo momento. Grazie al prezioso supporto della Kasa dei Libri di Andrea Kerbaker e dell’associazione Vivere con Lentezza, abbiamo coinvolto scrittori e poeti, le figure per noi più adatte a cer- care una senso nelle cose, abbiamo raccolto le domande dei detenuti e siamo partiti per questa avventura. San Vittore, Beccaria, Bollate, sono solo alcune delle carceri che abbiamo visitato in queste due edizioni del progetto: un po’ timorosi il primo anno, non sapendo come ci avrebbero accolto – vorranno parlarci? saremo all’altezza? – pieni di en- tusiasmo e e di voglia di raccontarci, il secondo. Le domande che abbiamo raccolto e su cui abbiamo dibat- tuto sono state tante, complesse e mai banali. Ma soprat- tutto sincere. Ci si chiede per esempio ‘Perché si sbaglia?’ ‘Perché nella vita ci sono due strade, quella buona e quella cattiva e si sceglie sempre quella sbagliata?’ oppure ‘Quan- do usciamo dal carcere come possiamo continuare a viv- ere? E a dimenticare?’ 3 HOME INDEX
GIOVANNA GIUSTI DEL GIARDINO Il tema della scelta ricorre frequentemente così come quello del futuro, unita alla paura di non essere all’altezza del mon- do che li aspetta fuori. Certo non esistono risposte univoche: ci si mette in gioco e si prova a ragionare insieme. L’unicità di questi momenti sta proprio nel reciproco dare e ricevere. Noi offriamo il nostro tempo e la nostra esperienza; loro ci regalano emozioni, at- tenzioni inaspettate e una ‘normalità’ che spesso sorprende. Ho sempre usato la parola noi per raccontare questa espe- rienza perché I detenuti domando perché quest’anno ha visto protagonisti numerosi colleghi che hanno partecipato come volontari agli incontri e hanno contribuito al successo di questa iniziativa con il loro entusiasmo e il loro impegno. Per provare a condividere questa esperienza speciale abbia- mo chiesto agli scrittori coinvolti nel 2019 di scriverci le loro testimonianze che abbiamo raccolto in questo piccolo libro dal titolo appunto I detenuti domandano perchè. Buona lettura a tutti Giovanna Giusti del Giardino Head of Group Sustainability Mediobanca 4 HOME INDEX
Scheda del Progetto I detenuti domandano perché è un progetto promosso da Mediobanca, dalla Kasa dei Libri e dalla ONLUS l’Arte di viv- ere con Lentezza per favorire l’inclusione sociale negli istituti detentivi attraverso la lettura. Nato nel 2018 in occasione di Tempo di Libri, la manifes- tazione dedicata alla lettura della città di Milano, I detenuti domandano perché si pone l’obiettivo di mettere a confron- to alcune delle firme più autorevoli della narrativa italiana con i “perché” raccolti tra le persone detenute in carcere. Dopo il successo della prima edizione il progetto è cre- sciuto nel 2019 ampliando il numero di detenuti e scrittori coinvolti e includendo anche volontari di Mediobanca. L’iniziativa si è articolata in due fasi: nella prima i volon- tari di Mediobanca hanno visitato i detenuti e dialogato con loro in piccoli gruppi aiutandoli a far emergere dubbi e do- mande; successivamente hanno incontrato gli scrittori e in- sieme hanno posto loro tali interrogativi. Complessivamente sono stati coinvolti circa 200 dete- nuti provenienti da 6 istituti penitenziari (Casa Circondariale di San Vittore, di Pavia, di Lodi e di Piacenza, Casa di Reclu- sione di Bollate e Istituto Penale per Minorenni Cesare Becca- ria di Milano) e 25 dipendenti di Mediobanca. Gli scrittori coinvolti sono stati sei: Isabella Bossi Fedrigot- ti, Gianni Biondillo, Marco Balzano, Giuseppe Lupo, Pier Luigi Vercesi e Andrea Kerbaker. 5 HOME INDEX
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Sommario Quei cancelli che sbattevano ..................................................................... 9 MARCO BALZANO Il filo di Arianna .............................................................................................................. 17 GIANNI BIONDILLO Andare in carcere ..................................................................................................... 23 ISABELLA BOSSI FEDRIGOTTI Dare da mangiare agli affamati ............................................................... 29 ANDREA KERBAKER La libertà in un libro .................................................................................................. 35 GIUSEPPE LUPO Ma che buono ‘sto caffè .................................................................................. 39 PIER LUIGI VERCESI 7 HOME
Marco Balzano Marco Balzano è nato a Milano nel 1978. Oltre a saggi e raccolte di poesie ha scritto quattro romanzi. Per Sellerio ha pubblicato Il figlio del figlio (premio Corrado Alvaro), Pronti a tutte le partenze (Premio Flaiano), L’ultimo arrivato (Premio Volponi e Premio Campiello). Per Einaudi è uscito nel 2018 Resto qui (tra gli altri, premio Bagutta, premio Isola d’Elba, premio Asti, finalista al premio Strega e Prix Méditerranée) e nel 2019 il saggio Le parole sono importanti (Premio Città delle Rose). I suoi libri sono tradotti in quindici paesi. Collabora con le pagine culturali del Corriere della Sera. HOME INDEX
Quei cancelli che sbattevano MARCO BALZANO La prima volta che sono entrato in carcere avevo ventitré anni. Mi ci aveva portato il mio prof dell’università, un mae- stro a cui devo tanto non solo in termini culturali, ma anche umani (altrimenti non avrei usato la parola maestro, sarebbe bastato dire prof). Ci teneva molto che andassi e quando gli ho chiesto perché mi ha risposto che entrare in galera era un buon modo per capire se davvero volevo fare l’insegnante. Secondo lui lavorare in condizioni di difficoltà era un’ottima maniera per mettere alla prova desideri e ambizioni. Ricordo i cancelli di ferro che si chiudevano alle mie spalle. Lo senti quando sbattono che stai perdendo progres- sivamente tutto, prima di ogni cosa la luce. Poi il movimento, i passi. Libertà è camminare, è larghezza, spazio. Non è un caso che i carcerati li chiamino anche “ristretti”, uno dei tanti termini che per la sua bruttezza è capace di far luce sull’idea esclusivamente repressiva che sta alla base della detenzio- ne. Uno dei tanti termini che dimostra come Beccaria non lo abbiamo ancora studiato abbastanza. I cancelli sbattevano e dopo i cancelli un secondino ha chiuso la porta della mia classe, un’aula stretta e spoglia del carcere di Opera. Stret- ta, appunto, nonostante “aula” in greco voglia dire “spazio aperto”. Quando quell’ultima porta ha sbattuto i ragazzi e gli uomini che avevo davanti si sono accorti del mio smarrimen- to, anzi della mia paura, e si sono messi a ridere. Uno in dia- 9 HOME INDEX
