Luci e ombre del Jobs act - I dossier de lavoce.info
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• Il contratto a tutele crescenti è legge. È una buona notizia? – Pietro Garibaldi, 24/02/15; • Cosa succede con la fine di collaboratori e finte partite Iva – Marco Leonardi, 24/02/15; • Jobs act, verso nuovi ammortizzatori sociali – Patrik Vesan, 13/02/15; • Art. 18 nuovo e “armonizzato” per i dipendenti pubblici – Luigi Oliveri, 10/02/15; • La povertà continua a non essere in agenda – Chiara Saraceno, 10/02/15; • Politiche attive del lavoro tra stato e regioni – Francesco Giubileo, 03/02/15; • Quanta instabilità nei contratti a termine – Lorenzo Cappellari e Marco Leonardi, 22/01/15; • Nel Jobs act buoni propositi per il lavoro delle donne – Alessandra Casarico e Daniela Del Boca, 13/01/15; • Così il Jobs act cambia la struttura dei salari – Marcello Esposito e Marco Leonardi, 07/01/15; • Incompleta e confusionaria, ma è una riforma del lavoro – Pietro Garibaldi, 30/12/14; • Quali tutele? E quanto crescenti? – Tito Boeri e Pietro Garibaldi, 23/09/14; • Lavoro: gli scenari dopo il decreto Poletti – Lorenzo Cappellari e Marco Leonardi, 02/09/14; • La semplificazione che complica il lavoro – Luigi Mariucci, 15/04/14; • Tanti contratti, poco lavoro – Tito Boeri, 28/03/14; • Renzi, il Jobs Act e la precarietà infinita -‐ Chiara Saraceno, 18/03/14; • Per favore, cambiate quel decreto! – Tito Boeri, 14/03/14;
Il contratto a tutele crescenti è legge. È una buona notizia? Pietro Garibaldi, 24/02/15 Il contratto a tutele crescenti è legge dello stato: dal 1° marzo regolerà le nuove assunzioni a tempo indeterminato. Porterà davvero a un miglioramento del mercato del lavoro? Dipende dalla sua capacità di ridurre la precarietà. E il risultato non è scontato. Gli effetti del decreto Poletti. UNA BUONA NOTIZIA? Il contratto a tutele crescenti è legge dello stato. Dal primo marzo le nuove assunzioni a tempo indeterminato saranno regolate da un nuovo contratto. Per questo sito è certamente una buona notizia. Con Tito Boeri abbiamo scritto su queste pagine il primo articolo a sostegno dell’idea di un nuovo contratto a tempo indeterminato nel 2006. Possiamo dire che si tratti di una buona riforma e di una buona notizia per il paese? Non ancora. Perché la riforma porti davvero a un miglioramento del mercato del lavoro, abbiamo bisogno di vedere i suoi effetti in termini di riduzione della precarietà. Il risultato non è scontato. Primo, perché alcuni errori di architettura sono stati commessi. Secondo, perché la riforma non è completa. Vediamo in dettaglio questi punti. Sulla riforma degli ammortizzatori sociali e la nuova Aspi, torneremo nelle prossime settimane. IL NUOVO CONTRATTO Dal primo marzo 2015 il contratto a tempo indeterminato per i nuovi assunti non sarà più regolato dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Il licenziamento per motivi economici sarà regolato da un indennizzo monetario anche quando l’interruzione di lavoro avverrà senza giusta causa. La reintegra resisterà soltanto per alcune fattispecie di licenziamenti disciplinari. E ovviamente per i licenziamenti discriminatori. Se il lavoratore accetterà la risoluzione immediata del contratto senza aspettare il giudizio di un tribunale, il risarcimento -‐ che partirà da un minimo di due mesi e crescerà di un mese di retribuzione
