FOIBE: LA TRAGEDIA DEL CONFINE ORIENTALE - LE VITTIME L'OCCUPAZIONE L'ESODO GIULIANO-DALMATA VINCENZO DE TOMMASO PIGNATARO MAGGIORE, 10 FEBBRAIO 2008

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FOIBE: LA TRAGEDIA DEL CONFINE ORIENTALE - LE VITTIME L'OCCUPAZIONE L'ESODO GIULIANO-DALMATA VINCENZO DE TOMMASO PIGNATARO MAGGIORE, 10 FEBBRAIO 2008
FOIBE: LA TRAGEDIA DEL CONFINE ORIENTALE

                  LE VITTIME
               L’OCCUPAZIONE
       L’ESODO GIULIANO-DALMATA

               VINCENZO DE TOMMASO

        PIGNATARO MAGGIORE, 10 FEBBRAIO 2008
FOIBE: LA TRAGEDIA DEL CONFINE ORIENTALE - LE VITTIME L'OCCUPAZIONE L'ESODO GIULIANO-DALMATA VINCENZO DE TOMMASO PIGNATARO MAGGIORE, 10 FEBBRAIO 2008
INDICE

Introduzione                                                          pag. 1

CAPITOLO I: Dal Trattato di Campoformido all’8 Settembre 1943
1.1 La dominazione asburgica e la Prima Guerra Mondiale               pag. 3
1.2 Il regime fascista e l’italianizzazione forzata della regione     pag. 4
1.3 La Seconda Guerra Mondiale dal 1939 al 1943: l’occupazione
    italiana e tedesca                                                pag. 6

CAPITOLO II: Le violenze del 1943
2.1 8 Settembre 1943: la disgregazione dell’Esercito Italiano         pag. 9
2.2 Le violenze del 1943                                              pag. 10
2.3 La riconquista del territorio e la repressione antipartigiana     pag. 12
2.4 Il recupero dei morti                                             pag. 13

CAPITOLO III: 40 giorni di terrore
3.1 L’occupazione Di Trieste                                          pag. 16
3.2 La sorte dei deportati                                            pag. 17
3.4 L’epurazione della società giuliana                               pag. 19
3.5 Le violenze del 1945 come violenze di stato                       pag. 20

CAPITOLO IV: L’ESODO
4.1 Il Memorandum Di Londra                                           pag. 23
4.2 La Linea Bidaut e il dramma dell’opzione                          pag. 24
4.3 Pola, Febbraio 1947: mancano chiodi e listelli                    pag. 26
4.4 L’accoglienza riservata ai profughi                               pag. 28
4.5 Le conseguenze dei trattati internazionali                        pag. 29
4.6 21 dicembe 2007: cade l’ultimo muro                               pag. 30

CONCLUSIONI: Quanti morti?                                            pag. 32
MAPPA DELLA REGIONE                                                   pag. 34
BIBLIOGRAFIA                                                          pag. 35

                  In copertina: “Foibe”, olio su tavola di Franco BRIGHENTI
INTRODUZIONE

       Foiba. Dal latino fovea (fossa, cava, antro), la parola sta ad indicare una fenditura del
terreno, profonda anche alcune decine di metri, che si apre sul fondo di una dolina che
l’erosine millenaria dell’acqua     ha scavato nelle rocce carsiche in forme gigantesche e
accidentate. Foiba come inghiottitoio segreto, uno dei circa 1700 antri di cui è disseminato il
territorio carsico triestino e giuliano, e che da sempre sono serviti per nascondere e far sparire
tutto ciò che era inservibile: carcasse di animali, mobili rotti, suppellettili, indumenti smessi,
ma anche vittime della criminalità comune, i testimoni scomodi, i cadaveri pericolosi che non
dovevano essere più ritrovati; in tempo di guerra i corpi dei soldati uccisi impossibili da
seppellire.
       Solo con l’ultimo conflitto mondiale foiba è diventato altro, il termine allusivo e atroce
con il quale si intende riferirsi all’eliminazione di italiani nella Venezia Giulia, nel settembre-
ottobre 1943 e soprattutto nella primavera del 1945 ad opera delle truppe di Tito. Una pagina
di storia italiana oscura, da non dimenticare.
       E per non dimenticare è nato il giorno del ricordo, istituito con la legge n. 92 del 30
marzo 2004, il cui articolo 1 recita: “La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale giorno del
ricordo al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le
vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo
dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”.
       Significativo   è   stato   l’intervento   del   Presidente    della   Repubblica   Giorgio
NAPOLITANO in occasione della celebrazione del giorno del ricordo il 10 febbraio 2007:
       “Nell'ascoltare le motivazioni che hanno questa mattina preceduto la consegna delle
medaglie, abbiamo tutti potuto ripercorrere la tragedia di migliaia e migliaia di famiglie, i cui
cari furono imprigionati, uccisi, gettati nelle foibe. E suscitano particolare impressione ed
emozione le parole: da allora non si ebbero di lui più notizie, verosimilmente fucilato, o
infoibato. Fu la vicenda degli scomparsi nel nulla e dei morti rimasti insepolti. Una miriade di
tragedie e di orrori; e una tragedia collettiva, quella dell'esodo dalle loro terre degli istriani,
fiumani e dalmati, quella dunque di un intero popolo. A voi che siete figli di quella dura storia,
voglio ancora dire, a nome di tutto il paese, una parola di affettuosa vicinanza e solidarietà. Da
un certo numero di anni a questa parte si sono intensificate le ricerche e le riflessioni degli
storici sulle vicende cui è dedicato il giorno del ricordo: e si deve certamente farne tesoro per
diffondere una memoria che ha già rischiato di esser cancellata, per trasmetterla alle
generazioni più giovani, nello spirito della stessa legge del 2004.

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Così, si è scritto, in uno sforzo di analisi più distaccata, che già nello scatenarsi della
prima ondata di cieca violenza in quelle terre, nell'autunno del 1943, si intrecciarono
giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di
sradicamento della presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia Giulia. Vi
fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che
prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una
pulizia etnica. Quel che si può dire di certo è che si consumò - nel modo più evidente con la
disumana ferocia delle foibe - una delle barbarie del secolo scorso”.
        Anche le Poste Italiane nel 2005 hanno commemorato il giorno del ricordo con
l’emissione di un francobollo la cui vignetta “raffigura una scena drammatica a rappresentare
lo storico esodo degli italiani dall’Istria, Fiume e Dalmazia. Completano il francobollo la
leggenda Giorno del Ricordo dell’esodo dall’Istria Fiume E Dalmazia”:

        La celebrazione del giorno del ricordo, recuperando una parte della storia del popolo
italiano, può essere l’occasione per conoscere e per capire: conoscenza e comprensione sono
infatti le basi da cui partire per sentirsi integralmente cittadini.

        In questo lavoro di ricerca ho volontariamente omesso di raccontare le storie personali
delle vittime, nel rispetto di chi queste atroci vicende le ha subite.