MARCO BALZANO letto siciliano ha detto “Tranquillo, non ti facciamo niente…”. L’ha detto in modo malizioso, dando di gomito al compagno di banco, che aveva una faccia affilata. Ho cercato (senza riuscirci) di dissimulare l’imbarazzo e ho iniziato subito a spie- gare, perché il mio prof aveva detto di non perdere tempo e, soprattutto, di non perdersi in chiacchiere. “Che perder tempo a chi più sa più spiace” amava ripetere citando Dan- te. Ho parlato di Machiavelli, partendo da quella frase che lui non ha mai detto: il fine giustifica i mezzi. L’ho trasformata in una domanda: il fine giustifica i mezzi? Ne è nata una discussione accesa, nonostante i rumori di altri cancelli che sbattevano, di sirene della polizia, di urla che provenivano da corridoi lontani. Mi è bastata quella lezione, piena di imbarazzo e insieme di entusiasmo, per comprende- re la vera difficoltà di insegnare in carcere. Per i detenuti fare scuola è un momento di respiro, non ci sono guardie intorno, lo spazio ristretto della classe è comunque più ampio di quello della cella, c’è una compagnia variegata di persone. E si può dialogare. Non semplicemente parlare, ma dialogare, che è una cosa molto diversa. Il dialogo è ascolto, ragionamento, rispetto dell’altro, democrazia, dunque è libertà. La difficoltà, allora, era evitare che la lezione venisse usata come una scu- sa per parlare di se stessi, trasformando l’ora di italiano in una sorta di psicoterapia di gruppo e la classe in una specie di confessionale. Non che questo, in fondo, sia un uso improprio della letteratura, ma perché la letteratura, per diventare una lente di approfondimento della nostra dimensione esistenzia- le, ha bisogno di studio. Prima di ogni altra cosa è necessa- rio leggerla e imparare a rispettare quella che Umberto Eco chiamava “l’intenzione del testo”. In classe, allora, ho sempre cercato di leggere le pagine che mi sembrano imprescindibili nella formazione di un individuo. Così, se negli incontri succes- 10 HOME INDEX
Quei cancelli che sbattevano sivi quei cancelli che sbattevano continuavano a inquietarmi, la porta della classe che il secondino chiudeva era diventato un gesto che vivevo serenamente perché avevo capito che per i carcerati significava contemplare un orizzonte di libertà. Dopo l’analisi di un brano iniziava il momento delle doman- de sulle questioni che quel testo poneva e in quei perché sentivo che loro realmente cercavano di tirare fuori i rovelli, le tessere mancanti, le angosce, i pregiudizi. Mi convincevo che tra quelle mura si poteva imparare soltanto intavolando discussioni su discussioni. Ogni altro approccio sarebbe risul- tato vecchio e pedante. Certo, a volte le lezioni fallivano, ma un’altra cosa che avevo imparato dal mio maestro è che il fallimento è un’esperienza interessante per chi fa questo me- stiere. Non dovevo averne paura. Anzi, insegnare è avvez- zarsi al fallimento: non tutti ti ascolteranno, almeno uno non ti ascolterà mai, almeno uno cercherà sempre di ascoltarti. Parlavo di Manzoni o di Pirandello, di Montale o di Sciascia e capitava che un detenuto alzasse la mano e iniziasse a rac- contarmi di sua moglie, del suo paese, della rapina andata male. O che mi chiedesse cosa succedeva davvero là fuori, se quelle che superavano i muri del carcere e arrivavano fin nelle celle erano notizie vere o dicerie di poco conto. Alcu- ni mi trattavano come se nutrissero la speranza che potessi depositare una prova a loro favore, una testimonianza au- torevole che accelerasse il sogno di uscire, di non sentire più sirene e cancelli che sbattono. Il bisogno più grande, man mano che ci conoscevamo meglio, era convincermi che non erano finiti lì dentro per colpa loro. Al contrario, si trovavano in galera perché erano stati abbandonati. Colpa del posto dove sei nato, della famiglia da cui arrivi, della gente che incontri e che dice di volerti aiutare. Colpa del fine che non giustifica i mezzi. Così tante volte il dialogo l’ho alimentato solamente io. Nei momenti di scoramento mi aggrappavo al 11 HOME INDEX
MARCO BALZANO pensiero che comunque, a furia di dannarmi a parlare, alcu- ni nomi gli sarebbero entrati in testa e forse qualcuno di loro quando sarebbe uscito, passeggiando per una piazza che porta il nome di Petrarca o di Ungaretti, si sarebbe ricordato che il carcere è stato anche scuola. Poi sono diventato uno scrittore. Un mestiere strano in cui rileggi le tue esperienze e le mescoli con la fantasia, con le ferite, con il tuo sguardo sul presente, con le tue indigna- zioni. Il carcere faceva ormai parte del mio immaginario e così non ho potuto fare a meno di raccontarlo. Il nonno, che è stato il mio primo protagonista, è stato arrestato perché non aveva mai preso la tessera del partito fascista. Aveva un carattere ribelle e il suo cruccio era non aver saputo in tempo che dopo l’8 settembre si potesse salire in montagna a combattere. Quando la notizia era arrivata nelle campa- gne pugliesi dove era tornato, lui non poteva più lasciare il lavoro. La miseria era tanta e chi non era partito per il fronte l’aveva patita quasi quanto i soldati. Sua moglie, la nonna, aveva addosso la paura della guerra e anche delle bombe sganciate dagli americani venuti a liberarci. Nel secondo romanzo ho raccontato di quando andavo a insegnare in carcere e se non fosse parecchio sgradevole autocitarsi riporterei quella pagina dove vado a una festa di scarcerazione perché è una cosa che ho fatto davvero. Ho proprio preso il treno e sono andato fino a Genova. Gugliel- mo ha dato una festa strepitosa, ho mangiato le trenette al pesto più buone della mia vita e ho visto dei fuochi d’artificio dalla terrazza che hanno illuminato a giorno uno squarcio di cielo e un pezzetto di mare. Lui mi presentava a tutti come il suo insegnante e quando gli invitati – che forse avevano avuto esperienze simili alle sue – alzavano appena la testa per salutare lui si scusava con me della loro ignoranza. Aveva in- 12 HOME INDEX
