Tales from the Loop - Recensione dell'ultima serie prodotta dagli Amazon Studios - Il Discorso
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Tales from the Loop – Recensione dell’ultima serie prodotta dagli Amazon Studios La storia raccontata da questa serie è ambientata in una cittadina della provincia americana negli anni Ottanta, che ospita un misterioso centro di ricerca, nel quale avvengono esperimenti circondati dal massimo riserbo, destinati ad avere un impatto pesante su molti dei suoi abitanti. Riassunto così, il racconto sembrerebbe la fotocopia di quello di Stanger Things, serie di Netflix che ha riscosso un successo clamoroso, e che è già arrivata alla sua terza edizione. In realtà le differenze tra Stranger Things e Tales from the Loop sono sostanziali, anche se entrambe possono essere classificate nel genere fantascientifico. La serie di Neftlix è una
accattivante storia di azione, che vede un gruppo di ragazzi lottare contro un mostro proveniente da un universo parallelo. Quella proposta dagli Amazon Studios ha un ritmo molto più lento e una struttura molto più frammentata, divisa in otto episodi autonomi, che hanno in comune molti personaggi, di cui si può seguire l’evoluzione nel tempo. Una serie che privilegia il non detto e mette al centro gli esseri umani, utilizzando un repertorio visivo ammaliante. Un quadro del tutto differente da quello dipinto da Stanger Things. Tales from the Loop: una rappresentazione alternativa dell’America degli anni Ottanta The Loop è il nome di un misterioso centro di ricerca sotterraneo, costruito sotto una cittadina statunitense, che dà lavoro a molti dei suoi abitanti. Gli studi ruotano intorno a una enigmatica sfera pulsante, che levita in una stanza super- protetta, della cui natura poco o niente viene spiegato. La sua attività ha effetti incredibili sugli abitanti della cittadina, nella quale accadono fatti razionalmente inspiegabili, per lo più legati ad alterazioni dello spazio-tempo. Tuttavia non c’è (quasi) nessun mostro in agguato nell’ombra, contro cui combattere, e i momenti di paura si contano veramente sulle dita di una mano, a differenza di quanto accade in Stranger Things. La fantascienza in questa serie non è al servizio dell’azione, ma è un pretesto per creare situazioni nelle quali gli individui vengono messi alla prova come esseri umani, nei loro rapporti interpersonali, a cominciare da quelli familiari.
Ogni episodio getta una luce sulla vita personale di uno o più personaggi, molti dei quali diventano comparse, o figure meno rilevanti, nelle puntate dove non sono protagonisti. Nel complesso gli otto episodi in cui si articola questa prima stagione aprono una finestra sulla vita di diverse famiglie nel corso di un lungo periodo attorno agli anni Ottanta. Le ellissi temporali sono notevoli, grazie anche agli inesplicabili fenomeni di alterazione dello spazio-tempo che l’enigmatica attività del centro provoca. In questa serie viene mostrato molto, ma spiegato poco. Per esempio, nelle campagne che circondano la cittadina si aggirano robot e strutture dallo scopo ignoto, ma nessuno sembra farci caso. Così come viene dato per scontato l’utilizzo di arti artificiali straordinariamente sofisticati, impensabili anche al giorno d’oggi. La serie è quindi ambientata in una versione alternativa dell’America degli anni Ottanta, che rimane tuttavia riconoscibile osservando le autovetture, lo stile dei vestiti, delle abitazioni e degli arredamenti. Tales from the Loop: una scenografia affascinante basata sulle opere di Simon Stalenhag Forse l’aspetto più intrigante di questa serie è la dimensione visiva, che si ispira dichiaratamente alle opere di Simon Stalenhg. I vari personaggi si muovono nella periferia di una cittadina perfettamente integrata nella natura che la circonda.
I boschi e i campi trasudano mistero e sono carichi di suggestioni, possono rendere inquieti ma raramente terrorizzano chi li attraversa, e chi li guarda comodamente seduto sul divano di casa sua. Immersi nel verde ci sono diversi manufatti che derivano dall’attività del misterioso centro di ricerca. Poco o nulla ci viene rivelato sul perché siano lì o per quale motivo siano stati costruiti e poi scartati, ma è proprio interagendo con essi che i protagonisti attivano il meccanismo narrativo dei vari episodi. In Tales from the Loop è però difficile vedere una cesura tra natura e cultura, perché questi due aspetti sono fusi in un insieme armonico, grazie anche all’apparato iconografico creato da Simon Stalenhag, nel quale le meraviglie della tecnologia futuribile sono solo un pretesto per indagare sulla natura dell’uomo e della sua esistenza. Il ritmo della narrazione è molto lento, lasciando agli spettatori tutto il tempo per immergersi nelle esperienze dei protagonisti, vivere le loro suggestioni e apprezzare la bellezza degli scenari nei quali si muovono. In questa produzione viene infatti fatto largo uso dei campi lunghi, nei quali l’uomo spesso sembra perdersi in paesaggi costellati da oggetti enigmatici, probabile metafora di un’esistenza della quale è difficile trovare un senso razionale. Tales from the Loop: una serie di qualità per un pubblico maturo Con questa serie gli Amazon Studios hanno dimostrato di essere in grado di realizzare prodotti di grande
qualità. Tales from the Loop utilizza la fantascienza come pretesto per indagare sulla natura umana, perché le anomalie spazio-temporali che il centro di ricerca produce costringono chi li subisce ad affrontare temi molto concreti, sui quali ci interroghiamo da sempre: l’amicizia, il rapporto tra genitori e figli, la difficoltà nei rapporti tra generazioni diverse, la fugacità della vita, l’inevitabilità della vecchiaia e della morte. Un lavoro esistenzialista nei contenuti e impressionista nella forma, il cui unico limite forse risiede nel fatto che alle volte ci si perde nelle suggestioni visive. Qualcuno potrebbe poi obiettare che non serve utilizzare la fantascienza per parlare della dimensione umana e del male di vivere che spesso ci attanaglia, ma la scelta di utilizzarla ha permesso di utilizzare un immaginario visivo dal forte impatto emotivo. Tanto di cappello comunque, per una serie veramente originale, curata nei minimi dettagli, destinata a un pubblico maturo. Con produzioni di questo tipo le piattaforme di streaming diventano veramente competitive nei confronti del cinema, non solo sotto il profilo dei costi, ma anche della qualità. Confronto tra due film che hanno affrontato il tema
delle pandemie: recensione comparata di Virus Letale e Contagion Due pellicole che hanno messo in scena in modo differente come le epidemie vengono affrontate dalla scienza e dalla società Mentre il Coronavirus ci costringe a casa, uno dei modi utili con il quale possiamo passare il tempo è osservare come il cinema ha rappresentato la società messa in crisi dalle epidemie. A tale scopo è interessante confrontare due pellicole che alla loro uscita hanno riscosso un discreto successo: Contagion, di Steven Soderbergh, del 2011, e Virus Letale, di Wolfang Petersen, del 1995. Due pellicole che, a modo loro, hanno cercato di descrivere questo tema con consapevole verosimiglianza, senza debordare nel campo della pura fantascienza o usare gli effetti di un virus come pretesto per trastullare il pubblico con scene gore. I due film sono usciti a distanza di 16 anni, ed è anche interessante