all’anno -‐ sarà doppio. Sui confini labili tra licenziamenti economici e disciplinari abbiamo già scritto. Il decreto di venerdì ha risolto l’incertezza sui licenziamenti collettivi. L’indennità monetaria senza reintegra si applicherà anche per i licenziamenti collettivi senza giusta causa. Nonostante il parere contrario del Parlamento. Questo significa che nei prossimi anni -‐ in caso di licenziamento collettivo infondato -‐ alcuni lavoratori avranno diritto alla reintegra e altri no. In questa prima fase, il trattamento differenziato tra lavoratori assunti con le vecchie regole e quelli assunti con le nuove sarà forse eccessivo, ma più avanti (quando quasi tutti i lavoratori saranno regolati dal nuovo contratto) la differenza sui licenziamenti collettivi sparirà. Forse un compromesso poteva essere quello di posticipare di qualche anno l’applicazione della parte relativa ai licenziamenti collettivi. Ma il Governo ha voluto essere molto decisionista e ha confermato in pieno le nuove regole, anche per i licenziamenti collettivi. COME VALUTARE IL SUCCESSO DELLA RIFORMA? Dobbiamo ora aspettarci un aumento dell’occupazione? Su questo punto dobbiamo prestare molta attenzione, anche perché il Governo sta facendo un po’ di confusione e un po’ di propaganda. Di fianco al contratto unico, la Legge di stabilità approvata a fine 2014 ha introdotto un beneficio fiscale per le nuove assunzioni a tempo indeterminato. È una riduzione di tasse per chi assume a tempo indeterminato che può raggiungere i 24mila euro su tre anni. Non è chiaro se il beneficio si potrà estendere anche al 2016, ma indubbiamente la domanda di lavoro nel 2015 dovrebbe aumentare. Essendo una riduzione del cuneo fiscale per le nuove assunzioni, questo aspetto della Legge di stabilità deve essere visto con favore. Ma i suoi effetti non devono essere confusi con quelli del contratto a tutele crescenti. Se nei prossimi mesi osserveremo un aumento degli occupati, non dobbiamo pensare che sarà necessariamente dovuto al nuovo contratto. Molto probabilmente sarà dovuto al beneficio fiscale. Che effetti dovremmo quindi aspettarci dal nuovo contratto? Rendendo più facili le interruzioni di lavoro, implicherà ovviamente un aumento dei
licenziamenti. Al tempo stesso, renderà anche più facile assumere nuovi lavoratori. Il saldo netto è però ambiguo, come da sempre evidenziato dagli studi empirici in materia. Il vero obiettivo del contratto a tutele crescenti non va ricercato tanto nella riduzione della disoccupazione, quanto piuttosto nella riduzione della precarietà. Questo significa che la riforma avrà avuto successo se la quota di assunzioni a termine si ridurrà. Come dovrebbe ridursi anche la quota di assunzioni sotto altre forme instabili (in particolare contratti a progetto e false partite Iva). GLI ERRORI DI ARCHITETTURA Nella riforma vi sono peraltro degli errori di architettura. Il Governo nel maggio 2014 (attraverso il cosiddetto decreto Poletti) ha liberalizzato i contratti a termine. Pensiamo a cosa succederà quando il beneficio fiscale della Legge di stabilità verrà meno. Non si tratta di un’ipotesi accademica perché il rischio che il bonus fiscale non sia sostenibile per le nostre finanze pubbliche è molto concreto. In Italia è ora possibile assumere a termine senza causa scritta e rinnovare per cinque volte il contratto nell’arco di tre anni. Nulla vieterà a un’impresa di offrire il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti soltanto dopo tre anni di contratto a termine. Tenendo conto che nei primi due anni l’indennizzo è decisamente modesto, in queste condizioni si rischia di rendere precario un nuovo assunto per almeno cinque anni. Ciò significa che una volta esaurito il beneficio fiscale, la precarietà potrebbe anche aumentare. Una situazione paradossale. Il Governo avrebbe dovuto ridurre a due anni la durata massima del contratto a termine. Nei provvedimenti emanati venerdì si è deciso di non toccare il decreto Poletti del 2014. Il Governo ha mosso i primi (timidi) passi per la riduzione del precariato a partire dal 2016, come illustriamo più in dettaglio. I nuovi decreti dovranno comunque attendere il parere del Parlamento: ci auguriamo che questa volta sia più efficace e riesca a convincere il Governo a ridurre la durata massima dei contratti a termine.
