Tales from the Loop - Recensione dell'ultima serie prodotta dagli Amazon Studios - Il Discorso

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Tales from the Loop - Recensione dell'ultima serie prodotta dagli Amazon Studios - Il Discorso
Tales   from   the   Loop   –
Recensione dell’ultima serie
prodotta dagli Amazon Studios

La storia raccontata da questa serie è ambientata in
una cittadina della provincia americana negli anni
Ottanta, che ospita un misterioso centro di ricerca,
nel quale avvengono esperimenti circondati dal
massimo riserbo, destinati ad avere un impatto
pesante su molti dei suoi abitanti.

Riassunto così, il racconto sembrerebbe la fotocopia
di quello di Stanger Things, serie di Netflix che ha
riscosso un successo clamoroso, e che è già arrivata
alla sua terza edizione.

In realtà le differenze tra Stranger Things e Tales
from the Loop sono sostanziali, anche se entrambe
possono    essere    classificate     nel   genere
fantascientifico. La serie di Neftlix è una
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accattivante storia di azione, che vede un gruppo di
ragazzi lottare contro un mostro proveniente da un
universo parallelo. Quella proposta dagli Amazon
Studios ha un ritmo molto più lento e una struttura
molto più frammentata, divisa in otto episodi
autonomi, che hanno in comune molti personaggi, di
cui si può seguire l’evoluzione nel tempo. Una serie
che privilegia il non detto e mette al centro gli
esseri umani, utilizzando un repertorio visivo
ammaliante. Un quadro del tutto differente da quello
dipinto da Stanger Things.

Tales from the Loop: una rappresentazione
alternativa dell’America degli anni Ottanta
The Loop è il nome di un misterioso centro di
ricerca sotterraneo, costruito sotto una cittadina
statunitense, che dà lavoro a molti dei suoi
abitanti. Gli studi ruotano intorno a una enigmatica
sfera pulsante, che levita in una stanza super-
protetta, della cui natura poco o niente viene
spiegato.

La sua attività ha effetti incredibili sugli
abitanti della cittadina, nella quale accadono fatti
razionalmente inspiegabili, per lo più legati ad
alterazioni dello spazio-tempo. Tuttavia non c’è
(quasi) nessun mostro in agguato nell’ombra, contro
cui combattere, e i momenti di paura si contano
veramente sulle dita di una mano, a differenza di
quanto accade in Stranger Things.

La fantascienza in questa serie non è al servizio
dell’azione, ma è un pretesto per creare situazioni
nelle quali gli individui vengono messi alla prova
come esseri umani, nei loro rapporti interpersonali,
a cominciare da quelli familiari.
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Ogni episodio getta una luce sulla vita personale di
uno o più personaggi, molti dei quali diventano
comparse, o figure meno rilevanti, nelle puntate
dove non sono protagonisti. Nel complesso gli otto
episodi in cui si articola questa prima stagione
aprono una finestra sulla vita di diverse famiglie
nel corso di un lungo periodo attorno agli anni
Ottanta.

Le ellissi temporali sono notevoli, grazie anche
agli inesplicabili fenomeni di alterazione dello
spazio-tempo che l’enigmatica attività del centro
provoca.

In questa serie viene mostrato molto, ma spiegato
poco. Per esempio, nelle campagne che circondano la
cittadina si aggirano robot e strutture dallo scopo
ignoto, ma nessuno sembra farci caso. Così come
viene dato per scontato l’utilizzo di arti
artificiali    straordinariamente     sofisticati,
impensabili anche al giorno d’oggi.

La serie è quindi ambientata in una versione
alternativa dell’America degli anni Ottanta, che
rimane tuttavia riconoscibile osservando le
autovetture, lo stile dei vestiti, delle abitazioni
e degli arredamenti.

Tales from the Loop: una scenografia affascinante
basata sulle opere di Simon Stalenhag
Forse l’aspetto più intrigante di questa serie è la
dimensione visiva, che si ispira dichiaratamente
alle opere di Simon Stalenhg. I vari personaggi si
muovono nella periferia di una cittadina
perfettamente integrata nella natura che la
circonda.
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I boschi e i campi trasudano mistero e sono carichi
di suggestioni, possono rendere inquieti ma
raramente terrorizzano chi li attraversa, e chi li
guarda comodamente seduto sul divano di casa sua.

Immersi nel verde ci sono diversi manufatti che
derivano dall’attività del misterioso centro di
ricerca. Poco o nulla ci viene rivelato sul perché
siano lì o per quale motivo siano stati costruiti e
poi scartati, ma è proprio interagendo con essi che
i protagonisti attivano il meccanismo narrativo dei
vari episodi.

In Tales from the Loop è però difficile vedere una
cesura tra natura e cultura, perché questi due
aspetti sono fusi in un insieme armonico, grazie
anche all’apparato iconografico creato da Simon
Stalenhag, nel quale le meraviglie della tecnologia
futuribile sono solo un pretesto per indagare sulla
natura dell’uomo e della sua esistenza.

Il ritmo della narrazione è molto lento, lasciando
agli spettatori tutto il tempo per immergersi nelle
esperienze dei protagonisti, vivere le loro
suggestioni e apprezzare la bellezza degli scenari
nei quali si muovono.

In questa produzione viene infatti fatto largo uso
dei campi lunghi, nei quali l’uomo spesso sembra
perdersi in paesaggi costellati da oggetti
enigmatici, probabile metafora di un’esistenza della
quale è difficile trovare un senso razionale.

Tales from the Loop: una serie di qualità per un
pubblico maturo
Con questa serie gli Amazon Studios hanno dimostrato
di essere in grado di realizzare prodotti di grande
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qualità. Tales from the Loop utilizza la
fantascienza come pretesto per indagare sulla natura
umana, perché le anomalie spazio-temporali che il
centro di ricerca produce costringono chi li subisce
ad affrontare temi molto concreti, sui quali ci
interroghiamo da sempre: l’amicizia, il rapporto tra
genitori e figli, la difficoltà nei rapporti tra
generazioni diverse, la fugacità della vita,
l’inevitabilità della vecchiaia e della morte.

Un lavoro esistenzialista nei contenuti e
impressionista nella forma, il cui unico limite
forse risiede nel fatto che alle volte ci si perde
nelle suggestioni visive. Qualcuno potrebbe poi
obiettare che non serve utilizzare la fantascienza
per parlare della dimensione umana e del male di
vivere che spesso ci attanaglia, ma la scelta di
utilizzarla ha permesso di utilizzare un immaginario
visivo dal forte impatto emotivo.

Tanto di cappello comunque, per una serie veramente
originale, curata nei minimi dettagli, destinata a
un pubblico maturo. Con produzioni di questo tipo le
piattaforme di streaming diventano veramente
competitive nei confronti del cinema, non solo sotto
il profilo dei costi, ma anche della qualità.