analizzare come i profondi cambiamenti avvenuti nel mondo in questo periodo trovano un riscontro in quanto messo in scena. Virus Letale è stato uno dei primi film che ha cercato di dare allo spettatore la possibilità di guardare in maniera realistica, e con grande dispendio di mezzi, il mondo dei microrganismi e dei laboratori microbiologici, mentre Contagion è stato probabilmente il primo a cercare di descrivere in modo verosimile come una pandemia potrebbe effettivamente dilagare sul nostro pianeta, dando ampio spazio agli aspetti sociali. Entrambi i film, ovviamente, rispecchiano il periodo storico nel quale sono stati girati. Virus Letale vs Contagion: dalla guerra fredda al mondo globalizzato e interconnesso Il muro di Berlino è caduto nel 1989, mentre Contagion è uscito nel 1995. Il nemico non è più dietro la cortina di ferro, e nel cinema la minaccia aliena, che a partire dagli anni Cinquanta ha sublimato la paura della guerra atomica e dell’infiltrazione di agenti nemici nella società statunitense, è ormai iperinflazionata. Hollywood è alla ricerca di qualcosa di nuovo per intrattenere il pubblico. La paura delle epidemie è una buona soluzione, visto che al cinema ne è stato fatto un utilizzo alquanto parco fino a quel momento, per lo più limitato a film di fantascienza, o dell’orrore, che descrivono situazioni evidentemente non realistiche. Due esempi tra tutti: Andromeda, di Robert Wise, del 1971, dove una team di scienziati indaga su un microrganismo mortale di origine extraterrestre, e l’ormai mitico La città sarà distrutta all’alba, di George A. Romero, del 1973 (del quale è stato fatto un remake nel 2010), nel quale un’arma biologica provoca una follia di massa nella solita cittadina della profonda provincia americana. Nessuno aveva ancora cercato di descrivere una situazione più realistica e verosimile. Inoltre la presenza in Africa di virus altamente letali, come l’Ebola, cominciava a essere nota al grande pubblico, e offriva una inedita opportunità per mettere in scena una minaccia subdola e credibile per il cittadino occidentale. In Contagion è proprio un virus simile all’Ebola che mette in pericolo
la solita tranquilla cittadina della provincia americana, per tramite di una scimmietta incautamente importata dal continente nero, che costituisce il vettore del morbo. Il nome del virus, Motaba, è identico a quello di un affluente del fiume Ebola, che ha dato il nome al virus esistente nel mondo reale. Questo morbo, nella finzione cinematografica, ha gli stessi effetti devastanti dell’Ebola, provocando una febbre emorragica che porta alla liquefazione degli organi interni degli infettati, ma ha anche la capacità di diffondersi per via aerea, rendendolo quindi una minaccia devastante. Così devastante che il governo statunitense è pronto a radere al suolo la cittadina per estirpare il morbo ed eliminare il pericolo. Ma viene scoperto l’arcano: in realtà la decisione è stata presa perché il Presidente è stato ingannato da alcuni ufficiali, che cercano di coprire l’esistenza di un’arma biologica, che altro non è che una variante meno virulenta del virus Motaba. Grazie al solito eroico ufficiale, il Colonnello Sam Daniels (Dustin Hoffman), il complotto viene scoperto e sventato. Come al solito, il bene trionfa e l’ordine viene ristabilito. Si tratta di un film dalla struttura classica, inquadrabile nel frame dei film tipici della guerra fredda, dove la piccola cittadina della provincia americana rappresenta la società statunitense, il cui ordinato funzionamento viene surrettiziamente alterato da un subdolo nemico esterno, in questo caso un virus che viene dall’Africa. Nulla di nuovo sotto il sole, a cominciare dalla possibilità di radere al suolo la cittadina minacciata, presente anche nelle narrazioni dei succitati Andromeda e La Città Verrà Distrutta all’Alba. Ovviamente il problema viene risolto in casa, dall’esercito statunitense. Lo scenario cambia completamente in Contagion. Film figlio del nuovo millennio, dove gli Stati Uniti d’America sembrano non essere più la potenza egemone, e gli equilibri geopolitici si spostano dando sempre più peso all’Asia in generale e alla Cina in particolare. Un mondo sempre più interconnesso e interdipendente, diventato un ambiente ideale per diffondere morbi sul pianeta.
Virus Letale vs Contagion: due diverse rappresentazioni della società e della scienza Ed è proprio dall’Asia che il nuovo virus fa rapidamente il giro del globo, grazie alla possibilità di viaggiare facilmente in aereo tra un continente all’altro. E la pandemia globale richiede una risposta globale. Se in Virus Letale il problema viene risolto nell’ambito dell’USARMIID (Istituto di Ricerca Medica sulle Malattie Infettive dell’Esercito degli Stati Uniti), in Contagion il CDC (Centro per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie) statunitense lavora a braccetto con l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità). Nel primo caso la scienza è completamente asservita al potere militare statunitense, a cui deve rendere conto, nel secondo è una istituzione libera e sovranazionale, mentre è l’esercito ad avere una funzione ancillare di mantenimento dell’ordine pubblico e di assistenza alle popolazioni flagellate dal morbo. Un cambio di prospettiva radicale. Ancora più profonda è la differenza nella rappresentazione della società. Virus Letale rimane prevalentemente focalizzato sulla piccola provincia americana, nella quale impera lo stereotipo della famiglia tradizionale e laboriosa che difende il proprio status quo, se serve anche con le armi in pugno. In Contagion viene invece rappresentata una società globale e interconnessa, dove la famiglia tradizionale è in piena crisi (il paziente zero è una giovane donna in carriera che ha una relazione extraconiugale) e nella quale dominano i social network, ovviamente assenti nel film di Wolfang Petersen. E questo lo si capisce subito non solo dai differenti cellulari e personal computer utilizzati dai personaggi, ma dalla prepotente comparsa delle fake news, che proprio nei social network hanno trovato un potente mezzo di proliferazione. Il personaggio del blogger Alan Krumwiede (Jude Law) incarna il lato oscuro di Internet, mettendo in scena un personaggio spregiudicato, che cavalca tramite i social network la paura della gente, a cui cerca di vendere un improbabile rimedio omeopatico per curare il morbo, alimentando teorie cospirazioniste sulla convivenza tra Big Farma e le istituzioni che dovrebbero tutelare gli interessi dei cittadini.
