I "Facebook files": un caso da non sottovalutare - Il Mantello della Giustizia

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I "Facebook files": un caso da non sottovalutare - Il Mantello della Giustizia
I «Facebook files»: un caso
da non sottovalutare.

                             di Leonardo Salutati · “Facebook
                             files” è il titolo dato ad una
                             importante inchiesta del Wall
                             Street     Journal     che    ha
                             pubblicato migliaia di documenti
                             che denunciano i rischi delle
                             ricadute      sociali      della
                             condivisione     di   contenuti
sensibili da parte degli utenti, rivelando il ruolo e i
possibili rischi connessi agli algoritmi usati dalle
piattaforme digitali quali Facebook e Twitter, o da motori di
ricerca come Google e Bing, per gestire i propri contenuti
informativi.

Per capire le implicazioni degli algoritmi sulle dinamiche
dell’opinione pubblica occorre analizzare la loro interazione
con le inclinazioni (bias) comportamentali degli individui.
Gli algoritmi usati dai social media, infatti, decidono quali
informazioni mostrare e in che ordine mostrarle, selezionando
quali informazioni siano più o meno rilevanti per un dato
individuo. In concreto gli algoritmi, svolgono un ruolo
editoriale che li rende molto diversi dai media tradizionali,
più vicino alla statistica che al giornalismo (B. Rieder – G.
Sire, 2013).

Nello scegliere quale contenuto proposto dalla piattaforma
leggere su un determinato argomento, gli individui sono
guidati da una duplice inclinazione. Una che consiste nel
volere vedere confermata la propria opinione (“confirmation
bias”), che li spinge a scegliere contenuti che avvalorano
l’opinione iniziale. L’altra (“attention bias”) è quella di
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prestare attenzione a pochi contenuti e di scegliere
tendenzialmente quei contenuti che sono presentati in
posizioni più prominenti nella piattaforma. Ambedue le
inclinazioni     si     basano    su    un’ampia     e
verificata evidenza empirica.

Con queste due inclinazioni umane interagiscono due macro-
classi di algoritmi: 1) quelli basati sulla popolarità di un
dato contenuto web, in cui la prominenza data all’argomento
aumenta nel tempo con l’aumento della popolarità del contenuto
(per esempio più persone cliccano su un sito web); 2) quelli
che personalizzano l’ordine dei contenuti in base ad alcune
caratteristiche individuali, come indirizzo Ip o cronologia
delle ricerche, con la conseguenza che utenti diversi
osservano contenuti in ordine diverso.

Riguardo agli algoritmi basati sulla popolarità che lavorano
sul feedback degli utenti, se le opinioni iniziali su un
determinato tema sono generalmente poco corrette e gli utenti
hanno un forte “confirmation bias” che li porta a scegliere
troppo spesso siti web che hanno informazioni sbagliate, tale
dinamica favorisce la crescita nel ranking di questi siti
permettendogli, quindi, di attrarre più utenti. Diversamente
se l’algoritmo utilizzasse come criterio di efficienza
informativa al posto della popolarità, per esempio, quello che
ordina i contenuti in maniera casuale, la probabilità che un
individuo scelga un sito che riporta informazioni corrette,
sarebbe più efficiente.

A questo si aggiunga che gli algoritmi basati sulla popolarità
generano un effetto tale che, minore è il numero di siti che
riporta un dato contenuto informativo, maggiore è l’audience
totale che cattureranno, in quanto la più alta concentrazione
del traffico verso pochi siti, ne aumenta il ranking. Questo
tipo di meccanismo può contribuire a spiegare perché
le piattaforme digitali sembrano favorire la diffusione di
fake news (F. Germano – F. Sobbrio, 2021).
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A loro volta gli algoritmi personalizzati, conducono a
polarizzare le opinioni iniziali degli individui creando
quindi delle cosiddette “camere dell’eco” algoritmiche, che
producono una riduzione dell’efficienza informativa su temi in
cui c’è una verità “oggettiva”. In particolar modo, la
personalizzazione tende a contrastare i pur possibili effetti
positivi degli algoritmi basati sulla popolarità (evitiamo di
specificare il meccanismo per motivi di spazio).

In definitiva, le informazioni emerse dai “Facebook Files”
evidenziano la rilevanza dell’interazione tra algoritmi e
comportamento umano, oltre alle responsabilità dei vertici di
Facebook di aver insistito su di un algoritmo che poneva un
forte accento sulla popolarità e la personalizzazione,
nonostante vi fossero dati che segnalassero gli effetti
negativi in termini di disinformazione e polarizzazione.

Tale vicenda pone un grave problema morale, che mina alla base
la possibilità di convivenza pacifica e democratica di una
società, che consiste nel dominio sulla libertà e sulla
coscienza di tanti uomini e donne attraverso sofisticati
strumenti tecnici, dettato fondamentalmente dalla logica del
potere e/o del profitto.

È quanto aveva già lucidamente intravisto il teologo Enrico
Chiavacci negli anni ’80 del secolo scorso, nel descrivere le
possibilità aperte dalla “rivoluzione del silicio”, che ha
introdotto l’umanità nell’era dei semiconduttori e dei
circuiti integrati, caratterizzata da una forte accelerazione
tecnica che ha favorito il consolidarsi di “strutture di
potere e di dominio culturale” operanti a livello globale, di
cui aveva tra l’altro con precisione descritto la genesi e i
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meccanismi di ulteriore sviluppo. A Chiavacci farà eco
Benedetto XVI quando denuncerà le strettoie della mentalità
tecnicista che fa «coincidere il vero con il fattibile»
assumendo come «unico criterio della verità l’efficienza e
l’utilità» (Caritas in veritate n. 70).

Recentemente, nel messaggio per la Giornata delle
Comunicazioni Sociali del 2016 Papa Francesco scriveva: «Non è
la tecnologia che determina se la comunicazione è autentica o
meno, ma il cuore dell’uomo e la sua capacità di usare bene i
mezzi a sua disposizione». Per questo «occorre interrogarsi su
ciò che [in Rete e sui social] è buono, facendo riferimento ai
valori propri di una visione dell’uomo e del mondo, una
visione della persona in tutte le sue dimensioni, soprattutto
quella trascendente» (Francesco, discorso all’Università Roma
tre, 2017), diversamente la transizione dell’epoca postmoderna
non potrà che caratterizzarsi come «cultura del naufragio», in
quanto caratterizzata da «mentalità tecnicistica», da
«messianismo profano» che porta l’uomo di oggi a fare
esperienza «sulla propria pelle un senso di sradicamento e
abbandono» (card. Bergoglio, 2006).

Ancora su I Padrenostri di
questi tempi
I "Facebook files": un caso da non sottovalutare - Il Mantello della Giustizia
di Carlo Nardi · Ripropongo con alcune
                   ulteriori considerazioni quanto ho già
                   scritto sull’argomento I Padrenostri di
                   questi tempi, in Il mantello della giustizia
                   in rete, aprile 2021:

Su questo argomento molti hanno scritto e molto è stato
scritto. Ecco una mia noterella.