Confronto tra due film che
hanno affrontato il tema
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delle pandemie: recensione
comparata di Virus Letale e
Contagion

Due pellicole che hanno messo in scena in modo differente come le
epidemie vengono affrontate dalla scienza e dalla società

Mentre il Coronavirus ci costringe a casa, uno dei modi utili con il
quale possiamo passare il tempo è osservare come il cinema ha
rappresentato la società messa in crisi dalle epidemie. A tale scopo è
interessante confrontare due pellicole che alla loro uscita hanno
riscosso un discreto successo: Contagion, di Steven Soderbergh, del
2011, e Virus Letale, di Wolfang Petersen, del 1995. Due pellicole
che, a modo loro, hanno cercato di descrivere questo tema con
consapevole verosimiglianza, senza debordare nel campo della pura
fantascienza o usare gli effetti di un virus come pretesto per
trastullare il pubblico con scene gore.

I due film sono usciti a distanza di 16 anni, ed è anche interessante
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analizzare come i profondi cambiamenti avvenuti nel mondo in questo
periodo trovano un riscontro in quanto messo in scena. Virus Letale è
stato uno dei primi film che ha cercato di dare allo spettatore la
possibilità di guardare in maniera realistica, e con grande dispendio
di mezzi, il mondo dei microrganismi e dei laboratori microbiologici,
mentre Contagion è stato probabilmente il primo a cercare di
descrivere   in   modo   verosimile    come   una   pandemia   potrebbe
effettivamente dilagare sul nostro pianeta, dando ampio spazio agli
aspetti sociali. Entrambi i film, ovviamente, rispecchiano il periodo
storico nel quale sono stati girati.

Virus Letale vs Contagion: dalla guerra fredda al mondo globalizzato e
interconnesso

Il muro di Berlino è caduto nel 1989, mentre Contagion è uscito nel
1995. Il nemico non è più dietro la cortina di ferro, e nel cinema la
minaccia aliena, che a partire dagli anni Cinquanta ha sublimato la
paura della guerra atomica e dell’infiltrazione di agenti nemici nella
società statunitense, è ormai iperinflazionata. Hollywood è alla
ricerca di qualcosa di nuovo per intrattenere il pubblico.

La paura delle epidemie è una buona soluzione, visto che al cinema ne
è stato fatto un utilizzo alquanto parco fino a quel momento, per lo
più limitato a film di fantascienza, o dell’orrore, che descrivono
situazioni evidentemente non realistiche. Due esempi tra tutti:
Andromeda, di Robert Wise, del 1971, dove una team di scienziati
indaga su un microrganismo mortale di origine extraterrestre, e
l’ormai mitico La città sarà distrutta all’alba, di George A. Romero,
del 1973 (del quale è stato fatto un remake nel 2010), nel quale
un’arma biologica provoca una follia di massa nella solita cittadina
della profonda provincia americana.

Nessuno aveva ancora cercato di descrivere una situazione più
realistica e verosimile. Inoltre la presenza in Africa di virus
altamente letali, come l’Ebola, cominciava a essere nota al grande
pubblico, e offriva una inedita opportunità per mettere in scena una
minaccia subdola e credibile per il cittadino occidentale.

In Contagion è proprio un virus simile all’Ebola che mette in pericolo
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la solita tranquilla cittadina della provincia americana, per tramite
di una scimmietta incautamente importata dal continente nero, che
costituisce il vettore del morbo. Il nome del virus, Motaba, è
identico a quello di un affluente del fiume Ebola, che ha dato il nome
al virus esistente nel mondo reale. Questo morbo, nella finzione
cinematografica,     ha   gli   stessi   effetti   devastanti   dell’Ebola,
provocando una febbre emorragica che porta alla liquefazione degli
organi interni degli infettati, ma ha anche la capacità di diffondersi
per via aerea, rendendolo quindi una minaccia devastante.

Così devastante che il governo statunitense è pronto a radere al suolo
la cittadina per estirpare il morbo ed eliminare il pericolo. Ma viene
scoperto l’arcano: in realtà la decisione è stata presa perché il
Presidente è stato ingannato da alcuni ufficiali, che cercano di
coprire l’esistenza di un’arma biologica, che altro non è che una
variante meno virulenta del virus Motaba. Grazie al solito eroico
ufficiale, il Colonnello Sam Daniels (Dustin Hoffman), il complotto
viene scoperto e sventato. Come al solito, il bene trionfa e l’ordine
viene ristabilito.

Si tratta di un film dalla struttura classica, inquadrabile nel frame
dei film tipici della guerra fredda, dove la piccola cittadina della
provincia americana rappresenta la società statunitense, il cui
ordinato funzionamento viene surrettiziamente alterato da un subdolo
nemico esterno, in questo caso un virus che viene dall’Africa. Nulla
di nuovo sotto il sole, a cominciare dalla possibilità di radere al
suolo la cittadina minacciata, presente anche nelle narrazioni dei
succitati Andromeda e La Città Verrà Distrutta all’Alba. Ovviamente il
problema viene risolto in casa, dall’esercito statunitense.

Lo scenario cambia completamente in Contagion. Film figlio del nuovo
millennio, dove gli Stati Uniti d’America sembrano non essere più la
potenza egemone, e gli equilibri geopolitici si spostano dando sempre
più peso all’Asia in generale e alla Cina in particolare. Un mondo
sempre più interconnesso e interdipendente, diventato un ambiente
ideale per diffondere morbi sul pianeta.
Virus Letale vs Contagion: due diverse rappresentazioni della società
e della scienza

Ed è proprio dall’Asia che il nuovo virus fa rapidamente il giro del
globo, grazie alla possibilità di viaggiare facilmente in aereo tra un
continente all’altro. E la pandemia globale richiede una risposta
globale.

Se in Virus Letale il problema viene risolto nell’ambito dell’USARMIID
(Istituto di Ricerca Medica sulle Malattie Infettive dell’Esercito
degli Stati Uniti), in Contagion il CDC (Centro per la Prevenzione e
il Controllo delle Malattie) statunitense lavora a braccetto con l’OMS
(Organizzazione Mondiale della Sanità). Nel primo caso la scienza è
completamente asservita al potere militare statunitense, a cui deve
rendere conto, nel secondo è una istituzione libera e sovranazionale,
mentre è l’esercito ad avere una funzione ancillare di mantenimento
dell’ordine pubblico e di assistenza alle popolazioni flagellate dal
morbo. Un cambio di prospettiva radicale.

Ancora più profonda è la differenza nella rappresentazione della
società. Virus Letale rimane prevalentemente focalizzato sulla piccola
provincia americana, nella quale impera lo stereotipo della famiglia
tradizionale e laboriosa che difende il proprio status quo, se serve
anche con le armi in pugno. In Contagion viene invece rappresentata
una società globale e interconnessa, dove la famiglia tradizionale è
in piena crisi (il paziente zero è una giovane donna in carriera che
ha una relazione extraconiugale) e nella quale dominano i social
network, ovviamente assenti nel film di Wolfang Petersen.

