Catalogo - FILM FESTIVAL POKLON VIZIJI OMAGGIO A UNA VISIONE - Comune di ...

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Catalogo - FILM FESTIVAL POKLON VIZIJI OMAGGIO A UNA VISIONE - Comune di ...
FILM FESTIVAL
     POKLON VIZIJI
     OMAGGIO A
     UNA VISIONE
     GORICA / GORIZIA, IZOLA / ISOLA, NOVA GORICA,
     LJUBLJANA, SAN PIETRO AL NATISONE / ŠPETER,
     TRIESTE / TRST, UDINE

catalogo
Catalogo - FILM FESTIVAL POKLON VIZIJI OMAGGIO A UNA VISIONE - Comune di ...
In collaborazione con:

Con il contributo di:
Catalogo - FILM FESTIVAL POKLON VIZIJI OMAGGIO A UNA VISIONE - Comune di ...
2    Introduzione
     Mateja Zorn

7    Motivazione

8    Biografia

9    Filmografia

10   Premi

12   »Apprezzo gli attori che sanno portare il silenzio«
     Patricija Maličev

32   Il regista che offre sempre un’alternativa ai personaggi
     Nicola Falcinella

36   Gli orfani di Srdan Golubović
     Cristina Battocletti

44   Film

52   Film per tutta la famiglia: pomeriggio al cinema

54   Giocare con il suono: laboratorio di sonorizzazione
     di un film

56   Sandlines, the Story of History

58   Incontro: Cinema come hub innovativi per le comunità
     locali

60   First Crossings

74   Spazi nello spazio

78   Sonorizzazione del film Il gabinetto del dottor Caligari

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Introduzione

           Mateja Zorn, direttrice del festival

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La realtà cinematografica goriziana, molto ricca e articolata,
è caratterizzata in modo particolare dalla dimensione
transfrontaliera. Sia a Gorizia che a Nova Gorica e dintorni
sono attive numerose istituzioni che promuovono la cultura
cinematografica attraverso proiezioni di film nelle sale
cinematografiche, nei festival o in altre location. Inoltre il
territorio vanta una tradizione di educazione alla cultura
cinematografica che va dalle elementari fino al livello
universitario e una ricca produzione cinematografica e
audiovisiva. Intrecciando collaborazioni ben concepite fra tutti
gli operatori coinvolti ci proponiamo di fare un passo avanti
e di sviluppare nei prossimi anni un’offerta cinematografica
transfrontaliera che sia riconoscibile ed unitaria e che possa
attrarre un pubblico non solo locale ma anche internazionale,
oltre che esperto. L’idea di sviluppare una città cinematografica
transfrontaliera è realizzabile se diventa una sfida per tutti
coloro che creano e offrono contenuti e per chi vede nel buon
cinema un arricchimento culturale. In questa prospettiva il
festival cinematografico transfrontaliero Omaggio a una
visione, che già nel proprio nome rivela un interesse per una
visione chiara e protesa verso il futuro, a sostegno di una
concezione lungimirante sia dei singoli che della società,
rimane uno dei soggetti centrali e uno dei leganti della nostra
realtà cinematografica. Quest’anno sette location – Gorizia,

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Nova Gorica, Trieste, Udine, San Pietro al Natisone, Isola e
Lubiana – saranno teatro della nostra ricca selezione di opere
cinematografiche, oltre 50 tra cortometraggi e lungometraggi
che con il loro linguaggio particolare ci spingono a riflettere e a
osservare la società in cui viviamo.

   Il cineasta serbo Srdan Golubović, vincitore di quest’edizione
del premio Darko Bratina, con le sue opere ci invita in modo
discreto a chiederci quale azione umana possiamo intraprendere
sul piano individuale per raggiungere l’equilibrio e l’uguaglianza
dei diritti dei singoli nella società, instaurando quell’empatia
non sentimentale che sta lentamente scomparendo dalla
coscienza collettiva. Questo tema è presente anche nel suo
ultimo lungometraggio Father (Otac), coproduzione di
minoranza slovena che verrà proiettato in prima visione in
Slovenia, in collaborazione con il festival Liffe.

   Il centro culturale Mostovna ospiterà la sezione First
Crossings (Primi Voli), concepita come piattaforma per lo
sviluppo di nuovi linguaggi cinematografici, che oltre alla
proiezione di cortometraggi comprenderà anche conferenze,
workshop e la mostra Spazi nello spazio, nella quale
verranno presentate opere degli studenti e delle studentesse
dell’Accademia dell’Arte dell’Università di Nova Gorica. In
programma anche un’ esperienza cinematografica particolare
con la sonorizzazione dal vivo del film Il gabinetto del dottor
Caligari, opera centenaria del regista Robert Wiene. L’analisi
della modalità in cui il suono e la musica influiscono sulla
nostra percezione delle figure in movimento è invece il filo
rosso del progetto didattico del Kinoatelje Immaginare con i
suoni, che offre anche ai più piccoli degli interessanti workshop
annuali. Andare al cinema è un piacere per tutta la famiglia,
perciò quest’anno il programma comprende un pomeriggio

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all’insegna delle fantastiche immagini del film Sandlines con
il suo protagonista, un bambino del villaggio di Mosul che ci
accompagna attraverso la complessa storia dell’Iraq.

   L’incontro formativo di quest’anno, Cinema come hub
innovativi per le comunità locali, sarà un’occasione per riflettere,
insieme ad ospiti locali ed internazionali, sui metodi innovativi
dell’esperienza cinematografica e sui contenuti didattici creativi
di qualità, su come si modificano i modi di guardare i film e su
come possiamo concepire le piattaforme di Video On Demand
(VOD), dove la fruizione cinematografica non solo diventa
più accessibile, ma si trasforma essa stessa in un’esperienza
significativa.

    Sin dalla fase preparatoria dell’edizione del festival di
quest’anno, nonostante le molte limitazioni e conseguenze
negative della pandemia da coronavirus, eravamo coscienti
della necessità di non cedere alla paura né permettere che ci
bloccasse. È importante che la produzione e di conseguenza
la fruizione di contenuti culturali non rallenti né tanto meno
si fermi, perché un riavvio dal nulla richiederebbe molte più
risorse e dedizione. Per questo motivo ringraziamo di cuore
tutti voi che ci avete sostenuti e avete contribuito a realizzare la
ventiduesima edizione del festival Omaggio a una visione.

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Srdan Golubović, foto di Maja Medic
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Motivazione

    Srdan Golubović nei suoi film ritrae la realtà della post-
transizione nella società serba, metafora di qualsiasi altra
società, intrecciando con la sua caratteristica narrazione filmica
storie sul potere corrotto dei sistemi economico-politici che
distruggono non solo le vite dei singoli, ma anche gli ideali.
Con il suo specifico linguaggio cinematografico, considerando
le particolarità storiche e sociali, rivela come ai lembi estremi
del contesto globale della vita moderna ci si confronti con rischi
di dimensioni catastrofiche e incomparabili, che derivano dallo
scontro tra gli obiettivi parziali e unilaterali del singolo e della
comunità. Il modo in cui racconta le sue e le nostre storie ha un
valore inestimabile. Anche per questo siamo molto felici che sia
il vincitore del premio Darko Bratina di quest’anno.