Voglio offrire un pensiero che mi stuzzica la mente. Penso al
vecchio Padre nostro con … e non c’indurre in tentazione,
modificato adesso nel nuovo messale con … e non abbandonarci
alla tentazione.

In verità, questa nuova traduzione non mi sconfinfera. Il
salto di resa nelle due versioni è grande: in effetti quei due
verbi ‘indurre’ e ‘abbandonare’ sono due cose diverse. Forse
vicine, ma non mi sento di dire di più. A questo riguardo
rimando al dotto libro di Alberto Maggi (Padre dei poveri: 2.
Il Padrenostro. Traduzione commento dal Vangelo di Matteo,
Cittadella Editrice – Assisi, terza ristampa, febbraio 2018),
il quale presenta un condivisibile studio sui testi della
preghiera (pp. 137-151). In particolare, egli traduce il
versetto in questione (Matteo 6,13a) col verbo introdurre”,
che rende il senso del greco eisférein, “portare/spingere
verso”. Al contrario, non appare nel testo originale l’idea di
un “abbandono”, per quanto essa possa sembrare a prima vista
più consolante. Di fronte all’importanza di questa preghiera
per il Cristianesimo, mi pare che si dovrebbe andare assai
cauti, anche sulla scorta di Dei Verbum 10: “la Sacra
Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa,
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per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente
connessi e congiunti da non potere indipendentemente
sussistere, e tutti insieme, secondo il proprio modo, sotto
l’azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono
efficacemente alla salvezza delle anime”. D’altronde, rispetto
a questo imbarazzo nei riguardi del Vangelo, mi viene da
domandarmi: vogliamo forse essere più cristiani di Cristo?

Fin qui quello che ho scritto, sennonché mi sentivo di dire
qualcosa di nuovo.

La nuova versione di quel punto del Padre nostro mi pare che
non sia valida, perché si tratta di una parola del Signore, e
in questo modo non lo è più.

E’ così che quando ho dovuto usare il nuovo Messale italiano
(pag. 445), ho detto ai miei parrocchiani che il nuovo Padre
nostro nel punto in questione è diverso dalla vecchia versione
e anche dall’antico testo latino che è tuttora rimasto in uso,
e meno male, grazie a Dio. Per questo, dopo aver pronunciato
obtorto collo il nuovo testo, aggiungiamo il canto del Pater
noster in latino, in modo che sia chiara la differenza in quel
pezzettino. E d’altra parte la differenza fra i due pezzettini
ha il pregio di stimolare la nostra riflessione sul mistero
del male, del “cattivo”, con il quale siamo sempre in contesa,
una contesa in cui ci affidiamo alla bontà del Signore.
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Anche l’antica preghiera dell’Ave Maria ha subito una
forzatura quando il fructus ventris tui è stato tradotto con
frutto del tuo seno. Per quanto in greco il termine koilìa
(seno) abbia un significato estensivo, risulta evidente che in
specifica relazione con la maternità il termine venter
(ventre) del latino è chiaramente e in tutti i sensi il più
preciso e appropriato. A tal proposito mi ritorna alla mente
una colorita espressione del dotto padre Ferdinando Batazzi:
“O che i figlioli possano nascere dalle mammelle?” … dalle
ciocce, dico io.

Tornando al Padrenostro, sarebbe quindi opportuno quanto meno
un ulteriore sforzo per ricercare una espressione che volendo
superare quella percezione di costrizione, che come osserva il
nostro arcivescovo Giuseppe Betori cardinale (in Avvenire,
intervista del 10 dicembre 2017) oggi ha assunto il termine
introdurre nell’italiano corrente, risulti aderente e coerente
appunto con portare o spingere verso.

E il Padreterno sorriderà bonariamente? Se Dio vuole, come
dicevano i nostri vecchi.

Ireneo di                  Lione:            «Doctor
Unitatis »
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di Alessandro Clemenzia · «Il vostro
                        patrono, Sant’Ireneo di Lione, che
                        volentieri dichiarerò Dottore della
                        Chiesa prossimamente con il titolo di
                        Doctor unitatis, è venuto dall’Oriente
                        e ha esercitato il suo ministero
                        episcopale in Occidente, è stato un
                        grande ponte spirituale e teologico
                        tra     cristiani     orientali      e
                        occidentali». Con queste parole,
                        pronunciate da papa Francesco (7
                        ottobre 2021) al gruppo misto di
lavoro ortodosso-cattolico “sant’Ireneo”, viene sinteticamente
presentata la figura di Ireneo di Lione, il grande Pastore
che, nel terzo secolo d.C., attraverso la sua instancabile
attività, non soltanto ha difeso le verità di fede dalle
diverse correnti di pensiero a lui contemporanee, ma con la
sua stessa presenza ha anche rappresentato il punto d’unità
tra Oriente e Occidente.

Tra queste correnti interne alla Chiesa, quella più forte e –
per certi aspetti – “di moda” era certamente lo gnosticismo,
una sorta di cristianesimo intellettualista (e dunque
un’esperienza riservata a pochi eletti) che aveva una visione
dualistica e pessimistica della realtà, andando così contro le
fondamentali verità di fede. Di fronte a queste
interpretazioni, Ireneo ha presentato la vera Tradizione
apostolica. In un’udienza generale (28 marzo 2007) incentrata
proprio su Ireneo di Lione, Benedetto XVI ha spiegato che «la
Tradizione di cui egli parla, ben diversa dal tradizionalismo,
è una Tradizione sempre internamente animata dallo Spirito
Santo, che la rende viva e la fa essere rettamente compresa
dalla Chiesa. Stando al suo insegnamento, la fede della Chiesa
va trasmessa in modo che appaia quale deve essere, cioè
“pubblica”, “unica”, “pneumatica”, “spirituale”».

Ireneo, attraverso la difesa della dottrina della Chiesa, ha
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illustrato una organicità dei misteri della fede, tanto da
essere considerato uno dei primi grandi teologi della storia.

