Supportare le PMI italiane - Ripartire da zero, reinventarsi, ricominciare, pianificare e investire. Sì, ma come?

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Supportare le PMI italiane - Ripartire da zero, reinventarsi, ricominciare, pianificare e investire. Sì, ma come?
Google inventa Grow My Store per
supportare le PMI italiane

Ripartire da zero, reinventarsi, ricominciare, pianificare e
investire.
Sì, ma come?
C’è bisogno di un supporto concreto alle aziende nella fase post Coronavirus. In particolare, sono le
PMI a chiedersi come affrontare gli strascichi della chiusura forzata o fortemente ridotta degli ultimi
tempi.

Tecnologia, meno male che esisti!
Al di là del sostegno economico o di qualche esenzione statale, il vero aiuto viene dalla tecnologia.
L’innovazione, la digitalizzazione e l’automazione sono le più incoraggiate via d’uscita, non solo da
questa situazione, ma da un problema tipico del nostro Paese, la resistenza al cambiamento.

Per troppo tempo i commercianti italiani si sono ostinati a vendere poco, ma affidandosi solo al
marketing tradizionale. Non hanno mai pensato che con un app o un sito web avrebbero potuto
spedire i loro articoli di nicchia ovunque nel mondo. Molti hanno pensato che postare una foto su
Facebook avrebbe aumentato le loro vendite, non è successo e hanno rimosso l’account.

                          Scopri il nuovo numero > Reset
     Dopo aver parlato, a febbraio, dell’interconnessione in “Virale” ed esserci interrogati a marzo
   sulla situazione attuale in “Tutto andrò bene (?)”, oggi, con “Reset”, vogliamo parlare di soluzioni
      concrete. L’online ed il digitale saranno quantomai utili per offrire soluzioni e creare nuove
                                               opportunità.

La parola d’ordine è cambiare
Da una ricerca realizzata da Netcomm in collaborazione con Google, è per giunta emerso che le
aziende con un proprio sito di e-commerce raggiungono un livello di soddisfazione nettamente
superiore (53%) rispetto a quelle che adottano diversi modelli di vendita online (35%). Roberto
Liscia, presidente di Netcomm ha peraltro precisato: «lo sviluppo di un proprio sito e-commerce è il
modello di commercio digitale che genera maggiori vantaggi a lungo termine, nonostante richieda
un intenso sforzo nella fase di settaggio iniziale. Per ottenere i migliori risultati è necessario
acquisire le giuste competenze».

È chiaro, digitalizzare un’attività non è semplice.
Dentro un negozio online non ci sono solo le immagini degli articoli, c’è ingegno, strategia, analisi e
monitoraggio costante dei risultati. E allora? Tutti i piccoli imprenditori dovrebbero diventare
digital marketers o affidarsi a professionisti del settore?

Niente affatto. Semplicemente tutti, nessuno escluso, hanno il dovere di guardarsi intorno,
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ora più che mai e cogliere le opportunità dell’online.

Con Grow My Store è possibile costruire store online
Per l’appunto, un’ottima opportunità che viene dal mondo digital l’ha ideata Google per aiutare tutte
le PMI italiane, e si chiama Grow My Store. L’obiettivo è creare o migliorare la presenza online
delle aziende e monitorare i feedback della clientela.

Si tratta di una piattaforma gratuita e facilmente gestibile, proprio per venire incontro ai neofiti
dell’ambito technology e facilitare il loro accesso a un mondo che è necessario conoscere. Tra i
vantaggi, c’è la possibilità di accedere a un report rilasciato dalla piattaforma al termine
dell’analisi del sito, che ne indica l’efficacia rispetto alle più importati metriche di confronto del
settore.

Grow My Store mette poi a disposizione dell’utente una lista di consigli e di approfondimenti per
migliorare il proprio e-commerce, è un vero e proprio supporto concreto, con accesso facilitato,
all’attività di marketing online.

Per esempio, la piattaforma indica se nel sito sono elencati chiaramente prodotti e prezzi, se sono
chiare le politiche di restituzione, se esiste un supporto di live chat e se il sito è fruibile sia da
desktop che da mobile.

Provare per credere: https://growmystore.thinkwithgoogle.com/intl/it_it.