Quei cancelli che sbattevano teriorizzato l’importanza di andare a scuola, aveva compreso quant’è fondamentale incontrare qualcuno con cui puoi dia- logare e portare avanti dei ragionamenti. Ovviamente non conta nulla che quel qualcuno fossi io, conta ciò che in quel momento rappresentavo. Alla fine della festa, quando gli invi- tati iniziavano ad andare a casa e io a sentirmi stanco, mi ha portato in corridoio e mi ha regalato un crocifisso. Piccolo, di finto avorio. Mi ha confidato che a lui in galera l’avevano te- nuto in piedi i romanzi che gli davo da leggere e la fede. Me lo voleva regalare perché desiderava che anch’io diventassi credente. Non si dava pace che non lo fossi e quando mi ha chiesto un’ultima volta perché io non ho saputo rispondere. Nel terzo romanzo il protagonista parla da una cella. Se ne sta sdraiato sulla branda del carcere di Opera con le mani dietro la nuca e ripensa alla sua storia. Ha paura di uscire per- ché sa che fuori sarà obbligato a rifarsi una vita. Il carcere è diventato per lui – ma capita a tanti – una paradossale prote- zione dalle proprie responsabilità e dalle proprie prospettive. Ninetto è come il novanta percento dei carcerati: a scuola non ci va. Trascorre le sue giornate tra ozio e noia, immobile su se stesso, fissando gli occhi su un punto del muro. Eppure il ricordo di cui va più fiero è quando, in fabbrica, si era preso la terza media con le 150 ore, o quando andava a scuola da un maestro che per lui era un vero e proprio idolo. La sua depressione è mancanza di scuola. Rifiuto della parola. Ho sempre chiesto con insistenza ai detenuti che venivano alle lezioni o ai cicli di incontri dov’erano finiti gli altri che c’erano le volte scorse, quanti erano i loro compagni di cella che non partecipavano e, soprattutto, perché. Borbottavano, azzar- davano risposte, scuotevano il capo, ma non sapevano dar- mi una ragione concreta né dirmi perché fossero così tanti. Ci vorrebbero degli insegnanti che vadano cella per cella, 13 HOME INDEX
MARCO BALZANO detenuto per detenuto, a spiegare quanto è fondamentale alzarsi dal letto e andare in classe. Forse è questo che più di ogni altra cosa mi piacerebbe fare nelle volte che riattraver- serò i cancelli: andare a spiegare che “scuola” e “parola” indicano movimento, coinvolgimento dell’altro e che quindi sono il contrario della detenzione, della staticità, dell’affli- zione, della volontà di punire. Proselitismo scolastico, questo bisognerebbe fare. Ne ho parlato tante volte anche con i docenti che insegnano per mestiere in prigione e che più di una volta mi sono sembrati rassegnati, a volte stanchi di es- sere lasciati soli a portare avanti un compito così complesso. Come non comprenderli. Gli alunni cambiano continuamen- te, il livello di istruzione (o di alfabetizzazione) è troppo varie- gato all’interno di ogni gruppo, l’abbandono della frequen- za è molto alto, il materiale di lavoro non viene fornito, e via dicendo. I docenti, poi, benché conoscano più di ogni altro i detenuti non hanno nessuna voce in capitolo verso chi deci- derà della loro sorte, che quasi sempre è qualcuno che non li conosce affatto. Quell’aspirazione che mi hanno tante volte trasmesso gli studenti in fondo era legittima: un insegnante li conosce perché ci dialoga, potrebbe essere un tramite per parlare di loro con cognizione di causa e con elementi alla mano che nessun altro possiede. Ecco perché uno scrittore che entra in prigione – in que- sto luogo generalmente inospitale, brutto, non a norma, mol- te volte inumano già nell’aspetto – assume sempre un ruolo importante. Le sue parole, quelle che ha scritto e quelle che dirà, a differenza di una lezione ordinaria, potranno più fa- cilmente essere un punto comune per tutto l’insieme etero- geneo di persone che gli sta davanti. Le storie e le parole, in fondo, sono dei grandi perché che si incarnano in voci e per- sonaggi e non hanno bisogno di nessun requisito particolare 14 HOME INDEX
Quei cancelli che sbattevano per smuovere la mente, dunque possono coinvolgere tutti. E poco importa che la risposta a quei perché quasi mai arrivi. Anzi, è proprio di questo che bisogna gioire. La mancata ri- sposta è l’unica condizione che ci permetterà di continuare a darci appuntamenti e di dialogare ancora. Fino al tempo della libertà e oltre. 15 HOME INDEX
Gianni Biondillo Gianni Biondillo (Milano, 1966), narratore, architetto, psicogeografo, pubblica per Guanda dal 2004. Come saggista s’è occupato di leggere e interpretare lo spazio della metropoli contemporanea. Come autore s’è occupato di narrativa di genere, viaggi, teatro, eros, fiabe. Nel 2011 il romanzo noir I materiali del killer ha vinto il Premio Scerbanenco e nel 2014, in Francia, il Prix Violeta Negra. Nel 2018 il romanzo storico Come sugli alberi le foglie ha vinto il Premio Bergamo. Il suo ultimo romanzo è Il sapore del sangue (2018). Scrive per il cinema e la televisione. Fa parte della redazione di Nazione Indiana, collabora con Abitare, Lampoon ed altre riviste nazionali. È tradotto in varie lingue europee. HOME INDEX
Il filo di Arianna GIANNI BIONDILLO Ad Andrea Kerbaker piace mandarmi in galera. Lo fa tutte le volte che può. Ma la cosa a me non disturba affatto. Pense- rete che abbia a che fare col mio scrivere “gialli” (virgolette obbligatorie). Non è esattamente così. Per capirci: nel 2005 un mio romanzo partecipò a un premio letterario assai curio- so. Si chiamava “Premio Franco Fedeli”. Era – ed è, mi auguro che esista ancora! – organizzato dal SIULP (il Sindacato Italia- no Unitario Lavoratori Polizia) di Bologna. La particolarità del premio stava nella giuria selezionatri- ce, composta da magistrati e esponenti delle forze dell’ordi- ne. La fortuna volle che quell’anno lo vincessi io. Salito sul pal- co, durante la premiazione, l’imbarazzo per me era palpabile. Davanti ai miei occhi, oltre che semplici curiosi e lettori appas- sionati, c’erano carabinieri, guardie di finanza, poliziotti. Alcuni anche in alta uniforme. A un certo punto il presentatore della serata, un poliziotto, lesse le motivazioni. In pratica mi diceva- no che avevo raccontato un commissariato nella sua auten- ticità, come se lo conoscessi alla perfezione. Poi il poliziotto mi porse il microfono chiedendomi se per caso avevo qualcuno in famiglia che lavorasse nelle forze dell’ordine, perché il gra- do di aderenza al reale lo trovava impressionante. “Ci conosci troppo bene!” mi disse. Ripensandoci oggi la mia fu forse una risposta un po’ fuori luogo: “A dir la verità eravate voi a cono- scere bene i miei parenti. Non facevate che arrestarli. Diciamo 17 HOME INDEX