Al di là della sua figura legata a ciò che egli ha compiuto
come Pastore, è importante cogliere il nesso d’unità tra
l’Oriente e l’Occidente che egli rappresentava. Il termine
“unità” è di decisiva importanza; per comprenderlo possiamo
lasciarci guidare da un termine che Papa Francesco stesso ha
sottolineato, richiamandosi a quanto aveva precedentemente
affermato il cardinale Koch nel suo saluto: «È stato
interessante quello che Lei ha detto dell’interpretazione come
Gegensatz: mi è piaciuto, grazie». Gegensatz è una parola che,
dal tedesco, può essere tradotta con “opposizione”: essa è un
contrario di “contrapposizione” (Widerspruch) più che di
“unità”. La differenza tra questi due termini, apparentemente
sinonimici, è stata ben espressa da Romano Guardini, nella sua
opera filosofica L’opposizione polare (Der Gegensatz, 1925), e
un secolo prima dall’ecclesiologo Johann Adam Möhler, nel suo
testo L’unità della Chiesa (Die Einheit in der Kirche, 1825).
Quest’ultimo ha spiegato la relazione tra unità e distinzione
nella Chiesa attraverso l’immagine di un coro polifonico,
capace di inverare un’unica armonia dove ognuno conserva la
propria individualità; anzi: ritrova se stesso proprio nella
relazione di opposizione con gli altri. Chi, invece, nel coro
cerca di prevalere sui singoli e di ergersi a unica voce,
tendendo addirittura all’eliminazione dell’altro per ovviare a
ogni distinzione, ciò «non costituisce un opposto, perché gli
opposti non possono esistere che nell’unità; egli dà luogo a
una vera contraddizione» (J. A. Möhler, L’unità nella Chiesa,
Città Nuova, p. 194). Dunque, il concetto di opposizione è ciò
che, favorendo la distinzione (e dunque l’alterità),
garantisce l’unità della Chiesa, essendone in qualche modo un
motore interno, capace cioè di dinamizzarla dal di dentro. La
contraddizione, invece, non ha a che fare con l’unità, dal
momento che ha come obiettivo l’eliminazione dell’altro. Per
Möhler, inoltre, è proprio nell’unità che emerge la
peculiarità di ciascun elemento distinto, come a dire che è
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nella relazione di opposizione, nel tra loro, che l’io e il tu
trovano ciascuno il completamento della propria esistenza. La
stessa dinamica, legata alla parola Gegensatz, si può
rintracciare, in modo molto più sistematico, nell’opera già
menzionata di Romano Guardini.

Il Papa, dunque, ricordando questo vocabolo tedesco, mostra al
gruppo misto di lavoro ortodosso-cattolico “sant’Ireneo” a
quale unità egli allude. Al di là di una semplice e
circostanziale ripetizione di un termine pronunciato
precedentemente dal cardinale Koch, si può arrivare a
rintracciare nel lemma Gegensatz quella costante che anima,
come fondamento filosofico, tutto il pensiero dell’attuale
Pontefice. Per un approfondimento su questo tema, rimando agli
studi del filosofo Massimo Borghesi, e in particolare ai suoi
testi: Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale
(Jaca Book 2017); Francesco. La Chiesa tra ideologia teocon e
«ospedale da campo» (Jaca Book, 2021).

In questa luce si possono comprendere meglio queste parole di
Papa Francesco: «È bello coltivare un’unità arricchita dalle
differenze, che non ceda alla tentazione di un’uniformità
omologante […]. Animati da questo spirito, vi confrontate per
comprendere come gli aspetti contrastanti presenti nelle
nostre tradizioni, anziché alimentare contrapposizioni,
possano diventare opportunità legittime per esprimere la
comune fede apostolica». L’unità tra Oriente e Occidente,
dunque, si gioca proprio nel reciproco riconoscersi l’uno in
opposizione all’altro: ogni tentativo di supremazia, generando
una contraddizione, porterebbe ciascuno alla perdita della
propria identità. Con un termine, Papa Francesco ha illustrato
il significato di sant’Ireneo, Doctor unitatis.

Formazione e lavoro

La fabbrica delle
competenze e della
dignità. Idee e
progetti per il
PNRR:         Next
Generation Italia

di Giovanni Campanella · Nel mese di luglio 2021, la casa
editrice Edizioni Lavoro ha pubblicato, all’interno della
collana “Società Circolare”, una raccolta di piccoli articoli
intitolata La fabbrica delle competenze e della dignità – Idee
e progetti per il Pnrr: il Next Generation Italia. La
prefazione è di Tommaso Nannicini, senatore e professore
ordinario di Economia Politica all’Università Bocconi. Gli
autori principali sono Luigi Campagna, Marino Lizza, Luciano
Pero e Roberto Rossini. Altri articoli sono di Roberto
Benaglia (segretario generale della Fim Cisl), Antonella
Marsala (dirigente di Anpal Servizi e responsabile
territoriale della Regione Lombardia), Paride Saleri (titolare
della Omb Saleri di Brescia, fabbrica a gestione di
“ispirazione umanistica”) e Paola Vacchina (presidente di
Forma – Associazione nazionale enti di formazione
professionale).

Luigi Campagna è docente di ingegneria gestionale al MIP
(Master in Ingegneria della Produzione) del Politecnico di
Milano. Marino Lizza è imprenditore, esperto di economia del
lavoro e delle organizzazioni, con incarichi di direzione in
programmi EU sui temi dell’innovazione di prodotto e di
processo e dello sviluppo delle risorse umane. È managing
partner di WeCanJob.it . Luciano Pero è docente di
Organizzazione al MIP del Politecnico di Milano. Si interessa
di innovazione organizzativa, architetture dei sistemi
informativi, relazioni industriali e mercato del lavoro.
Roberto Rossini, sociologo, laureato in scienze politiche, è
docente di diritto e metodologia della ricerca sociale presso
l’istituto bresciano Maddalena di Canossa. È portavoce
dell’Alleanza contro la povertà ed è stato presidente
nazionale delle Acli e di Enaip.

La crisi pandemica da COVID 19 ha aggravato, e non generato,
problemi di lungo corso del mercato del lavoro italiano. È
facile intuire che gli effetti nefasti colpiranno soprattutto
le fasce più deboli della società: lavoratori, precari,
piccoli imprenditori, autonomi, disoccupati. Con un percorso
di analisi e proposte concrete utile nella progettazione
esecutiva del Next Generation Italia, gli autori del presente
volume suggeriscono come realizzare un nuovo mix di “saperi” e
“saper fare” di cui in troppi lamentano la carenza:
un’autentica “fabbrica delle competenze e della dignità”, una
filiera ininterrotta in grado di allineare chi entra e chi
opera sul mercato del lavoro con le dinamiche produttive del
XXI secolo.
«La scoperta del proprio talento rappresenta il fondamento del
cammino     virtuoso,     che    prosegue     nei   percorsi
professionalizzanti che miscelano formazione e lavoro,
alimentato infine nei continui processi di apprendimento
formale e non formale nelle aziende, ambiti ove costruire e
manutenere, e non solo fruire, le competenze critiche. Proprio
l’investimento sulle nuove competenze tecnico-professionali
costituisce il fattore decisivo per innalzare il tasso di
occupabilità individuale, solido argine a sostegno di una
dignità sociale oggi in pericoloso appannamento» (quarta di
copertina).

Come già accennato, in fondo al libro si trovano alcune
esperienze di stakeholder rilevanti del mondo dell’impresa (mi
riferisco all’intervento di Saleri), del sindacato (Benaglia),
degli operatori della formazione professionale (Vacchina),
dell’istituzione pubblica per le politiche del lavoro
(Marsala), sollecitando già nel testo un confronto nel merito
delle proposte.