E questo lo si capisce subito non solo dai differenti cellulari e
personal computer utilizzati dai personaggi, ma dalla prepotente
comparsa delle fake news, che proprio nei social network hanno trovato
un potente mezzo di proliferazione. Il personaggio del blogger Alan
Krumwiede (Jude Law) incarna il lato oscuro di Internet, mettendo in
scena un personaggio spregiudicato, che cavalca tramite i social
network la paura della gente, a cui cerca di vendere un improbabile
rimedio    omeopatico   per   curare   il   morbo,   alimentando   teorie
cospirazioniste sulla convivenza tra Big Farma e le istituzioni che
dovrebbero tutelare gli interessi dei cittadini.
In Contagion la scienza deve lottare non solo contro il virus
patogeno, ma anche contro il mondo delle fake news, elemento invece
trascurabile in Virus Letale. La cosa curiosa è che proprio i film
come Virus Letale hanno contribuito ad alimentare nell’immaginario
collettivo il substrato complottista su cui possono proliferare certe
fake news. L’idea che istituzioni deviate possano macchiarsi di
qualsiasi crimine pur di perseguire il proprio interesse è stata
ampiamente utilizzata nel cinema nei decenni passati. Basti pensare
anche al succitato cult movie La città sarà distrutta all’alba, nel
quale il governo e l’esercito statunitensi fanno l’impossibile per
nascondere all’opinione pubblica la fuoriuscita di una pericolosa arma
biologica, arrivando a distruggere un’intera cittadina e i suoi
innocenti abitanti.

In altre parole Virus Letale e Contagion sono la dimostrazione pratica
di come il cinema sia capace di influenzare la società nella quale
viene girato e rappresentato, e sia da quest’ultima influenzato, in un
meccanismo circolare.

In questo periodo che per molti è di forzata inattività a causa della
COVID-19, guardare queste due pellicole può essere un occasione per
riflettere su questi aspetti. Sono due film che hanno molti aspetti in
comune, oltre al fatto che parlano di pandemie: hanno un cast
stellare, sono fatti con mestiere, pur non essendo dei capolavori, e
quando sono usciti sono state le pellicole che forse hanno cercato di
rappresentare il mondo dei virus e della microbiologia nel modo più
verosimile possibile. Certo, sono usciti a 16 anni di distanza l’uno
dall’altro, ma questo è un motivo in più per vederli entrambi: per
rendersi conto di quanto cinema e società siano inestricabilmente
intrecciati, e si rispecchiano l’uno nell’altro.
The Grudge: la recensione del
reboot di Nicolas Pesce,
ultimo capitolo della saga
nata con Ju-on

Tutto ebbe origine nel 2000, quando uscì Ju-on, di
Takashi Shimizu. Un film a basso budget, destinato
al solo mercato home-video, che diede origine a una
saga di film dell’orrore, creando il mito di Kayako
Saeki. Questo personaggio incarna uno stereotipo del
folklore giapponese, l’onryō, una sorta di fantasma,
di solito di sesso femminile, che vaga sulla terra
in cerca di vendetta. La pellicola ottenne un
successo inaspettato, tanto che ne venne fatta nello
stesso anno una versione per il cinema, seguita da
un sequel, Ju-on 2, e nel 2004 da un remake
americano, The Grudge, seguito da diversi altri
sequel.

Il reboot di Nicolas Pesce, prodotto da Sam Raimi,
potrebbe in realtà anche essere considerato un
sequel, ed è l’ultimo capitolo di questa saga,
uscito vent’anni dopo l’originale Ju-on, in piena
emergenza Coronavirus.

La storia incomincia quando Fiona Landers lascia la
sua casa a Tokyo, per trasferirsi in una piccola
cittadina     della   provincia    americana,    in
Pennsylvania, al numero civico 44 di Rayburn Drive.
Lei non ne è consapevole, ma si porta dietro la
maledizione che aveva dimora nella sua abitazione
orientale, che la spinge a massacrare figlia e
marito, prima di suicidarsi. Ma la maledizione
continua    a   infestare    la  casa,    colpendo
inesorabilmente chiunque vi metta piede.

Il nome del film da cui la saga si è originata, Ju-
on, in giapponese significa rancore (grudge in
inglese), e allude a un’altra credenza locale, per
cui se uno muore in preda a una furia cieca,
accumula energia negativa nel luogo ove avviene il
fattaccio, che ne rimane contaminato per sempre,
dando origine a una maledizione. Una maledizione che
si diffonde come un virus, seminando orrore e morti
atroci. Tutti i film della serie ruotano attorno a
questa credenza popolare giapponese, dimostrando per
l’ennesima volta l’inestricabile intreccio tra
cinema, cultura e società.

The Grudge: una storia che si dipana su diversi
piani temporali
La storia è ambientata tra il 2004 e il 2006, e
scorre su tre piani temporali principali. La
protagonista del film può essere considerata la
detective Muldoon, interpretata dalla brava Andrea
Riseborough, che si trova a indagare su un
misterioso incidente, nel quale ha perso la vita una
donna legata ai terribili eventi in Rayburn Drive.

Parallelamente si possono seguire i tragici fatti
accaduti nella casa infestata, che ha ereditato la
maledizione di Kayako Saeki, travasatasi nel corpo
di Fiona Landers. Assistiamo quindi alla mattanza
dei coniugi Peter e Nina Spencer, titolari di
un’agenzia immobiliare che cerca di mettere in
vendita la casa al numero 44 di Rayburn Drive, che
stanno attraversando una crisi coniugale legata alla
difficile gravidanza di Nina. I loro problemi
troveranno un tragico epilogo.

Il terzo piano temporale descrive i tragici fatti
accaduti alla famiglia Matheson, formata da due
anziani, che si trovano a dovere affrontare una
tragica situazione: lei è una malata terminale, e il
suo consorte pensa bene di chiamare un persona
esperta in eutanasia per aiutare la moglie ad
andarsene senza soffrire. Il demone che possiede la
casa ha però un’idea diversa su come gestire la
faccenda, che terminerà in un lago di sangue.

Le tre storie si intrecciano, mantenendo sullo
sfondo il massacro della famiglia di Fiona Landers,
suicidatasi tagliandosi la gola dopo avere
barbaramente massacrato la sua famigliola.

Insomma, il film è un’ordalia di mattanze che si
intersecano, e seguirle in parallelo non è facile
per uno spettatore, anche perché il numero dei
personaggi coinvolti è esorbitante.
The Grudge: un reboot non all’altezza dei primi film
della saga
L’affollamento di personaggi che si contendono la
scena non permette certo di approfondire il loro
spessore psicologico, anche perché vengono in genere
macellati vivi prima che si possa creare qualche
empatia con loro.

Da questo punto di vista, le morti atroci che si
susseguono lungo la storia alle volte sembrano fuori
luogo, sia perché troppo prevedibili, sia perché
spezzano la narrazione, rendendo difficile la
comprensione del racconto, che salta continuamente
tra un piano temporale e l’altro.

Fiona Sanders, è bene sottolinearlo chiaramente, non
è in grado di sostituire con efficacia l’originale
Kayako Saeki, diventata ormai una icona del genere
horror. Pensare di fare un reboot eliminando quella
che è diventata la bandiera della saga, che
probabilmente è rimasta scolpita nell’immaginario
collettivo occidentale proprio in quanto appartenete
a una altra cultura, che utilizza un repertorio
iconico differente dal nostro, è forse uno degli
errori più grossi fatti nel concepire questa
pellicola.