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Srdan Golubović – biografia

    Srdan Golubović è nato nel 1972 a Belgrado, figlio del regista
cinematografico Predrag Golubović. Si è laureato in regia presso la
facoltà di arte drammatica di Belgrado. Durante gli studi ha girato
diversi cortometraggi, tra cui il più conosciuto è Trojka, per il quale
ha ricevuto nel 1994 la medaglia d’oro della città di Belgrado per
il miglior film esordiente al festival del film documentaristico e del
cortometraggio. Nel 1995 ha diretto una parte del film collettivo
Paket aranžman dal titolo Hertz minute. Nel 2001 ha girato il suo
primo lungometraggio dal titolo Absolute 100 (Apsolutnih sto), con
cui ha partecipato a oltre 30 festival internazionali del cinema
vincendo diversi premi. Anche il suo secondo lungometraggio
The Trap (Klopka), girato nel 2007 e presentato in anteprima
mondiale alla Berlinale, ha ottenuto un buon successo. Il film è
stato insignito di numerosi premi e si è piazzato nella rosa dei
candidati per l’Oscar nella categoria miglior film straniero. Nel
2013 Golubović ha girato il lungometraggio Circles (Krugovi) e
nel 2020 Father (Otac). Insieme alla moglie Jelena Mitrović dirige
la casa di produzione Baš Čelik che produce film, performance
e installazioni ma anche spot pubblicitari. È professore di regia
presso la Facoltà di arti drammatiche dell’Università di Belgrado.

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Filmografia scelta

Apsolutnih sto, Srdan Golubović, Serbia, Montenegro, 2001, 93’
Klopka, Srdan Golubović, Bosnia ed Erzegovina, 2007, 106’
Krugovi, Srdan Golubović, Serbia, Slovenia, Germania, Croazia, 2013, 113’
Otac, Srdan Golubović, Serbia, 2020, 120’

Krugovi, Srdan Golubović, 2013

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Premi

•     Art Film Festival                        •     Sarajevo Film Festival
2007 premio Blue Angel per il miglior
film The Trap (Klopka)                         2013 premio del pubblico per il miglior
                                               film Circles (Krugovi)
•     Berlin International Film Festival
2013 premio della giuria ecumenica per il      •     Sofia International Film Festival
film Circles (Krugovi)
                                               2007 Grand Prixper per il film The Trap
2020 premio del pubblico e premio della        (Klopka)
giuria ecumenica per il film Father (Otac)
                                               2013 premio del pubblico per il miglior
•     BIFEST – Bari International              film Circles (Krugovi)
      Film Festival
                                               •     Sundance Film Festival
2013 premio per la miglior regia per il
film Circles (Krugovi)                         2013 premio speciale della giuria per il
                                               film Circles (Krugovi)
•     Cinequest San Jose Film Festival
2008 Director’s Award per il film The
Trap (Klopka)                                  •     Tallinn    Black   Nights    Film
                                                     Festival
•     Cottbus Film Festival of Young
      East European Cinema                     2013 premio International Film Clubs
                                               – menzione speciale per il film Circles
2001      premio    speciale,     premio       (Krugovi)
FIPRESCI e menzione speciale della
giuria ecumenica per il film Absolute 100      •     Thessaloniki Film Festival
(Apsolutnih sto)
                                               2001 premio del pubblico per il film
•     FEST        International       Film     Absolute 100 (Apsolutnih sto)
      Festival
                                               •     Trieste Film Festival
2020 premio della giuria FEDORA per
il miglior film, premio Stella Artois per il   2008 premio del pubblico per il miglior
miglior film per Father (Otac)                 film The Trap (Klopka)

•     Golden      Apricot      Yerevan         •     Wiesbaden goEast
      International Film Festival
                                               2007 premio per la miglior regia e premio
2013 grand Prix – Golden Apricot per il        FIPRESCI per il film The Trap (Klopka)
miglior film Circles (Krugovi)
                                               2013 premio per la miglior regia per il
                                               film Circles (Krugovi)
•     Milano     International Film
      Festival Awards (MIFF Awards)

2008 premio per la miglior regia per il
film The Trap (Klopka)

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»       Non mi sono mai chiesto cosa farò da
grande. Sapevo che sarei diventato regista
cinematografico. Quando avevo quattro anni
mi regalarono una Super 8. Sapevo che avrei
frequentato l’accademia e che avrei girato
dei film. A casa si parlava di tutto, ma più
spesso e più volentieri di cinema. Mio padre
è morto quando avevo 21 anni. Da quando
avevo sedici o diciassette anni ho avuto con lui
diversi brevi litigi, com’è normale a quell’età.
Stavo cercando la mia identità. Perciò sono
dispiaciuto di non aver potuto discutere con
lui di determinate cose. Per tutta la vita sono
fuggito dal suo influsso

Srdan Golubović

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»Apprezzo gli attori che sanno
portare il silenzio«

Colloquio con il regista serbo
Srdan Golubović
                      Intervista di Patricija Maličev

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Correva l’anno 2002, era mattina nella piccola sala cinematografica del
festival di Montona. Non eravamo in molti, credo che le previsioni del
tempo non fossero buone, perciò non tutti erano venuti a quella che veniva
chiamata “la Woodstock croata”, dove si andava soprattutto per fare festa.
Avevamo visto Absolute 100. Wow! Per giorni non facevo che parlare del
film e dello stile che ricordava Bresson, in un regista che non aveva ancora
compiuto 28 anni. Nel cinema serbo di allora era raro vedere qualcosa di
così coraggioso e crudamente nuovo. Quell’anno sia il film che gli attori
vinsero un premio dietro l’altro nei festival di tutta Europa. Una cosa
simile accadde anche agli altri tre lungometraggi di Golubović: The Trap
(Klopka, 2007), Circles (Krugovi, 2013) e in particolare l’ultimo, Father
(Otac, 2020), nonostante l’esplosione della pandemia di Covid19 proprio
mentre stava ottenendo i primi riconoscimenti importanti.

Nella seguente intervista, che si è svolta tra Belgrado, Lesina, Petrovac
e Lubiana, ho parlato con Golubović dei suoi inizi, quando alle medie
girava cortometraggi con Bata Živojinović come protagonista, dell’amore
per la letteratura che nutre ancora oggi, dell’influsso di suo padre,
dell’indipendenza creativa, dei contenuti delle sue produzioni e del futuro
del cinema in questi tempi così insoliti.

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Quest’anno a febbraio al Festival del cinema di Berlino il film Father,
presentato nella sezione Panorama, ha vinto il premio della giuria
ecumenica e il premio del pubblico. Cos’è accaduto da allora al film e a lei?
            È successo quello che negli ultimi cinque o sei mesi è successo
         a tutti i film e in generale all’ambito dell’arte e della cultura:
         niente. Si è bloccata la distribuzione del film, che era già iniziata
         in Serbia, e con essa le varie partecipazioni ai festival. Il film
         Father sta lentamente riprendendo vita, i cinema da noi hanno
         riaperto e attualmente il film è in programma. Vedremo con
         quale intensità potrà tornare tra gli spettatori.
Nel frattempo, Father ha passato le selezioni per il premio dell’Accademia
europea del cinema.
            Tengo molto a questo, in particolare per il fatto che i membri
         dell’Accademia sono produttori e registi prestigiosi ed è importante
         che il mio film venga visto da loro. Contemporaneamente ci siamo
         aggiudicati anche il premio del pubblico al Pola film festival e
         questo, oltre al premio del pubblico di Berlino, conferma che il film
         comunica molto bene con gli spettatori e trasmette un’emozione
         universale. Sono contento di questo.
L’atmosfera di Father ricorda molto quella della sua opera prima, Absolute
100, infatti è un’opera senza compromessi, che non cerca di accattivarsi
il pubblico.
            Mi fa piacere che lei la pensi così. Se nella realizzazione di
         Father il mio desiderio era quello di ispirarmi a qualcosa, dal
         punto di vista dell’atmosfera quella cosa è proprio il film Absolute
         100, anche per la necessità di andare fino in fondo, nel processo
         e nell’idea, così come ho fatto nella mia opera prima. Ma ciò
         non significa che negli altri film io abbia fatto il calcolatore.
         Absolute 100 è così come si è presentato al pubblico, senza che
         me ne accorgessi: tutta questa rabbia non è stata programmata,
         evidentemente si è insidiata nel film attraverso me, attraverso la