PNRR sta per Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e fa
parte del programma europeo noto come Next Generation EU, un
fondo per la ripresa europea da 750 miliardi di euro. Come il
nostro libro indica, il piano punterà molto sul potenziamento
della formazione, elemento chiave per ridurre le disparità
sociali, la povertà e le situazioni di disagio ed
emarginazione. Essere disposti e impegnarsi a essere formati e
orientati affina le nostre inclinazioni e i nostri talenti per
servire il Signore e i fratelli. Ciò rende la nostra vita
piena, partecipativa e fruttuosa.
«La  carità   del  sorriso»
Giovanni Paolo I Beato
                    di Andrea Drigani · Il 13 ottobre Papa
                    Francesco ha autorizzato la Congregazione
                    delle Cause dei Santi ha promulgare il
                    Decreto  riguardante  il  miracolo
                    attribuito  all’intercessione  del
                    Venerabile Servo di Dio Giovanni Paolo I
                    (Albino Luciani), nato nel 1912 e morto
                    nel 1978.

Giovanni Paolo I, che fu Sommo Pontefice per trentatre giorni,
verrà pertanto inserito nel catalogo dei Beati.

A questo annuncio mi sono venute in mente le parole del
cardinale Pericle Felici che aveva scritto: «Nel rapidissimo
arco del suo pontificato ha riversato copiosamente quella che
chiamerei la carità del sorriso».

E proprio la carità fu oggetto dell’ultima udienza generale
tenuta da Giovanni Paolo I, il 27 settembre 1978, il giorno
prima della sua morte, avvenuta, appunto, il 28 settembre.

Papa Luciani esordì con una preghiera notissima intarsiata di
frasi bibliche: «Mio Dio, amo con tutto il cuore sopra ogni
cosa Voi, bene infinito e nostra eterna felicità, e per amor
Vostro amo il prossimo mio come me stesso e perdono le offese
ricevute. O Signore, ch’io vi ami sempre più».
Giovanni Paolo I volle spiegare questa preghiera cominciando
dalla parola «amo». Ricordò che l’«Imitazione di Cristo» dice
che chi ama «currit, volat, laetatur» (corre, vola e gode).
Amare Dio, osservava, è dunque un viaggiare col cuore verso
Dio. Il viaggio porta anche dei sacrifici, ma questi non
devono fermarci. L’amore a Dio è anche un viaggio misterioso:
io non parto cioè, se Dio non prende per primo l’iniziativa. E
la libertà umana? Sant’Agostino rileva che Dio non soltanto ti
attira in modo che tu stesso voglia, ma perfino in modo che tu
gusti di essere attirato.

«Con tutto il cuore». Giovanni Paolo I notava come il termine
«tutto» potrebbe fare riferimento al totalitarismo, che in
politica è pessima cosa, ma nella vita di fede un nostro
totalitarismo nei confronti di Dio va benissimo (cfr. Dt 6,
5-9). Quel «tutto» ripetuto e piegato alla pratica con tanta
insistenza è la bandiera del massimalismo cristiano. Ed è
giusto. È troppo grande Dio, troppo egli merita da noi. Egli è
bene infinito e sarà nostra felicità eterna: i denari, i
piaceri, le fortune di questo mondo al suo confronto, sono
appena frammenti di bene e momenti fugaci di felicità. Non
sarebbe saggio – diceva Papa Luciani – dare tanto di noi a
queste cose e poco di noi a Gesù.

«Sopra ogni cosa». Si viene ad un confronto diretto tra Dio e
l’uomo, tra Dio è il mondo. Non sarebbe giusto dire: O Dio o
l’uomo. Si devono amare Dio e l’uomo; quest’ultimo, però, mai
più di Dio o contro Dio o alla pari di Dio. L’amore di Dio è
bensì prevalente, ma non esclusivo.

«E per amor vostro amo il prossimo mio». Siamo qui di fronte –
aggiungeva Giovanni Paolo I – a due amori che sono fratelli
gemelli e inseparabili. Alcune persone è facile amarle; altre
è difficile; non ci sono simpatiche, ci hanno offeso e fatto
del male; soltanto se amo Dio, arrivo ad amarle, in quanto
figli di Dio e per questo me lo domanda.

«Perdono le offese ricevute». A questo perdono – rilevava Papa
Luciani – pare quasi che il Signore dia precedenza sul culto:
«Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e ti ricordi
che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì il tuo
dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo
fratello e poi torna a ad offrire il tuo dono» (Mt 5, 23-24).

«Signore, ch’io vi ami sempre più». Amare Dio – concludeva
Giovanni Paolo I – è, come si è visto, un viaggio: Dio lo
vuole sempre più intenso e
perfetto. Ha detto ai suoi: «Voi
siete la luce del mondo, il sale
della terra» (Mt 5,8); «siate
perfetti com’è perfetto il
vostro Padre celeste» (Mt 5,48).
Ciò significa: amare Dio non
poco, ma tanto, non fermarsi al punto in cui si è arrivati, ma
col suo aiuto, progredire nell’amore.

La morte di Giovanni Paolo I – scrisse Madre Teresa di
Calcutta – è un mistero che dobbiamo accettare; non ci sono
spiegazioni umane. Il suo passaggio ha dato una dimostrazione
della vitalità della Chiesa.

Eberhard Jüngel (1934-2021),
uno   degli   ultimi   grandi
teologi del secondo Novecento
di Gianni Cioli · Eberhard
                              Jüngel, recentemente scomparso
                              all’età di 86 anni (5 dicembre
                              1934 – 28 settembre 2021), è
                              stato un teologo luterano
                              tedesco particolarmente noto
                              anche nell’ambito della teologia
                              cattolica italiana. Professore
                              Emerito di Teologia Sistematica
                              e Filosofia della Religione
presso la Facoltà di Teologia Protestante dell’Università di
Tubinga, può certamente essere considerato uno degli ultimi
grandi teologi del secondo Novecento. «Era un pensatore
cresciuto nel vecchio stile della formazione teologica
tedesca: una formazione ampia e consolidata: lingue classiche,
filosofia, Hegel, Heidegger, Schleiermacher, Bultmann e i suoi
allievi. E, naturalmente, Karl Barth, di cui diceva: “È un mio
maestro, ma io non sono un suo scolaro”. Queste
caratteristiche fanno di Jüngel appunto, per molti versi, un
teologo ben inscritto nel solco della generazione precedente»
(vedi)

I suoi libri, non moltissimi ma assai significativi, risultano
«scritti in maniera complessa: una costruzione in periodi
molto articolati nella subordinazione delle frasi, ma anche
uno stile rigorosissimo, tale che, applicandocisi con impegno,
la loro leggibilità alla fine premia il lettore» (Ibid.). Fra
le sue opere pubblicate in italiano si possono segnalare:
Morte, Queriniana, Brescia, 1972; Paolo e Gesù, Paideia,
Brescia, 1978; L’essere di Dio è nel divenire, Marietti,
Casale Monferrato, 1986; Dio, mistero del mondo, Queriniana,
Brescia, 1982; Possibilità di Dio nella realtà del mondo,
Claudiana, Torino, 2005; L’avventura di pensare Dio,
Claudiana, Torino, 2007.