Nel film sono ovviamente presenti delle scene che
citano la versione originale, come la comparsa dello
spettro ai piedi del letto o la vasca da bagno
riempita con acqua scura, da cui emerge l’entità
malefica. Lungi dal ricreare l’effetto delle scene
originali, in questo reboot diventano dei sbiaditi
déjà-vu, destinati a rendere più prevedibili delle
scene che dovrebbero invece sorprendere e
terrorizzare lo spettatore.
Che dopo un po’ può anche cominciare a sbadigliare,
dal momento che seguire l’intreccio delle storie che
si intersecano richiede un impegno cognitivo non
indifferente. Visto che il film non ripaga lo
sforzo, non proponendo nulla di nuovo e originale, è
molto probabile che lo spettatore dopo una
mezz’oretta cominci a pensare alla lista della
spesa.

Peccato, anche perché la recitazione è di buon
livello, in particolare quella della protagonista,
l’attrice britannica Andrea Riseborough, e quella di
Demian Bichir, che interpreta il suo collega,
Goodman. Personaggio, quest’ultimo, detto per
inciso, al quale si fatica a trovare una funzione
narrativa.

Il The Grudge di Nicolas Pesce è l’ennesima
testimonianza di quanto la moda di riciclare
continuamente i miti cinematografici del passato sia
spesso un’operazione destinata a lasciare lo
spettatore con l’amaro in bocca, anche se il
produttore può assaporare un discreto successo al
botteghino.

Tra l’altro Sam Raimi si è anche risparmiato la
fatica di aggiungere un numero alla fine del titolo,
cosa che creerà qualche problema a chi deve, o
vuole, tenere la contabilità dei film di questa
saga. Ma forse è meglio così: di questa pellicola
tra un mese non si ricorderà più nessuno, e forse
non vale la pena distinguere tra i vari sequel,
reboot, cross-over, spin-off e chi più ne ha più ne
metta.

Film che, inspiegabilmente, continuano a dare spesso
molte soddisfazioni economiche ai loro produttori.
Misteri del cinema.
Il Richiamo della Foresta:
recensione del film di Chris
Sanders con Harrison Ford

Buck è un cane di grossa taglia, molto forte e dal cuore
generoso. Vive in una tranquilla cittadina e il suo padrone è
il giudice Miller, per cui vive una vita tranquilla
nell’assolata California, e le sue esuberanze sono sempre
tollerate dagli umani che lo circondano.

Tuttavia un losco figuro lo rapisce, sottraendolo alla sua
spensierata esistenza, per venderlo come cane da slitta. Buck
si ritrova catapultato in una realtà completamente diversa e
ostile, dove conosce il lato oscuro dell’uomo, e viene ridotto
all’obbedienza a bastonate. La dura “legge della zanna e del
bastone”.

Si ritrova a spingere la slitta, facente parte una muta di
cani, nelle innevate montagne dello Yukon, in Canada, dove la
corsa all’oro sta richiamando molta gente in cerca di fortuna.
Riesce a imporsi come capo della muta, guadagnandosi il
rispetto e la fiducia non solo degli altri cani, ma anche
degli uomini per cui lavora, impegnati a trasportare la posta
negli sperduti villaggi persi tra le vette ricoperte di neve.

L’arrivo del telegrafo rende obsoleto l’uso delle lettere
cartacee come mezzo di comunicazione, per cui la muta di cani
alla quale appartiene Buck viene venduta a uno spregiudicato
cercatore d’oro. Costui tratta gli animali in modo orribile,
arrivando quasi a uccidere Buck. Questi viene salvato in
extremis da un vecchio solitario, John Thornton (impersonato
da un ottimo Harrison Ford), che lo porterà con sé in un
viaggio che per Buck sarà una riscoperta delle sue radici e
della sua anima.

Il Richiamo della Foresta: l’ennesimo adattamento del romanzo
di Jack London

Il film è liberamente tratto dall’omonimo capolavoro di Jack
London, pubblicato nel lontano 1904, che ha conosciuto
innumerevoli adattamenti per il grande e per il piccolo
schermo. Il protagonista della storia è indubbiamente il cane
Buck, mentre gli esseri umani sono in definitiva dei
comprimari, anche quando vengono interpretati da un mito del
cinema come Harrison Ford.

La storia ruota intorno all’eterno dualismo tra natura e
cultura, declinata in questo caso come opposizione tra la vita
nelle selvagge foreste del Klondike, dura ma coerente con le
aspirazioni interiori di Buck, e l’esistenza tranquilla e
agiata, ma inconsistente e vacua, che il giudice Miller
potrebbe garantirgli nella sua tranquilla magione.

Il viaggio dall’assolata California alle tempeste di neve
dello Jukon è una metafora di quello interiore del
personaggio, che da goffo cane di compagnia diventa un
rispettato e temuto capo di un branco di lupi, nel quale
troverà anche la sua compagna.

Le prove da superare sono molto dure: Buck non deve solo
sopravvivere ai trattamenti spesso inumani a lui riservati
dagli uomini, ma deve anche scoprire e affrontare le
difficoltà della natura selvaggia, meravigliosa ma ostile,
alla quale in realtà appartiene. A cominciare dal capo della
muta, Spitz, che dovrà affrontare in uno scontro mortale. Nel
libro Buck deve ucciderlo, mentre in questa versione è Spitz
ad allontanarsi dal gruppo, dopo essere stato battuto.

L’essere umano in questa storia ha una funzione ambivalente.
Ci sono figure bonarie, come il giudice Miller, ci sono
personaggi del tutto negativi, ma c’è anche John Thornton, la
cui figura è per Buck una guida verso la scoperta di sé
stesso. Difficile non immedesimarsi nel protagonista di questo
racconto, che in definitiva è nato come romanzo di formazione.

Il Richiamo della Foresta: un uso intelligente ed equilibrato
della computer grafica

La CGI (Computer Generated Imagery) ha permesso di umanizzare
i personaggi canini, a cominciare da Buck, quel tanto che
basta per rendere molto più facile immedesimarsi nel
protagonista della storia. Senza eccessi, però.

Certo, viene spontaneo chiedersi se sia necessario usare
animali creati al computer. In fondo in molte pellicole del
passato erano stati utilizzati animali addestrati, con
risultati non disprezzabili. Ma bisogna ammettere che in
questo film i cani, specie nei primi piani, hanno espressioni
quasi umane, che nessun animale potrebbe mai riprodurre,
rendendoli molto più credibili come personaggi, specie per
quanto riguarda Buck.

Inoltre c’è un altro aspetto apprezzabile: utilizzare animali
virtuali permette di realizzare scene molto impegnative senza
ferire o metter a rischio creature viventi, aspetto di non
poco conto quando si tratta di girare scene dove queste ultime
soffrono, vengono ferite o maltrattate.

Indubbiamente la computer grafica ha inoltre contribuito non
poco a rendere quasi magiche le scene dove la natura è la vera
protagonista, contribuendo a facilitare l’immersione dello
spettatore nella storia narrata.

Il Richiamo della Foresta: un buon film per famiglie

Ci sono diversi motivi per pensare che questo film rapisca il
pubblico per il quale è stato concepito, che sono i bambini e
i loro genitori. Innanzitutto questa pellicola è sorretta da
una storia che funziona, che è stata scritta più di cent’anni
fa e che non per niente è diventata un classico della
letteratura mondiale.