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CAPITOLO I
          DAL TRATTATO DI CAMPOFORMIDO ALL’8 SETTEMBRE 1943

1.1 La dominazione asburgica e la Prima Guerra Mondiale.

       Con la firma del trattato di Campoformido del 17 ottobre1797 l'Austria rinuncia ai
Paesi Bassi ed ai territori sulla sinistra del Reno, riconosce la Repubblica Cisalpina, mentre la
Francia le accorda in cambio i territori oltre la riva sinistra dell'Adige: Venezia, l'Istria e la
Dalmazia, territori che conserva sino al termine della Prima guerra mondiale (1918), con la
parentesi del Regno napoleonico d’Italia dal 1806 al 1815. La politica di modernizzazione
attuata dall’impero asburgico favorisce la componente slava in ascesa; slavi e italiani
convivono, i primi concentrati maggiormente nelle campagne, i secondi nelle città. E’ in
questo periodo che nascono i due opposti nazionalismi. Nel corso della Prima Guerra Mondiale
si sviluppa l’irredentismo italiano, mentre sloveni e croati rimangono lealisti nei confronti
dello Stato austriaco. Con i segni di disgregazione dell’Impero austro-ungarico, sloveni e croati
trovano nuovi slanci e motivazioni al loro desiderio di affermazione nazionale, e guardano alla
neocostituita Jugoslavia come alla casa comune degli slavi del sud.
       Al termine della Grande Guerra il governo italiano mira all’annessione della Venezia
Giulia e della Dalmazia, in forte conflitto con il nuovo Regno dei serbi, croati e sloveni
(Jugoslavia). Il trattato di pace di Parigi del 1919 assegna all’Italia il Trentino, l’Alto Adige,
Trieste, l’Istria, ma non la Dalmazia e Fiume. Con il trattato di Rapallo del 1920 (con il quale
vengono inglobati nello stato italiano circa 400.000 slavi e croati) il governo italiano rinuncia
alla Dalmazia, ma ottiene Zara.
        Fiume, dichiarata città libera, pasa all’Italia con il Patto di Roma del 1924. Il passaggio
al Regno d’Italia ha profonde ripercussioni: Trieste perde la centralità economica e
commerciale di cui godeva appartenendo all’Impero austriaco, mentre Pola non è più lo scalo
strategico di una grande potenza militare; l’agricoltura istriana soffre subito la concorrenza
delle ricche campagne venete e friulane. Arrivano migliaia di nuovi funzionari statali, che la
gente del posto definisce “regnicoli”, con i contadini croati e sloveni che capiscono il dialetto
istro-veneto ma non l’italiano l’incomunicabilità diventa ostilità, tanto più che il nuovo Stato si
presenta anche con il volto severo ed inflessibile del fisco.

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1.2 Il regime fascista e l’italianizzazione forzata della regione

       Il fascismo si sviluppa precocemente a Trieste come “fascismo di confine” fin dal 1919
Mussolini nel 1920 dichiara: “Di fronte a una razza inferiore e barbara come la slava non si
deve seguire la politica che dà lo zuccherino ma quella del bastone. I confini dell’Italia devono
essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che posso sacrificare 500.000 slavi
barbari a 50.000 italiani ”. Tensioni nazionali e sociali si acuiscono in Istria, specie nel
distretto minerario di   Albona, dove si verifica una massiccia rivolta operaia che sfocia
nell’autogestione del complesso industriale, e la situazione ritorna alla normalità solo grazie
all’intervento dell’esercito. Ma la situazione resta tesa anche nelle zone agricole dell’Istria
orientale, dove un gruppo di circa trecento coltivatori “organizzati militarmente” effettuano
blocchi stradali e invitano apertamente a non pagare le tasse e insultano i funzionari dello stato.
Anche in questa zona l’intervento dell’esercito riporta l’ordine, ma solo dopo uno scontro a
fuoco che provoca un morto e quattro feriti.
       Ma la vicenda che riflette con maggiore evidenza il clima di quei giorni e ha maggiore
risonanza nell’opinione pubblica è l’incendio dell’albergo Balkan a Trieste: nel luglio 1920 a
seguito di ulteriori gravi incidenti a Spalato restano uccisi un ufficiale ed un graduato della
marina italiana e immediata scatta la reazione di gruppi organizzati fascisti: a Trieste i fascisti
delle squadre volontarie di difesa cittadina incendiano e saccheggiano l’Hotel Balkan, centro
di organizzazioni culturali ed economiche slovene di Trieste. Da una finestra dell’edificio
viene lanciata una bomba e le guardie regie rispondo con raffiche di fucileria, un uomo ed una
ragazza (padre e figlia) si lanciano dalla finestra per sfuggire alle fiamme. L’uomo si sfracella
al suolo, la ragazza resta gravemente ferita. Intanto all’interno dell’edificio in fiamme si
verificano delle esplosioni: per i dimostranti è la prova che le organizzazioni slave avevano
all’interno del Balkan un vero e proprio covo insurrezionale. Colonne di dimostranti
percorrono la città devastando banche, istituti, scuole e negozi di slavi, vengono messi a
soqquadro anche gli uffici della delegazione serba. Le stesse scene si ripetono a Pola, con
l’incendio del locale Narodni Drom.
       Il regime fascista al potere dal 1922 dà il via alla italianizzazione forzata della
regione. Su una rivista del tempo si legge: “I nuclei di sloveni della zona di confine non hanno
mai avuto una propria unità nazionale, né una propria civiltà… I gruppi allogeni della
Venezia Giulia (…) privi di una propria convinzione e di qualsiasi coscienza, sono stati
sempre guidati con la forza o con le intimidazioni, oppure con le lusinghe e le illusioni.
L’opera di colonizzazione ha tre aspetti principali: prima di tutto l’epurazione deve ridare alla
popolazione allogena il suo aspetto genuino. In secondo luogo, viene la colonizzazione che si

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può chiamare Stato, costituita dalla opportuna dislocazione di funzionari italiani. Infine viene
la saturazione completa”.
       Nel 1923 la riforma Gentile abolisce l’insegnamento di lingue non italiane: le lingue
slave rimangono nelle pratiche religiose, inizia l’italianizzazione dei toponimi. Dal 1924 sono
sciolti i partiti, circoli, associazioni sportive, giornali sloveni e croati, mentre gli squadristi
colpiscono con azioni violente gli “allogeni”.
       Nel 1925 viene proibito l’uso delle lingue diverse dall’italiano nei tribunali, poi in tutti
gli uffici dell’amministrazione, infine nei negozi e nei locali pubblici; vengono cancellati le
scritte, le insegne e i cartelli in sloveno. “Attenzione! Si proibisce nel modo più assoluto che
nei ritrovi e per le strade si canti o si parli in slavo. Noi squadristi, con metodi persuasivi,
faremo rispettare il presente ordine”.
       E’ smantellato il sistema creditizio e cooperativo slavo, l’inasprimento fiscale porta a
molte vendite giudiziarie di terreni di proprietà di slavi e inizia la colonizzazione dei contadini
italiani. Nel 1927 è imposta l’italianizzazione dei cognomi (come già dal ’26 in Trentino), col
paradosso di fratelli e parenti che si ritrovano con cognomi diversi, assegnati dai diversi
prefetti; 400 organizzazioni culturali, ricreative ed economiche slovene e croate sono sciolte e i
loro beni confiscati; vengono chiuse sistematicamente tutte le scuole slave; ogni riferimento
storico e culturale è cancellato dai programmi scolastici; gli insegnanti non italiani sono
rimossi.
       Dal 1928 vengono proibiti i nomi di battesimo non italiani, con il mutamento dei nomi
dei bambini in età scolare. I preti sloveni e croati sono indicati come agenti sobillatori che
alimentano l’ostilità degli allogeni; la Santa Sede è disponibile a rimuovere l’arcivescovo di
Gorizia, monsignor Sedej (1931) e il vescovo di Trieste Fogar (1936), sostituiti da monsignor
Margotti, organico al fascismo.
       La politica di italianizzazione forzata si unisce alla repressione attuata dalla Polizia
politica e da una rete di delatori, nei confronti di sloveni e croati, che organizzano
l’opposizione al regime militando in organizzazioni talora etniche e talora comuniste. Nascono
la TIGR (sigle slovene di Trieste, Istria, Gorizia e Rjeka-Fiume) e la Borba (lotta), che operano
sabotaggi a impianti militari e industriali.
       Il Tribunale speciale che opera nella Venezia Giulia commina condanne a morte e
lunghe detenzioni. Si attua una “bonifica etnica”: i funzionari “allogeni” vengono trasferiti in
altre regioni; si tenta un programma di espulsione dei contadini slavi: dal 1928 al 1930
vengono sciolte 310 cooperative, di cui 156 di credito; senza il sostegno delle casse rurali e
delle cooperative di acquisto e vendita i contadini slavi indebitati vedono le loro terre e il
bestiame, pignorati e venduti a prezzi molto bassi a speculatori italiani. Nel 1931 nasce l’Ente