Cosa succede con la fine di collaboratori e finte partite Iva Marco Leonardi, 24/02/15 L’attuazione del Jobs act mira all’abolizione -‐a partire da gennaio 2016-‐ delle finte partite Iva e dei contratti a progetto che ingrossano le fila del precariato. Facciamo il conto di quanti sono i collaboratori che possono diventare lavoratori subordinati. In ossequio alla promessa di ridurre il numero delle forme contrattuali, il secondo round di decreti del Jobs act, ha messo al centro l’abolizione del contratto a progetto per ora solo nel settore privato. L’articolo del decreto approvato il 20 febbraio recita: “A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, di contenuto ripetitivo e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.” ITALIA, PATRIA DI LAVORATORI AUTONOMI Questa nuova norma allarga la definizione di lavoro dipendente subordinato anche a quei lavori “autonomi” che sono in qualche modo organizzati da un committente (i cosiddetti autonomi etero-‐organizzati). L’intento è riportare nell’alveo del lavoro dipendente le molte finte partite Iva e contratti a progetto che ingrossano le file del precariato. L’Italia è il paese del lavoro autonomo: i lavoratori autonomi sono circa 6,3 milioni, il 23 per cento dell’occupazione totale, quasi dieci punti percentuali in più dei vicini francesi e tedeschi (15 per cento). Alcuni sono imprenditori, ma la maggior parte sono autonomi senza dipendenti (il 18 per cento dell’occupazione totale contro l’11 per cento in Francia e Germania). È probabile che molti di questi ultimi sarebbero lavoratori dipendenti in qualunque altro stato europeo. L’implicazione pratica della nuova norma è che d’ora in poi un lavoratore etero-‐organizzato può andare dal giudice e chiedere di essere trasformato in subordinato. Questo vale per qualunque lavoratore autonomo che abbia una partita Iva o sia un collaboratore. Molte partite Iva e collaboratori sono davvero lavoratori autonomi e rimarranno tali.
Ma quali e quanti sono i collaboratori che più probabilmente diventeranno subordinati? I contratti di collaborazione sono di vario tipo e i “collaboratori” fanno mestieri assai diversi (co.co.co e co.co.pro ci sono sia nel pubblico sia nel privato) e la loro quota nell’occupazione totale è già in calo per effetto della legge Fornero collaboratori (soprattutto collaboratori a progetto: 200 mila unità in meno rispetto al 2011). La tabella riassume le loro principali caratteristiche come si evincono dai dati della gestione separata dell’Inps. Tabella 1: caratteristiche dei collaboratori nel 2013 La grande maggioranza dei collaboratori ha un contratto a progetto (502 mila) o è amministratore o sindaco di società (506 mila). Queste due figure sono molto diverse per età media e reddito: giovani e a basso reddito i lavoratori a progetto, anziani e ad alto reddito gli amministratori. I collaboratori nel settore pubblico sono 42 mila(soprattutto università) cui vanno aggiunti molti sindaci o amministratori di aziende pubbliche o para-‐pubbliche, più ovviamente i dottorandi (52 mila) e i medici specializzandi (28 mila). QUANTI SONO TOCCATI DALLA RIFORMA E QUANTI NO
Nessun collaboratore del pubblico è toccato dalla riforma almeno fino al 2017 e in attesa della riforma del pubblico impiego. Il decreto esclude infatti dalla riforma gli amministratori, i collaboratori della Pa, i dottorati e i medici specializzandi. In più esclude i lavoratori il cui contratto collettivo ammette esplicitamente i contratti di collaborazione (in sostanza i lavoratori dei call centre che sono classificati tra i co.co.pro). Alla fine la riforma riguarda circa 500 mila collaboratori del settore privato. Per cercare di capire quanti di loro potenzialmente potranno diventare lavoratori dipendenti, la tabella sotto indica se i collaboratori sono mono o pluri-‐committente e se vivono solo di quel contratto da collaboratore (se cioè non hanno altre forme di tutela previdenziale obbligatoria, sono i cosiddetti collaboratori “esclusivi”). Tabella 2 I collaboratori che hanno maggiori probabilità di essere trasformati in lavoratori dipendenti con il nuovo contratto a tutele crescenti sono quelli che sono mono-‐committenti ed “esclusivi”, cioè non hanno altra copertura previdenziale se non la gestione separata. In questo caso il collaboratore ha tutto