GIANNI BIONDILLO che un rapporto con le forze dell’ordine l’ho comunque avu- to. Dalla parte sbagliata!” Risero tutti, con sportività. Anche se la mia non era una battuta. Sono cresciuto in una famiglia sottoproletaria, in un quartiere complicato di Milano, Quarto Oggiaro. Una fami- glia di semianalfabeti, di emigranti alla ricerca di fortuna. Una pletora di ragazzi e ragazze che fuggivano la miseria e la fame, illusi dal sogno del motore economico della Nazione. C’era nella mia meridionale e numerosa famiglia chi si por- tava dietro un’etica dell’onestà quasi preindustriale e c’era chi l’aveva perduta per strada. Non solo nella mia famiglia, ben inteso, ma anche a quella dei miei vicini di casa, dei miei compagni di classe, dei miei amici del cortile. Bande di bam- bini con le madri che facevano le pulizie nelle case dei ricchi professionisti del centro e i padri che scontavano i domiciliari magari perché quelle stesse case avevano provato a svali- giarle. Ragazzini che giocavano a nascondino nelle scale dei falansteri di periferia usando come base per il “libera tutti” una stella a cinque punte cerchiata, simbolo delle Brigate Rosse. Erano anni così. Alcuni dei miei compagni di cortile hanno studiato, altri sono diventati operai, falegnami, carroz- zieri. Altri ancora spacciatori. Qualcuno è morto di overdose. In queste condizioni sociali le sfumature sono importanti. Per quanto, a parole, si è manichei – tutto è bianco o nero nelle chiacchiere di cortile – poi, nella realtà quotidiana, tut- to sfuma in una gamma infinita di grigi, più o meno intensi. Nelle lunghe natalizie partite a carte in famiglia, quan- do si poteva essere anche in venti in un bilocale dove già in quattro si stava stretti, nessuno chiedeva il certificato penale ai presenti. C’era chi lavorava onestamente ai mercati rionali 18 HOME INDEX
Il filo di Arianna e chi era appena uscito da San Vittore. Per me bambino era- no tutti sullo stesso piano. Non c’erano buoni o cattivi, ma zii, amici, parenti. Chi “sbagliava” sapeva di aver sbagliato. Quella cosa che i criminali si reputano tutti innocenti è roba da film. C’e- ra coscienza di aver fatto qualcosa di illegale. Di sbagliato. Qualcuno con un bicchiere di troppo provava pure a giu- stificarlo, adducendo motivazioni vagamente sociologiche, ma in fondo ci credeva poco. Ho sbagliato e ho pagato. Punto. Il conto era in pari. Gente pratica. Non c’è mai sta- ta una mitologia del crimine, una esaltazione della vita fuori dalla legge. Queste sono retoriche romanzesche, romantici- smi borghesi, di chi vagheggia una fuga dal proprio censo sociale che reputa poco emozionante. I “criminali” che mi toccava frequentare erano assai poco romantici. Fosse stato per loro avrebbero cambiato all’istante le loro emozionanti vite sottoproletarie con le pacifiche e oneste vite borghesi. In fondo, nel rubare una macchina, o scippare un portafogli, nello spacciare sostanze illegali o rapinare una tabaccheria, c’era un desiderio di saltare la fila, di arrivare prima a quella tranquillità economica tipica delle persone oneste. Nessuna giustificazione, però. Sapevano di sbagliare e accettavano la pena. Magari inalberandosi, con un pizzico di rabbia, con- tro la sfortuna o l’idiozia del complice o chissà quale altra ragione, ma la consapevolezza di aver fatto qualcosa di sba- gliato non era mai messa in dubbio. Ed anzi, non c’era volta che non sentivo dire, ai più piccoli: “Non fate questa vita, non ne vale la pena.” O anche: “Se ti trovo a fare qualcosa di sbagliato giuro che ti spacco la testa.” Se sono una persona onesta, mi viene da dire, lo devo forse di più agli insegnamenti della parte “disonesta” della mia famiglia, piuttosto che ai tetragoni dettami morali impar- 19 HOME INDEX
GIANNI BIONDILLO titimi da mia madre, donna di una onestà specchiata, persi- no ossessiva. In quelle fumose serate natalizie, o pasquali, o ferra- gostane, quando la famiglia si allargava comprendendo, cristianamente, anche i rei, io passavo il mio tempo ad ascoltare le loro storie. Se c’era un ladro, attorno a quel tavolo, ero di certo io. Ho rubato per anni le loro narrazioni, le ho immagazzinate, le ho fatte diventare materiale da modellare, decenni appresso, nei miei romanzi. Il debito che devo a quelle persone non sarà mai per davvero sal- dato. Perché crescere in un mondo dove tutti s’era perso- ne, ognuna con la propria storia, chi giusta chi sbagliata, ma persone, piene di sentimenti, illusioni, speranze, amori – io ragazzino giudizioso che provava per primo a andare a scuola dopo le medie (sapeva di salto nel buio per la mia numerosissima famiglia, sembrava quasi oltrepassassi le colonne d’Ercole) – crescere in un mondo così, dicevo, mi ha insegnato a non giudicare mai, soprattutto utilizzando i comodi luoghi comuni. Quelli che nella scuole del centro che frequentavo, continuavo a sentire quando si parlava del mio quartiere. In questi ultimi anni sono stato spesso in carcere. Credo di averne visitati una almeno decina (e non sempre per colpa di Andrea), più e più volte. Entro e esco in giornata, sia ben chiaro. Lo dico per mia madre, che so potrebbe restarci male. (Ricordo, era il giorno del mio compleanno, quando mia ma- dre mi telefonò per farmi gli auguri, ma io chiusi la telefonata in fretta. “Scusami” le dissi. “Non posso parlare, sto entrando in carcere.” Ho il sospetto le sia venuto un mezzo infarto. An- che perché le notizie girano in fretta in certi quartieri. Il giorno appresso, mentre andava a fare la spesa, una sciura le chiese cosa avessi combinato, dato che mi avevano visto a San Vit- 20 HOME INDEX