Ricominciare per migliorare
È proprio dalle difficoltà e dai momenti più bui che nascono le idee, le proposte e le
innovazioni che portano alle rivoluzioni che cambiano radicalmente la nostra vita. All’inizio in
maniera un po’ brusca, turbando le nostre abitudini, ma poi chissà che con questi cambiamenti non
si scoprano rotte migliori e ricche di opportunità.

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Supportare le PMI italiane - Ripartire da zero, reinventarsi, ricominciare, pianificare e investire. Sì, ma come?
Growth Hacking e Inbound Marketing: il
futuro delle imprese italiane è qui.
Intervista ad Alessia Camera.
L’ancora di salvezza delle aziende italiane si chiama internet e vede in due approcci, due facce della
stessa medaglia, la sua massima espressione: Growth Hacking e Inbound Marketing.

Entrati ormai nei nuovi anni ’20, è imprescindibile che le imprese che vogliano continuare a fare
business, abbiano una strategia chiara su tutto quello che è il posizionamento online e sul come
sfruttare le opportunità che il web offre.

Lo scenario dei consumi in cui viviamo è profondamente mutato negli ultimi 20 anni e continua a
farlo sempre più velocemente grazie alla tecnologia e all’innovazione che viene sviluppata ogni
giorno. Restare fermi a guardare equivale a perdere quote di mercato che regaliamo direttamente ai
nostri competitor senza possibilità di ritorno.

Il consumatore e il processo d’acquisto del 2020
L’esperienza è la chiave del successo di ogni impresa perché il consumatore di oggi è
profondamente cambiato:

■   utenti sempre connessi, multi-schermo e multi-device
■   utenti attivi che utilizzano il Web in ogni fase del processo d’acquisto
■   utenti che vogliono essere protagonisti di un’esperienza a loro dedicata
■   utenti che rigettano comunicazioni di massa ma pretendono la personalizzazione del messaggio

La creazione di valore della marca si realizza attraverso una total customer experience ossia
un’esperienza totalizzante, nutrita da diversi touch points con il consumatore da cui derivano il
vantaggio competitivo e la difendibilità del valore stesso. Con la diffusione dei canali digitali, le
opportunità di contatto con il cliente sono cresciute esponenzialmente.

Con il cambiamento e l’evoluzione del consumatore, abbiamo assistito all’inevitabile mutamento del
percorso d’acquisto. L’emblema di questa rivoluzione è lo ZMOT, creato da Google e oggi usato da
tutti i marketer per spiegare cosa è successo al consumatore.

Infatti l’esperienza d’acquisto offline, prima del Web e prima dei social, si suddivideva in 3 fasi:

■   stimolo,
■   scaffale dove avveniva la scelta fra le diverse opzioni disponibili (first moment of truth)
■   esperienza del prodotto (second moment of truth).

Con l’avvento della tecnologia e il successo di massa del Web e degli strumenti digitali, secondo
Google esiste un ulteriore passaggio focale: lo Zero Moment of Truth, ZMOT.
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Si tratta del momento in cui il potenziale cliente costruisce le sue convinzioni e quello in cui il suo
proprio personale processo d’acquisto inizia. È la possibilità, che ogni potenziale cliente ha, di
cercare informazioni di ogni tipo (schede prodotto, recensioni, forum, blog dedicati, video tutorial e
molto altro) online e di farsi una propria opinione sul prodotto o servizio, ancor prima di averlo visto
dal vivo o provato.

Inbound Marketing, metodologia e applicazione
Lo scopo dell’Inbound Marketing è creare esperienze di valore che abbiano un impatto positivo sulle
persone e sulle aziende, che siano assolutamente utili a raggiungere i loro obiettivi. Ma come si fa
Inbound Marketing?

1. Attirando prospect e clienti sul vostro sito web e sul vostro blog attraverso contenuti pertinenti e
   utili.
2. Dando valore ai loro bisogni e alle loro esigenze, instaurando conversazioni 1 a 1 grazie agli
   strumenti di marketing come e-mail e chat.
3. Fidelizzandoli, continuando ad essere il loro consulente ed esperto, un punto di riferimento unico.