Pur mantenendo sempre netta la propria identità e appartenenza
ecclesiale, Jüngel si è dimostrato un autore autenticamente
ecumenico nella sua capacità di fare teologia con una visione
aperta. Come ha osservato, in effetti, Giuseppe Lorizio,
quello che colpisce ad esempio «nella sua riflessione intorno
a Dio mistero del mondo (Queriniana, 1982) è l’attenzione che
da parte di un teologo certamente di matrice luterana» viene
«rivolta alla dimensione cosmico-antropologica della
Rivelazione e l’elaborazione della dottrina dell’analogia,
ritenuta comunemente monopolio dell’ambito propriamente
cattolico-tomista» (vedi).

Personalmente mi sono imbattuto nella teologia di Jüngel
nell’ambito della ricerca teologico morale quando, grazie alla
frequentazione del pensiero etico teologico di Klaus Demmer,
ho avuto modo di approfondire il significato esistenziale
della morte come imprescindibile orizzonte delle scelte umane
in relazione alla vicenda pasquale di Cristo.

Jüngel dedicò in effetti proprio al tema della morte una delle
sue prime e più significative monografie. Secondo la sua
interpretazione,      l’essenza    della    morte    consiste
nell’«irrelazionalità», ovvero nella solitudine, come lo
stesso Gesù ha sperimentato sulla croce. Ma, proprio per
questo, la morte può e deve diventare ciò che l’ha resa il
Signore nel suo abbandono al Padre nell’esperienza stessa
della croce: l’attestazione del primato di Dio e non di altri
sulla nostra esistenza, perché là dove non possiamo fare
nulla, nella nostra assoluta impotenza, egli è presente per
noi.

Riporto alcuni stralci della monografica in questione che
illustrano bene l’idea di morte come «irrelazionzionalità» a
partire dall’antropologia veterotestamentaria. Si tratta di
brani che confermano l’impressione di come la scrittura di
Jüngel sia effettivamente tanto complessa e impegnativa,
quanto proficua e arricchente per il lettore disposto a
misurarsi con la fatica del concetto.

«Che la morte sia stipendio del peccato è affermato (…) solo
nel Nuovo Testamento, e più precisamente in un contesto che
parla del superamento di questa morte. Tuttavia, nell’intero
arco dell’Antico Testamento, la morte si presenta con
un’affinità specifica con la colpa di cui l’uomo, da vivo, ha
sciaguratamente oberato la sua vita. La morte non getta
soltanto la sua ombra sulla vita umana. Piuttosto si deve dire
che l’ombra proiettata dalla morte è l’ingrandimento sinistro
dell’ombra originaria che dalla nostra vita cade sulla nostra
fine. (…) Si può esprimere sinteticamente quest’importante
fatto con la tesi che soltanto ciò che nel corso della nostra
vita facciamo di essa rende la morte una potenza minacciosa
non solo per i singoli individui ma anche per le intere
comunità, anzi per i popoli»: (E. JÜNGEL, Morte, Brescia 1972,
110-111).

«La valorizzazione massima della vita, quale rifiuto della
morte (di fronte alla morte), operata dall’Antico Testamento,
permette la formulazione di una chiara comprensione teologica
di quello che è propriamente il fenomeno antropologico della
morte. Si deve quindi prendere le mosse dalla vita. La
valorizzazione massima della vita scaturisce dalla fede in
Jahvé quale sorgente e pienezza della vita. L’uomo perciò, per
parte sua vive perché e in quanto Jahvé sta in rapporto con
lui, che a sua volta si rapporta a Jahvé in modo
corrispondente al rapporto che Dio intrattiene con lui. L’uomo
si differenzia da Dio proprio perché si rapporta a colui dal
quale trae la sua vita. “Vivere”, quindi, nell’Antico
Testamento significa avere un rapporto. Anzitutto, avere un
rapporto con Dio, il rapporto cioè di una provvidenziale
distanza che, sola, rende possibile un retto rapporto. La vita
dell’uomo dell’Antico Testamento è determinata da dei
rapporti, da dei rapporti chiari; essi sono regolati dalla
Legge: rapporti chiari con il prossimo, con il popolo, con se
stessi e con Dio. L’uomo può tentare di offuscare e sovvertire
questi rapporti chiari. Ogni tentativo di distruzione di
questi rapporti vitali è detto dall’Antico Testamento peccato,
cioè ribellione contro Dio, che in ogni rapporto vitale è già
sempre in relazione con l’uomo. Il peccato priva dei rapporti,
rende isolati. Ora la morte è risultato di questa tendenza
alla distruzione dei rapporti. Per questo antropologicamente
la morte non è presente soltanto alla fine della vita, ma in
ogni suo istante come reale possibilità in virtù della
tendenza all’irrelazionalità. (…) L’uomo morto però non è
privo di rapporti solo nei confronti di tutto ciò che è
diverso da lui, ma anche, e in primo luogo, rispetto a se
stesso: “I viventi (almeno) sanno che devono morire, i morti
invece non lo sanno più” (Qo 9,5)» (Ibid., 114-115).

Le scuole religiose nel mondo
mussulmano e il loro ruolo
nei   conflitti    in    Asia
Centrale e nel terrorismo.
di Carlo Parenti · Negli anni
                              passato ho compito numerosi
                              viaggi in Asia centrale. Ho
                              visitato bene Turkmenistan,
                              Tagikistan,      Kirghizistan,
                              Kazakistan,     Uzbekistan.    I
                              confini geografici dell’Asia
                              centrale sono stati soggetti nel
tempo a varie definizioni, anche se l’accezione più diffusa
rimane quella che include le cinque citate repubbliche ex-
sovietiche, ora indipendenti.

l’’UNESCO definisce invece i confini della regione in base a
criteri storico-culturali includendo così anche altri Stati:
la Mongolia, la Cina occidentale (incluso il Tibet), il nord-
est dell’Iran, l’Afghanistan, parte della Russia e le parti
settentrionali di India e Pakistan.

Ho comunque visitato il Pakistan in particolare il suo nord
fino al confine con la Cina (e qui non ho potuto entrare nella
cinese Regione autonoma Uigura dello Xinjiang), la Mongolia,
l’india e il suo settentrione, l’Iran, la Russia in molte sue
repubbliche. Ho anche provato a entrare in Afghanistan, ma al
Khyber Pass non mi hanno fatto passare. Diciamo che ho “visto”
i poverissimi villaggi del lungo confine afgano con il
Tagikistan.