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per la rinascita agraria delle Tre Venezie, che rileva le terre messe all’asta e le assegna a coloni
italiani.
        La strategia repressiva colpisce i gruppi dirigenti intellettuali ed economici sloveni e
croati, ma non incide sugli altri strati sociali, tanto che quantitativamente la popolazione slava
al termine degli anni ’30 rimane stabile. In questo contesto antifascismo e antitalianità si
fondono; slavi e croati parteciperanno massicciamente al movimento partigiano. Il piano di
italianizzazione del regime sostanzialmente fallisce, sia perché manca di coerenza e organicità
sia perché è fondato sul falso presupposto dello slavo incolto e di masse inconsapevoli della
propria nazionalità, per cui si ritiene sufficiente eliminare gli intellettuali.
        Comunque nella regione della Venezia Giulia, che subito dopo la Prima guerra
mondiale ha visto l’esodo di tutta la comunità di lingua tedesca e dei dipendenti
dell’amministrazione dell’impero asburgico (almeno 40.000 persone), si assiste tra le due
guerre all’emigrazione di più di 50.000 sloveni e croati, dovuta alla “bonifica etnica” e alla
crisi economica degli anni ’20. Le mete privilegiate sono l’Argentina e la Jugoslavia.

1.3 La Seconda Guerra Mondiale dal 1939 al 1943: l’occupazione italiana e tedesca .

        Nel settembre 1939 Hitler dà inizio alla Seconda guerra mondiale con l’invasione della
Polonia. L’Italia, legata alla Germania dal Patto d’Acciaio, entra nel conflitto il 10 giugno
1940. Mussolini dall’Albania tenta di invadere la Grecia il 28 ottobre 1940 e si trova subito in
difficoltà. Il 6 aprlie 1941, con l’Operazione Castigo guidata da Goering, la Jugoslavia è invasa
dagli eserciti tedesco, italiano e ungherese e viene smembrata tra gli occupanti.
        La parte meridionale della Slovenia entra a far parte del Regno d’Italia con il nome di
“provincia di Lubiana” (mentre la parte settentrionale è annessa al Reich tedesco); viene
allargato il territorio di Fiume; diventa italiana la costa della Dalmazia, con il nome di
“Governatorato generale della Dalmazia”, con Zara, Spalato e Cattaro. L’Italia occupa il
Montenegro. L’Albania viene ingrandita con la Macedonia e il Kossovo. Nasce il nuovo regno
di Croazia; il titolo di re viene dato, col nome di Tomislao II, ad Aimone di Savoia, che non vi
metterà mai piede, mentre il potere passa nelle mani di Ante Pavelic, capo del movimento
ultranazionalista degli ustascia. Nei fatti la Croazia si trova ripartita in una zona di occupazione
italiana ed una di occupazione tedesca. Complessivamente circa 800.000 sloveni e croati
passano sotto il governo italiano, mentre la Serbia rimane sotto diretto controllo dei tedeschi.
        Contro l’occupazione italiana si sviluppa in Slovenia un forte movimento partigiano,
egemonizzato dal Partito comunista sloveno, che assume la pregiudiziale patriottica. Il
fascismo inizia subito la repressione: internamento dei personaggi in vista, evacuazione della

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popolazione “ostile” , assegnazione dei coscritti sloveni e croati ai “battaglioni speciali di
lavoro” impiegati in Italia meridionale e nelle isole.
       Il 27 aprile 1941 nello scantinato di un edificio di Lubiana si riuniscono “i
rappresentanti dei vari partiti e correnti politiche , quali il partito comunista sloveno, gruppi di
socialisti cristiani, l’ala sinistra del Sokol ed altri, e danno vita al Fronte di liberazione del
popolo sloveno, Osvobodilna Fronta, in cui prevale il partito comunista, che poò offrire quadri
operai di una certa consistenza, e che con il suo programma progressista e nazionale riscuoteva
larghe adesioni tra i ceti medi ed i contadini, ansiosi di allontanare la pesante e non di rado
sanguinosa occupazione straniera, e naturalmente includere tra le sue mete anche la liberazione
degli slavi giuliani. Sono le basi della lotta partigiana.
       Nell’estate del 1941 i partigiani slavi iniziano ad attuare attacchi alle vie di
comunicazione e alle caserme, uccidono funzionari e soldati italiani. Il commissario Emilio
Grazioli istituisce nella regione il Tribunale straordinario della provincia di Lubjana e
introduce la pena di morte per chi è sorpreso armato o possiede materiale di propaganda o
partecipa ad assembramenti ritenuti sovversivi. 270.000 soldati italiani sono impegnati nella
repressione in Slovenia e Dalmazia; iniziano fucilazioni, rastrellamenti, rappresaglie, incendi
di villaggi (oltre 800), fino alla deportazione della popolazione slava che viene motivata con la
copertura fornita ai partigiani. La Circolare 3/C emanata dal generale Mario Roatta il 1 marzo
1942 stabilisce : “Quando necessario agli effetti del mantenimento dell’ordine i comandi
generali di Grandi Unità possono provvedere a internare, a titolo preventivo, precauzionale o
repressivo, categorie di individui della città e campagna e, se occorre, intere popolazioni di
villaggi e zone rurali; [anche] famiglie da cui siano o diventino mancanti, senza chiaro
motivo, maschi validi di età compresa tra i 16 e i 60 anni. Saranno internati anche gli abitanti
di case prossime al punto in cui vengono attuati sabotaggi”. “ Il trattamento da fare ai ribelli
non deve essere sintetizzato dalla formula “dente per dente” ma bensì da quella “testa per
dente”.
       In Italia (Udine, Treviso, Padova, Bergamo, Gorizia, isole adriatiche) nascono 202
campi di internamento per sloveni e croati con condizioni di vita durissime per la denutrizione,
il sovraffollamento, le condizioni igienico-sanitarie, dove vengono rinchiuse circa 30.000 –
35.000 persone. Nel campo di Gonars, in provincia di Udine, muoiono circa 500 prigionieri; in
quello dell’isola di Arbe, nel golfo del Quarnaro circa 1500. Il vescovo di Trieste Antonio
Santin, in una lettera del 20 agosto 1943 al prefetto della città scrive: “villaggi e case
incendiate, innumerevoli famiglie disperse, gente uccisa senza motivo all’impazzata, torture e
bastonature violente durante gli interrogatori, arresti di massa, campi pieni di internati spesso
tenuti in modo disumano (chi parla ha visto con i suoi occhi), hanno seminato odio, amarezza,

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sfiducia e hanno favorito la propaganda partigiana…. Non è umana la rappresaglia con
l’internamento dei congiunti, anche se innocenti, e l’esproprio dei beni di famiglia”.
       Nonostante il dispiegamento di forze gruppi partigiani sono ormai presenti in tutto il
territorio sloveno occupato e nella Venezia Giulia. Gli attacchi e le azioni di sabotaggio si
moltiplicano, vengono colpiti funzionari ed esponenti fascisti, nell’Istria interna le formazioni
partigiane contano quasi ventimila uomini che rendono ormai insicure le vie di comunicazione
e praticamente agiscono liberamente in tutti i villaggi ed i paesi dove non sono presenti
guarnigioni italiane; nella notte del 31 agosto 1943 i partigiani abbattono migliaia di pali
telefonici   isolando    completamente      per    una    settimana    la   penisola     istriana.