Questo racconto di formazione veicola anche un forte messaggio
di rispetto della natura e degli animali, che questa versione
digitalizzata ha reso molto più umani, cosa che probabilmente
sarà molto gradita dai più piccoli. Il film è inoltre sorretto
da un buon ritmo, è molto equilibrato e scorre piacevolmente
sullo schermo. Non per niente è stato girato da un regista,
Chris Sanders, che finora ha realizzato solo film di
animazione.

Apprezzabile anche l’interpretazione di Harrison Ford, che
finalmente sembra avere accettato l’idea che il tempo passa
per tutti, e non è possibile impersonare solo personaggi
giovanili, dinamici e vincenti. Dopo avere fatto una
comparsata nel mediocre Star Wars: l’Ascesa di Skywalker, nel
quale interpretava per l’ennesima volta un improbabile e
sempiterno Han Solo, in questa pellicola finalmente è un
vecchio con la barba bianca incolta, con il volto attraversato
da rughe profonde, che lasciano trasparire i suoi tormenti
interiori. E lo fa in maniera convincente. Era ora.

Insomma il Richiamo della Foresta è un buon film per famiglie,
fatto con mestiere, che magari verrà apprezzato anche da
qualche adulto che, ancora per una volta, vorrà rivivere una
storia che già lo aveva fatto sognare tanti anni fa, quando
era un bambino. Magie del cinema.

Odio l’Estate: recensione del
film di Aldo, Giovanni e
Giacomo

Aldo Baglio è un ipocondriaco, che colleziona infinite assenze
sul lavoro e delega tutti i lavori domestici a Carmen, sua
moglie. Lei fisicamente non è certo una bellezza statuaria, ma
è una brava donna, molto legata alla sua famiglia, formata da
Salvo, il figlio più grande che ha avuto dei piccoli problemi
con la giustizia, da Ilary e Melissa, le due figlie più
piccole, e dal cane Bryan. La famiglia Baglio non nuota certo
nell’oro, ma è lomolto unita.

Giovanni Storti è un commerciante, che possiede un negozio di
calzoleria, attività che ha ereditato dalla famiglia ma che
ormai non ha più un mercato. È sposato con Paola, donna molto
intelligente e pragmatica, e i due hanno una figlia, Alessia.

Giacomo Poretti è un affermato dentista, completamente dedito
al lavoro, sposato con Barbara, una donna molto bella ma con
un carattere molto difficile. Lei ha avuto da un altra
relazione Ludovico, un ragazzino preadolescente che sembra
preferire alla loro presenza quella dello smartphone. La
famiglia Poretti non ha nessun problema economico, ma i
rapporti tra i suoi componenti non sono certo idilliaci.

Tre famiglie completamente diverse, non solo per l’estrazione
sociale, che si trovano a dovere condividere la stessa casa
per le vacanze, a causa di un errore dell’agenzia dove la
hanno prenotata.

Odio l’estate: più di una semplice commedia
La convivenza forzata è all’inizio motivo di attriti tra
caratteri diversi e abitudini agli antipodi. Aldo e Carmen
sono una coppia rumorosa e disordinata, che però si vuole bene
e sa godersi la vita. Giacomo è un precisino quasi patologico,
internamente divorato dall’ansia legata al prossimo fallimento
dell’attività ereditata dalla famiglia. La moglie e la figlia
cercano di stargli vicino, ma lui non fa niente per venire
loro incontro. Giacomo è una brava persona, ma si rende conto
di non essere in grado di gestire la convivenza con il figlio
preadolescente, e il suo rapporto con Barbara è molto teso.

I conflitti tra le famiglie e quelli al loro interno sono
occasione per regalare allo spettatore momenti di ilarità, ma
va detto che Aldo, Giovanni e Giacomo non monopolizzano la
scena, ma la condividono con mogli e figli, conferendo grande
equilibrio al film. Che, lungi dall’essere una sequenza di gag
comiche tra loro sconnesse, fornisce molti momenti di
riflessione, anche perché i personaggi messi in scena non sono
di certo spensierati, ma al contrario sono afflitti da
problemi nei quali è facile rispecchiarsi.

Questo film è una storia corale, dove i protagonisti, per
molti    aspetti    diversissimi     tra    loro,   evolvono
contemporaneamente, offrendo mille opportunità allo spettatore
per immedesimarsi nelle loro vicende. E, di conseguenza,
riflettere sulle proprie. Un film nel quale l’incontro con il
diverso da sè diventa un’occasione per mettersi in discussione
e scoprire le cose per le quali vale veramente impegnarsi, che
non sono certo il SUV della famiglia Poretti o il soggiorno in
un albergo a mille stelle.

Un film che, con molta leggerezza, con il filtro dell’ironia,
ma senza mai deragliare nella banalità, lascia passare il
messaggio che in fondo, nella vita, quello che conta è godersi
le situazioni e, soprattutto, i rapporti umani con le persone
che ci arricchiscono di più. Affrontando la paura di mettersi
alla prova e di sbagliare. E di farlo nel presente, qui e ora,
finché si può, perché il futuro è incerto.

Odio l’estate: il film della maturità di Aldo,
Giovanni e Giacomo
Questo film segna il ritorno sul grande schermo di tre
personaggi che in Italia calcano le scene di teatro, cinema e
televisione da trent’anni. Questa è la decima pellicola girata
insieme dai tre attori, che segue di quattro anni la
precedente Fuga da Reuma Park, del 2016, ed è stata diretta
dal loro regista storico, Massimo Venier, con il quale hanno i
girato i loro primi film.

Un ritorno molto riuscito, che mescola abilmente ironia,
momenti di riflessione e altri profondamente commoventi. Che
regala allo spettatore un finale inaspettato, che conferisce a
questa commedia agrodolce una dimensione profondamente umana.

Un film che sembra avere levato ogni fondamento ai timori di
quanti pensavano che il trio comico fosse in crisi
irreversibile, dopo una serie di pellicole non eccelse e la
prima che vedeva Aldo Baglio senza i suoi compagni storici,
Scappo a Casa, del 2019.

Aldo, Giovanni e Giacomo sembrano avere ritrovato l’intesa e
la verve di un tempo, arricchita però da una inedita carica di
umanità e volontà di introspezione. Come i personaggi da loro
messi in scena in Odio l’Estate, hanno affrontato la paura di
mettersi nuovamente alla prova. E hanno vinto. Bentornati,
Aldo, Giovanni e Giacomo!

Birds    of   Prey   e   la
fantasmagorica rinascita di
Harley Quinn: la recensione
del film di Cathy Yan

Gotham   City.   Harley   Quinn   viene   lasciata   da   Joker.
L’eccentrica protagonista cerca un nuovo equilibrio interiore
con metodi poco ortodossi: dopo avere spaccato le ossa
all’autista del cattivo di turno, il paranoico Roman Sionis
(alias Black Mask), non trova niente di meglio che fare
esplodere la fabbrica chimica dove aveva avuto origine la sua
storia d’amore.