Una strategia di Inbound Marketing prevede un piano a medio-lungo termine che individui sia le
Buyer Persona di riferimento e quindi i clienti tipo ed ideali da voler attirare, coinvolgere e
fidelizzare, sia il loro Buyer’s Journey ovvero il percorso d’acquisto che si divide in tre fasi
(awareness-consideration-decision) e che deve guidare l’utente verso la conversione finale. Vanno
poi identificati gli obiettivi SMART (Specifici, Misurabili, Raggiungibili, Rilevanti e a Tempo) e
definiti gli strumenti per raggiungerli.

  Leggi anche:

  ■   L’evoluzione del mercato del lavoro nel marketing e nella comunicazione (digitale).
      Intervista a Cristiano Carriero.
  ■   I nuovi anni ‘20: gli anni ruggenti dei social e della tecnologia

Growth Hacking, definizione e sviluppo
Il termine “Growth Hacking” viene coniato nel 2010 da Sean Ellis, consulente noto per aver
risollevato le sorti di Dropbox, LogMeIn, EventBrite e Qualaroo. In una recente intervista rilasciata a
Ryan Holiday, Sean Ellis ha definito il Growth Hacking come un processo per trovare le modalità più
efficaci per far crescere un’azienda che comprende rapide sperimentazioni per trovare opportunità
di crescita in momenti specifici.
Mentre l’Inbound Marketing si occupa di creare una strategia a lungo termine, il Growth
Hacking ci permette di strutturare un processo di rapide sperimentazioni per verificare quali
strumenti inseriti nella strategia possano davvero essere performanti e scalabili. Per questo motivo
devono essere considerati come complementari perché insieme riescono davvero a incrementare la
crescita e a farlo sul lungo periodo.
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, Growth Manager & Head of Digital,
professionista e consulente di Marketing
digitale

Per capire ancora meglio lo scenario attuale e futuro e come le aziende debbano evolvere per
continuare a sviluppare business, abbiamo intervistato Alessia Camera, Growth Manager & Head
of Digital, professionista e consulente di Marketing digitale, che ha collaborato con 15+
startup, progetti tech, PMI e multinazionali a Londra e in Italia.

D. Buongiorno Alessia, sei approdata a Londra nel 2012 quando si era da poco iniziato a
parlare di Growth Hacking, come hai vissuto l’inizio di questo pensiero rivoluzionario?

R. Sono arrivata a Londra alla fine del 2012 quando la capitale inglese era molto diversa da oggi.
Stavano arrivando gli entusiasti delle startup un po’ da tutta Europa, si ritrovavano i founder che
avevano sviluppato app e idee a Helsinki legati all’ecosistema Nokia e Tallinn, per esempio i founder
di Skype che poi hanno dato vita a Transferwise proprio allora e gli americani, che dopo gli anni
d’oro delle dot.com decidevano di mettere un primo piede in Europa o di tornarci, e ovviamente
sceglievano Londra.
C’era moltissima energia e anche se nessuno sapeva davvero cosa significasse lavorare in una
startup oppure che sviluppare strategie di marketing per startup si chiamasse Growth
Hacking, era quello che ognuno di noi faceva nel proprio lavoro quotidiano.
Ero partita dall’Italia con un contratto come social media manager per una startup che poi si è
trasformato in digital marketing manager per un e-commerce di arredamento in chiave sostenibile,
non vedendo l’ora di toccare con mano cosa significasse fare marketing quando il prodotto fisico era
una conseguenza di un’esperienza digitale.
Mi ricordo che ci trovavamo in quei 3 coworking a Londra (ora ce ne sono più di 50) e già nei primi
mesi avevo scoperto che marketing non era solamente svolgere un insieme di attività con l’obiettivo
di “farsi conoscere” come avevo studiato e visto in Italia. L’approccio delle startup era totalmente
pratico, “scrappy” come si dice in gergo: qualsiasi attività doveva essere tracciata in modo da
analizzare i dati e capire quali fossero le conseguenze in termini di business. Nessuno aveva grandi
budget e nel 2012 i social media avevano ancora un po’ di potenzialità in termini di contenuto
organico: ogni giorno testavamo nuove idee per capire quale fosse quella che poteva farci
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raggiungere le metriche e gli obiettivi che ci eravamo prefissati e non contava se per fare ciò
dovevamo stare in ufficio fino alle 9 di sera, eravamo tutti motivati al risultato. In quel primo anno
ho imparato le basi operative di quello che è ancora il mio modo di operare e il mio approccio: una
palestra di vita personale e professionale incredibile, che non dimenticherò mai.