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mia esperienza di vita a Novi Beograd negli anni ‘90 e a cavallo
         dei due millenni. Non molto tempo fa uno dei miei studenti,
         futuro drammaturgo, mi disse: “Professore, nel suo film c’è molta
         rabbia.”
Possiamo affermare che il primo film è il più difficile da girare? Non solo
perché la sua preparazione spesso dura fin dagli anni giovanili, ma anche
per le proprie attese che spesso sono difficili da soffocare. Intendo dire
che l’opera prima può distruggere una vita.
            (sorride) Sono d’accordo. Ma contemporaneamente direi
         che è anche il più facile da girare. L’aspetto più difficile, in base
         alla mia esperienza, è il fatto che le opere prime determinano
         la direzione dell’autore, gli spianano la via, per cui ha solo due
         possibilità: avere successo oppure non averlo. È importante che
         durante la creazione dell’opera prima il regista sia sincero con
         sé stesso e che segua fino alla fine il proprio ritmo interiore. Per
         questo ci sono molte opere prime che abbiamo fatto nostre, non
         crede? Perché? Perché ci hanno mostrato il mondo come nessun
         altro prima di loro.
Per esempio?
            Ehm, non so, ce ne sono molte… Ad esempio i film d’esordio
         di alcuni registi dell’ex Jugoslavia – da Do you remember Dolly
         Bell? di Kusturica fino a Man is not a bird di Makavejev, a Who’s
         singin’ over there di Slobodan Šijan a Special education di Goran
         Marković – hanno determinato in modo chiaro tutti gli autori
         citati. Potremmo dire che questi registi poi hanno semplicemente
         seguito le orme delle loro opere prime. Ognuno di loro si è
         preparato al proprio esordio a suo modo, Makavejev e Pavlović
         attraverso il Cine Club, Kusturica, Marković e Karanović tramite
         la scuola cinematografica di Praga. In ogni caso, la via che ha
         portato all’opera prima non si è manifestata di punto in bianco.
         Io mi sono formato grazie all’Accademia di arte drammatica di
         Belgrado ma ancora di più crescendo negli anni ‘90, realizzando

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video musicali ma soprattutto per il desiderio di creare qualcosa
        nella vita. Ho dedicato cinque o sei anni alla preparazione della
        sceneggiatura. Lo sa come funziona con il primo film: con esso
        l’autore cerca di mostrare alla comunità della quale fa parte di
        essere diverso dagli altri. Ma in particolare ho voluto mostrare
        quanto la recitazione cinematografica potesse essere diversa da
        quello che eravamo abituati a vedere nei film serbi degli anni ‘90.
        Ho voluto girare un film nel quale gli attori fossero più vicino
        possibile alla realtà.
In che senso?
           Così come nei film britannici: una recitazione ordinata che è
        allo stesso tempo tratta dalla vita quotidiana. Di solito, le opere
        prime smantellano le autorità all’ombra delle quali sono cresciuti
        gli autori. Con il film Absolute 100 ho cercato di demolire tutto
        ciò che fino ad allora significava di più per me: dall’Onda nera dei
        professori Karanović e Marković, fino a Kusturica, che ha influito
        parecchio su di me. Ho voluto girare qualcosa di completamente
        diverso da tutto ciò che hanno fatto loro. E mio padre.
Quando aveva cinque anni suo padre le ha regalato una videocamera
Super8 con la quale ha girato un cortometraggio con Bata Živojinović
nel ruolo principale, in uno dei parchi di Pola, se ricordo bene…
           Sono cresciuto in una famiglia dove si mangiava film a colazione,
        pranzo e cena. Mio padre era regista e direttore dell’Istituto di
        cinematografia. Da piccolo sono stato infettato dal virus del cinema,
        da noi venivano ogni giorno attori e registi ed era chiaro che anch’io
        avrei seguito questa strada. Da bambino vedevo questo mondo
        come qualcosa di magico e ritenevo che la professione di regista
        fosse qualcosa di molto attraente. Sì, il mio primo film è stato
        girato proprio a Pola, una scena anche nell’arena, e in esso recita
        Bata Živojinović, che ci faceva visita alcune volte alla settimana.
        Da bambino ho girato con il Super8 diversi cortometraggi, più
        tardi anche con l’utilizzo di supporti più semplici. A scuola non

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ero un alunno modello ma, a differenza di altri, leggevo molto. La
        letteratura era qualcosa che mi piaceva. Mio padre, comparativista e
        drammaturgo, non si arrabbiava per i miei brutti voti perché vedeva,
        capiva e sosteneva la mia passione per la letteratura. Aveva capito
        che essa era, oltre alla cinematografia, la mia unica passione. Certo,
        si aspettava che mi iscrivessi alla facoltà di letteratura. Quando mi
        sono iscritto al corso di regia volevo liberarmi dell’ascendente di
        mio padre, il che è normale, e allontanarmi da lui. Volevo trovare
        il più velocemente possibile la mia strada e il mio modo di fare
        cinema. In questa ricerca mi hanno aiutato i miei professori. Ho
        avuto il privilegio di avere tra i miei docenti Goran Marković, Srdan
        Karanović, Živojin Pavlović e Gordan Mihić. Da loro ho imparato
        cose estremamente interessanti…
Cosa le è rimasto più impresso nella memoria di tutto quello che ha
sentito durante le lezioni?
            Nella memoria sono rimaste impresse alcune frasi (sorride), il
        che a volte è sufficiente. Mi ricordo del leggendario Gordan Mihić,
        professore di sceneggiatura: non permetteva che incominciassimo
        a scrivere le sceneggiature senza aver prima potuto sintetizzare
        il contenuto del film in tre frasi. Certamente questo compito
        ci sembrava frustrante e senza senso. Ma allo stesso tempo –
        cosa che abbiamo capito solo più tardi – ci stavamo allenando
        a rappresentare sinteticamente la trama del film. Oggi credo
        profondamente alla sua intuizione, il che mi è stato confermato
        anche da Paul Schrader. Per un semestre abbiamo avuto come
        docente anche il regista Aleksandar Saša Petrović, che tra l’altro
        proiettava spezzoni tratti dai suoi film. Un giorno uno dei miei
        compagni di studio gli pose una domanda – anche se Saša non
        concedeva di porgli domande, alla fine di ogni proiezione prendeva
        in silenzio le sue cose e se ne andava, perciò tra di noi non c’era
        alcuna comunicazione. Gli fece notare che in uno dei suoi film
        c’è una scena con la polizia ed i rom e che la stessa scena si trova
        nel film di Kusturica Time of Gypsies e gli chiese se pensava che