In Contagion la scienza deve lottare non solo contro il virus patogeno, ma anche contro il mondo delle fake news, elemento invece trascurabile in Virus Letale. La cosa curiosa è che proprio i film come Virus Letale hanno contribuito ad alimentare nell’immaginario collettivo il substrato complottista su cui possono proliferare certe fake news. L’idea che istituzioni deviate possano macchiarsi di qualsiasi crimine pur di perseguire il proprio interesse è stata ampiamente utilizzata nel cinema nei decenni passati. Basti pensare anche al succitato cult movie La città sarà distrutta all’alba, nel quale il governo e l’esercito statunitensi fanno l’impossibile per nascondere all’opinione pubblica la fuoriuscita di una pericolosa arma biologica, arrivando a distruggere un’intera cittadina e i suoi innocenti abitanti. In altre parole Virus Letale e Contagion sono la dimostrazione pratica di come il cinema sia capace di influenzare la società nella quale viene girato e rappresentato, e sia da quest’ultima influenzato, in un meccanismo circolare. In questo periodo che per molti è di forzata inattività a causa della COVID-19, guardare queste due pellicole può essere un occasione per riflettere su questi aspetti. Sono due film che hanno molti aspetti in comune, oltre al fatto che parlano di pandemie: hanno un cast stellare, sono fatti con mestiere, pur non essendo dei capolavori, e quando sono usciti sono state le pellicole che forse hanno cercato di rappresentare il mondo dei virus e della microbiologia nel modo più verosimile possibile. Certo, sono usciti a 16 anni di distanza l’uno dall’altro, ma questo è un motivo in più per vederli entrambi: per rendersi conto di quanto cinema e società siano inestricabilmente intrecciati, e si rispecchiano l’uno nell’altro.
The Grudge: la recensione del reboot di Nicolas Pesce, ultimo capitolo della saga nata con Ju-on Tutto ebbe origine nel 2000, quando uscì Ju-on, di Takashi Shimizu. Un film a basso budget, destinato al solo mercato home-video, che diede origine a una saga di film dell’orrore, creando il mito di Kayako Saeki. Questo personaggio incarna uno stereotipo del folklore giapponese, l’onryō, una sorta di fantasma, di solito di sesso femminile, che vaga sulla terra in cerca di vendetta. La pellicola ottenne un successo inaspettato, tanto che ne venne fatta nello stesso anno una versione per il cinema, seguita da
un sequel, Ju-on 2, e nel 2004 da un remake americano, The Grudge, seguito da diversi altri sequel. Il reboot di Nicolas Pesce, prodotto da Sam Raimi, potrebbe in realtà anche essere considerato un sequel, ed è l’ultimo capitolo di questa saga, uscito vent’anni dopo l’originale Ju-on, in piena emergenza Coronavirus. La storia incomincia quando Fiona Landers lascia la sua casa a Tokyo, per trasferirsi in una piccola cittadina della provincia americana, in Pennsylvania, al numero civico 44 di Rayburn Drive. Lei non ne è consapevole, ma si porta dietro la maledizione che aveva dimora nella sua abitazione orientale, che la spinge a massacrare figlia e marito, prima di suicidarsi. Ma la maledizione continua a infestare la casa, colpendo inesorabilmente chiunque vi metta piede. Il nome del film da cui la saga si è originata, Ju- on, in giapponese significa rancore (grudge in inglese), e allude a un’altra credenza locale, per cui se uno muore in preda a una furia cieca, accumula energia negativa nel luogo ove avviene il fattaccio, che ne rimane contaminato per sempre, dando origine a una maledizione. Una maledizione che si diffonde come un virus, seminando orrore e morti atroci. Tutti i film della serie ruotano attorno a questa credenza popolare giapponese, dimostrando per l’ennesima volta l’inestricabile intreccio tra cinema, cultura e società. The Grudge: una storia che si dipana su diversi piani temporali La storia è ambientata tra il 2004 e il 2006, e
scorre su tre piani temporali principali. La protagonista del film può essere considerata la detective Muldoon, interpretata dalla brava Andrea Riseborough, che si trova a indagare su un misterioso incidente, nel quale ha perso la vita una donna legata ai terribili eventi in Rayburn Drive. Parallelamente si possono seguire i tragici fatti accaduti nella casa infestata, che ha ereditato la maledizione di Kayako Saeki, travasatasi nel corpo di Fiona Landers. Assistiamo quindi alla mattanza dei coniugi Peter e Nina Spencer, titolari di un’agenzia immobiliare che cerca di mettere in vendita la casa al numero 44 di Rayburn Drive, che stanno attraversando una crisi coniugale legata alla difficile gravidanza di Nina. I loro problemi troveranno un tragico epilogo. Il terzo piano temporale descrive i tragici fatti accaduti alla famiglia Matheson, formata da due anziani, che si trovano a dovere affrontare una tragica situazione: lei è una malata terminale, e il suo consorte pensa bene di chiamare un persona esperta in eutanasia per aiutare la moglie ad andarsene senza soffrire. Il demone che possiede la casa ha però un’idea diversa su come gestire la faccenda, che terminerà in un lago di sangue. Le tre storie si intrecciano, mantenendo sullo sfondo il massacro della famiglia di Fiona Landers, suicidatasi tagliandosi la gola dopo avere barbaramente massacrato la sua famigliola. Insomma, il film è un’ordalia di mattanze che si intersecano, e seguirle in parallelo non è facile per uno spettatore, anche perché il numero dei personaggi coinvolti è esorbitante.
The Grudge: un reboot non all’altezza dei primi film della saga L’affollamento di personaggi che si contendono la scena non permette certo di approfondire il loro spessore psicologico, anche perché vengono in genere macellati vivi prima che si possa creare qualche empatia con loro. Da questo punto di vista, le morti atroci che si susseguono lungo la storia alle volte sembrano fuori luogo, sia perché troppo prevedibili, sia perché spezzano la narrazione, rendendo difficile la comprensione del racconto, che salta continuamente tra un piano temporale e l’altro. Fiona Sanders, è bene sottolinearlo chiaramente, non è in grado di sostituire con efficacia l’originale Kayako Saeki, diventata ormai una icona del genere horror. Pensare di fare un reboot eliminando quella che è diventata la bandiera della saga, che probabilmente è rimasta scolpita nell’immaginario collettivo occidentale proprio in quanto appartenete a una altra cultura, che utilizza un repertorio iconico differente dal nostro, è forse uno degli errori più grossi fatti nel concepire questa pellicola. Nel film sono ovviamente presenti delle scene che citano la versione originale, come la comparsa dello spettro ai piedi del letto o la vasca da bagno riempita con acqua scura, da cui emerge l’entità malefica. Lungi dal ricreare l’effetto delle scene originali, in questo reboot diventano dei sbiaditi déjà-vu, destinati a rendere più prevedibili delle scene che dovrebbero invece sorprendere e terrorizzare lo spettatore.