D. Se dovessi spiegare a un neofita del marketing e del mondo digitale cosa vuol dire fare
Growth Hacking e quali sono i suoi vantaggi?

R. Il Growth Hacking è una metodologia, un approccio di marketing che si basa sul definire degli
obiettivi e sperimentare delle attività in diversi canali digitali utilizzando un approccio numerico per
definire se quegli obiettivi sono stati raggiunti. Mette da parte quello che è “il branding” per
ragionare in ottica performance utilizzando un metodo sperimentale che ci spinge a pensare che solo
i dati ci facciano capire quale è la via corretta.
Come dicevo a un evento recentemente, il fatto di “avere esperienza” è spesso una trappola perché
chi ha esperienza è “biased”, pensa infatti che una campagna su un canale non funzioni perché in
passato non ha funzionato. Il Growth Hacking mette in discussione tutto ciò e ci costringe a
pensare di avere ragione solo se abbiamo i dati dalla nostra parte. Si parte da un’ipotesi che
viene continuamente ottimizzata in ottica di esperienza digitale e di marketing con un mercato di
riferimento molto specifico.
Oggi il digitale ci fornisce un’opportunità pazzesca, possiamo misurare quasi tutto, dalle
performance ai processi aziendali, alla nostra attività e a quella dei nostri clienti online. Perché non
sfruttarla, quindi e mettere da parte le nostre convinzioni, cercando di sviluppare un approccio
basato su ipotesi che vengono continuamente validate e ottimizzate?

D. Come hai sfruttato il Growth Hacking nella tua esperienza in startup e nel progetto di
lancio europeo che hai seguito per Playstation PS4?

R. Dalla mia esperienza di 5 anni di lavoro come dipendente e consulente per startup posso dire che
l’approccio non è molto diverso dalle PMI italiane: budget ristretti, necessità di avere un riscontro
sulle metriche di business e poche risorse. Nelle startup il livello di difficoltà è maggiore poiché non
ci sono dati storici e c’è necessità di andare molto veloci (la media europea di vita di una startup è 1-
3 anni) ma al di là di questo le esigenze sono molto simili, ecco perché credo che la metodologia
di Growth Hacking possa essere utile anche se applicata dalle PMI italiane.

  Leggi anche:

  ■   Email marketing: ecco quali sono i trend più importanti per il 2020
  ■   Anno 2020: la trasformazione digitale è cominciata e non è fantascienza.

Nelle corporate invece la situazione è diversa e dipende molto dai progetti e dal team:
abbiamo utilizzato un approccio di Growth Hacking per il lancio di PS4 perché avevamo obiettivi
ambiziosi, potevamo testare i pre-ordini e poco tempo. Tuttavia i budget a 6 cifre che erano stati
predisposti non erano un grande incentivo all’ottimizzazione, ecco perché sei molto più tranquillo
nell’adottare un processo di Growth Hacking per lanciare un brand conosciuto da tutti: non c’è
praticamente nessun rischio. Vai veloce, ottimizzi le attività se il tuo team è molto appassionato al
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proprio lavoro, com’è successo per il lancio di PS4, ma in realtà le grandi aziende hanno così tanto
budget da spendere, che spesso lo spendono in attività poco profittevoli, senza che ciò rappresenti
davvero nel breve termine. Bisogna prevedere il cambiamento e accorciare le distanze con i
propri utenti, capendo quali sono le attività che portano valore a loro incentivando la relazione tra
esperienza digitale e utenti, si impara a lavorare in un’ottica di lungo termine che non dipende solo
dai budget che si spendono in pubblicità. Ed è proprio questa la potenza di un approccio di Growth
Hacking!

D. Torni spesso in Italia per la promozione dei tuoi libri dedicati all’argomento, che
scenario pensi ci sia oggi nel nostro Paese e come si stanno muovendo marketer e aziende?