Il filo di Arianna tore. “Chi l’avrebbe mai detto, un così bravo ragazzo!”). Vado a parlare con i detenuti e ogni volta mi chiedo se faccio bene. Conosco il sospetto implicito di chi viene ad ascoltarmi in quell’ora che frantuma la noia della detenzio- ne. Chi è questo? Che vuole da noi? Cosa crede di venirci a raccontare? Cosa sa della vita? Hanno il culo al caldo e vengono qui a lavarsi la coscienza! Ci vado ogni volta sapendo tutto ciò. E sapendo soprat- tutto che non ho niente da insegnare. Vado, col mio trucco da prestigiatore in tasca. Mi siedo e rompo il ghiaccio rac- contando dove vivevo da ragazzo. Uno di Quarto Oggiaro lo trovo sempre. Che mi guarda in tralice, con diffidenza, si avvicina con la sedia, mi chiede di tale o tal altro. Quando supero il test tutto si fa più facile. Questi uomini, queste donne, questi ragazzi, hanno den- tro di sé interi mondi di emozioni, di sofferenze, di dolori, di rimorsi. Che aspettano solo di essere ascoltati. Più che par- lare cerco di farli parlare. Di liberarsi. Il loro silenzio è come una biblioteca in fiamme, non possiamo permettercelo. Le loro storie sono le vite che avremmo potuto vivere, semplice- mente se al momento giusto, al posto di un sentiero non ne avessimo imboccato un altro. Non tutti hanno la fortuna di avere una bussola in tasca. C’è chi si perde lungo la strada, spesso di continuo. C’è chi non ha ancora imparato il modo di orientarsi nella vita. A maggior ragione le loro esperienze sono insegnamenti fondamentali, per tutti noi. Offrire loro un capo del gomitolo, come Arianna, è il minimo che dobbia- mo fare affinché non si perdano per sempre nel labirinto dei loro errori. Conviene a tutti. A noi per primi, qualunque cosa quel “noi” possa significare. Andare in carcere, incontrare dei detenuti, parlare con loro? 21 HOME INDEX
Isabella Bossi Fedrigotti Collabora al Corriere della Sera scrivendo articoli culturali e di costume. Il suo esordio nella narrativa è stato col romanzo Amore mio, uccidi Garibaldi (1980). I suoi libri sono stati tradotti in varie lingue e ha vinto il Premio Campiello con Di buona famiglia (Longanesi). Ha inoltre partecipato al volume collettivo sull’handicap infantile dal titolo Mi riguarda (Roma, Edizioni Sandra Ozzola E/O 1994). Nel 2019 le viene conferito il Premio della Fondazione Campiello alla carriera. HOME INDEX
Andare in carcere ISABELLA BOSSI FEDRIGOTTI Sì, ci sono i volontari che con gli educatori organizzano questi incontri perché ritengono che sia importante creare collega- menti tra il mondo di dentro e il mondo di fuori, un modo per preparare i detenuti al dopo, a quando torneranno liberi, un modo per aiutarli a riabilitarsi con letture, conversazioni, discussioni. Sono uguali a noi, persone normali. Sono giova- ni e meno giovani, simpatici, antipatici, allegri, tristi, silenziosi, chiacchieroni, brillanti e meno brillanti, preparati o ignoranti, sinceri o bugiardi. – Va bene, ma perché sono in carcere? Hanno spacciato, rubato, rapinato, ferito, violentato, ammazzato? – Sì, tutto questo, ma è ovvio, ai loro reati non si parlerà, altrimenti per loro sarà come stare in tribunale. Si parlerà in- vece di letteratura, di poesia, di filosofia, anche di religione, di quello, insomma, di cui avranno voglia di parlare. Sono appunto persone normali. Va bene, persone normali. Però all’arrivo al carcere ci si rende conto subito che dopotutto così normali non sono, che devono anzi essere abbastanza speciali. Ancora prima di mettere piede all’interno dell’edificio, si moltiplicano infatti barriere e controlli. E la guardia armata sulla torretta smenti- sce l’eventuale superficiale impressione di trovarsi su un im- pianto sportivo momentaneamente vuoto di atleti. 23 HOME INDEX
ISABELLA BOSSI FEDRIGOTTI – Portarsi la borsa o lasciarla nell’automobile? – La può lasciare in macchina. Non c’è posto più sicuro di questo parcheggio. Garantito. Poi dentro. Controlli e ricontrolli per le borse, le borset- te, le tasche; un cancello, un altro cancello, si salgono e si riscendono scale, si percorre un corridoio lungo le celle. – Tenetevi il più possibile lontani dalle porte, dice l’educa- tore. Il perché non viene spiegato (e nessuno chiede) ma è inevitabile la fantasia che attraverso gli spioncini i detenu- ti potrebbero allungare all’improvviso le braccia e afferrare qualcuno per le gambe. Si arriva in una stanzetta con una decina di sedie in cir- colo contro il muro e un mobiletto al centro su cui sono appa- recchiate con cura delle bevande (niente alcolici) e dei vas- soietti con biscotti e patatine, bicchieri di plastica, tovaglioli. Sono stati i detenuti a procurare e imbandire tutto questo per l’incontro. Persone normali, appunto, che quando arriva un ospite si danno da fare, mettono in ordine, non vogliono sfi- gurare. Poi entrano. Sono undici, un gruppo ormai coeso, scel- to dagli educatori, un gruppo in un certo senso allenato alla conversazione. Insieme leggono infatti Dante, Shakespeare, Foscolo, Leopardi e poi ne discutono. Mi guardano, anzi, mi scrutano, ed è la prima impressione che ne ho. Spero di es- sermi vestita giusta – mi dico – in ordine ma senza apparire. Mi soppesano, ma capisco che non è il vestito né il trucco o la pettinatura che stanno esaminando, bensì se sono affidabile, credibile, se varrà la pena sottopormi le loro domande o se, invece, sarà una perdita di tempo. Sarà una chiacchierona, questa – si stanno domandando – venuta per riempirci di pa- 24 HOME INDEX
Andare in carcere role vuote, una pennivendola abituata a infinocchiare i gon- zi? O sarà magari una damazza di San Vincenzo entrata qui per fare la sua buona azione quotidiana? Sento che non ci sarebbe da parte loro nessuna pietà se appartenessi a uno di questi generi. Lo leggo nei loro occhi attenti, sospettosi. Non venga a prenderci in giro è il messaggio che mi mandano. Buongiorno. Buongiorno. Buongiorno. La conversazione non si preannuncia facile tra un gruppo di elementi cauti, diffidenti da una parte e un elemento timido dall’altra. Toc- cherà all’educatore fare in modo che si rompa il ghiaccio? Invece no, c’è il tipo mondano che si fa avanti, sorridente, loquace. Ha una stazza imponente, sembra sulla quarantina e su di me è ampiamente informato – non so come perché in carcere internet è assente. In maniera affabilmente salottiera mi parla del Trentino, delle sue bellezze, dei suoi vini – sa che la mia famiglia è produttrice – fa il nome di varie cantine, di agenti, di rappresentanti. “Il tale è un amico mio, lo cono- sce? E il talaltro?” Chissà cosa ha fatto questo signore –mi domando – che pare assolutamente normale, un tipo festo- so, chiacchierone, bon vivant, buona forchetta e buona bot- tiglia, a suo agio tra la gente, di quelli che riescono a parlare anche con i muri. Avrà rubato, rapinato, imbrogliato? In ogni modo ha contribuito a rompere il ghiaccio. Mi presentano la lista delle domande che hanno preparato per me: sono domande filosofiche, su temi profondissimi, cui in verità nessuno ha risposte, domande sulla vita, sulla morte, sulla giustizia e sull’ingiustizia, sulla verità, sulla punizione, sulla paura e sul coraggio, su chi vince e su chi perde, sulla corsa al denaro e sul destino degli umani. Mi erano state anticipate alcuni giorni prima perché mi potessi preparare ma mi accorgo presto che, al di là dei con- cetti espressi dalla lista, più che delle risposte i miei interlocu- 25 HOME INDEX