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CAPITOLO II
                                       LE VIOLENZE DEL 1943

2.1 8 SETTEMBRE 1943: LA DISGREGAZIONE DELL’ESERCITO ITALIANO

         La sera dell’8 settembre 1943, quando il maresciallo Badoglio annuncia agli italiani
l’armistizio, l’esercito italiano appare disarticolato nella disposizione, privo di guida e di
indicazioni, inerme. La sensazione che la guerra fosse finita fa dilagare in poche ore tra tutti i
militari la voglia di tornarsene a casa, abbandonando le armi. Molti militari, stanziati nella
penisola Balcanica, dopo la frenetica ricerca di un abito civile, cercano di raggiungere Trieste,
città dalla quale è più facile partire verso le altre regioni italiane, e nel loro peregrinare, spesso
a piedi per boschi e campagne, ricevono appoggio e solidarietà dalla popolazione locale che si
prodiga, spesso rischiando anche di prima persona, per portare loro soccorso e sostegno,
ospitandoli, nascondendoli, sfamandoli e aiutandoli a raggiungere la meta.
         Gli alti comandi militari ipotizzano di mantenere le posizioni opponendosi alla prevista
reazione delle truppe tedesche, nella necessità di mantenere un forte presidio militare italiano
per non compromettere l’appartenenza nazionale della Venezia Giulia, già rivendicata dalle
formazioni partigiane in cui sono, come già precedentemente accennato, prevalenti gli
orientamenti filo slavi. Nella confusione generale il comando dell’ottava armata riceve l’ordine
di difendere Trieste dall’eventuale tentativo di occupazione tedesca ma “senza fare uso delle
armi”.
         L’obiettivo immediato che i partigiani hanno nei primissimi giorni della disfatta italiana
è quello di impossessarsi dell’ingente quantitativo di materiali bellici che i militari italiani
hanno abbandonato ovunque. Laddove i soldati italiani non oppongono resistenza alle richieste
degli insorti, questi ultimi fraternizzarono con i primi ed anzi li aiutarono ad intraprendere la
via del ritorno verso casa. Diversi militari scelgono poi di unirsi ai partigiani per combattere i
tedeschi. È in questo improvviso vuoto di potere, dove non c’è più il riferimento ad alcuna
autorità costituita civile o militare, che si inserisce il fenomeno inquietante delle “foibe”
dell’autunno 1943, l’eliminazione brutale non solo di diverse centinaia di persone bollate come
“nemici del popolo”, fucilate dopo processi farsa o fatte sparire nelle grandi voragini carsiche,
ma anche di persone “condannate” a causa di vendette personali. Infatti è bene ricordare che
molte persone non vengono “infoibate”, ma uccise anche in altri modi diversi.
         Molti vengono fucilati, altri muoiono per malattie, per stenti durante la loro prigionia,
altri ancora per esecuzioni sommarie, altri vengono fatti affogare in mare, a causa sia della loro
passata partecipazione al regime fascista che, come è già stato detto, per vendette personali.

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Nell’anarchia del dopo armistizio, dominata dalla confusione e dall’incertezza, si sviluppano
due diverse dinamiche: da una parte l’intervento organizzato delle formazioni partigiane slave,
sia quelle che operavano nell’area istriana, sia quelle che hanno le proprie sedi operative nelle
regioni situate appena oltre il vecchio confine; dall’altra l’insurrezione spontanea dei contadini
croati, che si impadroniscono delle armi abbandonate dai militari italiani dando vita ad una
vera e propria “rivolta”, con incendi di catasti e archivi comunali, assalti ai proprietari terrieri e
violenze sulle persone.
       Mentre i tedeschi controllano il litorale, tutta l’Istria interna viene occupata dai
partigiani che si insediano nei municipi e tentano di instaurare un nuovo potere militare e
civile, nella consapevolezza di una pericolosa provvisorietà: ancora forte è la presenza tedesca
e da ciò che resta del regio esercito sta già nascendo quello della Repubblica Sociale di
Mussolini. L’Istria resta in mano ai partigiani per poco più di un mese.

2.2 LE VIOLENZE DEL 1943

       Sulla natura dei decreti di annessione vi fu all'epoca qualche fraintendimento. Dai
partigiani sloveni e croati essi vennero accolti come provvedimenti aventi forza di legge
emanati dall'unico organo cui gli aderenti al Movimento di liberazione jugoslavo
riconoscevano tale diritto, l'AVNO appunto. Come conseguenza di tali deliberazioni perciò,
l'annessione veniva considerata una realtà già in atto, che andava ovviamente difesa con le
armi e la diplomazia, ma che in Istria, così come per Fiume e per il litorale sloveno rendeva gli
organi creati dal medesimo Movimento di liberazione gli unici legittimi detentori del potere. È
solo a partire da tale fatto compiuto che possono essere pienamente comprese non solo la
complessa pagina dei rapporti tra il Movimento di liberazione jugoslavo e quello italiano nei
territori che le “autorità popolari” e il Partito comunista sloveno e quello croato consideravano
già appartenenti al nuovo stato jugoslavo, ma anche le logiche sottostanti la repressione che si
abbatterà sulla popolazione italiana dell'Istria.
       Ben presto infatti nella regione cominciano gli arresti, la cui tipologia risulta piuttosto
ampia, ma non per questo meno significativa. Nelle località costiere, dove il potere è stato
inizialmente assunto da elementi antifascisti italiani, a venir imprigionati sono prevalentemente
squadristi e gerarchi locali. Nelle città si formano i tribunali del popolo, spesso i giudici sono
ex criminali o persone senza alcuna qualifica, ma per essere condannato “nemico del popolo”
basta essere riconosciuto fascista. Vengono fatti sparire i rappresentanti dello stato, come
podestà, segretari e messi comunali, carabinieri, guardie campestri, esattori delle tasse e
ufficiali postali: è questo un segno evidente della volontà diffusa fra i quadri del Movimento