R. Negli ultimi 7 anni ho visto che l’Italia sta crescendo e si sta creando sempre più consapevolezza
verso i temi di startup e marketing digitale. Certo, non in modo estremamente veloce, ma sta
arrivando quella famosa trasformazione digitale di cui tanto abbiamo sentito parlare in questi anni.
Professionisti e aziende stanno capendo che non c’è più spazio per le definizioni ed è ora di agire, di
tirarsi su le maniche e iniziare a capire dove e come applicare i concetti di Growth Hacking, di
marketing e di innovazione che faranno davvero bene al Paese nei prossimi anni e che
permetteranno all’Italia di tornare a essere considerata un asset nel panorama internazionale. È
vero, sono un’inguaribile ottimista, ma io credo davvero che in Italia ci siano le competenze e
l’approccio giusto perché ciò arrivi, siamo persone abituate “a fare” con una grande creatività e
capacità di risolvere problemi (cosa che per esempio in UK non sono molto bravi a fare).

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essia Camera editi da Hoepli: Startup marketing e Viral Marketing, quest’ultimo assieme a
Michele Pagani
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Siamo tuttavia anche conservatori, poco bravi a cogliere la visione d’insieme delle cose e un pochino
individualisti, ci aspetta una nuova trasformazione culturale spinta da una nuova ondata tecnologica:
useremo la realtà aumentata, il 5G, l’Internet delle cose non solo nel nostro tempo libero ma
sempre più in azienda. Ed ecco che sarà proprio nella capacità di applicare queste novità che
potremo usare il Growth Hacking per capire come sperimentare e innovare non solamente in
fabbrica, ma nel marketing e nella capacità di essere attrattivi per clienti e mercati internazionali.
Le opportunità ci sono, dovremo “solo” essere capaci a coglierle, ed è forse nel rischiare che le
nostre aziende non sono bravissime a fare, ma sono sicura che guidate e consigliate dalle persone
giuste, ce la faremo.

D. Qual è il consiglio che ti senti di dare ad una startup italiana che oggi vuole entrare nel
mercato ed avere successo?

R. Darei tre consigli che sono molto legati tra di loro: non innamoratevi dell’idea, ma testatela con il
vostro mercato di riferimento, che non è esclusivamente quello italiano ma è anche quello estero,
usando i dati per capire quale strada sia quella corretta da percorrere. Spesso chi si occupa di
startup si focalizza sull’idea, con la paura che qualcuno gliela possa copiare. Nonostante siano anni
che lo dico, mi trovo ancora a dover firmare degli accordi di non divulgazione (NDA) prima di fare un
meeting per discutere dell’idea di un app o di una piattaforma di e-commerce. Colgo l’occasione per
ribadire che nessuno vi ruba davvero l’idea, perché l’idea vale solo l’1% di un progetto
imprenditoriale. Quello che davvero conta è come sviluppare quell’idea e soprattutto come
ottimizzare quel prodotto digitale nel tempo, secondo i dati raccolti, le metriche di business e il
mercato di riferimento, che deve crescere velocemente. Ne approfitto anche per dire che è bello
parlare di blockchain o di intelligenza artificiale, ci fa sembrare più interessanti al pubblico, ma
non ci garantisce scorciatoie a lungo termine. La tecnologia è solo un abilitatore di un progetto, e
spesso, nella fase iniziale è importante davvero testare la nostra idea con gli strumenti che abbiamo
a disposizione, e pensare che se ciò funziona, allora possiamo integrare la tecnologia per crescere in
modo esponenziale. Il focus deve sempre rimanere sulla relazione tra prodotto digitale e utenti, se
ciò non avviene fin dalle prime fasi, beh, ottimizzate affinché questa relazione diventi un’abitudine o
lasciate perdere, perché la situazione non potrà che peggiorare.

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I nuovi anni ‘20: gli anni ruggenti dei
social e della tecnologia
Come saranno i nuovi anni ‘20? Niente a che fare con lo swing e le collane di perle questa volta,
possiamo scommetterci. Al posto dell’essenzialità di Coco Chanel ci accontenteremo dell’onniscenza
di Alexa; e la luce di lustrini e paillettes sarà facilmente sostituita da quella di schermi di
smartphone e tablet. E voilà…ecco gli anni ruggenti della tecnologia!