                                   Questo rende evidente a
                                   polizia e malfattori vari
                                   che tra i due l’idillio è
                                   finito.     Priva    della
                                   protezione di Joker, Harley
                                   si trova inseguita da tutti
                                   i delinquenti con i quali
                                   ha dei conti in sospeso. La
                                   lista è molto lunga, e il
                                   rischio di finire molto
                                   male è elevato.

Grazie al cielo, Harley scopre che c’è un gruppo di donne con
le quali è possibile stringere una instabile alleanza per
sopravvivere all’assalto dei cattivi, radunatisi a difesa
degli interessi di Black Mask e del suo fido luogotenente, il
killer psicopatico Victor Zsasz.

Nella scontata e prevedibile battaglia finale, che avviene in
un tetro luna park abbandonato, l’eterogeneo gruppo femminile
fa a pezzi l’esercito dei malvagi, formato da un’eterogenea
accozzaglia di maschi pittorescamente agghindati. Uomini
cattivissimi contro donne di incerta classificazione morale.
Vincono le donne. I cimiteri di Gotham City probabilmente
devono essere stati ampliati per accogliere i maschi deceduti
in combattimento, ma il film non dice niente al riguardo, a
dire il vero.

Birds of Prey: un film che vorrebbe parlare di
emancipazione femminile e magari fare ridere
Il titolo inglese del film è Birds of Prey and the Fantabulous
Emancipation of One Harley Quinn. In Italia la parola
emancipation è stata resa come rinascita, ma la traduzione
corretta sarebbe emancipazione. Una emancipazione sui generis,
visto che passa per lo sterminio del genere maschile.

In ogni caso tutte le donne del gruppo cercano di liberarsi da
qualcosa. Harley Quinn vuole superare la sua sudditanza
psicologica da Joker e trovare la sua strada. L’adolescente
Cassanda, che per sopravvivere fa la borseggiatrice nei vicoli
di Gotham City, vorrebbe liberarsi dei suoi genitori adottivi,
che passano tutto il tempo a litigare. La killer Cacciatrice
vuole uccidere i membri del commando che ha sterminato la sua
famiglia, la cosca mafiosa dei Bertinelli, cercando nella
vendetta una catarsi al suo dolore interiore. La cantante
Black Canary vorrebbe costruirsi una vita al di fuori del
crimine e del club del suo principale, il perfido Roman
Sionis. La detective Renee Montoya è sfruttata da un capo
incompetente, che le ruba tutti i successi professionali
ottenuti sul campo.

Un gruppo eterogeneo, ma accomunato, oltre che
dall’appartenenza al genere femminile, dalla necessità di
tagliare i legami malati con figure negative, per lo più
appartenenti al genere maschile.

Il taglio avviene tramite una generosa dose di ultraviolenza.
Le scene di combattimento sono molto coreografiche e poco
splatter. A parte il luna park del finale, la Gotham City di
Bird of Prey non ha niente a che fare con quella dell’universo
DC Comics di Batman. Lungi dall’essere una tetra metropoli in
stile gotico, permeata da un’atmosfera dark, è invece molto
luminosa e variopinta. Il tutto è funzionale a sottolineare il
carattere folle della protagonista, che si veste in maniera a
dire poco eccentrica e che come animale da compagnia si è
scelta una Iena ridens.

Il tono complessivo della pellicola è leggero, e probabilmente
la regista e gli attori si sono divertiti a girare questa
pellicola, basata sull’azione e sulle scene di lotta. Fare
divertire il pubblico è però un’altra cosa.

Birds of Prey: una storia alquanto confusa
Questo film ha poco o nulla a che fare con l’omonimo fumetto
della DC Comics, i cui cultori probabilmente rimarranno molto
delusi vedendolo. Ma questa pellicola ha un problema ancora
più grosso: la debolezza della storia, la cui comprensione è
resa difficoltosa anche dalla scelta di fare commentare larga
parte degli accadimenti dalla voce fuori campo di Harley
Quinn.

Inoltre i continui flashback e flashforward non aiutano di
certo lo spettatore a immergersi nel flusso narrativo, molto
ondivago. Anche queste scelte sono funzionali a trasmettere
allo spettatore l’eccentricità e la follia che caratterizzano
la personalità disturbata della protagonista, ma l’effetto
complessivo è alquanto disorientante. A meno che uno non si
accontenti di godersi le scene di azione, che non mancano di
certo.

Anche da questo punto di vista, però, c’è un problema: la
formazione del gruppo delle Birds of Prey, premessa
indispensabile      per   i  combattimenti      di   gruppo,
coreograficamente molto curati, avviene nel finale del film,
ed è preceduta da un lunghissimo prologo senza struttura. Nel
quale è facile perdersi.

Birds of Prey: un film forse un po’ troppo
pretenzioso
Questo film è uno spin-off del precedente e mediocre Suicide
Squad, scritto e diretto nel 2016 da David Ayer, nel quale
Harley Quinn combatteva in una squadra di eroi cattivi dei
fumetti della DC Comics, dove il sesso maschile era
prevalente. Un film che venne (giustamente) trattato male
dalla critica e che nel complesso costituì una delusione.

Birds of Prey avrebbe voluto girare pagina, puntando sulla
riscossa del genere femminile, strizzando l’occhio
all’immaginario creato da film come i due Kill Bill, di
Quentin Tarantino, o prima di lui dal mitico Faster Pussycat,
Kill! Kill! di Russ Mayer, del 1965.

In realtà si tratta di una pellicola modesta, che condivide
con Suicide Squad l’amore per l’azione fine a sé stessa, che
allo spettatore lascia molto poco. Non basta certo la bravura
di Margot Robbie nell’interpretare Harley Quinn a compensare
una sceneggiatura confusa.

Circa il messaggio di emancipazione femminile che il film
vorrebbe veicolare, forse vale la pena sottolineare un
concetto: l’autonomia delle donne non può certo realizzarsi
tramite l’eliminazione degli uomini. Nel migliore dei mondi
possibili i due sessi dovrebbero convivere armoniosamente,
raggiungendo obiettivi comuni. Non fronteggiarsi armi in pugno
su due fronti contrapposti, combattendo fino all’ultimo sangue
per la supremazia, fino al sospirato sterminio dell’odiato
nemico.

Altrimenti il tanto declamato superamento delle differenze di
genere si tradurrà nel semplice travaso delle caratteristiche
più deleterie dei personaggi maschili dell’universo DC in
nuovi personaggi femminili. Speriamo bene.

Underwater: recensione del
monster-movie   di  William
Eubank con Kristen Stewart

L’ingegnere meccanico Norah Price (Kristen Steward) lavora
nella stazione di trivellazione Kepler 822, della Tian
Inustries, una gigantesca struttura adagiata nella Fossa delle
Marianne, a circa 7 miglia di profondità. All’improvviso si
scatena l’inferno, a causa di quello che all’inizio sembra
essere un terremoto sottomarino.

Norah riesce a cavarsela, assieme a un manipolo di
sopravvissuti, che include il capitano Lucien (Vincent
Kassel). La situazione è disperata: il nocciolo del reattore
nucleare che alimenta la stazione è in procinto di esplodere,
le capsule di salvataggio non sono raggiungibili, anche il
sottomarino della base è inservibile, la struttura è in
procinto di collassare.