                                                                17
Vuk Kostić e Srdan Žika Todorović in Absolutnih sto, Srdan Golubović, 2001
“Kusta” gliel’avesse rubata. Petrović, che già era dell’avviso che il
         collega gli avesse rubato la fama che secondo lui avrebbe dovuto
         essere sua, dopo due secondi di silenzio rispose: “No, Kusturica
         non ruba, ma spesso lo fanno gli zingari”. Tutti ci siamo messi
         a ridacchiare. Vede, si tratta delle frasi di cui mi ha chiesto, che
         non sono direttamente legate alla regia ma che dicono molto sul
         rapporto con la professione di regista e filmmaker.
In Absolute 100 ha fatto i conti con la poetica di suo padre Predrag
Golubović e dei suoi professori. Ma è interessante notare come nel suo
ultimo film Father lei sia tornato al tema di suo padre, in particolare
nell’ultimo quarto di questo film.
             Esatto, ma è successo senza accorgermene. Non per il titolo:
         gli ultimi dieci minuti sono un omaggio ai cortometraggi di mio
         padre, più esattamente al film U Predahu del 1978.
Durante le riprese di Absolute 100 non ha dormito per una settimana,
perché?
            Ero agitato, nervoso. Infine il direttore della produzione
         mi disse: “Ascolta, beviti una, due, tre bottiglie di birra e va’ a
         letto.” Così feci e poi mi addormentai. Durante quelle riprese
         ero molto incerto, per questo motivo ho inconsciamente scelto la
         location di Novi Beograd che conosco molto bene e che è stata
         casa mia. Allora già comprendevo il significato dei suoi motivi
         caratteristici: le vecchiette alle finestre.
…e i giovani sui balconi, le visuali dai balconi sono prettamente opera sua…
            I balconi, sì (sorride), radicati nei miei ricordi hanno
         incominciato a ripresentarsi nella mia mente. In quanto
         professore, ai miei studenti del terzo anno – due sono di solito di
         Belgrado, gli altri di altre località – assegno il compito di andare
         a girare nelle proprie città e nei propri luoghi. Credo infatti che
         le esperienze acquisite nei propri luoghi siano importanti per il
         futuro lavoro anche a causa del legame intimo con essi. Si tratta

                                                                19
di una percezione diversa. Credo che l’opera prima debba essere
         personale e senza compromessi e che in essa debba esserci una
         parte del luogo nel quale è cresciuto l’autore.
È vero che con il film The Trap (Klopka) ha incominciato la sua trilogia
sulla figura del padre?
           Credo che tutti i miei film contengano il motivo del padre,
         anche il primo, nel quale il racconto poggia sulla sua assenza.
         Forse ciò è in qualche modo legato al fatto che io abbia perso
         mio padre da giovane, all’età di 21 anni.
Quanto tempo dedica al contenuto di un film prima di scriverne la
sceneggiatura?
            Molto (sorride). Qualche anno. La parte più lunga e difficile
         del processo è trovare una storia da raccontare. Da questo
         punto in poi tutto scorre velocemente. Per esempio, con Circles
         è stato diverso, mi sono dedicato molto alla forma e al modo
         di raccontare. Non sono convinto di esserci completamente
         riuscito. Credo che la scelta della storia sia simile al mal di denti:
         vuoi sapere da dove esattamente provenga il dolore e quanto
         sia profondo, perciò devi premere con la punta della lingua sul
         dente. Prima di ogni nuovo film premo con la lingua sui denti.
Absolute 100 e The Trap sono stati girati ai tempi che per la Serbia
sembravano molto più interessanti di oggi.
            Certamente, in particolar modo se parliamo del film Absolute
         100, in quanto abbiamo iniziato le riprese nell’agosto del 2000 e a
         metà gennaio c’è stata la caduta di Milošević.
            Fino ad allora la Serbia è stata veramente chiusa. D’altra parte,
         in The Trap troviamo l’eco di quei tempi, sei anni dopo. Certo,
         da allora non abbiamo fatto chissà quanta strada. In Serbia
         abbiamo forse il privilegio che attorno a noi accadono cose molto
         interessanti, più che altro orribili. La verità è che la vita in Serbia
         è parecchio più emozionante dei film che vengono girati qui. A

                    20
«Con Nebojša Glogovac, che ci ha lasciati da poco, avevo un rapporto particolare sia dal punto di vista professionale
sia da quello personale. Era un mix particolare, un attore estremamente intelligente.» Srdan Golubović

Klopka, Srdan Golubović, 2007
differenza dei registi dell’Onda nera jugoslava che si ispiravano
         alla vita di allora e poi giravano film che erano molto più folli della
         realtà vissuta. Mi pare che ora stiamo rincorrendo la vita senza
         riuscire a raggiungerla. E così non è solo in Serbia. Tutto ciò che
         ci circonda e che ci accade è diventato qualcosa di incredibile…
         Guardi gli Stati Uniti d’America, la Russia… Forse nel mio paese
         tutto accade solo in un modo più estremo.
In The Trap, il suo secondo film, il padre uccide per salvare il proprio
figlio. Secondo le sue affermazioni questo film è una specie di Delitto
e castigo balcanico. Allo stesso tempo, però, durante tutto il film scorre
una metafora drammaturgica parallela: un rom all’incrocio che sotto la
pioggia e la neve pulisce i vetri delle macchine e di cui nessuno si cura.
             Il semaforo è il punto centrale del film. Così come il mio primo
         film Absolute 100, anche The Trap lo vivo come un western. Nei
         western c’è sempre il posto per un duello, per questo motivo ho
         creato l’incrocio. Si tratta dell’incrocio Dorčul, nelle immediate
         vicinanze della mia abitazione e davanti al quale mi fermavo
         ogni mattina con la mia Opel Kadett del 1988. Una mattina si
         fermò davanti al semaforo vicino a me anche l’ultimo modello
         della Touareg, dietro di me invece un vecchio Maggiolino. Tra
         le nostre automobili si presentò un piccolo zingaro che puliva
         i vetri. La realtà di Belgrado sta nel fatto che tutti noi viviamo
         nello stesso istante e nello stesso luogo, mentre le nostre vite sono
         completamente diverse. Il semaforo e il piccolo zingaro presso il
         semaforo sono la metafora della quotidianità di Belgrado. Il rom
         è l’unica costante dell’intera situazione del film. Così come nei
         western c’è sempre un personaggio classico che non manca mai.
         Entrambi i film sono socialmente impegnati e critici. Cerco di
         evidenziare le anomalie nella nostra società. Absolute 100 è un
         film sulla rabbia che si manifesta quando ci accorgiamo di non
         poter più influire su niente e su nessuno. Si tratta di una cruda
         energia che ho impresso sulla pellicola a ventotto anni. The Trap è

                    22
nato quando avevo trentaquattro anni ed è per questo motivo un
         film molto più maturo, o almeno spero che sia così. Dal punto di
         vista critico e politico si tratta di una storia sulla delusione. Sette
         anni dopo il cinque di ottobre e dopo la caduta di Milošević non
         si viveva meglio di prima ma soprattutto non eravamo diventati
         persone migliori! Esteticamente, in entrambi i film ho insistito
         con la rozzezza, l’asprezza, con i tagli forti.
Circles si basa su una storia vera, il gesto eroico del giovane Srđan Aleksić
di Trebinje, che è stato picchiato a morte negli anni 90 del secolo scorso da
membri dell’armata della Repubblica Serba perché cercava di difendere
un suo concittadino, il bosniaco Alen Glavović.
            Ho saputo di questa storia nel 2007 e, se ben ricordo, durante
         uno dei nostri incontri alcuni anni fa le ho raccontato di Aleksić.
         Allora lei disse che devo assolutamente rappresentare questa
         storia e che la struttura della narrazione, come l’ho pensata,
         sembra molto intelligente. Si tratta del caso di un cittadino
         serbo, Aleksić, che intervenne nel pestaggio del suo amico e
         vicino Alen Glavović nella piazza cittadina di Trebinje nel 1993.
         Aleksić è stato pestato a morte da quelli che erano una volta i
         suoi commilitoni.
Se non sbaglio voleva incontrarla anche uno degli assassini di Srđan.
            Sì, ma non ho acconsentito all’incontro. In ogni caso veniva
         sul set ogni giorno e ci provocava.
Come?
            Commentava a voce alta ciò che facevamo. Oppure mi
         pedinava; andavo a prendere un caffè in un bar e sedeva
         al tavolino accanto e mi guardava. Questa pressione era
         continuamente presente durante le riprese, ma la vivevo come
         qualcosa di positivo. A dire il vero, proprio queste provocazioni
         mi hanno convinto ancor di più che ciò che stavo facendo fosse