Inutile chiedersi se sia meglio o peggio, se tutto questo digitale e web 2.0 o 3.0 ci abbia fatto
bene, abbia migliorato le nostre vite o noi stessi. Probabilmente sì, da un canto ci ha facilitato la vita,
ha semplificato molte delle nostre attività, e dall’altro lato ci ha reso pigri, incapaci di approfondire,
schiavi degli schermi. Come già detto è inutile chiederselo ed è altrettanto inutile rispondersi,
perchè il progresso avanza e non possiamo di certo andargli contro. Il punto è trovare la
formula giusta, affrontarlo come esseri pensanti e consapevoli, usarlo come un alleato e non come
un mero semplificatore.

Negli ultimi 20 anni abbiamo rincorso il web, affascinati dalle sue potenzialità, dall’opportunità di
connetterci facilmente con ogni punto del mondo e di ottenere ogni tipo di informazione. Le aziende
hanno iniziato a sognare sempre più in grande, ammaliate dall’idea di non avere confini per il
proprio business. E così il primo must have fu il sito web, ben presto accompagnato dalla
presenza sui social.

Una presenza spesso un po’ casuale, poco curata, ma che marcava il territorio e diceva “ci sono
anche io”, presupponeva un “come potrei non esserci?” e nascondeva spesso anche un “e ora che ci
faccio?” O “a cosa mi serve?”.

           Scopri il nuovo numero > Simply the best
A una fase iniziale di scoperta seguì una fase più pragmatica e di sperimentazione, fino
alla fase attuale di maturità digitale, in cui c’è addirittura anche chi fa qualche passo
indietro. Nell’anno che sta per concludersi, il 2019, hanno infatti fatto scalpore alcune
aziende come Lush (a metà Aprile) e Unicredit (a Giugno) che hanno deciso di
abbandonare i social. Stanche, forse spaventate dalla comunicazione a due vie, del
crescente potere, e diritto di parola, dei consumatori o dalle regole del gioco (leggasi
algoritmo).
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   We’re switching up social.⁣ ⁣ Increasingly, social media is making it harder and harder for us to talk to
   each other directly. We are tired of fighting with algorithms, and we do not want to pay to appear in
   your newsfeed. So we’ve decided it’s time to bid farewell to some of our social channels and open
   up the conversation between you and us instead.⁣ ⁣ Lush has always been made up of many voices,
   and it’s time for all of them to be heard. We don’t want to limit ourselves to holding conversations in
   one place, we want social to be placed back in the hands of our communities – from our founders to
   our friends.⁣ ⁣ We’re a community and we always have been. We believe we can make more noise
   using all of our voices across the globe because when we do we drive change, challenge norms and
   create a cosmetic revolution. We want social to be more about passions and less about likes.⁣ ⁣ Over
   the next week, our customer care team will be actively responding to your messages and
   comments, after this point you can speak us via live chat on the website, on email at
   wecare@lush.co.uk and by telephone: 01202 930051.⁣ ⁣ This isn’t the end, it’s just the start of
   something new.⁣ ⁣ #LushCommunity – see you there.

              Un post condiviso da LUSH UK (@lush) in data: 8 Apr 2019 alle ore 12:17 PDT

Se ne è discusso tanto per mesi, ci siamo chiesti se fosse un nuovo trend e quante altre aziende
avrebbero presto seguito l’esempio, gli addetti ai lavori hanno osservato con terrore questa mossa,
preoccupati dalle conseguenze…ma in verità non è successo nulla. Un po’ come quando un amico
lascia la festa troppo presto, e tu provi a convincerlo a rimanere ancora un po’, ma in fondo se va via
la festa continua in ogni caso.