l’interesse a diventare un dipendente e il suo unico committente potrebbe essere invogliato a trasformarlo in dipendente approfittando degli sgravi contributivi previsti per il nuovo contratto a tutele crescenti. In termini di reddito, il 90 per cento dei collaboratori mono-‐committenti ed esclusivi guadagna meno di 24 mila euro annuali e quindi avrebbe diritto alla decontribuzione totale per tre anni se firma un contratto a tempo indeterminato nel corso del 2015. Non tutti i 371 mila collaboratori a progetto mono committenti ed esclusivi verranno ragionevolmente assunti come dipendenti. Molto più probabilmente saranno circa 200 mila perché dobbiamo togliere i lavoratori dei call centre e dobbiamo considerare che molti committenti
non vorranno comunque stipulare contratti a tempo determinato o indeterminato. Infine molti collaboratori in realtà preferiscono rimanere autonomi e ovviamente potranno continuare a esserlo. Gli altri tipi di collaboratori, quelli “pluri-‐committenti” e quelli “non esclusivi”, probabilmente rimarranno lavoratori autonomi ma senza contratto a progetto. Quelli che sono pluri-‐committenti (circa 50 mila) probabilmente apriranno una partita Iva. Tutti gli altri probabilmente manterranno un rapporto di lavoro autonomo senza necessariamente aprire una partita Iva. Avranno un rapporto di collaborazione come ora e il datore verserà una quota di contributi alla gestione separata Inps esattamente come ora. Per esempio tra i 502 mila co.co.pro, circa 85 mila non sono “esclusivi” cioè coperti anche da altre casse previdenziali. La maggior parte di essi sono pensionati (38.900) ma anche lavoratori pubblici o privati (30 mila) o artigiani e commercianti (10.400). Tutti questi probabilmente sono veri autonomi e rimarranno collaboratori. Il problema (o la fortuna) sarà per i collaboratori mono-‐committenti ed “esclusivi” il cui committente non vuole comunque fare un contratto di tipo subordinato. Se sono evidentemente etero-‐organizzati d’ora in poi possono chiedere al giudice di essere assunti come dipendenti.
Jobs act, verso nuovi ammortizzatori sociali Patrik Vesan, 13/02/15 A partire dal primo maggio 2015 la Nuova assicurazione sociale per l'occupazione (Naspi) prenderà il posto sia dell'Aspi, sia della mini-‐Aspi. L'innovazione principale riguarda l'abbattimento dei requisiti contributivi e di anzianità assicurativa, che vengono portati rispettivamente a 30 giornate di lavoro effettive nei 12 mesi precedenti l'inizio del periodo di disoccupazione e a 13 settimane di contributi versati negli ultimi quattro anni. Per avere un termine di paragone, si ricordi che la mini-‐Aspi richiedeva 13 settimane di contribuzione nell'anno precedente la perdita del lavoro, mentre l'accesso all'Aspi era ancora regolato secondo criteri definiti nei primi decenni del XX secolo. Si tratta dunque di un risultato importante perché, modificando le rigide condizioni di accesso previste in passato, si dà vita per la prima volta in Italia a un'indennità assicurativa di natura tendenzialmente universale. La durata della nuova indennità sarà pari alla metà delle settimane di contribuzione versate negli ultimi 4 anni, fino a un massimo potenziale di 24 mensilità. Con le nuove regole si stima una durata media effettiva delle prestazioni superiore all'assetto vigente, a fronte di un incremento degli oneri complessivi di circa 1700 milioni di euro una volta a regime. Il decreto attuativo introduce altre due novità. La prima riguarda l'indennità assicurativa riservata ai collaboratori a progetto (Dis-‐Coll), che sostituirà la precedente misura "una tantum" caratterizzata da un importo più limitato e da più stingenti requisiti di accesso. La seconda novità riguarda l'introduzione di un Assegno per la disoccupazione (Asdi), riservato alle persone in stato di bisogno, e prioritariamente ai lavoratori appartenenti a nuclei familiari con minorenni o in età vicina al pensionamento che hanno esaurito la Naspi senza trovare un'occupazione. Al momento si tratta di uno schema di durata semestrale non rinnovabile, che eroga una somma pari al 75% dell'ultimo importo della Naspi ricevuto, fino a un ammontare non superiore all'assegno sociale. L'importo potrebbe quindi rimanere limitato per i redditi da lavoro molto bassi, non essendo prevista una