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popolare di liberazione di spazzare via chiunque ricordasse l'amministrazione italiana, odiata
dalla popolazione croata per il suo fiscalismo oltre che per le sue prevaricazioni nazionalistiche
e poliziesche.
        Ma nell'insurrezione i connotati etnici e politici si saldano a quelli sociali, e così nelle
campagne bersaglio prioritario delle retate diventano anche i possidenti italiani, che cadono
vittime di quell'antagonismo di classe che da decenni li vedeva contrapposti a coloni e
mezzadri croati. Si tratta di un antagonismo che risale all'epoca asburgica, ma che era stato
ulteriormente esasperato dal brusco arresto che il fascismo aveva imposto alle aspirazioni di
emancipazione sociale dei coltivatori slavi.
        Sorte simile tocca a molti dirigenti, impiegati e capisquadra d'imprese industriali,
cantieristiche e minerarie, specie nella zona di Albona, dove preesisteva una lunga tradizione
di lotte operaie e dove nel primo dopoguerra c'era stato addirittura il tentativo di costituire una
repubblica ispirata a quella dei soviet. La repressione però si estese ulteriormente e
scompaiono anche commercianti, insegnanti, farmacisti, veterinari, medici condotti e levatrici,
vale a dire le figure più visibili delle comunità, come pure alcuni membri italiani dei neutri
Comitati di salute pubblica che erano stati costituiti in alcune località subito dopo l'8 settembre;
sembra dunque che l'intera classe dirigente italiana fosse sotto tiro, ma arresti e uccisioni
colpiscono anche altri soggetti, sempre italiani, comprese alcune donne che sono oggetto di
violenze, in una esplosione tragica ed incontrollata di antichi e recenti attriti paesani. Vengono
distrutti catasti ed archivi. Su tutti pesa una sola colpa grave: essere italiani.
        La maggior parte degli arrestati viene concentrata in alcune località di raccolta e
soprattutto a Pisino, città posta al centro della penisola istriana e tradizionalmente considerata
dagli slavi la culla della croaticità istriana; qui si celebrano i processi sommari, condotti senza
particolare scrupolo per l'accertamento di responsabilità criminose e conclusi quasi sempre con
la condanna a morte, l'esecuzione - in genere collettiva - e l'occultamento dei corpi nelle cavità
ovvero, nelle località costiere, con la dispersione in mare delle spoglie. Sembra che le
fucilazioni sull'orlo delle foibe venissero condotte in modo da precipitare nelle voragini anche
condannati ancora vivi.
        Il ritmo delle eliminazioni si accelera bruscamente agli inizi di ottobre quando, costrette
ad abbandonare il campo di fronte all'offensiva generale delle truppe tedesche, le "autorità
popolari" preferiscono non lasciarsi dietro scomodi testimoni e procedono alla liquidazione in
massa dei prigionieri, con una decisione che si colloca tra la volontà di condurre una guerra a
oltranza in cui non vi è posto per la pietà, e la criminalità politica vera e propria. Diverse
logiche si sommano dunque nel dar vita agli eccidi. La distruzione dei catasti da parte dei
contadini croati, i linciaggi, le violenze - anche di gruppo - a carico di ragazze e donne incinte,

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la stessa efferatezza delle esecuzioni, spesso accompagnate da sevizie, ci restituiscono infatti il
clima di una selvaggia rivolta contadina, con i suoi improvvisi furori e la commistione di odi
politici e personali, di rancori etnici, familiari e di interesse. Ciò non significa però che negli
avvenimenti, certo confusi, di quei giorni non siano ravvisabili anche elementi significativi di
organizzazione.
       Dietro il giustizialismo sommario e tumultuoso, i regolamenti di conti interni al mondo
rurale istriano, il parossismo nazionalista, gli stessi aspetti di improvvisazione evidenti nella
repressione, non è difficile insomma scorgere gli esiti di un progetto, per quanto disorganico e
affrettato: un progetto rivolto alla distruzione del potere italiano sull'entroterra istriano e alla
sua sostituzione con il contropotere partigiano, portatore di un disegno annessionistico della
regione alla Croazia e, quindi, alla Jugoslavia. Si tratta in questo caso di un nuovo potere di
natura rivoluzionaria, intenzionato a mostrare la propria capacità di vendicare i torti,
individuali e storici, subiti dai croati dell'Istria, e al tempo stesso di coinvolgere e
compromettere irrimediabilmente la popolazione slava in una guerra senza quartiere contro gli
italiani, equiparati ai fascisti, che viene considerata la premessa indispensabile per il
ribaltamento degli equilibri nazionali e sociali nella penisola.

2.3 LA RICONQUISTA DEL TERRITORIO E LA REPRESSIONE ANTIPARTIGIANA

       Il 23 settembre 1943 Benito Mussolini fonda la Repubblica Sociale Italiana, nota anche
come Repubblica di Salò. Si instaura nei territori dell'Italia settentrionale in sostituzione del
Partito Nazionale Fascista, serve come pretesto ai nazisti per controllare con parvenza di
legalità, quella parte del territorio italiano non occupato dagli Alleati. Sono escluse le province
di Trento, Bolzano, Belluno, il Friuli e la Venezia Giulia,              sottratte all’autorità della
Repubblica Sociale Italiana e sottoposte al diretto controllo della Germania come zona di
operazione del Litorale adriatico in vista di una futura annessione.
       Il giorno precedente Hitler ordina di soffocare l'insurrezione istriana con un'operazione
militare in grande stile, rapida e risolutiva. In tutto il Friuli Venezia Giulia fino all'Istria e la
Dalmazia si muovono più di 45000 soldati tedeschi e italiani, circa 6000 sono quelli impiegati
in Istria e ad essi si affiancano migliaia di carabinieri, finanzieri e agenti di Pubblica Sicurezza.
In Istria i repubblichini svolgono un ruolo particolarmente odioso: quello di consegnare ai
tedeschi i loro concittadini e connazionali. Svolgono opera di fiancheggiamento nelle
operazioni di rastrellamento e di fucilazione delle popolazioni civili e dei partigiani,
nell'identificazione e nel massacro degli antifascisti, italiani, croati o sloveni che fossero.

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In ottobre i tedeschi costringono i partigiani alla ritirata, riprendendo il controllo
dell’intero territorio, e requisiscono la Risiera di San Saba, presso Trieste, trasformandola in
campo di sterminio, l’unico in territorio italiano, dove vengono uccise circa 4000 persone,
soprattutto partigiani e ostaggi sloveni e croati, ma anche esponenti della resistenza italiana,
ebrei e civili vittime dei rastrellamenti. In questo periodo, e sino alla fine della guerra, la
resistenza slovena e croata si rafforza, mentre le la repressione nazi-fascista diviene sempre più
cruenta.
           L'arrivo delle truppe naziste offre ai fascisti locali l'occasione di uscire dai loro
nascondigli e di riorganizzarsi, ponendosi al servizio degli hitleriani e mettere in atto la
vendetta per i camerati uccisi. Comunisti e non comunisti, chiunque avesse un conto scoperto
con gli ex dirigenti, la condanna arrivava senza processo. Fucilazioni, torture, rappresaglie,
incendi di villaggi si susseguono. Un esempio è il villaggio di Lipa, che il 30 aprile 1944 viene
incendiato e i suoi 269 abitanti, uomini, donne e bambini vengono bruciati vivi.
       In campo alleato, nel 1944, quando diventa chiara l’imminente sconfitta di Hitler, si
pone il problema del futuro assetto della Venezia Giulia: gli anglo americani intendono
occupare il territorio e rinviare alla conclusione della guerra ogni decisione, mentre Tito, con
un colpo di mano, vorrebbe occupare la regione e mettere gli alleati di fronte a un fatto
compiuto. In questo contesto si aprono contraddizioni tra la resistenza italiana e quella croata e
slovena, che pretende il comando delle operazioni.
       La momentanea ritirata delle truppe partigiane slave, causata dalla contro offensiva
delle truppe tedesche (ottobre 1943), non cancella le paure degli italiani dell'Istria e della
Dalmazia destate dalle insurrezioni popolari. Si diffonde anzi la preoccupazione per una nuova
e forse definitiva ondata “slava”, che avrebbe travolto gli italiani nel caso in cui fossero
ricaduti sotto il potere jugoslavo.