ISABELLA BOSSI FEDRIGOTTI tori si aspettano soprattutto delle parole: a loro interessa par- lare, di me, di quel che mi piace leggere, del mio lavoro, dei colleghi famosi. (“Conosce Feltri? Com’è dal vivo?”, “E Gra- mellini?” “E De Bortoli?”). Ovviamente è la tv il loro principale, probabilmente unico canale d’informazione. Vogliono ap- profondire, andare oltre la vista che offre loro la sola finestra sul mondo che hanno a disposizione; in concreto vogliono sapere di chi fidarsi e di chi non fidarsi, chi è vero e chi invece fa finta. Cosa che, peraltro, vorremmo tutti, soltanto che “noi di fuori” abbiamo più opportunità per valutare i personaggi. In una certa maniera cauta e indiretta vogliono però parlare anche di sé. Di quel che leggono, di quel che pensa- no: soprattutto per la difficoltà di comunicare con fuori, sen- za internet in tempo di internet; tempi biblici per loro tra una domanda e una risposta, “a stretto giro di posta”. Salvo un paio di eccezioni, sono tutti calabresi e il dato fotografa con l’immediatezza di un click, la nostra geografia economica: la Calabria è la regione più povera d’Italia. Parlano bene, in italiano corretto, senza gli stenti lingui- stici che eventualmente mi sarei aspettata. Si sente che il gruppo non soltanto legge ma è abituato a conversare, a chiarire. Il più spigliato, quello che parla di più, che chiede di più e di più commenta le mie risposte è un ragazzo campa- no, al massimo venticinquenne. È lui, informano gli educatori, che ha preparato il rinfresco, che ha procurato bibite, salatini e biscotti e li ha apparecchiati. Sembra l’alunno più vivace della classe che si fa carico di tutte le curiosità dei compagni meno spigliati, tuttora intimiditi dalla pur mite professoressa. Ci sono, infatti, alcuni che non parlano mai, che in silenzio sol- tanto mi osservano e ascoltano, ombrosi fino quasi alla fine, evidentemente non davvero convinti di potersi fidare. Facile capire che sono tra i più sofferenti poiché si sa che, dentro 26 HOME INDEX
Andare in carcere come fuori dal carcere, chi riesce a comunicare ha vita un po’ più facile. Persone normali. Dopo una mezz’ora è assolutamente questa la sensazione: di essere alla presentazione di un libro, con persone interessate intorno che pongono interrogativi non soltanto sul libro, che vogliono sapere della vita dell’au- tore, sul suo percorso professionale, che introducono bran- delli di autobiografia, che perfino chiedono consigli. Alla fine più di uno dei miei interlocutori domanda: tornerà? E il porta- voce campano esprime a nome, così sembra, non soltanto suo, la soddisfazione per il buon andamento dell’incontro e conclude assegnandomi un voto abbastanza alto. Più tardi un educatore mi confiderà che per quel ragaz- zo, sul punto di aver scontato la sua pena, è stato trovato in un’azienda un impiego a mille euro al mese. Peccato che il suo commento sia stato: “Ma mille euro io li guadagno in un pomeriggio con il mio vecchio lavoro (di spaccio, ndr)!” E che il salottiero amante del buon cibo, che conosce i vini trentini ed è amico di agenti e rappresentanti ha ammazzato un tipo che lo prendeva in giro con 43 coltellate. 27 HOME INDEX
Andrea Kerbaker Milano, 1960, ha lavorato a lungo nella comunicazione dell’industria privata, occupandosi prevalentemente di organizzazione culturale. I suoi libri di narrativa e saggistica sono tradotti in molte lingue del mondo. Tra gli ultimi, Celebrity (La nave di Teseo) e Vite da presepe (Interlinea), entrambi del 2019. Insegna Istituzioni e Politiche Culturali all’Università Cattolica, collabora con il Corriere della Sera e il supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore. È segretario del Premio Bagutta, il più antico riconoscimento letterario italiano. HOME INDEX
Dare da mangiare agli affamati ANDREA KERBAKER Vi ricordate le sette opere di misericordia corporale? Die- tro quella buffa dizione obsoleta si elencavano i vari co- mandamenti pratici da seguire per essere bravi cristiani; te le insegnavano a catechismo quando eri bambino, all’età in cui il massimo sforzo che si fa per venire incontro agli altri è quello di offrire a un compagno di classe una patatina dal prezioso sacchetto che la mamma ti ha appena com- perato. “Dare da mangiare agli affamati” era sicuramente un’indicazione che riusciva a renderti un filo più generoso. Il resto era meno immediato; ma qualcosa, in fondo, rima- neva sempre. “Visitare gli infermi”, per esempio: un’attività che col tempo si impara a fare; o anche “vestire gli ignu- di”, non fosse altro che per non scandalizzare le regole del buon costume. “Visitare i carcerati”, soprattutto oggi, è certamente meno comune. Non quando sei uno scrittore, però: in quel caso più volte ti viene chiesto di farlo. Ci vai, ovviamente, di buon grado, con lo scopo precipuo di “consolare gli afflitti” (che fa parte delle altre sette opere di misericordia, quelle spirituali, tra cui ce n’è una che mentre avanzo con l’età tro- vo sempre più difficile da applicare: “sopportare le persone moleste”; ma questo è un altro discorso). Le mie visite in carcere sono state quasi sempre molto simili tra loro, un po’ sul modello delle riunioni che leggen- 29 HOME INDEX
ANDREA KERBAKER dariamente fanno gli alcolisti anonimi (“sono Gaspare, non tocco un goccio di vino da ventisei giorni”…) Piccoli gruppi di carcerati selezionati, uno spazio comune generalmente poco più che angusto, odori vagamente cattivi che girano per l’aria, spesso rumori di fondo che distraggono e condi- zionano il dialogo. All’inizio ci si presenta, poi si scambiano opinioni sulle diverse vicende del mondo. Sono sempre stati incontri piuttosto profondi, anche se qualche aspetto non mi ha mai convinto appieno. Troppo spesso, in particolare, mi è capitato di sentire la frase “Noi abbiamo sbagliato”, ripetuta come un mantra: parole che mi sanno sempre di appiccicaticcio, di falso, di qualcosa suggerito dagli avvocati per far vedere ai giudici un ravvedimento che chissà se c’è davvero. Tante volte mi è capitato invece di cercare di indovinare il vero pensiero alle spalle di quelle espressioni di buonismo, una affermazione tipo “E invece sono felicissimo, ho ammazzato quel tipo che si era portato a letto mia moglie, l’ho fatto e lo rifarei molto, molto volentieri”. Al di là di questo, in generale sono sempre uscito da questi incontri con l’impressione di aver trascorso un paio d’ore con persone variamente piacevoli, qualunque cosa avessero fatto. Una sensazione rinforzata dai molti dubbi che, viceversa, mi suscitano gli uomini “probi”: troppe volte ab- biamo visto persone scagionate in primo grado, poi condan- nate a pene lunghissime in appello, o viceversa – in base a un’incertezza di giudizio dove i concetti di assoluzione e con- danna mi paiono sempre molto, molto soggetti al raziocinio umano, così fallibile. E mi viene sempre in mente un grande autore francese, André Gide che dopo un’esperienza come giudice popolare al tribunale di Rouen decise di fondare una collana di libri dal suo editore di riferimento, Gallimard. Titolo? 30 HOME INDEX