soglia minima (o fissa) di sussistenza. Ciononostante, si tratta di un'innovazione importante che potrebbe servire da "testa di ponte" per l'introduzione e il consolidamento di un sussidio assistenziale per la disoccupazione di carattere permanente e universale, da tempo presente in molti paesi europei. ALLA RICERCA DI UNA MAGGIORE COERENZA Il nuovo sistema di tutele del reddito contro la disoccupazione è certamente più equo rispetto a quello disegnato dalla legge 92 del 2012 sia in virtù della sua maggiore copertura, sia perché il suo importo è agganciato più esplicitamente all'effettiva storia contributiva del lavoratore. È possibile comunque ravvisare alcune debolezze che potrebbero risiedere nel raccordo tra questo decreto attuativo e le altri componenti del Jobs Act. Per brevità, menzioneremo solo due aspetti. Il primo aspetto riguarda il rapporto tra la Naspi e le indennità di licenziamento previste nel decreto sul contratto a tempo indeterminato "a tutele crescenti". Queste ultime sono concesse solo nel caso in cui il giudice sentenzi l'illegittimità del licenziamento o quando le parti giungono a una conciliazione. Non si tratta dunque di indennità che scattano automaticamente in caso di licenziamento, indipendentemente dalla sua legittimità, come avviene in altri paesi. Se anche in Italia si optasse per tali misure (severance payments), esse potrebbero affiancare la stessa Naspi, rafforzando per tutti il livello delle tutele offerte e liberando eventualmente risorse. Il secondo aspetto riguarda l'annosa riforma del sistema delle politiche attive del lavoro, oggetto anch'esso del Jobs Act. Il decreto sugli ammortizzatori sociali tocca indirettamente la questione sia con riferimento all'introduzione del nuovo contratto di ricollocamento, sia alle politiche di condizionalità che dovrebbero accompagnare la concessione dei sussidi. È chiaro che la reale consistenza di quanto previsto dal decreto dipende da come verrà rivista la governance dei servizi per l'impiego pubblici e privati, che finora ha dato prova di scarsa performance. ASDI: SPERANZA O DELUSIONE?
Una delle novità più rilevanti introdotte dal decreto è l'Asdi. Purtroppo tale assegno ha per ora solo una natura sperimentale e sarà disponibile fino all’ esaurimento dei fondi stanziati, anche se, una volta introdotto, non rifinanziarlo significherebbe assumersi la responsabilità politica di un passo indietro. Come rilevato da più parti, l'Asdi non potrà rispondere ai bisogni di quelle persone in condizioni di povertà caratterizzate da una bassissima intensità di lavoro o che non hanno mai lavorato, per le quali sarebbe opportuno intervenire con uno strumento diverso da un sussidio di disoccupazione. Tale questione ci riporta al grande assente nell'agenda di riforma del governo Renzi, ovvero lo schema nazionale di reddito minimo. Le novità introdotte dal Jobs Act, pur essendo focalizzate sulle politiche del lavoro e non di assistenza sociale, potrebbero comunque essere foriere di sviluppi anche su questo fronte. Tanto più l'Asdi sarà in grado di assistere i disoccupati che hanno esaurito la copertura assicurativa, tanto più mirata e residuale potrà essere la risposta che l'introduzione di un reddito minimo universale dovrà dare. In tal senso, l'Asdi, potrebbe contribuire a levigare alcune resistenze di fondo, favorendo la futura introduzione di uno strumento di garanzia di ultima istanza, a fianco o in sostituzione dello stesso Asdi. Se però ciò non dovesse avvenire, l’Asdi, una volta generalizzato come schema assistenziale di disoccupazione,contribuirebbe perlomeno a rafforzare il sostegno fornito dalla nuova indennità di disoccupazione (la Naspi), divenuta ora di facile accesso anche rispetto a quanto accade in altri paesi. Dopo anni di buoni intenti e propositi, si tratterebbe di un risultato non trascurabile. La replica di Chiara Saraceno Come ho scritto, le buone intenzioni dell'Asdi non ne modificano il carattere categoriale, che conferma la frammentarietà, oltre che l'iniquità, del sistema di protezione sociale in Italia. Pensare che possa servire da “testa di ponte” verso l'introduzione di un reddito di garanzia per chi si trova in povertà è, nel migliore dei casi, un “wishful thinking” che non trova alcuna giustificazione nella storia passata e recente del nostro paese.