2.4 IL RECUPERO DEI MORTI

      Dopo le prime segnalazioni di presenza di cadaveri negli inghiottitoi, ad inizio ottobre
1943, l’azione di ricognizione e di recupero viene affidata al distaccamento di Pola del 41°
Corpo dei Vigili del Fuoco. Le squadre si mettono al lavoro, il 16 ottobre, dirette sul campo dal
maresciallo Arnaldo Harzarich e assistite da un rappresentante della Procura; tutto intorno una
adeguata scorta armata alla quale si uniscono medici, sacerdoti, autorità civili, parenti delle
vittime e numerosi fotografi. I primi lavori iniziano in località Faraguni, nell’agro di Vines
(Comune di Albona), nella foiba “dei Colombi” profonda 226 metri. Le operazioni di recupero
dei corpi richiedono sette giorni di lavoro, tra il 10 e il 25 ottobre; il lavoro è estremamente

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pericoloso e l’aria irrespirabile, infatti gli operatori devono indossare gli autorespiratori ed
alternarsi nelle innumerevoli discese nella foiba. Vengono recuperate 84 salme.
      Il 4 novembre vengono riesumate 26 salme dalla foiba di Terli (Barbana), profonda 125
metri. Gran parte dei corpi presentano colpi di arma da fuoco alla testa o al viso.
Successivamente vengono estratte a Treghelizza (Castellier) 2 corpi. Verso la fine di novembre
i Vigili del Fuoco esplorano i dintorni di Gimino ed il giorno 30 recuperarono in una foiba in
località Pucicchi, a meno di un chilometro dal centro abitato di Gimino, 11 salme che
presentano diversi segni di arma da taglio. Verso la metà di dicembre 1943 ci sono altri
recuperi.
      In particolare a Villa Surani, località nei pressi di Antignana, nell’Istria centrale, vengono
riesumate 26 salme, ormai decomposte da tempo, da una foiba profonda 135 metri.
Successivamente vengono recuperate 8 salme in due diverse giornate a Cregli (Barbana).
Infine nel dicembre 1943 sono riesumati 2 corpi a Carnizza D’Arsia. I Vigili del Fuoco di Pola
fra l’ottobre e il dicembre 1943 per il recupero delle salme, con l’appoggio saltuario della
squadra soccorso delle miniere di Albona, estraggono 159 salme. Tuttavia non in tutte le foibe
è possibile, soprattutto per insormontabili difficoltà tecniche, procedere ad un recupero anche
parziale dei corpi.
      In altre foibe esplorate dai vigili non è possibile accertare il numero delle salme giacenti.
Ci sono anche ritrovamenti presso le cave di bauxite di Gallignana, nella zona collinosa vicino
a Pisino, dove il recupero delle salme non presenta particolari difficoltà. Nei primi giorni di
novembre 1943 i Vigili del Fuoco di Pola e di Pisino, recuperarono 21 cadaveri in una cava a
Lindaro e successivamente altre 23 salme in una seconda cava a Villa Bassotti, entrambe le
località site ad ovest di Gallignana.
      Un tentativo di ricostruzione statistica può essere fatto, tenendo conto del numero degli
scomparsi nelle varie località istriane nel periodo settembre-ottobre 1943. Tuttavia è molto
importante stabilire e chiarire una questione fondamentale: cosa intendiamo per “infoibati”.
Esistono infatti due significati diversi della parola “infoibati”, uno letterale e uno simbolico.
Letteralmente “infoibati” significa l’uccisione delle vittime e/o l’occultamento dei cadaveri che
vengono gettati nelle cavità carsiche. In questo senso gli infoibati veri e propri sono solo una
parte di tutti coloro che vengono uccisi nelle due ondate di violenza avvenute nel settembre-
ottobre 1943 e nel maggio-giugno 1945.
      Invece nel linguaggio politico e in quello di una certa parte della storiografia il
significato del termine diventa quasi simbolico e spesso si dilata fino a comprendere tutte le
vittime italiane del biennio ‘43-’45, quindi anche le persone cadute in combattimento o fucilate
o affogate o fatte sparire nelle cave di bauxite o semplicemente scomparse, insomma anche

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coloro che non vengono gettati effettivamente nelle foibe. Al contrario solo una parte degli
uccisi e degli scomparsi ha subito quella fine. La differenza tra i due significati, non solo ha
portato ad una diversa interpretazione del fenomeno, ma ha anche contribuito ad una diversa
quantificazione delle vittime. Per essere più precisi bisognerebbe parlare di scomparsi e uccisi
da un lato e “infoibati” dall’altro.

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CAPITOLO III
                                  40 GIORNI DI TERRORE

3.1 L’OCCUPAZIONE DI TRIESTE

       Il due maggio 1945 arrivano a Trieste i reparti corazzati neozelandesi agli ordini del
generale Freyberg i cui ufficiali, insieme a quelli jugoslavi, trattano la resa dei tedeschi
asserragliati nel castello di san Giusto. Trieste resta nelle mani delle truppe di Tito, che
invitano il generale Freyeberg ad entrare in città quale “ospite”. I soldati jugoslavi della IV
armata occupano tutta la Venezia Giulia accogliendo la resa dei soldati tedeschi e dei fascisti
della Repubblica di Salò. Accanto alle truppe regolari entrano in città anche combattenti delle
formazioni partigiane slovene e croate, che fraternizzano con quella parte di popolazione che
esulta per la caduta del nazifascismo.
       Sono pochi gli italiani che gioiscono, sanno che la bandiera partigiana che li ha liberati
non è era solo italiana ma anche slava. Si verifica così non solo il rovesciamento dei poteri di
carattere istituzionale e statale, ma anche un mutamento etnico-politico che continua fino ai
giorni nostri. Alcuni militari nazisti e fascisti sono internati nei campi di concentramento di
Borovnica, altri, specialmente nella prima decade del mese, sono uccisi sul posto dalle truppe
titine e dai partigiani italiani. Vengono catturati poi esponenti del partito fascista, i militari
della forza pubblica come: carabinieri, guardia di finanza e guardia civica. Ma, fatto che
dovrebbe destare maggior scalpore, i partigiani jugoslavi, comandati da Tito, arrestano anche i
rappresentanti dei CNL di città come Trieste, Gorizia, Fiume.
       Le truppe titine rimangono a Trieste dal 2 maggio fino ai primi giorni del giugno 1945.
Dopo quaranta giorni a seguito dell'accordo di Belgrado, Trieste Gorizia e Pola rimangono
nelle mani delle truppe angloa-mericane mentre il resto della Venezia Giulia è amministrato
dai partigiani jugoslavi.. L'OZNA, la polizia politica e di sicurezza, in base al mandato
conferitole dal Partito comunista sloveno, si impegna ad arrestare tutti i “nemici del popolo”
presenti nelle liste di nomi che partigiani slavi ed italiani hanno compilato per indicare persone
che, nel passato, avevano collaborato o rivestito cariche fasciste. L'OZNA, però, forte del suo
mandato, arresta anche alcuni membri delle brigate partigiane italiane dipendenti dal CNL
(Comitato Nazionale di Liberazione) di Trieste, i cui combattenti sono considerati alla stregua
dei militari nazisti o militanti fascisti. Il motivo lo rivela il famoso mandato del Partito
comunista jugoslavo, che dimostra come i dirigenti del partito non volessero tollerare
l'esistenza di strutture politiche e forze militari che non accettassero di essere subordinati al
movimento di liberazione slavo. A Trieste, in quei giorni, partigiani italiani vengono uccisi