Dare da mangiare agli affamati Ne jugez paz, Non giudicare. Per me è inevitabile pensarci ogni qualvolta metto piede in carcere. Quando per l’iniziativa i detenuti domandano perché mi è stato chiesto di andare a Bollate ho quindi immaginato una replica, con attori diversi, di queste piccole sedute quasi di autocoscienza in un ambiente più o meno angusto. Niente di più sbagliato; Bollate, è noto, è un modello: dove tante delle caratteristiche deteriori delle altre carceri sono alle spalle. Un aspetto che si nota fin dall’ingresso, quando si percorrono le lunghe distanze che portano al posto dell’incontro. I cortili sono ampi; i corridoi larghi, luminosi. Alle pareti qualcuno ha riprodotto alcuni dei classici della pittura novecentesca: una grande Danza di Matisse, altre opere ugualmente famose. Diciamo che un’imitazione perfetta è un’altra cosa, ma la sola idea di togliere ai muri la patina di grigio che nelle altre carceri regna sovrana è già di per sé consolante. E così è l’ar- rivo nella biblioteca del carcere, sede dell’incontro, prece- duto da un grande cartello: Colloquio con l’autore, e il mio nome rosso fuoco: un riguardo che mi piacerebbe avessero nelle librerie dove abitualmente si presentano i miei libri. La biblioteca occupa uno spazio grande, luminoso, ario- so, con un’ampia distesa di sedie spalleggiate da scaffalatu- re in metallo con tanti libri in generale di bell’aspetto: spesso rilegati, con sovraccoperte in ordine. I titoli non sono ordinari: molti sono ricercati (anche troppo, si direbbe), che invano si cercherebbero nelle biblioteche degli uomini liberi. Mentre qualcuno dispone le sedie per l’incontro – tante, tantissime, ma quanti sono? – vago lungo gli scaffali annusando i testi in bell’ordine. “E molto letti”, mi assicura Lele, il bibliotecario volontario che cura il rifornimento, avvalendosi dell’aiuto da case editrici illuminate. Siamo in anticipo; prima, mi dicono, c’è da registrare un’intervista. Devo aver capito male: Regi- 31 HOME INDEX
ANDREA KERBAKER strare? Qui in carcere dove non si può portare neanche un telefonino? Ma sì, certo: c’è un accordo con Radio Popolare, per cui un paio dei detenuti fanno delle domande ai visitatori che poi manderanno in onda nel fine settimana. Così Ivan e Edson mi portano in uno stanzino adiacente, dove mi chie- dono dei libri, dell’amore per la lettura et similia. Ovviamente si sono preparati su chi stava arrivando – anche questo ti fa subito capire che sei sì in una prigione, ma anomala. Nel frattempo i detenuti sono arrivati in ordine sparso. Quando rientriamo nella biblioteca, le sedie sono tutte occu- pate; altri parlottano nelle retrovie e staranno seduti sui tavo- li o in piedi. Per antica abitudine li conto: un’ottantina – altro che piccolo gruppo di autocoscienza. Partiamo; brevi battute di preambolo di una volontaria e ci presentiamo. I volontari di Mediobanca sono oggetto di molta curiosità e qualche ironia. C’è ancora qualche chiacchiera di fondo, ma l’attenzione in generale è piuttosto elevata. Nessuno dorme, cosa che vorrei poter dire delle mie lezioni in università o delle mie presentazioni di libri. I perché dei bollatiani riguardano soprattutto temi for- ti: Perché la rabbia? Perché la compassione e perché talvolta proviamo diffidenza verso di essa? Pochi giorni prima mi è ca- pitato di ascoltare Liliana Segre, che raccontava come aves- se trovato la forza di raccontare pubblicamente di Auschwitz quando aveva capito di non odiare più i suoi aguzzini (Ma non li ho perdonati, aveva specificato: differenza non da poco). Mi pare un incipit ideale, da integrare poi con qualche iracondo letterario, a partire dal Mersault dello Straniero di Camus. L’abitudine alle lezioni universitarie – con studenti che di solito ignorano qualsiasi riferimento che non riguardi la cro- naca spicciola o le nozioni apprese al liceo – mi ha abituato a dare per scontato che tutti ignorino anche i riferimenti per me più evidenti. 32 HOME INDEX
Dare da mangiare agli affamati Quindi anche qui mi sforzo di dire frasi come Albert Ca- mus, uno scrittore francese che vinse anche il Premio Nobel, oppure Oriana Fallaci, la giornalista che intervistava i potenti della terra con domande che ogni volta li facevano arrab- biare moltissimo. Ben presto mi accorgo però che la cono- scenza media dei fatti e delle persone di cui parlo è piutto- sto diffusa; e il monologo diventa rapidamente dialogo, con tanti che hanno voglia di intervenire. Parla Alì, un giovane nordafricano che si sta laureando in filosofia, e si sente. Inter- viene Aristide, un uomo in età che presto – mi informano – è uscito; vicino a lui Ermanno, un tipo pelato che non nascon- de una certa simpatia per il centrodestra e gli altri chiamano scherzosamente “Silvio”. E poi Giuseppe, un giovane che si sta laureando in astrofisica delle particelle. Scusi, ma non le sembra che la rabbia possa essere anche un veicolo di cose positive, in certi casi? Bella intuizione, accidenti: vorrei averci pensato prima di entrare. Certo che sì: mi viene in mente Bob Beamon, il saltatore in lungo di colore statunitense che a Cit- tà del Messico, avvertito della squalifica di due atleti neri che sul podio avevano salutato con il pugno del black power, si era così arrabbiato da stabilire un record del mondo desti- nato a rimanere imbattuto per decenni. L’episodio è noto a quasi tutti, altri contribuiscono con esempi da sport diversi. Ecco Paolo, detenuto volontario bibliotecario. Sulla negati- vità della testata di Zinedine Zidane a Materazzi siamo tutti d’accordo, e non perché la maggioranza di noi è italiana. Così parlando le due ore scorrono veloci. E da subito mi rendo conto che Bollate è stato anche questo: un posto dove parlare di molti argomenti con la gradevole sensazione di condividere quasi tutte le informazioni di base. Non sono certo di poter dire la stessa cosa del 90% degli ambienti che conosco, dove si radunano gli uomini liberi. 33 HOME INDEX