Art. 18 nuovo e “armonizzato” per i dipendenti pubblici Luigi Oliveri, 10/02/15 Difficile sostenere che la riforma dell'articolo 18 contenuta nel Jobs Act non si applichi al lavoro pubblico. Vero però che serve un'armonizzazione, per evitare storture applicative. Ricollocazione del dipendente licenziato e pagamento degli eventuali indennizzi sono le questioni più spinose. RIFORMA DELL'ARTICOLO 18 E LAVORO PUBBLICO Emanato lo schema di decreto sul “contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti”, torna il tormentone sull’applicabilità dell’articolo 18 al lavoro pubblico, già manifestatosi all’epoca della riforma Fornero. Nei giorni scorsi, si è assistito nuovamente all’insorgere di opinioni divergenti. Pietro Ichino, relatore della riforma, propende per la piena applicabilità del Jobs Act al lavoro pubblico. Il ministro della Pubblica amministrazione, Marianna Madia, e il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, hanno sostenuto che la riforma delle tutele contro il licenziamento illegittimo, oggetto del Jobs Act, non investono il lavoro pubblico, visto che l’intera riforma riguarderebbe il solo lavoro privato. Toccherà, dunque, alla prossima riforma della pubblica amministrazione esaminare la questione. Per la verità, gli emendamenti al testo del disegno di legge apportat lo scorso gennaio non hanno contribuito a chiarirla in modo definitivo. Quella espressa dai ministri è una vecchia tesi, molto debole, che non esamina a fondo la questione delle tutele nel caso di licenziamenti e si basa sulle peculiarità del lavoro pubblico, che derivano dall’assunzione tramite concorsi. Tuttavia, non si capisce per quale ragione la modalità di reclutamento seguita dal datore pubblico debba o possa influenzare la tutela apprestata al dipendente illegittimamente licenziato. Sin dalla riforma Fornero, la risposta alla possibilità di estendere o meno le disposizioni sulle tutele dei licenziamenti nel lavoro pubblico e, in particolare, i contenuti dell’articolo 18, è fornita espressamente dal testo unico che lo disciplina, il decreto legislativo 165/2001. L’articolo 51, comma 2, è inequivocabile: “La legge 20 maggio 1970, n. 300, e
successive modificazioni e integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”. Non c’è, dunque, nel testo unico sul lavoro alle dipendenze delle amministrazioni una disciplina speciale o derogatoria, rispetto a quella operante nel lavoro privato, per la tutela dai licenziamenti. Senza una norma speciale di deroga, eventualmente da introdurre con la riforma della pubblica amministrazione, l’unico modo per affermare che il Jobs Act non vale per il lavoro pubblico, è ammettere che resti in vigore il testo dell’articolo 18 ante riforma Fornero. Un’oggettiva forzatura. Per altro, il nuovo decreto legislativo, se verrà conservato il testo divulgato, elimina una possibile fonte di equivoci, presente nella legge Fornero: l’indicazione, cioè, che si tratti di una norma di principio per il lavoro pubblico, cui debba conseguire una successiva “armonizzazione”. Il che aveva fatto ritenere ad alcuni che l’armonizzazione fosse condizione preventiva dell’estensione della riforma dell’articolo ai lavoratori pubblici. In effetti, nella primavera del 2012 l’allora ministro della Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi, stipulò con i sindacati un’intesa per armonizzare la riforma del lavoro con la normativa del pubblico impiego, ma il tutto finì in un binario morto. In ogni caso, si “armonizza” una norma che si applica. Armonizzare non condiziona il “se” applicare, bensì il “come”, verificando in che modo l’applicazione si dipana in un sistema, come quello del lavoro pubblico, caratterizzato da alcune peculiarità. Tra le quali, una minore discrezionalità e flessibilità del datore nel decidere di giungere al licenziamento, rispetto al datore privato. CHI PAGA GLI INDENNIZZI? Acclarato (come del resto conferma la giurisprudenza prevalente) che l’articolo 18 modificato, in assenza di una norma speciale di deroga, si applica senz’altro alle amministrazioni pubbliche, occorre verificare se e come possano funzionare realmente i meccanismi di tutela successiva ai licenziamenti. C’è, ad esempio, il problema della responsabilità nel caso in cui l’amministrazione venga condannata dal giudice al pagamento dell’indennità sostitutiva della reintegrazione, se si accerta che non ricorrevano gli estremi del licenziamento per giustificato motivo
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