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perchè a fianco della bandiera jugoslava volevano mettere anche quella italiana, ma questo fu
impedito.
       Il 5 maggio, in risposta ad una delle tante manifestazioni filojugoslave organizzate
portando in città gli attivisti sloveni dalle zone rurali interne, migliaia di triestini scendono in
piazza sventolando il tricolore. Il corteo, che si era formato spontaneamente dietro un gruppo
di giovani studenti, sfila pacificamente cantando gli inni nazionali lungo il Corso, ingrossando
a vista d’occhio quando, all’altezza di Via Imbriani, compaiono i miliziani di Tito che aprono
il fuoco ad altezza d’uomo senza preavviso. I dimostranti si disperdono lasciando sul terreno
cinque morti oltre a decine di feriti.
       Stessa sorte hanno città come Gorizia e Fiume. A Fiume, in particolare, sono perseguiti
non solo i membri del CNL, ma anche persone che aderivano a quel movimento autonomista
fiumano che si rifaceva alla lotta per lo Stato libero di Fiume combattuta nel primo dopoguerra
contro D'Annunzio e il suo progetto d'annessione della città all'Italia.
       Nel mese di maggio del 1945 l'OZNA calcola di aver effettuato circa 10.000 arresti. La
popolazione civile, memore delle foibe del 1943, accoglie nel modo più tragico gli arresti ed il
panico prende il sopravvento. Le autorità locali jugoslave comprendendo l'ondata di terrore
decidono di ottenere informazioni sugli arresti e di impedire trattamenti troppo drastici, ma per
i vertici del Partito comunista jugoslavo di Belgrado l'esigenza di controllo sul territorio a
qualsiasi costo, rispetto alla ricerca del consenso popolare, ha la precedenza.

3.2 LA SORTE DEI DEPORTATI

      Le truppe regolari jugoslave della IV armata procedono all'internamento dei militari.
Durissimo peraltro è il trattamento inflitto ai prigionieri, molti dei quali periscono di stenti o
vengono liquidati nei campi di concentramento - particolarmente famigerato fu quello di
Borovnica - e durante le marce di trasferimento, che si trasformano spesso in marce della
morte. Non tutti però vengono deportati. Specialmente nella prima decade del mese numerose
sono le esecuzioni sommarie, compiute in genere subito dopo la cattura e decise non solo senza
previo accertamento, ma talvolta anche senza un vero interesse per la ricerca di effettive
responsabilità personali in atti criminosi; ciò che conta, infatti, nel caso dei militari, non è tanto
il riconoscimento individuale di responsabilità, quanto la colpa collettiva, che viene fatta
automaticamente derivare dall'appartenenza alle forze armate naziste e repubblichine. La
medesima linea di condotta viene applicata anche agli appartenenti alle forze di polizia, per i
quali la presunzione di colpevolezza discende direttamente dall'inserimento nell'apparato

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repressivo nazifascista, tanto che i procedimenti nei loro confronti assumono una valenza più
simbolico-politica che giudiziaria.
      Tutto ciò non implica, naturalmente, che fra gli uccisi non vi fossero effettivamente
anche professionisti della violenza, protagonisti di rappresaglie e sevizie, spie - anche slovene
e croate - e aguzzini del famigerato Ispettorato speciale di pubblica sicurezza per la Venezia
Giulia, il cui sistematico ricorso alla tortura era già stato oggetto di forti denunce, anche da
parte del vescovo di Trieste, e ciò fin dalla primavera 1943. In quest'ultimo caso si tratta di
soggetti che avrebbero probabilmente fatto la medesima fine anche se ad assumere il controllo
del territorio non fossero state le truppe jugoslave ma i partigiani italiani. In linea di massima
però il criterio di fondo degli arresti, e in parte anche delle liquidazioni, si fonda più sulla
categoria che sull'individuo, sulla responsabilità collettiva piuttosto che su quella individuale, e
a essere travolti dalla repressione sono in maggior misura i quadri intermedi che non i vertici
della Questura di Trieste; parzialmente diversa è la situazione a Gorizia, dove, assieme a
carabinieri e agenti di polizia, scompare anche il questore. Sempre nella logica
dell'eliminazione delle forze armate esistenti sul territorio, rientra anche la deportazione delle
unità della Guardia di finanza, che non avevano partecipato ad azioni antipartigiane, e di molti
membri della Guardia civica di Trieste, che certamente era stata dipendente dai comandi
tedeschi, ma non era stata impiegata in attività repressive, con l'eccezione di un reparto che
venne adibito alla scorta di deportati in Germania, forse lo stesso che venne utilizzato in
appoggio a un rastrellamento in un quartiere operaio della città a pochi giorni dalla fine della
guerra.
      Per di più, entrambe le formazioni erano state largamente infiltrate dall'organizzazione
militare dei Comitato di Liberazione nazionale (CLN) e avevano partecipato sotto i suoi
comandi all'insurrezione contro i tedeschi. Si tratta quindi, quantomeno, di "nemici" assai
particolari. Ma se nei loro riguardi si potrebbe pensare a una sorta di diffidenza verso gli
antifascisti dell'ultima ora, tale ipotesi non regge di fronte all'arresto anche di alcuni membri
delle brigate partigiane italiane dipendenti dal CLN di Trieste, i cui combattenti sono spesso
considerati alla stessa stregua dei militari germanici e della Repubblica sociale. La circostanza
però è meno incomprensibile di quanto non sembri a prima vista perché, in effetti, le fonti ci
rivelano in maniera assai esplicita come i dirigenti comunisti sloveni non intendessero in alcun
modo tollerare l'esistenza di strutture politiche e forze militari, quelle appunto facenti capo al
CLN, che non solo non erano disponibili ad accettare la guida politica e la subordinazione
pratica al Movimento di liberazione jugoslavo, ma che, per di più, si erano impegnate a
cercare, mediante l'insurrezione armata, un'autonoma legittimazione antifascista agli occhi
della popolazione e degli angloamericani.

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3.3 L’EPURAZIONE DELLA SOCIETÀ GIULIANA

      Dell'internamento, come pure delle liquidazioni, dei militari italiani si occupa
direttamente la IV armata jugoslava, mentre la protagonista delle retate di civili è l'OZNA, la
polizia politica e di sicurezza, col concorso della Difesa popolare, una milizia paramilitare agli
ordini del Consiglio di liberazione. Partecipano agli arresti anche forze armate jugoslave, e
pure qualche piccolo reparto della divisione "Garibaldi-Trieste". L'OZNA agisce in base al
mandato conferitole nell'autunno del 1944 dai vertici del Partito comunista sloveno e può
servirsi di una vasta rete di confidenti, italiani e sloveni, già da mesi impegnati a stendere
lunghe, anche se non sempre precise, liste di presunti "nemici del popolo".
      Come si è già detto a proposito della crisi dell'autunno 1943, è questa una categoria dai
contorni indefiniti nella quale, nella primavera del 1945, finì per confluire un gran numero di
soggetti. Ovviamente, bersagli della repressione sono gli esponenti del fascismo e del
collaborazionismo locale, anche se in realtà i leader del PFR avevano preso in genere per
tempo la fuga, mentre i vertici delle amministrazioni insediate dai tedeschi vengono arrestati e
fatti sparire a Gorizia, ma non a Trieste; rispetto ai personaggi di rilievo, con maggior
accanimento vengono ricercati i "pesci piccoli", gli ex squadristi in genere ben conosciuti dalla
popolazione.
      La persecuzione si abbate largamente sui dirigenti delle forze politiche italiane e slovene
diverse dal Partito comunista, e su di un gran numero di soggetti ritenuti per i più diversi
motivi "pericolosi" nell'ottica dei nuovi poteri. Poteva trattarsi di persone che si erano in
qualche modo rese invise al Movimento di liberazione jugoslavo, rifiutandosi per esempio di
collaborare con esso o semplicemente esprimendo la propria disapprovazione nei confronti dei
suoi obiettivi e metodi, o che avevano compiuto in passato scelte politiche di stampo
patriottico quando non esplicitamente fascista (per le autorità jugoslave ciò non faceva molta
differenza), dalla partecipazione come volontario irredento alla Grande guerra o a quelle di
Spagna e d'Abissinia; oppure, ancora, che si erano rifiutate di esporsi in favore del nuovo
regime, per esempio negando la loro firma alle petizioni in favore della Jugoslavia promosse
dai "poteri popolari". Allo stesso modo vengono colpiti elementi che detengono posizioni
importanti nell'economia e nella società triestina, o, più frequentemente, che hanno ricoperto
qualche incarico in una delle tante organizzazioni di massa del regime fascista.
      In ogni caso, si tratta di individui dai quali il nuovo regime poteva attendersi un
atteggiamento d'opposizione o anche soltanto di sicuro dissenso nei confronti dell'annessione
alla Jugoslavia e della costruzione di uno stato comunista, e ciò non sembrava in alcun modo
tollerabile. Anche i civili che sopravvivono alle uccisioni concentrate soprattutto nelle due