Giuseppe Lupo Insegnante di letteratura italiana contemporanea presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, sede di Milano e Brescia, ha esordito nella narrativa con il romanzo L’americano di Celenne (Marsilio 2000). Successivamente ha pubblicato i romanzi Ballo ad Agropinto (Marsilio, 2004), L’ultima sposa di Palmira (Marsilio 2011), Viaggiatori di nuvole (Marsilio 2013); L’albero di stanze (Marsilio 2015), Gli anni del nostro incanto (Marsilio 2017), Breve storia del mio silenzio (Marsilio 2019). È autore inoltre della raccolta di scritti Atlante immaginario. Nomi e luoghi di una geografia fantasma (Marsilio 2014) e del pamphlet Mosè sull’arca di Noè. Un’idea di letteratura (Editrice La Scuola 2016). È consulente presso alcuni editori, dirige la collana Novecento.0 presso Hacca Editore e la collana Atlante letterario presso l’Editrice La Scuola. Collabora alle pagine culturali dei quotidiani Il Sole 24 Ore e Avvenire. HOME INDEX
La libertà in un libro GIUSEPPE LUPO Ciò che mi colpisce ogni volta che incontro i detenuti, come in quest’ultima occasione presso il carcere di Piacenza, è il confronto sul tema della libertà: un discorso che non emer- ge mai durante la conversazione o, se lo fa, è quasi sempre in maniera indiretta, eppure credo sia l’argomento più rile- vante. Libertà da intendersi non tanto come frequentazione di un quotidiano nel quale far trascorrere il tempo, cioè nel più comune dei modi, ma come esercizio di una condizione, specie per chi, come i detenuti, è un problema da risolvere. La libertà a cui penso ha a che fare con i libri, perché già nel termine “libri” c’è la stessa radice di libertà. I libri rendono liberi, sono il frutto di una libertà che magari sembrerebbe negata – la libertà di viaggiare nel tempo, di immaginare una vita alternativa, di entrare e uscire dall’esistenza degli altri – e che soltanto le storie narrate hanno la possibilità di conoscere e di frequentare. Quando si vive reclusi, quando si è impediti di poter fare ciò che veramente ognuno vorrebbe fare, avere tra le mani un libro è un modo di sentirsi uomini senza vincoli. A questo io penso quando incontro le facce dei detenuti che mi osservano mentre io parlo. Ci sarà in loro un bisogno che li attrae verso il racconto? Qual è questo bisogno? Come si esplicita? Sono queste le domande che continuamente mi pongo. E la risposta che ogni volta riesco a dare è sempre la stessa: siamo fatti di storie e abbiamo bi- sogno di vestirci con le situazioni che in esse sono contenute, 35 HOME INDEX
GIUSEPPE LUPO magari inventate da noi o ricevute dalla bocca di altri, ma sempre con la presunzione di credere che attraverso di esse riusciremo a scavalcare i muri che ci costringono a stare al di qua di uno spazio. Un po’ questa era la vicenda interiore che Giacomo Leopardi descriveva quando parlava della siepe che non gli faceva guardare oltre. Lo spazio negato, quello che sta al di là del muro, non lo vediamo, ma possiamo dise- gnarlo sulla base delle parole che ci vengono regalate dai libri o dai personaggi che vivono in essi. Adesso mi pongo dalla parte di chi sta in carcere. Il problema non è soltanto quello di ascoltare la voce di chi ci viene a visitare o trascorre in nostra compagnia un tempo delimitato, semmai di parte- cipare a un’avventura che si compone di parole, di gesti, di sguardi e che culmina con il racconto delle storie: le uni- che a interessare veramente tutti e a renderci uguali, senza muri o impedimenti, visitatori e visitati, ognuno con lo stesso, identico bisogno di avere una storia dentro, da conservare nei momenti di solitudine, come antidoto o come medicina. Io so, quando incontro i detenuti, che dopo una o due ore mi separerò da loro e che le nostre esistenze, non appena il cancello d’uscita si chiuderà alle mie spalle, continueranno a avere traiettorie diverse. Però so anche che una parte di me sarà rimasta tra i muri che mi hanno ospitato, con chi trascorre mesi e anni là dentro, magari in attesa di un giudizio che non arriva o di una sentenza che metta fine a uno stilli- cidio. Anch’io, percorrendo le innumerevoli strade aperte di- nanzi a me, continuerò a trattenere fra le mani un pezzo della quotidianità che ho incontrato. Credo sia questo il segreto che si nasconde fra me e i detenuti ogni volta: un reciproco regalo fatto di parole, nient’altro che frammenti di dialogo in attesa di ricomporsi, tessera dopo tessera, come un grande mosaico a cui senza volerlo con il nostro silenzio, con le nostre pause e le domande irrisolvibili, aggiungiamo qualcosa. 36 HOME INDEX
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Pier Luigi Vercesi Pier Luigi Vercesi, si è laureato in Economia e Commercio all’Università di Pavia, nell’86 è tra fondatori di ItaliaOggi. È attualmente inviato speciale del Corriere della Sera. Ha collaborato con La Stampa dal 1989 al 2000, dopo essere stato agli Esteri, alle Cronache Italiane e alla Cultura, è stato condirettore di Specchio, il settimanale del quotidiano torinese. Nel 2000 è tra i fondatori del primo giornale nato su Internet, Il Nuovo, di cui assumerà la direzione. Nel 2003 è diventato vicedirettore vicario del quotidiano romano Il Tempo e, nel 2005, direttore del mensile Capital. In Rcs dal 2007, dove ha ricoperto diversi incarichi prima di assumere la direzione di Sette, il settimanale del Corriere della Sera, dal marzo 2012 all’aprile 2017. Ha insegnato Teoria e Tecniche dei Nuovi Media all’Università di Parma e è autore di saggi storici. Tra i più recenti: Il naso di Dante (Neri Pozza), La notte in cui Mussolini perse la testa (Neri Pozza), Fiume, l’avventura che cambiò l’Italia (Neri Pozza), Il Marine, storia di Raffaele Minichiello, il soldato italo-americano che sfidò gli Stati Uniti (Mondadori), Ne ammazza più la penna (Sellerio) e Storia del giornalismo americano (Mondadori). È anche autore di documentari televisivi su la Roma di Nerone, sulla storia della Germania nel Novecento e sulla Prima guerra mondiale. HOME INDEX
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