                                                                  23
qualcosa di giusto. Ho compreso che le nostre riprese stavano
         dividendo Trebinje in due: c’erano quelli che pensavano che ciò
         che stavamo facendo fosse giusto e c’erano quelli che avevano
         paura, erano arrabbiati. Volevano dimenticare quel fatto. Io
         invece volevo proprio il contrario – non volevo che la gente
         lo dimenticasse. Per tutti gli anni ‘90 e negli anni successivi, la
         società ci inculcava falsi eroi. Arkan, Mladić, Karadžić – questi
         non sono mai stati degli eroi per me. Sin dal primo giorno
         erano per me dei criminali. Aspettavo per tutto il tempo che
         si presentasse un eroe con il quale avrei potuto identificarmi.
         Quando mi è giunta all’orecchio la storia di Srđan Aleksić ho
         capito che avrei potuto identificarmi in lui. Ora posso dire di
         avere un mio eroe personale all’interno di tutta questa strage
         balcanica. Un uomo nella cui umanità ed eroismo credo
         veramente. Per questo motivo ho girato un film su di lui. E
         ho trovato anche un certo legame intimo parallelo: mio padre
         (il regista Predrag Golubović) una volta girò il cortometraggio
         Biografia di Josef Schulz. Si tratta di un film su un soldato tedesco
         della Vojvodina che non ubbidì al comando dei suoi superiori
         di sparare sui civili. Per questo motivo i suoi commilitoni lo
         uccisero insieme ai civili ai quali lui non volle sparare. Così mi
         sono in un certo modo collegato a mio padre – e allo stesso
         tempo ho trovato la maniera di raccontare la storia di Aleksić.
         Insieme agli sceneggiatori eravamo subito d’accordo sul fatto
         che non si stesse girando un film di guerra. Non abbiamo
         alcuna esperienza di guerra e questa tipologia di film non
         m’interessa. Volevamo girare un film sulle conseguenze di un
         certo atto di guerra, in quanto la guerra fa ancora parte della
         nostra vita. Anche se cerchiamo di uscire da questo cerchio,
         non ci riusciamo.
Come fa un regista ad imparare a raccontare una storia con il linguaggio
cinematografico?

                    24
Di solito si dice che i registi che sanno raccontare storie sono
         bravi artigiani, ossia conoscono il linguaggio cinematografico. Così
         come un calzolaio deve sapere come fare se vuole creare una scarpa.
         Bisogna amare i film, seguire la produzione internazionale, guardare
         i film. A me piace fare questo. Credo che il potere più grande di un
         film sia l’emozione che riesce ad imprimere nello spettatore.
Lei come ci riesce?
            Con la costruzione di figure umane e delle loro sorti – questo
         è raccontare una storia. Questo è lo strumento principale di un
         regista. Quella di raccontare delle storie è una tradizione del film
         jugoslavo. Già dai tempi di Saša Petrović, Lordan Zafranović,
         Živojin Pavlović, Grlić, Marković, Karanović, Kusturica… Tutti
         questi registi hanno raccontato storie. I registi serbi, anzi, la
         Serbia stessa è caratterizzata dalla cultura del racconto.
In Circles racconta tre storie, ciclicamente, in parallelo – mentre quella
centrale si manifesta negli ultimi minuti. Cosa sono i Cerchi?
            Immagini di lanciare un sassolino nell’acqua e, mentre affonda,
         sulla superficie si formano dei cerchi concentrici. Questo sono i
         Cerchi. Succede qualcosa che influisce su molta gente, sulle loro
         sorti e sulle loro decisioni.
Ha collaborato molte volte con l’attore Nebojša Glogovac che purtroppo
ci ha lasciati.
             Sono convinto che sarei stato diverso se non avessi collaborato
         con Nebojša. È stato un uomo speciale e con questo non intendo
         il suo modo di recitare o di vivere… È stato uno dei pochi che
         osservava con estrema precisione il mondo. Un uomo della strada,
         ma allo stesso tempo figlio di un sacerdote ortodosso e per questo
         educato in maniera espressamente patriarcale. Riusciva a recepire
         le cose velocemente e con precisione. Ci siamo formati insieme e
         ci aiutavamo l’un l’altro, facevamo cose che erano, almeno per me,
         particolarmente emozionanti.

                                                                25
Per esempio?
            Quando gli diedi da leggere la sceneggiatura di Circles e
         gli dissi di scegliere un ruolo che volesse interpretare sapevo
         che avrebbe scelto il ruolo del medico. Dato che aveva già
         interpretato ogni altro ruolo di questo film sapevo che si
         sarebbe cimentato in qualcosa in cui non si era mai cimentato
         prima, qualcosa che non conosceva. Inoltre contavo anche
         sulla sua vanità, sul fatto che avrebbe scelto qualcosa di molto
         impegnativo: la figura del medico in Circles è quasi impossibile
         da sostenere, affronta i più grandi dilemmi interiori.
Qual è stato il vostro metodo di collaborazione?
            Il medico rimane tutto il tempo in silenzio, riflette
         continuamente su qualcosa. A Nebojša suggerii di pensare ad
         una determinata cosa quando la sua figura rimane in silenzio
         durante le riprese, ma di non dirmi a cosa stesse pensando,
         né durante né dopo. Abbiamo mantenuto questo principio di
         recitazione fino alla fine delle riprese. Non mi ha mai detto
         quale film gli girasse in testa e nemmeno glielo chiesi mai.
         Questo era il nostro accordo.
Un accordo spaventoso.
            Sì: anche se gli avessi chiesto a cosa stesse pensando, non me
         lo avrebbe mai detto. Ci siamo divertiti molto nel fare questo
         gioco, facevamo le cose in un modo insolito, indipendentemente
         dal fatto che ciò portasse a un obiettivo, ad un risultato
         relativamente classico. D’altronde funziona così: a un attore
         intelligente è necessario assegnare compiti intelligenti.
Chi sono i suoi attori?
           Sicuramente si tratta di attori che sanno restare in silenzio.
         Che sanno portare il proprio peso in modo da non far sapere a
         noi spettatori di che peso si tratti. Mi piacciono gli attori che

                   26
Goran Bogdan ha ricevuto il premio come miglior attore per il ruolo di Nikola al Festival Internazionale del Cinema
FEST di Belgrado e al Pola film festival nella sezione coproduzioni di minoranza.