Se i mercati sono conversazioni chiudere delle finestre di dialogo è davvero una buona idea? Gli
italiani sui social media sono più di 35 milioni, con un trend sempre crescente. Chi
snobberebbe 35 milioni di potenziali clienti? Se i social media ci spaventano ancora, se l’opportunità
di dar voce a clienti e consumatori ci infastidisce e se riteniamo che dover destinare delle risorse alla
comunicazione web o investire del budget in Ads sia troppo impegnativo…allora stiamo ancora
sbagliando qualcosa. Forse quella maturità digitale non c’è ancora, ma è sola
assuefazione.
Leggo spesso che l’offline è il nuovo online; ovvero che come il web ci ha ammaliati negli ultimi 15
anni… adesso è tutto ciò che è fuori dal web ad attirarci, perchè l’incantesimo si è un po’ spezzato, e
noi non vediamo più soltanto i pro dell’online. Siamo affascinati dall’autenticità, dagli incontri
dal vivo, dai contatti veri, e dunque il web, sempre capace di adattarsi alle esigenze di chi lo
utilizza, diventa strumento abilitante: crea una connessione online che sfocia in un contatto
offline. Pensiamo alle community, ai social network, alle app e ai siti di incontri o ai gruppi
professionali.

Stiamo per entrare nel 2020, un anno che suona subito
futuristico, eppure sembra sia passato un attimo dal 2000, o
dal 2004, anno ufficiale di nascita di Facebook, il più grande
social network al mondo.
Ci siamo lanciati un po’ alla cieca in questo nuovo mondo del web, lo abbiamo osservato e plasmato
negli anni. Se esserne schiavi o padroni possiamo deciderlo noi. Ignorarlo non è un’opzione valida,
dominarlo grazie alle giuste competenze e alla conoscenza approfondita delle sue potenzialità è
sicuramente la scelta vincente.

E allora tornando al trend dell’offline, ancora una volta dobbiamo parlare di comunicazione
integrata: stare online non vuol dire non stare offline. La buona comunicazione, il buon
marketing è un mix del tutto, è l’utilizzo sapiente di tutti i mezzi utili ad uno scopo, che si combinano
come i pezzi di un puzzle. Ed è possibile costruirlo solo conoscendo la tecnica, quali pezzi incastrare,
e avendo ben presente l’immagine intera da voler costruire alla fine.

Niente di più facile o forse niente di più difficile. Giudicate voi.

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Vita e lavoro da nomade digitale.
Intervista a Gianni Bianchini.
Da qualche anno si sente parlare sempre più con insistenza della nascita di nuove modalità di lavoro
o, meglio, di nuovi modi di intendere il lavoro.

La consuetudine ci porta a pensare al lavoro, soprattutto quello d’ufficio, come a qualcosa di statico
e poco flessibile. L’immagine che ci viene in mente pensando ad esempio a lavori come lo
sviluppatore, il commercialista, il social media manager, il traduttore, e molti altri ancora, è quella di
una persona seduta per 8 ore alla scrivania, quando va bene, con un Pc davanti, ad illuminare il viso,
ed una piantina, magari finta, a fare da corredo.

Ma questa immagine tradizionale a poco a poco sta subendo delle mutazioni. Come qualsiasi altro
ambito della vita, anche il mondo del lavoro sta facendo i conti con la rivoluzione digitale e
con internet.

  Leggi anche:

  ■   L’evoluzione del mercato del lavoro nel marketing e nella comunicazione (digitale).
      Intervista a Cristiano Carriero.

Il WEB è riuscito a dare all’uomo la possibilità di “manipolare” lo spazio-tempo aumentando di fatto
le sue facoltà e creando nuove opportunità.

Due sono le novità più importanti: lo smart working ed il
nomadismo digitale.
Alla base di questi nuovi modi di intendere il lavoro c’è la voglia di riappropriarsi del proprio tempo
e di organizzarlo secondo le proprie necessità, mantenendo comunque elevati i livelli di produttività.

Una di queste rivoluzioni nel mondo del lavoro è certamente lo smart working, ossia alcune aziende
consentono ai loro dipendenti di lavorare da casa (o in un coworking presenti nella propria città) uno
o più giorni a settimana, in base ad accordi specifici.

  Per approfondire:

  ■   Dallo smartphone allo smart working: la nostra vita a tutto smart
  ■   Coworking, coliving, cooperation: tutti i vantaggi di un nuovo modo di intendere il
      posto di lavoro
Semplificando, il lavoratore diviene così “proprietario” del suo tempo, decidendo di organizzarlo
come meglio crede. Ciò che conta (e per questo si può parlare di rivoluzione) non sono più le ore
passate in ufficio ma gli obiettivi da raggiungere. Alla base di questo nuovo modo di lavorare, va da
sé, vi deve essere una totale fiducia tra le parti ed un forte senso di responsabilità.