Che dopo un po’ può anche cominciare a sbadigliare, dal momento che seguire l’intreccio delle storie che si intersecano richiede un impegno cognitivo non indifferente. Visto che il film non ripaga lo sforzo, non proponendo nulla di nuovo e originale, è molto probabile che lo spettatore dopo una mezz’oretta cominci a pensare alla lista della spesa. Peccato, anche perché la recitazione è di buon livello, in particolare quella della protagonista, l’attrice britannica Andrea Riseborough, e quella di Demian Bichir, che interpreta il suo collega, Goodman. Personaggio, quest’ultimo, detto per inciso, al quale si fatica a trovare una funzione narrativa. Il The Grudge di Nicolas Pesce è l’ennesima testimonianza di quanto la moda di riciclare continuamente i miti cinematografici del passato sia spesso un’operazione destinata a lasciare lo spettatore con l’amaro in bocca, anche se il produttore può assaporare un discreto successo al botteghino. Tra l’altro Sam Raimi si è anche risparmiato la fatica di aggiungere un numero alla fine del titolo, cosa che creerà qualche problema a chi deve, o vuole, tenere la contabilità dei film di questa saga. Ma forse è meglio così: di questa pellicola tra un mese non si ricorderà più nessuno, e forse non vale la pena distinguere tra i vari sequel, reboot, cross-over, spin-off e chi più ne ha più ne metta. Film che, inspiegabilmente, continuano a dare spesso molte soddisfazioni economiche ai loro produttori. Misteri del cinema.
Il Richiamo della Foresta: recensione del film di Chris Sanders con Harrison Ford Buck è un cane di grossa taglia, molto forte e dal cuore generoso. Vive in una tranquilla cittadina e il suo padrone è il giudice Miller, per cui vive una vita tranquilla nell’assolata California, e le sue esuberanze sono sempre tollerate dagli umani che lo circondano. Tuttavia un losco figuro lo rapisce, sottraendolo alla sua spensierata esistenza, per venderlo come cane da slitta. Buck si ritrova catapultato in una realtà completamente diversa e ostile, dove conosce il lato oscuro dell’uomo, e viene ridotto all’obbedienza a bastonate. La dura “legge della zanna e del bastone”. Si ritrova a spingere la slitta, facente parte una muta di cani, nelle innevate montagne dello Yukon, in Canada, dove la corsa all’oro sta richiamando molta gente in cerca di fortuna. Riesce a imporsi come capo della muta, guadagnandosi il rispetto e la fiducia non solo degli altri cani, ma anche degli uomini per cui lavora, impegnati a trasportare la posta negli sperduti villaggi persi tra le vette ricoperte di neve. L’arrivo del telegrafo rende obsoleto l’uso delle lettere cartacee come mezzo di comunicazione, per cui la muta di cani alla quale appartiene Buck viene venduta a uno spregiudicato cercatore d’oro. Costui tratta gli animali in modo orribile, arrivando quasi a uccidere Buck. Questi viene salvato in extremis da un vecchio solitario, John Thornton (impersonato
da un ottimo Harrison Ford), che lo porterà con sé in un viaggio che per Buck sarà una riscoperta delle sue radici e della sua anima. Il Richiamo della Foresta: l’ennesimo adattamento del romanzo di Jack London Il film è liberamente tratto dall’omonimo capolavoro di Jack London, pubblicato nel lontano 1904, che ha conosciuto innumerevoli adattamenti per il grande e per il piccolo schermo. Il protagonista della storia è indubbiamente il cane Buck, mentre gli esseri umani sono in definitiva dei comprimari, anche quando vengono interpretati da un mito del cinema come Harrison Ford. La storia ruota intorno all’eterno dualismo tra natura e cultura, declinata in questo caso come opposizione tra la vita nelle selvagge foreste del Klondike, dura ma coerente con le aspirazioni interiori di Buck, e l’esistenza tranquilla e agiata, ma inconsistente e vacua, che il giudice Miller potrebbe garantirgli nella sua tranquilla magione. Il viaggio dall’assolata California alle tempeste di neve dello Jukon è una metafora di quello interiore del personaggio, che da goffo cane di compagnia diventa un rispettato e temuto capo di un branco di lupi, nel quale troverà anche la sua compagna. Le prove da superare sono molto dure: Buck non deve solo sopravvivere ai trattamenti spesso inumani a lui riservati dagli uomini, ma deve anche scoprire e affrontare le difficoltà della natura selvaggia, meravigliosa ma ostile, alla quale in realtà appartiene. A cominciare dal capo della muta, Spitz, che dovrà affrontare in uno scontro mortale. Nel libro Buck deve ucciderlo, mentre in questa versione è Spitz ad allontanarsi dal gruppo, dopo essere stato battuto. L’essere umano in questa storia ha una funzione ambivalente. Ci sono figure bonarie, come il giudice Miller, ci sono
personaggi del tutto negativi, ma c’è anche John Thornton, la cui figura è per Buck una guida verso la scoperta di sé stesso. Difficile non immedesimarsi nel protagonista di questo racconto, che in definitiva è nato come romanzo di formazione. Il Richiamo della Foresta: un uso intelligente ed equilibrato della computer grafica La CGI (Computer Generated Imagery) ha permesso di umanizzare i personaggi canini, a cominciare da Buck, quel tanto che basta per rendere molto più facile immedesimarsi nel protagonista della storia. Senza eccessi, però. Certo, viene spontaneo chiedersi se sia necessario usare animali creati al computer. In fondo in molte pellicole del passato erano stati utilizzati animali addestrati, con risultati non disprezzabili. Ma bisogna ammettere che in questo film i cani, specie nei primi piani, hanno espressioni quasi umane, che nessun animale potrebbe mai riprodurre, rendendoli molto più credibili come personaggi, specie per quanto riguarda Buck. Inoltre c’è un altro aspetto apprezzabile: utilizzare animali virtuali permette di realizzare scene molto impegnative senza ferire o metter a rischio creature viventi, aspetto di non poco conto quando si tratta di girare scene dove queste ultime soffrono, vengono ferite o maltrattate. Indubbiamente la computer grafica ha inoltre contribuito non poco a rendere quasi magiche le scene dove la natura è la vera protagonista, contribuendo a facilitare l’immersione dello spettatore nella storia narrata. Il Richiamo della Foresta: un buon film per famiglie Ci sono diversi motivi per pensare che questo film rapisca il pubblico per il quale è stato concepito, che sono i bambini e i loro genitori. Innanzitutto questa pellicola è sorretta da una storia che funziona, che è stata scritta più di cent’anni fa e che non per niente è diventata un classico della