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prime settimane di maggio, vengono deportati nei campi di prigionia, diversi rispetto a quelli in
cui vengono convogliati i militari ma non certo migliori in quanto fame e malattie decimano i
detenuti, alcuni dei quali vengono successivamente processati subendo condanne, anche
capitali, comminate dai tribunali jugoslavi fino al 1947.
      Non    sempre     alla   gravità   delle   accuse     mosse   agli   arrestati   (squadrismo,
collaborazionismo, persecuzione degli slavi, delazioni a carico di partigiani, ostilità manifesta
nei confronti del Movimento di liberazione jugoslavo, spionaggio a favore dell'Italia, ecc.)
corrisponde un reale impegno delle autorità nella ricerca di prove a carico dei detenuti e
nemmeno, in numerosissimi casi, un effettivo interesse a verificare la loro posizione; una
circostanza, questa, che suggerisce come l'obiettivo principale della repressione non fosse tanto
di ordine giudiziario, e cioè la punizione di colpevoli, quanto politico, vale a dire
l'eliminazione di individui e gruppi ritenuti pericolosi.

3.4 LE VIOLENZE DEL 1945 COME VIOLENZA DI STATO

      Le violenze del 1945 per lungo tempo sono state identificate esclusivamente dalle
espressioni foibe o infoibamenti al posto di deportazione. Infatti nella realtà solo una parte dei
deportati, e probabilmente anche la minima parte, è finita nelle foibe. Di essi molti sono morti
di fame, di stenti o di malattie nei campi di concentramento in Jugoslavia, molti altri sono
vittime di uccisioni a freddo, infine più di un centinaio, prelevati dalle carceri di Lubiana, sono
scomparsi.
 Il messaggio che si vuole trasmettere è abbastanza chiaro: per la popolazione slovena del
retroterra triestino la foiba era il luogo in cui si era soliti gettare quello che non serviva più.
Gettare un uomo in una foiba significa trattarlo alla stessa stregua di un rifiuto. In tale
situazione alcune testimonianze raccontano di uno scambio di abiti buoni con gli abiti logori
che avviene fra deportati e loro carnefici, prima di venire infoibati. Praticamente in quel
contesto gli abiti valgono più della persona, considerata alla stessa stregua dei rifiuti. Ulteriori
testimonianze raccontano di due preti sloveni presenti nel villaggio di Bassovizza nei primi
giorni di maggio 1945, dove è attivo il tribunale militare della IV armata jugoslava,
responsabile della condanna a morte di alcune centinaia di persone successivamente gettate nel
“pozzo della miniera”. Risulta che uno dei preti si sia rivolto ad uno dei condannati dicendogli:
“Fino ad ora hai peccato, hai goduto nel torturare gli slavi e adesso non ti resta che affidare
la tua anima a Dio. Hai pienamente meritato la punizione che ti spetta”. Inoltre lo stesso prete
si rifiuta di impartire l’estrema unzione perché “non ne vale la pena”. In tutto questo si coglie

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chiaramente l’assenza di distinzione fra Giustizia Divina e Giustizia Umana, un vero e proprio
rovesciamento dei valori, una sorta di inversione dei sentimenti, come la definirà Silvio Benco.
       Da questa situazione nascono due interpretazioni, radicalmente contrapposte: da un lato
la distruzione di tutto ciò che è la civiltà, e quindi l’Italia, dall’altra la manifestazione della
giustizia antifascista. A giustificare quanto sopra all’atto della firma degli accordi di Belgrado
il 9 giugno 1945 il governo jugoslavo in una nota inviata ai governi di Inghilterra e Stati Uniti
afferma di non aver compiuto ne arresti ne deportazioni ne sequestri di beni se non
giustificandoli come azioni volte alla sicurezza militare, dirette nei confronti di persone note
come esponenti fascisti o criminali di guerra. Inoltre in risposta alla richiesta Anglo-Americana
di restituire 2472 persone che risultano scomparse nel maggio del 1945, il governo di Tito le
definisce come “fascisti caduti a fianco dei tedeschi o dispersi nel corso di di combattimenti
con i partigiani e di operazioni dell’esercito jugoslavo nella Regione Giulia, oppure criminali
di guerra dei quali il popolo stesso ha disposto all’atto della liberazione”.
 Questo furor di popolo viene usato per giustificare gli evidenti eccessi di reazione, ma
difficilmente, in passato, si è capito quale sia stata la scintilla che lo produsse. Elio Aphi scrive
alcuni anni dopo che il furor di popolo “è lo scenario,e il dramma che vi svolse aveva sostanza
politica”.
       Per definire tale sostanza politica bisogna partire dalla dichiarazione di Casablanca del
gennaio 1943, che proclamava il principio della resa senza condizioni. Essa apre una
prospettiva di occupazione dei territori nemici e evoca i vuoti di potere che la sconfitta
potrebbe provocare.
        Sconfitta, vuoto di potere e controllo: ecco ciò che da fondamento alla sostanza
politica. Con l’8 settembre 1943 si assiste all’inaspettato dissolvimento dello stato italiano, la
fine inattesa di un apparato repressivo che provoca l’esplosione di violenza, in particolare
nell’Istria, dove vengono infoibate tra le 500 e 700 persone. In questo caso si tratta di una
reazione sostanzialmente spontanea.
       E’ invece nel maggio del 1945 che la sostanza politica si delinea chiaramente. Il gruppo
dirigente formatosi attorno a Tito non vede nel conflitto in atto in Jugoslavia uno scontro tra
fascismo e antifascismo, ma un’opera di nation building, la creazione di una identità jugoslava,
saldamente coesa con la rivoluzione proletaria. E’ dunque l’onda lunga del Comunismo che
spinge avanti l’intera nazione jugoslava e gli da sostanza.
       A differenza delle violenze del 1943, in questo caso si assiste ad un fenomeno diverso:
la morte non viene più messa in piazza, ma si occulta. Invece è la deportazione che si mette in
piazza: nei primi giorni di maggio lunghi cortei di deportati percorrono la città prima di essere
trasferiti altrove. C’è dunque una combinazione di esibizione e di occultamento, ed è l’aura di

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