Otac, Srdan Golubović, 2020
sanno tenere un segreto. Con Nebojša eravamo molto vicini
         e, nonostante ciò, nessuno dei due è mai entrato nell’intimo
         dell’altro. Un simile rapporto ce l’ho anche con Goran Bogdan.
         Mi piacciono gli attori intelligenti che non hanno bisogno di
         essere sempre condotti da me. Mi piacciono quegli attori che
         non hanno paura della sfida – ed uno di questi è proprio Goran.
         Infatti, per me la parte più bella delle riprese è il lavoro insieme
         agli attori.
La trama del film Father, che si basa su una storia vera, l’ha scoperta su
un giornale.
            Quando ho letto per la prima volta di quel padre, lui stava già
         protestando davanti al Ministero del lavoro e chiedeva che gli
         venisse restituito il figlio che gli era stato tolto. Un giorno gli ho
         fatto visita e abbiamo iniziato a parlare, poi ho iniziato a fargli
         visita ogni giorno e gli ho offerto un aiuto. Diventava sempre più
         chiaro che si trattasse di una storia molto specifica, qualcosa che
         infonde ispirazione, qualcosa di cinematograficamente attraente,
         una sorta di Paris-Texas balcanico. Mi interessava questo atto
         di camminare del padre come simbolo di protesta, di libertà
         interiore. Capii che il camminare è la forma più pura di libertà,
         ma anche di rivolta e di perseveranza. Tutte le sue decisioni
         erano state prese istintivamente, senza razionalizzazione, voleva
         una cosa che più umana non si può: riavere il proprio figlio.
Mentre scriveva la sceneggiatura, leggeva il diario di viaggio del regista
Werner Herzog Vom Gehen im Eis.
            Nel gennaio del 1971 Herzog descrisse il suo cammino da
         Monaco a Parigi. Aveva percorso monti e valli, sotto la neve e la
         tempesta e con questo sacrificio sperava di poter allungare la vita
         alla sua amica, la critica cinematografica Lotte Eisner che era
         malata di cancro. Alla fine ebbe successo, in quanto Lotte visse
         per altri dieci anni. In Father c’è una scena con una lepre, una
         citazione letterale dal libro – un mio omaggio a Herzog.

                    28
Tornando a Bogdan, che è anche un ottimo attore teatrale, conosciuto al
vasto pubblico per il ruolo di Jurij Gurka nella serie televisiva americana
Fargo – come l’ha scelto per il ruolo di Nikola?
             Mentre scrivevo la sceneggiatura dapprima avevo pensato
         di assegnare il ruolo a Glogovac, ma poi si ammalò e ci lasciò
         troppo presto. Goran non accettò a cuor leggero il ruolo che
         era destinato al collega. Ma è davvero eccezionale. E tale era
         anche il nostro processo di lavoro, per me la parte più bella
         nella creazione di un film. Per due mesi abbiamo fatto cinque
         ore di prove al giorno: abbiamo sezionato ogni scena, delineato
         la mappa emozionale di Nikola, determinato ogni sua azione
         e gesto. Father è un film del silenzio, per questo motivo era di
         vitale importanza che le intenzioni del protagonista, espresse con
         il silenzio, fossero il più verosimili possibile. Eravamo d’accordo
         che avrebbe costruito il ruolo come un uomo di strada e non
         come un attore professionista, in modo da passare invisibilmente
         dall’aspetto documentario del ruolo all’interiorità di Nikola.
I protagonisti dei suoi film si trovano sempre a dover fare delle scelte
importanti, reagiscono sempre d’istinto.
             Ho riflettuto a lungo su questo. Nella lotta del singolo contro
         il sistema prima o poi ci si ritrova davanti a un muro e in quel
         frangente si reagisce istintivamente. Nikola non s’incammina dopo
         aver riflettuto. Le sue gambe iniziano a camminare da sole. Una cosa
         simile succede con il protagonista di Circles, che non ha tempo per
         riflettere se alzarsi o no e con il proprio corpo proteggere l’amico.
         M’interessano le persone che reagiscono d’istinto e che solamente
         dopo si accorgono cos’hanno fatto. Questo non significa che non
         analizziamo la vita, che non ci soffermiamo davanti ad essa. Ma
         alla fine prendiamo le decisioni in modo intuitivo, con il cuore. Di
         solito i motivi razionali ed oggettivi per non accettare certe scelte
         sono meno validi e, in determinati momenti, meno importanti
         per noi. Certamente questo si avvicina di più alla vita, come
         ha detto all’inizio, ma ancor di più all’integrità alla spontaneità

                                                                29
umana… Non è possibile soppesare tutto: 300 grammi di scelte
         sulla bilancia sono a favore, mentre 250 grammi sono contrari?
         Quando nel film Nikola viene a sapere che non gli riaffideranno
         i bambini, inizia a camminare, senza sapere come si svolgerà la
         lotta né come l’affronterà. Vi è una forza magnetica che spinge il
         singolo a realizzare i propri obiettivi che egli stesso non sa chiarire;
         e questo mi mette, da regista, nella posizione di non essere più
         intelligente del protagonista. Allo stesso tempo, ciò significa che
         nemmeno gli spettatori sanno come reagirà Nikola. Si tratta di
         qualcosa che mi piace moltissimo nella letteratura, veda Hamsun
         e Camus, per esempio: nelle loro opere non riusciamo a trovare
         la chiave che ci sveli il sistema di pensiero dei protagonisti. Non
         molto tempo fa lessi il romanzo di Handke La paura del portiere
         prima del calcio di rigore e ho rivissuto qualcosa di simile.
Il suo staff tecnico è sempre lo stesso da un film all’altro, inclusi alcuni
attori come per esempio Vuk Kostić, che recita in due film, e fino a poco
tempo fa Nebojša Glogovac. Questo vale anche per alcuni coproduttori.
Cos’è che vi lega?
            Mentre realizzavo il mio primo film volevo avere con me
         dei produttori prestigiosi. Poi diventava sempre più chiaro
         che non avrei potuto collaborare con loro, in quanto volevano
         influire sul contenuto, impormi la loro visione del mondo e di
         ciò che il pubblico si aspetta dal film. D’altronde è difficile per
         un esordiente spiegare ai produttori cosa desidera, almeno la
         mia esperienza è stata questa – con Absolute 100 si trattava di
         me, di vita o di morte. In ogni caso ho voluto darci un taglio.
         Più tardi si sono aggiunti i produttori Boris T. Matić e Danijel
         Hočevar, che capiscono sempre ciò che voglio e intendono il film
         esattamente come lo intendo io. Qualcosa di simile posso dire
         della produttrice Jelena Mitrović, mia moglie. È sempre prezioso
         avere degli amici come produttori.

                    30
A Gorizia, nell’ambito del festival Omaggio a una visione, riceverà
il premio Darko Bratina, quindi seguirà l’anteprima del film Father in
Slovenia. E poi?
           Dopo Berlino ero sicuro che Father potesse avere un buon
        successo, girare il mondo ed entrare in alcuni cinema nei quali gli
        altri miei film girati fino a oggi non sono entrati. Ciò purtroppo
        non è successo. Penso in particolare alla Francia, per la quale spero
        che dimostri maggior apertura. Vorrei una distribuzione a livello
        mondiale. Ma mi preoccupa la sorte delle sale cinematografiche,
        in quanto sembra che i festival prenderanno la maggior parte
        della distribuzione. Da una parte ciò è un buon segno, dall’altra
        parte sono rammaricato, poiché un film prende vita quando viene
        distribuito normalmente, quando gli spettatori non comprano i
        biglietti per un festival, ma per andare al cinema.
           Ho paura solo del fatto che nei prossimi anni le sale
        cinematografiche non torneranno ad essere quello che erano
        prima dell’epidemia da COVID-19.