A mali estremi, stremi rimedi: l’unica possibilità per
cavarsela è scendere sulla superficie oceanica e raggiungere a
piedi la stazione Roebuck 641. Ma già nella discesa verso il
fondo dell’abisso su un malfermo elevatore, i superstiti
capiscono che c’è qualcosa che non va. Qualcuno, o qualcosa,
sembra aggirarsi nell’oscurità. Ma il vero orrore li attende
sul fondale oceanico.
Underwater:    un   b-movie   che
riprende tutti gli stereotipi del genere

La trama non è per niente originale, la situazione è simile a
quella descritta in Creatura degli Abissi, e il film sembra
rendere omaggio a innumerevoli pellicole analoghe che lo hanno
preceduto. L’atmosfera che si respira all’inizio è quella di
Alien, con i lunghi corridoi vuoti e male illuminati e i
superstiti che si muovono in oscuri cunicoli. Anche la plancia
di comando e la voce sintetica che risuona nell’aria,
preannunciando sventure, avvicinano l’atmosfera del film a
quella che si respirava sull’astronave Nostromo.

I mostri umanoidi sono simili a quelli di Cloverfield, mentre
le creatura più grande deve molto anche a Deep Rising. Altre
pellicole la cui storia è legata alla fuga da basi sottomarine
messe in crisi da creature più o meno ostili, che vengono in
mente guardando Underwater, sono Leviathan e The Abyss.
Insomma, niente di nuovo.

I personaggi sono molto piatti e inconsistenti, con
l’eccezione della protagonista, un’androgina Kristen Steward,
che tuttavia all’inizio del film William Eubank si diverte a
fare girare a piedi nudi nella base in disfacimento,
concedendo una piccola dose di feticismo a questa pellicola.

Guardando la Noah Price di Underwater viene spontaneo pensare
alla leggendaria Ellen Ripley di Alien. In realtà i due
personaggi sono molto diversi. Mentre Noah è una persona in
crisi che deve fare i conti con il suo passato, ritrovando sé
stessa durante il film, Ripley è una autentica guerriera,
capace di fronteggiare e sconfiggere mostri e androidi.
I componenti maschili del manipolo di sopravvissuti sono
personaggi inconsistenti, a cominciare dal capitano Lucien,
interpretato da uno sprecato Vincent Cassel. In Underwater
l’iniziativa appartiene alle due donne del gruppo, Norah in
testa, che da vera eroina giunge a sacrificare sé stessa per
gli altri.

Underwater: una onesta pellicola per intrattenere il pubblico

Va detto che la mancanza di spessore dei personaggi non è un
problema per questa pellicola, che è concepita per
intrattenere il pubblico amante di questo genere, e non certo
per riflettere sulla natura umana o ragionare sul nostro ruolo
nell’universo.

Ovviamente c’è anche l’immancabile messaggio ecologista e
l’attimo di riflessione sui limiti che l’umanità non dovrebbe
violare, ma tutto questo rimane sullo sfondo di una storia che
è basata non certo sui dialoghi, spesso avvilenti, quanto
sull’ambiente nel quale la storia si srotola.

In questo film, la tradizionale dicotomia tra natura e cultura
si traduce nella differenza tra il buio carico di inquietante
mistero, che caratterizza i minacciosi fondali oceanici, dove
si muovono sagome inquietanti, e la luce proveniente dalle
strutture della piattaforma di trivellazione, e dagli
scafandri degli uomini del suo equipaggio.

I protagonisti si muovono tra questi due mondi contrastanti,
cercando di sopravvivere. Pochi ci riusciranno, mentre la Tian
Industries riuscirà a insabbiare quanto successo, come spesso
accade in questo genere di pellicole, continuando a macinare
utili, fregandosene di quanti ci hanno lasciato la pelle. Si
tratta di un altro cliché di questo genere cinematografico.
Basti pensare alla Weyland-Yutani di Alien o alla Umbrella
Corporation di Resident Evil. Metafore del nostro mondo
globalizzato, dove spesso il potere economico delle grandi
compagnie riesce a schiacciare gli individui e i loro diritti.
Ma, ancora una volta, tutto questo rimane sullo sfondo.
Lo spettatore viene invece trascinato nella storia
dall’incalzare degli eventi. Il dramma esplode subito, nel
primo minuto della pellicola, e poi cresce, continuamente. Il
film, che comincia come un disaster-movie, diventa un monster-
movie. I personaggi devono sopravvivere, superare situazioni
che richiedono azione, non dialoghi pensosi. Agire o perire.

Quanto allo spettatore che ha pagato il biglietto, se è venuto
a vedere un monster-movie non rimarrà deluso, specie se ama il
genere e apprezza le citazioni. E poi il buon ritmo, in
continuo crescendo, la curata ambientazione sottomarina, gli
ambienti claustrofobici e la splendida fotografia possono
regalare emozioni forti. Underwater non è certo un capolavoro,
ma è un onesto b-movie che fa il suo lavoro: intrattenere il
pubblico che apprezza questo genere.

1917: la recensione del film
di guerra di Sam Mendes

6 aprile 1917. A due soldati britannici viene affidata una
missione suicida: attraversare le linee nemiche, che si
suppone essere state abbandonate dai tedeschi, e consegnare
una missiva urgente che potrebbe salvare 1600 vite umane.

Per uno dei due militari la missione è particolarmente
importante, perché nel reggimento che potrebbe cadere in una
trappola mortale combatte il proprio fratello. Il film è
liberamente tratto da una storia vera, in quanto basato sul
racconto del nonno del regista, Alfred Mendes, che realmente
combatté nella Prima guerra mondiale, e al quale il film è
dedicato.
Un racconto di per sé molto asciutto, che non sembra essere
molto interessato a mostrare le inimmaginabili atrocità della
Grande Guerra, o ad approfondire dettagli storici, ma che
regala un’esperienza immersiva allo spettatore, che grazie a
una eccellente fotografia e all’uso sistematico del piano
sequenza viene letteralmente trasportato nel racconto.

                     1917: un film          tecnicamente
                     eccezionale

La povertà della storia narrata è però ampiamente compensata
dal livello tecnico stellare della pellicola. Mendes tuttavia
non ha utilizzato ritmi forsennati o fatto uso di effetti
speciali mozzafiato, come attualmente sembra essere molto di
moda nei blockbuster. Al contrario, la narrazione scorre
lentamente, per un film di guerra, e le scene splatter o
truculente vengono utilizzate con parsimonia, tenendo conto
che stiamo parlando degli orrori della Prima guerra mondiale.

In pratica, il film è un unico piano sequenza, in quanto è
molto difficile distinguere le diverse riprese. Inoltre la
telecamera è per la maggior parte del tempo all’altezza dei
due protagonisti. Lo spettatore trascorre virtualmente tutto
il film di fianco ai due soldati inglesi, ed è molto arduo non
rimanere rapiti da quanto viene narrato.

Anche perché la fotografia è di altissima qualità. In
particolare i combattimenti notturni nella cittadina francese
di Ecoust hanno una resa eccezionale, conferendo a quella
parte del film una dimensione quasi metafisica.