letteratura mondiale. Questo racconto di formazione veicola anche un forte messaggio di rispetto della natura e degli animali, che questa versione digitalizzata ha reso molto più umani, cosa che probabilmente sarà molto gradita dai più piccoli. Il film è inoltre sorretto da un buon ritmo, è molto equilibrato e scorre piacevolmente sullo schermo. Non per niente è stato girato da un regista, Chris Sanders, che finora ha realizzato solo film di animazione. Apprezzabile anche l’interpretazione di Harrison Ford, che finalmente sembra avere accettato l’idea che il tempo passa per tutti, e non è possibile impersonare solo personaggi giovanili, dinamici e vincenti. Dopo avere fatto una comparsata nel mediocre Star Wars: l’Ascesa di Skywalker, nel quale interpretava per l’ennesima volta un improbabile e sempiterno Han Solo, in questa pellicola finalmente è un vecchio con la barba bianca incolta, con il volto attraversato da rughe profonde, che lasciano trasparire i suoi tormenti interiori. E lo fa in maniera convincente. Era ora. Insomma il Richiamo della Foresta è un buon film per famiglie, fatto con mestiere, che magari verrà apprezzato anche da qualche adulto che, ancora per una volta, vorrà rivivere una storia che già lo aveva fatto sognare tanti anni fa, quando era un bambino. Magie del cinema. Odio l’Estate: recensione del film di Aldo, Giovanni e
Giacomo Aldo Baglio è un ipocondriaco, che colleziona infinite assenze sul lavoro e delega tutti i lavori domestici a Carmen, sua moglie. Lei fisicamente non è certo una bellezza statuaria, ma è una brava donna, molto legata alla sua famiglia, formata da Salvo, il figlio più grande che ha avuto dei piccoli problemi con la giustizia, da Ilary e Melissa, le due figlie più piccole, e dal cane Bryan. La famiglia Baglio non nuota certo nell’oro, ma è lomolto unita. Giovanni Storti è un commerciante, che possiede un negozio di calzoleria, attività che ha ereditato dalla famiglia ma che ormai non ha più un mercato. È sposato con Paola, donna molto intelligente e pragmatica, e i due hanno una figlia, Alessia. Giacomo Poretti è un affermato dentista, completamente dedito al lavoro, sposato con Barbara, una donna molto bella ma con un carattere molto difficile. Lei ha avuto da un altra relazione Ludovico, un ragazzino preadolescente che sembra preferire alla loro presenza quella dello smartphone. La famiglia Poretti non ha nessun problema economico, ma i rapporti tra i suoi componenti non sono certo idilliaci. Tre famiglie completamente diverse, non solo per l’estrazione sociale, che si trovano a dovere condividere la stessa casa per le vacanze, a causa di un errore dell’agenzia dove la hanno prenotata. Odio l’estate: più di una semplice commedia La convivenza forzata è all’inizio motivo di attriti tra caratteri diversi e abitudini agli antipodi. Aldo e Carmen sono una coppia rumorosa e disordinata, che però si vuole bene e sa godersi la vita. Giacomo è un precisino quasi patologico, internamente divorato dall’ansia legata al prossimo fallimento
dell’attività ereditata dalla famiglia. La moglie e la figlia cercano di stargli vicino, ma lui non fa niente per venire loro incontro. Giacomo è una brava persona, ma si rende conto di non essere in grado di gestire la convivenza con il figlio preadolescente, e il suo rapporto con Barbara è molto teso. I conflitti tra le famiglie e quelli al loro interno sono occasione per regalare allo spettatore momenti di ilarità, ma va detto che Aldo, Giovanni e Giacomo non monopolizzano la scena, ma la condividono con mogli e figli, conferendo grande equilibrio al film. Che, lungi dall’essere una sequenza di gag comiche tra loro sconnesse, fornisce molti momenti di riflessione, anche perché i personaggi messi in scena non sono di certo spensierati, ma al contrario sono afflitti da problemi nei quali è facile rispecchiarsi. Questo film è una storia corale, dove i protagonisti, per molti aspetti diversissimi tra loro, evolvono contemporaneamente, offrendo mille opportunità allo spettatore per immedesimarsi nelle loro vicende. E, di conseguenza, riflettere sulle proprie. Un film nel quale l’incontro con il diverso da sè diventa un’occasione per mettersi in discussione e scoprire le cose per le quali vale veramente impegnarsi, che non sono certo il SUV della famiglia Poretti o il soggiorno in un albergo a mille stelle. Un film che, con molta leggerezza, con il filtro dell’ironia, ma senza mai deragliare nella banalità, lascia passare il messaggio che in fondo, nella vita, quello che conta è godersi le situazioni e, soprattutto, i rapporti umani con le persone che ci arricchiscono di più. Affrontando la paura di mettersi alla prova e di sbagliare. E di farlo nel presente, qui e ora, finché si può, perché il futuro è incerto. Odio l’estate: il film della maturità di Aldo, Giovanni e Giacomo Questo film segna il ritorno sul grande schermo di tre
personaggi che in Italia calcano le scene di teatro, cinema e televisione da trent’anni. Questa è la decima pellicola girata insieme dai tre attori, che segue di quattro anni la precedente Fuga da Reuma Park, del 2016, ed è stata diretta dal loro regista storico, Massimo Venier, con il quale hanno i girato i loro primi film. Un ritorno molto riuscito, che mescola abilmente ironia, momenti di riflessione e altri profondamente commoventi. Che regala allo spettatore un finale inaspettato, che conferisce a questa commedia agrodolce una dimensione profondamente umana. Un film che sembra avere levato ogni fondamento ai timori di quanti pensavano che il trio comico fosse in crisi irreversibile, dopo una serie di pellicole non eccelse e la prima che vedeva Aldo Baglio senza i suoi compagni storici, Scappo a Casa, del 2019. Aldo, Giovanni e Giacomo sembrano avere ritrovato l’intesa e la verve di un tempo, arricchita però da una inedita carica di umanità e volontà di introspezione. Come i personaggi da loro messi in scena in Odio l’Estate, hanno affrontato la paura di mettersi nuovamente alla prova. E hanno vinto. Bentornati, Aldo, Giovanni e Giacomo! Birds of Prey e la fantasmagorica rinascita di Harley Quinn: la recensione
del film di Cathy Yan Gotham City. Harley Quinn viene lasciata da Joker. L’eccentrica protagonista cerca un nuovo equilibrio interiore con metodi poco ortodossi: dopo avere spaccato le ossa all’autista del cattivo di turno, il paranoico Roman Sionis (alias Black Mask), non trova niente di meglio che fare esplodere la fabbrica chimica dove aveva avuto origine la sua storia d’amore. Questo rende evidente a polizia e malfattori vari che tra i due l’idillio è finito. Priva della protezione di Joker, Harley si trova inseguita da tutti i delinquenti con i quali ha dei conti in sospeso. La lista è molto lunga, e il rischio di finire molto male è elevato. Grazie al cielo, Harley scopre che c’è un gruppo di donne con le quali è possibile stringere una instabile alleanza per sopravvivere all’assalto dei cattivi, radunatisi a difesa degli interessi di Black Mask e del suo fido luogotenente, il