        Otac, Srdan Golubović, 2020

                                                               31
Il regista che offre sempre
un’alternativa ai personaggi
                        Nicola Falcinella

      32
Srdan Golubović, figlio del regista Predrag, è il cineasta più notevole
emerso nel cinema serbo negli anni 2000 e uno dei maggiori
nell’area dell’ex Jugoslavia. Autore di soli quattro lungometraggi,
si è subito presentato come interprete attento e acuto del presente
e del recente passato del suo Paese, capace sia di essere selezionato
nei maggiori festival (è stato due volte candidato all’Oscar) sia
di ottenere un significativo successo di pubblico. Golubović
guarda al cinema internazionale, dai riferimenti a “Trainspotting”
nell’esordio “Apsolutnih sto” al dramma sociale alla Ken Loach
presente nel recente “Otac – Father”, e ha la capacità rara di ritrarre
un’intera società seguendo delle persone ordinarie, determinate
e quasi ossessionate nel perseguire un loro obiettivo. Il suo è un
cinema classico e molto curato, dalla scrittura e la costruzione dei
personaggi fino al montaggio sapiente e sorprendente sia che segue
più personaggi in parallelo sia che sviluppi una storia in maniera
lineare. Golubović scrive solitamente con un altro sceneggiatore
(Srđan Koljević o Ognjen Sviličić nell’ultimo) e si circonda dello
stesso gruppo di collaboratori (come il direttore della fotografia
Aleksandar Ilić o il musicista Mario Schneider), oltre a chiamare
spesso gli stessi attori Vuk Kostić, Bogdan Diklić, Boris Isaković
o il compianto Nebojša Glogovac. Progetti meditati, tra un film
e l’altro passano sei anni, sviluppati con persone conosciute e
affidabili che portano a risultati precisi. Pellicole essenziali, tese
fino alla fine, che non cercano scorciatoie e non fanno sconti a

                                                        33
nessuno. Golubović e la sua macchina da presa sono osservatori
      implacabili di una società segnata dalla guerra di Bosnia e ancora
      prigioniera delle conseguenze degli eventi degli anni ‘90. L’Igor
      di “Apsolutnih sto”, campione mondiale di tiro che ha visto in
                                           faccia le persone che ha ucciso
                                           nel conflitto, si è dato alla droga
                                           e trascina anche il fratello Saša

»
                                           nella spirale, i protagonisti
                                           del corale “Krugovi – Circles”
        Golubović filma                    cercano di liberarsi dal cerchio
                                           del rancore (la struttura con
una realtà dura con                        tre storie che si incrociano
grande realismo ma                         sottolinea          l’inestricabilità
                                           dei destini) per ricominciare
sempre con umanità                         una nuova vita. Il Mladen di
e tenerezza per i suoi                     “Klopka – La trappola” si trova
                                           solo con la moglie a lottare per
personaggi.                                la salute del figlio e si ritrova
                                           nella trappola orchestrata dal
Nicola Falcinella                          misterioso Kosta. Anche il
                                           Nikola di “Otac” è solo nella
                                           richiesta di riavere i propri
                                           figli e si decide a percorrere
      300 km da Priboj a Belgrado a piedi per chiedere l’intervento del
      ministro. Colpisce la solitudine che accomuna i suoi personaggi,
      individui abbandonati a loro stessi che non vedono altra strada
      che farsi giustizia da sé o combattere con determinazione e forza
      della disperazione. Solo in “Krugovi”, il film più complesso come
      incastri e dai propositi più ottimisti, i personaggi hanno in qualche
      modo imparato qualcosa dai fatti del passato e sono forse disposti
      ad andare incontro agli altri. In “Otac” il padre, che non vuole
      lasciare niente di intentato contro i funzionari corrotti dei servizi
      sociali e una burocrazia sorda, diventa testimone della realtà del

                    34
Paese, si imbatte nel passaggio dei migranti, osserva le fabbriche
e le stazioni di servizio abbandonate e incontra un’umanità non
sempre ben disposta: se un uomo incontrato per strada gli porta
del cibo, i vicini di casa non sono solidali e, anzi, gli riservano
una brutta sorpresa. Golubović filma una realtà dura con grande
realismo ma sempre con umanità e tenerezza per i suoi personaggi,
non è un cineasta cinico ma un cineasta che cerca di capire le
ragioni di chi non vede vie d’uscita alla propria situazione e prova
a offrirgli un’alternativa.

Krugovi, Srdan Golubović, 2013

                                                      35
Gli orfani di Srdan Golubović
                     Cristina Battocletti

     36
A una prima, superficiale lettura si potrebbe dire che la
famiglia, poggiata su un ramo androgino, sia il centro della
filmografia di Srdan Golubović. Le sue pellicole sono infatti
raccontate da figure maschili sole, disperate, perseguitate
dal destino e dalla brutalità sociale. I protagonisti sono
orfani di donne autolesioniste, consumate da eccessi di
privazioni: fame, guerra, buio del futuro. Sono donne
laterali non per maschilismo, ma perché interrotte, preda di
un’incomunicabilità ruvida, lontana da quella cerebrale di
Antonioni. Su di loro il regista serbo, classe 1972, sospende il
giudizio e stende un velo di compassione.
   Scavando nella filmografia si intuisce che il vero convitato
di pietra nelle opere di Golubović è la profonda mancanza
di un senso di patria, quella in cui è cresciuto nei primi
vent’anni della sua vita, sotto il motto di Bratstvo i jedinstvo,
Fratellanza e unità di Tito. Il regista non suggerisce mai nelle
sue pellicole, che quella sia stata un’epoca ideale. Mostra
semplicemente ciò che hanno lasciato dieci anni di guerra
(1992-2002) agli uomini e alle donne nati e cresciuti nell’ex
Iugoslavia: un’aggregazione di individui senza più un’identità
collettiva, con un patrimonio di violenze subite, perpetrate o
vissute de relato, troppo pesante da sopportare.
   Le città balcaniche non sono più teatro di stragi, le più
efferate avvenute in Europa dal Dopoguerra, ci spiega

                                                    37
Golubović. Non sono più calpestate dai carri armati, colpite
dai cecchini, ma sono in preda alla miseria morale e sociale,
al capitalismo selvaggio che schiaccia gli umili e gli offesi,
alla disumanizzazione dettata dall’avidità del profitto, che
ha smontato l’industria locale nella logica del massimo
rendimento da globalizzazione.
   I personaggi del regista cadono, delinquono o sono tentati
dal farlo, ma in loro è roccioso e alla fine preponderante
sempre un forte sentimento di dignità. E il regista è bravo
in questo a liberarli dalla retorica, a non farne mai degli eroi,
ma dei piccoli esseri che si aggrappano al loro unico punto
fermo, l’umanità che conservano in loro come un lume.
Miserabili, drogati, assassini sanno nel loro profondo di essere
solo momentaneamente ostaggio della hybris del potentato
di turno e dell’accanimento del destino e appena possono, e
come possono, si rialzano. Basta trovare qualcuno che porga
loro una spalla su cui appoggiarsi.
   Accade al ragazzino di Absolute hundred, potente esordio
del 2001, subito accolto ai festival più importanti, da Toronto,
a San Sebastian, da Pusan a Rotterdam, portandosi dietro una
pletora di premi. Nell’incipit, una scritta spiega che, nel 1992,
anno di inizio della guerra dei Balcani, la Iugoslavia vince tre
medaglie alle Olimpiadi nella specialità del tiro a segno. Il
prologo potrebbe essere lo spiraglio per parlare di guerra e
invece no, c’è un salto temporale; siamo già nel dopoguerra,
ma ogni cosa è carica delle conseguenze del conflitto. Igor
Gordić (Srđan Todorović), che ha vinto la Medaglia d’oro, è
partito volontario al fronte, è tornato vivo, ma eroinomane.
Il giovane fratello Saša (Vuk Kostić) promettente nel tiro al
bersaglio quanto Igor, si allena per le Olimpiadi ma è costretto
a usare il fucile in un altro modo meno nobile.
   In The Trap (2007) un padre (Nebojša Glogovac) è roso
dalla tentazione di diventare un killer per soldi, grazie a cui