L’effetto è quindi immersivo, e sottolinea la dimensione umana
dei protagonisti, piuttosto che gli accadimenti bellici, e la
stessa ricostruzione storica degli eventi narrati, peraltro
ineccepibile, passa in secondo piano.

1917: un film semplice che funziona
Questa pellicola ha una sceneggiatura molto semplice e
lineare, non sembra volere veicolare nessun messaggio
particolare, e sicuramente non può essere paragonata a
capolavori del cinema che con essa condividono l’ambientazione
storica, come Orizzonti di Gloria, di Stanley Kubrick, del
1957.

Mendes non sembra neanche interessato a porsi domande
metafisiche sul significato della guerra, o su come questa
alteri il rapporto dell’uomo con la natura, come ha fatto
Malik con il suo complesso La Sottile Linea Rossa, del 1998.

Il regista non indugia neanche sulla sete di gloria e
l’imbecillità degli alti comandi, come il già citato Orizzonti
di Gloria, né perde tempo a sottolineare le deviazioni umane e
le perversioni che la guerra inevitabilmente alimenta
nell’animo umano, come accade in Full Metal Jacket, sempre di
Stanley Kubrick, del 1987.

Semmai questo film può essere concettualmente accostato a
Salvate il Soldato Rayan, di Steven Spielberg, del 1998. In
entrambe le pellicole quello che mette in moto la storia è la
necessità di salvare vite umane al fronte, e il loro scopo
sembra essere semplicemente quello di coinvolgere emotivamente
nella narrazione, piuttosto che veicolare messaggi complessi.

Certo, in 1917 non c’è niente di neanche lontanamente
paragonabile alla sequenza iniziale di Salvate il Soldato
Rayan, dove l’orrore di quanto accade sulla spiaggia di Omaha
Beach, durante lo sbarco in Normandia, viene buttato in faccia
allo spettatore con spietata crudezza. Sam Mendes non sembra
essere interessato neanche a fare vedere fino in fondo la
crudeltà della guerra e le sofferenze inumane che infligge a
combattenti e civili.

In compenso riesce a coinvolgere lo spettatore in una storia
molto semplice, utilizzando inquadrature accuratamente
studiate, una fotografia di alto livello, musiche efficaci e
utilizzando in maniera magistrale il piano sequenza.

1917: un film da vedere
Lo spettatore vien rapito dalla narrazione, quasi sospeso
nell’eterno presente della storia che scorre sullo schermo, e
non può che immedesimarsi nei due protagonisti (efficacemente
interpretati da Dean-Charles Chapman e George MacKay), due
ragazzi che la guerra ha strappato dalle loro famiglie e
scaraventato al fronte.

Due persone molto differenti caratterialmente ma accomunate da
una visione molto semplice della vita, lontana da ogni
intellettualismo, concentrati sull’unica cosa che può
interessare un uomo al fronte: sopravvivere.

E i due protagonisti sembrano condividere con il regista la
lontananza da ogni sovrastruttura ideologica. Tanto che nel
film, per una volta, il nemico non è una figura ambigua, di
difficile lettura, moralmente oscillante in una indistinta
zona grigia, ma è semplicemente il cattivo da combattere. Per
non essere uccisi. Mentre gli inglesi sono i buoni. Una
visione manichea che forse farà torcere il naso a qualche fine
intellettuale, ma che è senz’altro funzionale allo scopo di
questa pellicola, che è coinvolgere lo spettatore in una
storia molto semplice, utilizzando con maestria la tecnica
cinematografica.

Tra l’altro questa scelta finisce per sottolineare l’assoluta
imbecillità della guerra, dove l’unica possibilità è di
uccidere per non essere uccisi. Una visione del mondo
ristretta, è vero, ma che forse bene rispecchia la drammatica
realtà di chi, in quegli anni terribili, si ritrovava al
fronte, dove tra un assalto frontale e l’altro sicuramente non
c’era molto spazio per fini intellettualismi.

1917 è candidato a 10 Oscar. Forse troppo per questa
pellicola, che comunque vale tutti i soldi del biglietto
d’ingresso. Per una volta, viva la tecnica e chissenefrega
della storia raccontata. Il cinema è anche questo.

Richard Jewell: recensione
del film di Clint Eastwood

Con questa sua ottima pellicola, il quasi novantenne Clint
Eastwood mette in scena con grande efficacia un altro dei suoi
antieroi, ispirandosi a fatti accaduti veramente. Dimostrando
ancora una volta il suo spessore come regista.
Richard Jewell, il protagonista che dà il nome alla pellicola,
è una guardia di sicurezza che, durante le Olimpiadi estive
del 1996 ad Atlanta, in Georgia, scopre uno zaino contenente
un ordigno esplosivo in un parco. Il suo intervento evita una
strage, e gli fa guadagnare gli onori della cronaca.

I media prima lo osannano come un eroe, poi lo accusano di
essere il probabile autore dell’attentato, precipitando la sua
vita nell’abisso. L’intervento di un avvocato gli permetterà
di riabilitarsi. Il film narra quanto accaduto dall’attentato
fino al 2007, quando viene scoperto e condannato il vero
autore dell’atto criminale.

Richard Jewell: un vero antieroe

Richard Jewell è un ragazzone sovrappeso, con problemi di
salute, ossessionato dall’ambizione di diventare un
poliziotto. Sebbene abbia più di trent’anni, vive ancora con
l’anziana madre, alla quale è molto legato. Per alcuni versi
incarna molti stereotipi statunitensi: si ingozza di junk
food, fatto che è alla base dei suoi problemi fisici, possiede
un arsenale e ama le armi, non paga le tasse, è atterrito
dall’idea di venire considerato un omosessuale.

In evidente sovrappeso, sgraziato nei movimenti e
intellettualmente non superdotato, tanto che viene spesso
dileggiato dai colleghi, è tuttavia una persona intimamente
buona, caratterizzata da un alto senso della giustizia e
sempre pronta a mettersi al servizio degli altri. Il suo
maniacale senso del dovere e la perfetta conoscenza delle
procedure sono i fattori che gli permettono di scoprire la
bomba e di salvare molte vite umane.

Con un fisico sgraziato e le fattezze di un bambinone, preso
in giro da tutti, Richard è nella sua essenza una persona con
un cuore d’oro, con un alto senso delle istituzioni e pronto
ad affrontare ogni pericolo per proteggere gli altri. Ha pochi
amici. Solo l’anziana madre e un avvocato sul viale del
tramonto, Watson Bryant, lo stimano veramente.

Richard Jewell: un film contro l’abuso di potere
delle istituzioni
È proprio Bryant che lo mette in guardia, all’inizio del film,
dal pericolo di diventare uno stronzo non appena si acquisisce
un minimo di potere. Le persone che cercheranno di annientare
il protagonista sono il suo opposto: belli fisicamente,
brillanti intellettualmente, ma bacati dentro.

Kathy Scruggs è una reporter avvenente e spregiudicata, che
fiuta subito la ghiotta occasione di creare un caso
giornalistico sulle indagini, appena avviate dall’FBI, sul
conto di Richard Jewell.

In effetti il profilo psicologico del probabile bombarolo di
Atlanta coincide con le caratteristiche di Richard: un maschio
frustrato, amante delle armi, in cerca di notorietà per
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