Dovunque è fortemente presente l’Islam. Infatti, la religione
più diffusa in Asia centrale è l’Islam sunnita, in particolare
la scuola Hanafi; gruppi sciiti sono presenti in scarso numero
in tutte le repubbliche, in particolare tra la minoranza
azera. Il cristianesimo è la seconda religione più diffusa,
perlopiù con la Chiesa ortodossa russa. Piccolissime sono le
sparse minoranze zoroastriane, ebree -specie bukhariane-,
buddiste.

Mi soffermerò qui sulla presenza mussulmana e in particolare
sul ruolo delle madrase e l’influenza dell’estremismo
religioso nei violenti conflitti della regione e nelle azioni
terroristiche. Negli ultimi anni, infatti, si è molto discusso
delle connessioni tra estremismo islamico e terrorismo
transnazionale. Uno degli elementi più controversi del
problema è quello della diffusione del fondamentalismo in una
parte delle scuole islamiche. Il fatto che molti leader del
terrore, operativi di Al-Qa’ida e talebani, i militanti
dell’Isis siano stati istruiti in sistemi scolastici religiosi
ha focalizzato su di questi l’attenzione (si veda l’analisi
storica di Carlo Centoducati) da cui colgo alcuni spunti e
citazioni.

Iniziamo dal ruolo delle madrase: “In linea generale nel mondo
musulmano accanto alla scuola pubblica esistono due tipologie
di scuole islamiche: le maktab, o scuole coraniche, dedicate
all’istruzione religiosa di base, e le madrase, centri di
studio avanzato. Le maktab sono scuole di piccole dimensioni,
spesso improvvisate, in cui si insegnano la lettura e la
recitazione del Corano. Il termine madrasah indica invece
istituzioni più organizzate, spesso anche in grado di ospitare
gratuitamente gli studenti. Madrasah costituisce senza dubbio
il termine più conosciuto in riferimento al sistema di
istruzione -solo per i maschi- in vigore nei Paesi islamici.
Da sottolineare che non esiste un modello generale di madrasa,
infatti, finalità e strutture variano da Paese a Paese. In
alcuni Stati, questi organismi sono però fonte di
preoccupazione, principalmente a causa di infiltrazioni
fondamentaliste”. In Pakistan -il paese più attenzionato sul
piano del fondamentalismo e il quinto più popoloso nel mondo,
con una popolazione superiore ai
224 milioni di persone – alcune
stime riportano più di 45.000
madrase e una percentuale dei
frequentanti pari al 33% della
popolazione studentesca totale.
Altri dati invece riferiscono
che le scuole religiose oggi
sono circa 35.000 ed accolgono tra i due milioni e mezzo e i
tre milioni di studenti. Erano poco più di duecento tali
scuole nel momento dell’indipendenza nel ’47. L’assenza di
criteri di selezione e di rette scolastiche per gli studenti
ha portato le madrase ad accogliere per lo più bambini e
giovani studenti provenienti dalle aree rurali del Paese e da
famiglie sotto la soglia di povertà o appartenenti alle fasce
meno abbienti della popolazione. Le madrase, dunque, svolgono
non solo un ruolo formativo ma anche socio-assistenziale nei
confronti della popolazione, agendo talvolta come
organizzazioni non governative e colmando quelle lacune del
sistema di welfare nazionale a cui il governo non riesce a far
fronte. A seconda dei fondi a disposizione, infatti, le
madrase offrono ai propri studenti vitto e alloggio oltre alla
partecipazione ai corsi scolastici. (si veda Francesca
Manenti, Il Pakistan alla prova della deradicalizzazione. )

Circa il 97,0% dei pakistani sono musulmani.Circa il 75% di
essi sono sunniti ed è presente una corposa minoranza di circa
il 25% di sciiti. L’attività politica delle madrase pakistane
è notevole. “A preoccupare maggiormente è il dato relativo al
gran numero di studenti provenienti da quasi tutte le aree di
crisi, dai Balcani alla Cecenia, alle Filippine, alle
Repubbliche centroasiatiche, al medio oriente e la tendenza di
alcune madrase ad interrompere la propria attività nei periodi
in cui le crisi internazionali raggiungono il punto di massima
asprezza, che hanno condotto alcune autorevoli istituzioni a
temere che gli studenti siano inviati all’estero per
combattere la jihad islamica”. L’autoreferenzialità e la forte
componente ideologica integralista che caratterizza
l’indottrinamento impartito talvolta hanno reso alcuni di
questi istituti incubatrici ideali di radicalizzazione.

“Nel corso degli ultimi anni si è verificato un cospicuo
aumento delle iscrizioni alle madrase, accompagnato da
un’ampia opera di espansione infrastrutturale che ha sollevato
non poche perplessità. Sebbene vi sia un certo malcontento per
la facilità con cui le autorità concedono appezzamenti ed
infrastrutture ai leader religiosi, l’attenzione degli
analisti va concentrandosi soprattutto sui metodi e
sull’entità dei finanziamenti, spesso occulti, destinati alle
madrase. In questo contesto, una fonte non trascurabile è
costituita dalla filantropia religiosa della sadiqa e della
khairat (Donazioni caritatevoli” volontarie), di origine sia
estera -proveniente soprattutto dal Golfo Persico e in
particolare dall’Arabia Saudita- che interna”.

Per   approfondire   il   tema   della   devoluzione   di   ingenti
finanziamenti alle scuole religiose con cui facoltosi
protettori, interni o esterni al Paese, cercano di
sponsorizzare un’interpretazione wahabita o salafita
dell’Islam, tipica della Arabia saudita e dei paesi del golfo,
si veda : Soldi, madrasa e jihad: il segreto di Pulcinella del
Pakistan su Limes.

Negli ultimi 30 anni “il Pakistan è stato il Paese in cui le
sette religiose sono state maggiormente strumentalizzate nello
scontro politico interno ed internazionale. Come
internazionalmente riconosciuto, il fondamentalismo che
flagella il Paese è in buona parte il risultato della continua
strumentalizzazione degli ulamā nella storia di questo Paese e
del mancato riassorbimento dei mujaheddin formati lungo il
confine afghano-pakistano ai tempi della jihad antisovietica.
In quel particolare momento storico, una radicalizzazione
religiosa fu, per varie ragioni, considerata utile e col
supporto di altri fattori si rivelò vincente. L’instaurazione
del regime talebano in Afghanistan, il peso crescente del
fondamentalismo nella politica pakistana, il proliferare di
forze antioccidentali che professano l’unità della nazione
islamica, l’emergere di organizzazioni criminali e
terroristiche attive in ogni dove, costituiscono gli effetti
più evidenti non solo della sopravvivenza degli ideali
professati dai mujaheddin e di un’offensiva portata ai vecchi
partner, ma anche del radicamento degli ex-guerriglieri negli
ambienti più influenti di molti Paesi e della loro capacità di
produrre consenso”

Venendo alle recenti vicende afgane dobbiamo inoltre ricordare
che le scuole dove si impara il Corano, solo per maschi, per
la maggioranza delle famiglie sono l’unica via per avere cibo
e istruzione. Ora, con i talebani –che letteralmente vuol dire
studenti coranici, inizia una nuova era fondamentalista e
penalizzante le donne.