killer psicopatico Victor Zsasz. Nella scontata e prevedibile battaglia finale, che avviene in un tetro luna park abbandonato, l’eterogeneo gruppo femminile fa a pezzi l’esercito dei malvagi, formato da un’eterogenea accozzaglia di maschi pittorescamente agghindati. Uomini cattivissimi contro donne di incerta classificazione morale. Vincono le donne. I cimiteri di Gotham City probabilmente devono essere stati ampliati per accogliere i maschi deceduti in combattimento, ma il film non dice niente al riguardo, a dire il vero. Birds of Prey: un film che vorrebbe parlare di emancipazione femminile e magari fare ridere Il titolo inglese del film è Birds of Prey and the Fantabulous Emancipation of One Harley Quinn. In Italia la parola emancipation è stata resa come rinascita, ma la traduzione corretta sarebbe emancipazione. Una emancipazione sui generis, visto che passa per lo sterminio del genere maschile. In ogni caso tutte le donne del gruppo cercano di liberarsi da qualcosa. Harley Quinn vuole superare la sua sudditanza psicologica da Joker e trovare la sua strada. L’adolescente Cassanda, che per sopravvivere fa la borseggiatrice nei vicoli di Gotham City, vorrebbe liberarsi dei suoi genitori adottivi, che passano tutto il tempo a litigare. La killer Cacciatrice vuole uccidere i membri del commando che ha sterminato la sua famiglia, la cosca mafiosa dei Bertinelli, cercando nella vendetta una catarsi al suo dolore interiore. La cantante Black Canary vorrebbe costruirsi una vita al di fuori del crimine e del club del suo principale, il perfido Roman Sionis. La detective Renee Montoya è sfruttata da un capo incompetente, che le ruba tutti i successi professionali ottenuti sul campo. Un gruppo eterogeneo, ma accomunato, oltre che dall’appartenenza al genere femminile, dalla necessità di
tagliare i legami malati con figure negative, per lo più appartenenti al genere maschile. Il taglio avviene tramite una generosa dose di ultraviolenza. Le scene di combattimento sono molto coreografiche e poco splatter. A parte il luna park del finale, la Gotham City di Bird of Prey non ha niente a che fare con quella dell’universo DC Comics di Batman. Lungi dall’essere una tetra metropoli in stile gotico, permeata da un’atmosfera dark, è invece molto luminosa e variopinta. Il tutto è funzionale a sottolineare il carattere folle della protagonista, che si veste in maniera a dire poco eccentrica e che come animale da compagnia si è scelta una Iena ridens. Il tono complessivo della pellicola è leggero, e probabilmente la regista e gli attori si sono divertiti a girare questa pellicola, basata sull’azione e sulle scene di lotta. Fare divertire il pubblico è però un’altra cosa. Birds of Prey: una storia alquanto confusa Questo film ha poco o nulla a che fare con l’omonimo fumetto della DC Comics, i cui cultori probabilmente rimarranno molto delusi vedendolo. Ma questa pellicola ha un problema ancora più grosso: la debolezza della storia, la cui comprensione è resa difficoltosa anche dalla scelta di fare commentare larga parte degli accadimenti dalla voce fuori campo di Harley Quinn. Inoltre i continui flashback e flashforward non aiutano di certo lo spettatore a immergersi nel flusso narrativo, molto ondivago. Anche queste scelte sono funzionali a trasmettere allo spettatore l’eccentricità e la follia che caratterizzano la personalità disturbata della protagonista, ma l’effetto complessivo è alquanto disorientante. A meno che uno non si accontenti di godersi le scene di azione, che non mancano di certo. Anche da questo punto di vista, però, c’è un problema: la
formazione del gruppo delle Birds of Prey, premessa indispensabile per i combattimenti di gruppo, coreograficamente molto curati, avviene nel finale del film, ed è preceduta da un lunghissimo prologo senza struttura. Nel quale è facile perdersi. Birds of Prey: un film forse un po’ troppo pretenzioso Questo film è uno spin-off del precedente e mediocre Suicide Squad, scritto e diretto nel 2016 da David Ayer, nel quale Harley Quinn combatteva in una squadra di eroi cattivi dei fumetti della DC Comics, dove il sesso maschile era prevalente. Un film che venne (giustamente) trattato male dalla critica e che nel complesso costituì una delusione. Birds of Prey avrebbe voluto girare pagina, puntando sulla riscossa del genere femminile, strizzando l’occhio all’immaginario creato da film come i due Kill Bill, di Quentin Tarantino, o prima di lui dal mitico Faster Pussycat, Kill! Kill! di Russ Mayer, del 1965. In realtà si tratta di una pellicola modesta, che condivide con Suicide Squad l’amore per l’azione fine a sé stessa, che allo spettatore lascia molto poco. Non basta certo la bravura di Margot Robbie nell’interpretare Harley Quinn a compensare una sceneggiatura confusa. Circa il messaggio di emancipazione femminile che il film vorrebbe veicolare, forse vale la pena sottolineare un concetto: l’autonomia delle donne non può certo realizzarsi tramite l’eliminazione degli uomini. Nel migliore dei mondi possibili i due sessi dovrebbero convivere armoniosamente, raggiungendo obiettivi comuni. Non fronteggiarsi armi in pugno su due fronti contrapposti, combattendo fino all’ultimo sangue per la supremazia, fino al sospirato sterminio dell’odiato nemico. Altrimenti il tanto declamato superamento delle differenze di
genere si tradurrà nel semplice travaso delle caratteristiche più deleterie dei personaggi maschili dell’universo DC in nuovi personaggi femminili. Speriamo bene. Underwater: recensione del monster-movie di William Eubank con Kristen Stewart L’ingegnere meccanico Norah Price (Kristen Steward) lavora nella stazione di trivellazione Kepler 822, della Tian Inustries, una gigantesca struttura adagiata nella Fossa delle Marianne, a circa 7 miglia di profondità. All’improvviso si scatena l’inferno, a causa di quello che all’inizio sembra essere un terremoto sottomarino. Norah riesce a cavarsela, assieme a un manipolo di sopravvissuti, che include il capitano Lucien (Vincent Kassel). La situazione è disperata: il nocciolo del reattore nucleare che alimenta la stazione è in procinto di esplodere, le capsule di salvataggio non sono raggiungibili, anche il sottomarino della base è inservibile, la struttura è in procinto di collassare. A mali estremi, stremi rimedi: l’unica possibilità per cavarsela è scendere sulla superficie oceanica e raggiungere a piedi la stazione Roebuck 641. Ma già nella discesa verso il fondo dell’abisso su un malfermo elevatore, i superstiti capiscono che c’è qualcosa che non va. Qualcuno, o qualcosa, sembra aggirarsi nell’oscurità. Ma il vero orrore li attende sul fondale oceanico.