          38
salverebbe la vita del figlio malato. La madre (Nataša Ninković)
tenta la strada della solidarietà, ma diventa facile preda della
spettacolarizzazione, della falsa carità e dell’umiliazione.
   In Circle (2013) Golubović
intreccia tre storie parallele

                                      »
che si svolgono a Belgrado,
in Germania e in Bosnia.
Sono sforzi di superamento
del passato, di richiesta di
                                                    I protagonisti
perdono,      di     annullamento          sono i bambini, orfani
delle barriere interetniche. Una
tensione all’ottimismo negato al
                                           di donne autodistruttive
protagonista di Father (2020),             logorate da inesorabili
Nikola (Goran Bogdan), cui                 deprivazioni: la fame, la
vengono portati via i figli con
la scusa della povertà, perché             guerra, il futuro incerto.
gli assistenti sociali possano
intascare delle tangenti per
ogni bambino affidato a una
                                           Cristina Battocletti
comunità-famiglia. Il padre
sceglie l’unica via morale,
quella del diritto. Come un don
Chisciotte cammina per giorni
dal paesino rurale, in cui vive,
fino a Belgrado per parlare con il ministro e rimane come
l’ultimo dei derelitti davanti al palazzo, diventando un caso per
la stampa. Golubović non ci dice se il padre otterrà giustizia,
ma ci mostra che è ancora in piedi, rifiutando brutalità,
compromessi, preservando la sua umanità.
   Figlio d’arte di Predrag, il regista serbo, fin dal primo
film dimostra di avere grande dimestichezza con il cinema.
Montaggio serrato, gusto geometrico dei campi lunghissimi
per restituire l’architettura socialista modulare, con movimenti

                                                39
morbidi e circolari della macchina da presa. In Otac e in The
trap preferisce riprendere i suoi protagonisti con un piano
medio, spiando le reazioni minime sul viso dei protagonisti,
mentre chi parla non viene mai inquadrato. Sembrano
interrogati, come in uno stato di polizia, reminiscenza della
dittatura di Tito, in cui ogni vicino di casa era pronto a spiare
l’altro.
    Amatissimo a Berlino, dove spesso vince il premio della
giuria, nominato più volte agli Oscar, Golubović - con i suoi
attori feticcio Vuk Kostić e Boris Isaković -, ha una forte
capacità di racconto più per immagini che dialogica (ed
è questa la forza del cinema) e di grande penetrazione del
pubblico.
    Come Ken Loach oggi con i suoi disoccupati, Pier Paolo
Pasolini ieri con i ragazzi di borgata, Golubović denuncia nel
suo paese, l’ex Iugoslavia, la condizione degli ultimi, vittime di
una politica, o meglio, della mancanza di una politica. Mostra
l’enorme divario tra ricchi e poveri, in cui i nuovi ricchi non
potranno, almeno per ora, trasformarsi in una classe borghese
intellettuale riformista, perché il loro patrimonio è basato su
affari loschi o su bottini di guerra scippati. Il prossimo passo
di Golubović sarà forse quella rivoluzione sociale violenta
che il cinema da un po’ di tempo ci suggerisce in maniera
fantascientifica, tra i disperati di Joker di Todd Philips, il golpe
di Nuevo Orden di Michel Franco, i Parasite di Bong Joon-ho.

           40
Otac, Srdan Golubović, 2020
»           Conosco Srdan da più di vent’anni, da quando debuttò con il
suo primo film e insieme alla produttrice Jelena Mitrović furono ospiti
del festival di Motovun, di cui all’epoca ero il direttore.
Siamo diventati amici, in seguito ho fatto da testimone al loro
matrimonio e abbiamo iniziato anche a lavorare insieme. Sono stato
il co-produttore dei suoi film “Krugovi” (Cerchi) e “Father” (Padre),
e la loro società di produzione Baš Čelik ha collaborato con noi in due
delle nostre produzioni. Srdan è un uomo calmo e gentile che racconta
grandi storie di piccole persone, è uno dei migliori registi in questa parte
d’Europa. Informa regolarmente tutte le persone coinvolte nel processo
di realizzazione del film di tutte le sue idee. Non lavora velocemente –
Srdan è un autore meticoloso. Attendo con ansia la nostra cooperazione
nel prossimo film.

Boris T. Matić,
produttore cinematografico, Propeler, Zagabria

»           Io e Srdan siamo legati da vent’anni, ho prodotto tutti
i suoi film tranne il primo, dove ero invece la responsabile della
post-produzione. Penso che sia la nostra collaborazione che il nostro
matrimonio siano sopravvissuti anche grazie alla nostra sensibilità
molto simile verso i contenuti, dei quali Srdan parla nei suoi film. Il suo
mondo d’autore mi è molto vicino anche perché mette sempre al centro
l’individuo che lotta per la sua dignità e libertà. Nonostante tutta la
crudeltà del mondo, le circostanze sociali, le ingiustizie e la povertà
che ci circondano, è proprio la catarsi che proviene dalle emozioni che
proviamo durante la lotta del personaggio principale che mi dà una
spinta nel mio lavoro di produttore e risveglia in me sempre una gioia
quando lavoro con Srdan.

Jelena Mitrović
produttrice cinematografica, Baš Čelik, Belgrado

            42
»           La memoria è qualcosa di sfuggente e le persone ricordano gli
stessi eventi in modo diverso. Credo di aver conosciuto Srdan circa due
decenni fa al festival del cinema di Cottbus del 2001. Lì sono rimasto
folgorato dal suo primo lungometraggio Absolute 100, ma non sono
del tutto sicuro di aver incontrato Srdan proprio in quell’occasione o
in qualche altro festival del cinema dove venivano presentati sia il suo
film che Kruh in mleko di Jan Cvitkovič prodotto da me. In seguito ci
siamo visti più spesso, anche se non sono stato tra i produttori del suo
secondo lungometraggio, perché in quel periodo eravamo impegnati con
altri film, sia nostri che in coproduzione, e non ho nemmeno provato a
cercare fondi per The Trap in Slovenia.

Però ho collaborato sia con lui che con Jelena al film Circles del 2013
e quest’anno al film Father. I temi trattati nei suoi film mi colpiscono
sempre molto, come anche il modo in cui li presenta ai suoi collaboratori
più stretti dopo lunghe riflessioni. Non c’è niente di narcisistico in tutto
questo, ogni decisione è altamente ponderata e costantemente valutata
nel dialogo con le persone di sua fiducia a cui chiede un parere. Infatti
non è facile trasformare questi temi in film, il periodo di gestazione è
lungo e per questo in circa due decenni ne ha realizzati solo quattro.
Indipendentemente da ciò, in lui non c’è eccessiva impazienza né
intolleranza, ma solo una chiara determinazione. Ed è proprio questo
che mi piace di più in lui.

Danijel Hočevar
produttore cinematografico, Vertigo, Ljubljana

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