Tutto quanto premesso non tutte le madrase, ma solo una
minoranza non solo pakistana purtroppo sono incubatrici di un
terrorismo internazionale.

Concludo con le parole di papa Francesco pronunciate durante
la sua visita nel marzo 2021 a Mosul in Irak e nella zona di
Nassiriya, devastate da attentati terroristici: «Dio è
misericordioso e l’offesa più blasfema è profanare il suo nome
odiando il fratello. Ostilità, estremismo e violenza non
nascono da un animo religioso: sono tradimenti della
religione. E noi credenti non possiamo tacere quando il
terrorismo abusa della religione»

Nel novembre 2020, Papa Francesco aveva condannato attentati
sanguinosi, pur guardandosi bene dall’etichettarli islamici.
«I gravi attentati che hanno insanguinato l’Europa da Nizza a
Vienna e la popolazione che li ha subiti sono nel pensiero e
nella preghiera del Papa e sono deprecabili eventi che cercano
di compromettere con la violenza e l’odio la collaborazione
fraterna tra le religioni».
Nell’enciclica “Fratelli tutti” il papa autorevolmente scrive
(n. 283) che: «Il culto a Dio, sincero e umile, porta non alla
discriminazione, all’odio e alla violenza, ma al rispetto per
la sacralità della vita, al rispetto per la dignità e la
libertà degli altri e all’amorevole impegno per il benessere
di tutti. In realtà, “chi non ama non ha conosciuto Dio,
perché Dio è amore”» (1Gv 4,8)”

I cambiamenti culturali e
generazionali non incidono
sull’identità della Chiesa,
la cui forma giuridica è
segno esteriore della sua
vita interna
                    di Francesco Romano • Il nuovo Israele,
                    costituito in nuovo Popolo di Dio per
                    fondersi in unità non secondo la carne, ma
                    nello Spirito, nasce dal nuovo patto
                    istituito nel sangue di Cristo. Un tempo
                    non era neppure popolo, ma ora è il Popolo
                    di Dio perché è stato rigenerato di un
                    seme incorruttibile. Questo popolo, che è
                    la Chiesa, è caratterizzato dalla sua
                    stessa origine avendo per capo Cristo, per
                    condizione la dignità e la libertà dei
figli di Dio, per legge il precetto di amare come lo stesso
Cristo ci ha amati, per fine il Regno di Dio. La Chiesa, pur
apparendo talora piccolo gregge, è stata costituita come
sacramento visibile di questa unità salvifica per tutti e per
i singoli.

La Chiesa, pertanto, ha origine dalla volontà fondazionale di
Cristo. Il popolo messianico, infatti, ha per capo Cristo, ha
per legge il precetto di amare, è costituito da Cristo per una
comunione di vita, di carità, e di verità come pure è da Lui
assunto per essere strumento di redenzione per tutti (LG, 9).
La Chiesa, a differenza delle società naturali, non risponde
alle istanze del diritto naturale dei giusnaturalisti. Essa è
un’emanazione non della società naturale, bensì della volontà
fondazionale di Cristo.

Il Concilio Vaticano II molto diffusamente ha applicato il
termine “società” alla Chiesa. Essa è definita società
visibile e comunità spirituale (GS 40, 2). La Chiesa nella sua
dimensione sociale ha un aspetto istituzionale che le viene
dalla sua organizzazione giuridica che struttura la società e
la organizza.

Tuttavia, la Chiesa, considerata nella totalità del suo essere
realtà sociale, trascende l’aspetto meramente giuridico del
suo ordinamento per completarsi ed essere identificata con la
componente pneumatica. Essa, sottolinea la Lumen Gentium,
insieme alla Chiesa che è “ormai in possesso dei beni celesti,
forma una sola complessa realtà risultante di un duplice
elemento, umano e divino. Per una non debole analogia, quindi,
è paragonata al mistero del Verbo incarnato” (LG 8, 1).

La Chiesa, quindi, è una vera società che nasce da un atto di
amore di Dio-Cristo, ma non come esigenza della natura sociale
degli uomini. Essa persegue il fine che le è proprio, il bene
comune soprannaturale, la salus animarum di ogni battezzato
nella totalità del suo essere persona nella Chiesa.

Pio XII nell’enciclica Mystici Corporis delinea i tre momenti
dellafondazionedellaChiesa:Cristoconlapredicazione
cominciò l’istituzione della Chiesa, nel
sacrificio della croce la consumò, il
giorno di Pentecoste la manifestò (AAS
35 (1943) 204-207).

La Chiesa è visibile nella sua struttura sociale, “l’organismo
sociale della Chiesa è a servizio dello Spirito di Cristo che
lo vivifica, per la crescita del corpo” (LG 8 n.1). Divenuti
christifideles per il battesimo, i membri della Chiesa entrano
a far parte del suo corpo sociale, acquistano lo stato
giuridico di cittadino, cioè soggetto di diritti e di doveri.

Illuminanti, a questo proposito, sono le parole di Paolo VI:
“Tutti gli elementi istituzionali e giuridici sono sacri e
spirituali, perché vivificati dallo Spirito Santo. In realtà
lo “Spirito” e il “Diritto” nella loro stessa fonte formano
un’unione, in cui l’elemento spirituale è determinante; la
Chiesa del “diritto” e la Chiesa della “carità” sono una sola
realtà, della cui vita interna è segno esteriore la forma
giuridica” (Discorso al Congresso Internazionale di Diritto
Canonico in Communicationes 5(1973)126-130)

La visibilità della Chiesa nei suoi elementi esteriori ci
interroga sulla sua immutabile identità ontologica. Passano le
generazioni di fedeli come pure le situazioni storiche. I
cambiamenti culturali e generazionali non incidono
sull’identità della Chiesa. Il concetto giuridico di
“istituzione” applicato alla Chiesa soddisfa il senso della
domanda. Cristo è il capo della Chiesa, la presenza divina e
immutabile. L’atto fondazionale della Chiesa è unico ed
esclusivo di Cristo. L’ordinamento giuridico che si
concretizza nell’organizzazione della Chiesa proviene dal suo
Fondatore. La struttura istituzionale è l’oggettivazione
dell’atto istituzionale di Cristo; essa garantisce
l’immutabilità dell’identità nonostante il succedersi degli
individui e delle generazioni.

La società – i fedeli organizzati in corpo sociale – è la
forma che la Chiesa assume come istituzione. Essa possiede
come nota peculiare di essere transpersonale e di avere una
struttura organica, “Questa Chiesa, in questo modo costituita
e organizzata come società, sussiste nella Chiesa Cattolica,
governata dal successore di Pietro e dai Vescovi in comunione
con lui” (LG 8 n.2).