Underwater: un b-movie che riprende tutti gli stereotipi del genere La trama non è per niente originale, la situazione è simile a quella descritta in Creatura degli Abissi, e il film sembra rendere omaggio a innumerevoli pellicole analoghe che lo hanno preceduto. L’atmosfera che si respira all’inizio è quella di Alien, con i lunghi corridoi vuoti e male illuminati e i superstiti che si muovono in oscuri cunicoli. Anche la plancia di comando e la voce sintetica che risuona nell’aria, preannunciando sventure, avvicinano l’atmosfera del film a quella che si respirava sull’astronave Nostromo. I mostri umanoidi sono simili a quelli di Cloverfield, mentre le creatura più grande deve molto anche a Deep Rising. Altre pellicole la cui storia è legata alla fuga da basi sottomarine messe in crisi da creature più o meno ostili, che vengono in mente guardando Underwater, sono Leviathan e The Abyss. Insomma, niente di nuovo. I personaggi sono molto piatti e inconsistenti, con l’eccezione della protagonista, un’androgina Kristen Steward, che tuttavia all’inizio del film William Eubank si diverte a fare girare a piedi nudi nella base in disfacimento, concedendo una piccola dose di feticismo a questa pellicola. Guardando la Noah Price di Underwater viene spontaneo pensare alla leggendaria Ellen Ripley di Alien. In realtà i due personaggi sono molto diversi. Mentre Noah è una persona in crisi che deve fare i conti con il suo passato, ritrovando sé stessa durante il film, Ripley è una autentica guerriera, capace di fronteggiare e sconfiggere mostri e androidi.
I componenti maschili del manipolo di sopravvissuti sono personaggi inconsistenti, a cominciare dal capitano Lucien, interpretato da uno sprecato Vincent Cassel. In Underwater l’iniziativa appartiene alle due donne del gruppo, Norah in testa, che da vera eroina giunge a sacrificare sé stessa per gli altri. Underwater: una onesta pellicola per intrattenere il pubblico Va detto che la mancanza di spessore dei personaggi non è un problema per questa pellicola, che è concepita per intrattenere il pubblico amante di questo genere, e non certo per riflettere sulla natura umana o ragionare sul nostro ruolo nell’universo. Ovviamente c’è anche l’immancabile messaggio ecologista e l’attimo di riflessione sui limiti che l’umanità non dovrebbe violare, ma tutto questo rimane sullo sfondo di una storia che è basata non certo sui dialoghi, spesso avvilenti, quanto sull’ambiente nel quale la storia si srotola. In questo film, la tradizionale dicotomia tra natura e cultura si traduce nella differenza tra il buio carico di inquietante mistero, che caratterizza i minacciosi fondali oceanici, dove si muovono sagome inquietanti, e la luce proveniente dalle strutture della piattaforma di trivellazione, e dagli scafandri degli uomini del suo equipaggio. I protagonisti si muovono tra questi due mondi contrastanti, cercando di sopravvivere. Pochi ci riusciranno, mentre la Tian Industries riuscirà a insabbiare quanto successo, come spesso accade in questo genere di pellicole, continuando a macinare utili, fregandosene di quanti ci hanno lasciato la pelle. Si tratta di un altro cliché di questo genere cinematografico. Basti pensare alla Weyland-Yutani di Alien o alla Umbrella Corporation di Resident Evil. Metafore del nostro mondo globalizzato, dove spesso il potere economico delle grandi compagnie riesce a schiacciare gli individui e i loro diritti. Ma, ancora una volta, tutto questo rimane sullo sfondo.
Lo spettatore viene invece trascinato nella storia dall’incalzare degli eventi. Il dramma esplode subito, nel primo minuto della pellicola, e poi cresce, continuamente. Il film, che comincia come un disaster-movie, diventa un monster- movie. I personaggi devono sopravvivere, superare situazioni che richiedono azione, non dialoghi pensosi. Agire o perire. Quanto allo spettatore che ha pagato il biglietto, se è venuto a vedere un monster-movie non rimarrà deluso, specie se ama il genere e apprezza le citazioni. E poi il buon ritmo, in continuo crescendo, la curata ambientazione sottomarina, gli ambienti claustrofobici e la splendida fotografia possono regalare emozioni forti. Underwater non è certo un capolavoro, ma è un onesto b-movie che fa il suo lavoro: intrattenere il pubblico che apprezza questo genere. 1917: la recensione del film di guerra di Sam Mendes 6 aprile 1917. A due soldati britannici viene affidata una missione suicida: attraversare le linee nemiche, che si suppone essere state abbandonate dai tedeschi, e consegnare una missiva urgente che potrebbe salvare 1600 vite umane. Per uno dei due militari la missione è particolarmente importante, perché nel reggimento che potrebbe cadere in una trappola mortale combatte il proprio fratello. Il film è liberamente tratto da una storia vera, in quanto basato sul racconto del nonno del regista, Alfred Mendes, che realmente combatté nella Prima guerra mondiale, e al quale il film è dedicato.