La sua struttura societaria è dovuta a vincoli di unione
istituzionalizzati che realizzano la comunione ecclesiastica e
creano relazioni giuridiche. Si pensi alla partecipazione ai
beni salvifici, alla comunione di fede, agli uffici e alle
funzioni di insegnare, di santificare e di governare che
perpetuano l’opera salvifica di Cristo, all’organizzazione
ecclesiastica. Sono questi gli elementi sostanziali immutabili
dell’ordinamento giuridico, cioè della Chiesa-istituzione,
corrispondenti alla volontà fondazionale di Cristo.

La Chiesa-istituzione riceve dal suo Fondatore un ordinamento
giuridico primario e originario. Gli elementi essenziali
dell’ordinamento giuridico manifestano permanentemente l’opera
salvifica di Cristo, sono costitutivi e connaturati con il
progetto fondazionale, rappresentano le coordinate permanenti
della Chiesa-istituzione: il popolo adunato dalla Parola, la
professione di fede, i sacramenti, i carismi, il culto divino,
i “tria munera”, la custodia del deposito rivelato, il governo
ecclesiastico. È questo l’ordinamento sostanziale, l’insieme
degli elementi costitutivi immutabili voluti da Gesù Cristo
quando ha fondato la Chiesa-istituzione.

Vi sono, poi, nella Chiesa-istituzione, elementi variabili che
costituiscono l’ordinamento formale, detto anche materiale,
cioè la realizzazione storica del popolo di Dio, il modo
concreto con cui nel suo divenire si configura all’immutabile
volontà di fondazione, la struttura che si attua,
l’incarnazione dell’ordinamento sostanziale, l’insieme delle
norme e il sistema di rapporti che reggono il corpo sociale.
Nella concezione della Chiesa come sacramento, il dono
invisibile di Dio – il carisma – si manifesta attraverso il
segno visibile dell’istituzione. La Chiesa è nello stesso
tempo carismatica e istituzionale. La Chiesa è un’unica realtà
di ordine pneumatico e spirituale (cf. PIO XII, encicl.
Mystici Corporis, in AAS 35 (1943) 224).

In questo modo il rapporto tra carisma e istituzione viene
sottratto a una lettura spesso riduttiva quando i due termini
sono presentati in conflitto tra di loro. La Chiesa-
istituzione nei suoi elementi essenziali è irriformabile. Può
essere riformabile, invece, solo a livello di ordinamento
formale. Anzi, è necessario che ciò avvenga perché la Chiesa
sia segno sacramentale di salvezza sempre più autentico e
fedele alla volontà del suo Fondatore, quel perfezionamento
costante della relazione tra la Chiesa del diritto e la Chiesa
della carità che sono una sola realtà, della cui vita interna
è segno esteriore la forma giuridica.

Ripartire dai giovani e con i
giovani. Il messaggio di Papa
Francesco per la XXXVI GMG
di Stefano Liccioli · Da
                             quest’anno, per la prima volta,
                             la celebrazione diocesana della
                             Giornata Mondiale della Gioventù
                             si terrà la Domenica di Cristo Re
                             e non più quella delle Palme,
                             così com’era stato fin dal 1985,
anno della sua istituzione. Un cambiamento di data che però
non altera l’elemento fondante di questa iniziativa e cioé il
Mistero di Gesù Cristo Redentore dell’uomo, come ha sempre
sottolineato San Giovanni Paolo II, iniziatore e patrono delle
GMG.

Il titolo della Giornata Mondiale della Gioventù 2021 fa
riferimento al versetto degli Atti degli Apostoli:«Alzati! Ti
costituisco testimone di quel che hai visto!» (cfr. At 26,16),
tratto dalla testimonianza di Paolo di fronte al re Agrippa,
mentre si trova detenuto in prigione. Si potrebbe dire che il
Papa nel messaggio per questa ricorrenza usi la figura di San
Paolo per una catechesi ai giovani, breve, ma densa di
significato.

Il Santo Padre ricorda innanzitutto come la fede in Gesù non
sia frutto di un ragionamento, ma di un incontro personale con
Lui perché solo un incontro di questo tipo è in grado di
cambiare la vita: «Non basta aver sentito parlare di Cristo da
altri, è necessario parlare con Lui personalmente. Questo, in
fondo, è pregare. È un parlare direttamente a Gesù, anche se
magari abbiamo il cuore ancora in disordine, la mente piena di
dubbi o addirittura di disprezzo verso Cristo e i cristiani».

Se si sta accanto ai giovani si percepisce che molti di loro
hanno davvero il cuore in disordine, la mente affollata da
dubbi che aspettano di condividere con qualcuno che li sappia
ascoltare. Purtroppo in questi anni abbiamo dovuto registrare
troppo spesso l’ “abbandono” delle nuove generazioni da parte
degli adulti: questi sovente abdicano al loro ruolo di
educatori, rinunciano a confrontarsi con ragazzi e ragazzi,
preferendo la delega esclusiva agli specialisti. Il pontefice
sembra invece conoscere bene l’animo dei più giovani, agitato
da passioni e paure, radicato in convinzioni e certezze che
rischiano però di ingabbiarli in delle presunte verità
assolute, impedendo loro un incontro autentico con la realtà
ed anche con Cristo.

D’altra parte Papa Francesco appare essere consapevole quanto
sia necessaria un’ermeneutica dei giovani, interpretare quanto
dicono e fanno per andare alle radici delle loro vere
intenzioni. Scrive Bergoglio:«Quanti giovani hanno la passione
di opporsi e andare controcorrente, ma portano nascosto nel
cuore il bisogno di impegnarsi, di amare con tutte le loro
forze, di identificarsi con una missione! Gesù, nel giovane
Saulo, vede esattamente questo».

Al di là di tutto il Santo Padre richiama ragazzi e ragazze
all’autenticità, in un’epoca in cui l’apparenza, il mostrarsi
sembra più importante dell’essere:«Oggigiorno tante “storie”
condiscono le nostre giornate, specialmente sulle reti
sociali, spesso costruite ad arte con tanto di set,
telecamere, sfondi vari. Si cercano sempre di più le luci
della ribalta, sapientemente orientate, per poter mostrare
agli “amici” e followers un’immagine di sé che a volte non
rispecchia la propria verità. Cristo, luce meridiana, viene a
illuminarci e a restituirci la nostra autenticità, liberandoci
da ogni maschera. Ci mostra con nitidezza quello che siamo,
perché ci ama così come siamo».

Interessante poi il passaggio del messaggio in cui il Papa
ricorda che Saulo in qualche modo – senza saperlo – aveva
incontrato Cristo, incontrandolo nei cristiani che
perseguitava:«Quante volte abbiamo sentito dire: “Gesù sì, la
Chiesa no”, come se l’uno potesse essere alternativo
all’altra. Non si può conoscere Gesù se non si conosce la
Chiesa. Non si può conoscere Gesù se non attraverso i fratelli
e le sorelle della sua comunità. Non ci si può dire pienamente
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