Un racconto di per sé molto asciutto, che non sembra essere molto interessato a mostrare le inimmaginabili atrocità della Grande Guerra, o ad approfondire dettagli storici, ma che regala un’esperienza immersiva allo spettatore, che grazie a una eccellente fotografia e all’uso sistematico del piano sequenza viene letteralmente trasportato nel racconto. 1917: un film tecnicamente eccezionale La povertà della storia narrata è però ampiamente compensata dal livello tecnico stellare della pellicola. Mendes tuttavia non ha utilizzato ritmi forsennati o fatto uso di effetti speciali mozzafiato, come attualmente sembra essere molto di moda nei blockbuster. Al contrario, la narrazione scorre lentamente, per un film di guerra, e le scene splatter o truculente vengono utilizzate con parsimonia, tenendo conto che stiamo parlando degli orrori della Prima guerra mondiale. In pratica, il film è un unico piano sequenza, in quanto è molto difficile distinguere le diverse riprese. Inoltre la telecamera è per la maggior parte del tempo all’altezza dei due protagonisti. Lo spettatore trascorre virtualmente tutto il film di fianco ai due soldati inglesi, ed è molto arduo non rimanere rapiti da quanto viene narrato. Anche perché la fotografia è di altissima qualità. In particolare i combattimenti notturni nella cittadina francese di Ecoust hanno una resa eccezionale, conferendo a quella
parte del film una dimensione quasi metafisica. L’effetto è quindi immersivo, e sottolinea la dimensione umana dei protagonisti, piuttosto che gli accadimenti bellici, e la stessa ricostruzione storica degli eventi narrati, peraltro ineccepibile, passa in secondo piano. 1917: un film semplice che funziona Questa pellicola ha una sceneggiatura molto semplice e lineare, non sembra volere veicolare nessun messaggio particolare, e sicuramente non può essere paragonata a capolavori del cinema che con essa condividono l’ambientazione storica, come Orizzonti di Gloria, di Stanley Kubrick, del 1957. Mendes non sembra neanche interessato a porsi domande metafisiche sul significato della guerra, o su come questa alteri il rapporto dell’uomo con la natura, come ha fatto Malik con il suo complesso La Sottile Linea Rossa, del 1998. Il regista non indugia neanche sulla sete di gloria e l’imbecillità degli alti comandi, come il già citato Orizzonti di Gloria, né perde tempo a sottolineare le deviazioni umane e le perversioni che la guerra inevitabilmente alimenta
nell’animo umano, come accade in Full Metal Jacket, sempre di Stanley Kubrick, del 1987. Semmai questo film può essere concettualmente accostato a Salvate il Soldato Rayan, di Steven Spielberg, del 1998. In entrambe le pellicole quello che mette in moto la storia è la necessità di salvare vite umane al fronte, e il loro scopo sembra essere semplicemente quello di coinvolgere emotivamente nella narrazione, piuttosto che veicolare messaggi complessi. Certo, in 1917 non c’è niente di neanche lontanamente paragonabile alla sequenza iniziale di Salvate il Soldato Rayan, dove l’orrore di quanto accade sulla spiaggia di Omaha Beach, durante lo sbarco in Normandia, viene buttato in faccia allo spettatore con spietata crudezza. Sam Mendes non sembra essere interessato neanche a fare vedere fino in fondo la crudeltà della guerra e le sofferenze inumane che infligge a combattenti e civili. In compenso riesce a coinvolgere lo spettatore in una storia molto semplice, utilizzando inquadrature accuratamente studiate, una fotografia di alto livello, musiche efficaci e utilizzando in maniera magistrale il piano sequenza. 1917: un film da vedere Lo spettatore vien rapito dalla narrazione, quasi sospeso nell’eterno presente della storia che scorre sullo schermo, e non può che immedesimarsi nei due protagonisti (efficacemente interpretati da Dean-Charles Chapman e George MacKay), due ragazzi che la guerra ha strappato dalle loro famiglie e scaraventato al fronte. Due persone molto differenti caratterialmente ma accomunate da una visione molto semplice della vita, lontana da ogni intellettualismo, concentrati sull’unica cosa che può interessare un uomo al fronte: sopravvivere. E i due protagonisti sembrano condividere con il regista la
lontananza da ogni sovrastruttura ideologica. Tanto che nel film, per una volta, il nemico non è una figura ambigua, di difficile lettura, moralmente oscillante in una indistinta zona grigia, ma è semplicemente il cattivo da combattere. Per non essere uccisi. Mentre gli inglesi sono i buoni. Una visione manichea che forse farà torcere il naso a qualche fine intellettuale, ma che è senz’altro funzionale allo scopo di questa pellicola, che è coinvolgere lo spettatore in una storia molto semplice, utilizzando con maestria la tecnica cinematografica. Tra l’altro questa scelta finisce per sottolineare l’assoluta imbecillità della guerra, dove l’unica possibilità è di uccidere per non essere uccisi. Una visione del mondo ristretta, è vero, ma che forse bene rispecchia la drammatica realtà di chi, in quegli anni terribili, si ritrovava al fronte, dove tra un assalto frontale e l’altro sicuramente non c’era molto spazio per fini intellettualismi. 1917 è candidato a 10 Oscar. Forse troppo per questa pellicola, che comunque vale tutti i soldi del biglietto d’ingresso. Per una volta, viva la tecnica e chissenefrega della storia raccontata. Il cinema è anche questo. Richard Jewell: recensione del film di Clint Eastwood Con questa sua ottima pellicola, il quasi novantenne Clint Eastwood mette in scena con grande efficacia un altro dei suoi antieroi, ispirandosi a fatti accaduti veramente. Dimostrando ancora una volta il suo spessore come regista.
Richard Jewell, il protagonista che dà il nome alla pellicola, è una guardia di sicurezza che, durante le Olimpiadi estive del 1996 ad Atlanta, in Georgia, scopre uno zaino contenente un ordigno esplosivo in un parco. Il suo intervento evita una strage, e gli fa guadagnare gli onori della cronaca. I media prima lo osannano come un eroe, poi lo accusano di essere il probabile autore dell’attentato, precipitando la sua vita nell’abisso. L’intervento di un avvocato gli permetterà di riabilitarsi. Il film narra quanto accaduto dall’attentato fino al 2007, quando viene scoperto e condannato il vero autore dell’atto criminale. Richard Jewell: un vero antieroe Richard Jewell è un ragazzone sovrappeso, con problemi di salute, ossessionato dall’ambizione di diventare un poliziotto. Sebbene abbia più di trent’anni, vive ancora con
l’anziana madre, alla quale è molto legato. Per alcuni versi incarna molti stereotipi statunitensi: si ingozza di junk food, fatto che è alla base dei suoi problemi fisici, possiede un arsenale e ama le armi, non paga le tasse, è atterrito dall’idea di venire considerato un omosessuale. In evidente sovrappeso, sgraziato nei movimenti e intellettualmente non superdotato, tanto che viene spesso dileggiato dai colleghi, è tuttavia una persona intimamente buona, caratterizzata da un alto senso della giustizia e sempre pronta a mettersi al servizio degli altri. Il suo maniacale senso del dovere e la perfetta conoscenza delle procedure sono i fattori che gli permettono di scoprire la bomba e di salvare molte vite umane. Con un fisico sgraziato e le fattezze di un bambinone, preso in giro da tutti, Richard è nella sua essenza una persona con un cuore d’oro, con un alto senso delle istituzioni e pronto ad affrontare ogni pericolo per proteggere gli altri. Ha pochi amici. Solo l’anziana madre e un avvocato sul viale del tramonto, Watson Bryant, lo stimano veramente. Richard Jewell: un film contro l’abuso di potere delle istituzioni È proprio Bryant che lo mette in guardia, all’inizio del film, dal pericolo di diventare uno stronzo non appena si acquisisce un minimo di potere. Le persone che cercheranno di annientare il protagonista sono il suo opposto: belli fisicamente, brillanti intellettualmente, ma bacati dentro. Kathy Scruggs è una reporter avvenente e spregiudicata, che fiuta subito la ghiotta occasione di creare un caso giornalistico sulle indagini, appena avviate dall’FBI, sul conto di Richard Jewell. In effetti il profilo psicologico del probabile bombarolo di Atlanta coincide con le caratteristiche di Richard: un maschio frustrato, amante delle armi, in cerca di notorietà per
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