L’altra rivoluzione è il nomadismo digitale. In questo caso non si parla più di lavoratori dipendenti
ma di freelance. E, in questo caso, il nuovo ufficio non è la propria abitazione usuale, come avviene
per lo smart working, ma il mondo. Semplificando, i nomadi digitali utilizzano le nuove tecnologie
per svolgere la propria professione, online e da remoto, spostandosi di paese in paese. Insomma chi
compie la scelta di diventare un nomade digitale sente dentro di sé il bisogno di conoscere nuove
culture, esplorare il mondo e vivere la vita che ha sempre desiderato. Il digitale ha consentito a
queste persone di continuare a sviluppare la propria professione lasciando loro la libertà di
scegliere il dove, il come e il quando: rivoluzionario.

Queste sono le due definizioni e, a grandi linee, cosa si intende per smart working e nomadismo
digitale. Ma se per il primo caso non si fa troppa fatica a immaginare cosa possa significare
realmente approcciarsi a questa modalità di lavoro, credo fermamente che per parlare con
cognizione di causa di nomadismo digitale non ci si possa fermare ad una semplice ricerca su
Google.

Per questo motivo ho voluto intervistare Gianni Bianchini, nomade digitale dal 2013, che ha
già visitato 42 paesi e 110 siti Unesco con il solo bagaglio a mano.

D: Ciao Gianni, presentati e raccontaci brevemente la tua storia: cosa
facevi, cosa fai e soprattutto quando e perché hai deciso di intraprendere
questa nuova vita.
R: Per dieci anni dal 2004 fino al 2013, ho lavorato in ufficio come tester e traduttore di videogiochi
per la Sony e per la Nintendo. Prima in Inghilterra e in seguito in Germania. Facevo un lavoro che
avevo sempre sognato. Mi pagavano praticamente per giocare. Avevo un buono stipendio e contratti
a tempo indeterminato. Ma nonostante questo c’era qualcosa dentro di me che mi spingeva a
desiderare altro.

Ho sempre avuto un’anima nomade. In quei dieci anni ho viaggiato ovunque in Europa durante i
pochi giorni di vacanza che avevo e durante i fine settimana. Ma non mi bastava. Soprattutto non
riuscivo ad immaginarmi a fare sempre quella vita per anni. Seduto ad una scrivania, per 8 ore al
giorno. Lavorando per qualcun altro. Vendendo il mio tempo e i miei giorni a un datore di lavoro, che
probabilmente non mi conosceva neanche, viste le dimensioni di queste multinazionali.

Così mentre gli anni passavano cominciavo a prendere seriamente in considerazione l’idea di
lasciare tutto e viaggiare. Mi vedevo con uno zaino leggero, visitare le nazioni del mondo e
conoscerne gli abitanti, la cultura, il cibo, e ammirare le meraviglie di questo pianeta. Dall’idea sono
semplicemente passato all’azione. Per 14 mesi ho pianificato la mia nuova vita, risparmiando
ed evitando spese inutili. Conducendo una vita più minimalista e frugale. Ho smesso anche di
fumare per realizzare il mio sogno. Ad ottobre del 2013, il mio sogno diventa realtà, quando, dopo
essermi licenziato, volo verso Bangkok con un biglietto di sola andata.
Conoscevo già il nomadismo digitale a livello internazionale. Leggevo molti blog americani e inglesi,
e molti di questi erano nomadi digitali e lavoravano online. Così ho pensato di fare lo stesso creando
un blog in inglese che si chiama “Nomad is Beautiful”. Quando sono arrivato in Thailandia sin
da subito ho cominciato a pubblicare articoli e far crescere il blog. Questo blog di viaggi è ora il mio
lavoro che posso portare ovunque lavorando dal mio laptop.

D: In base alla tua esperienza, cosa consiglieresti a chi volesse diventare
un nomade digitale?
R: È fondamentale capire quali sono le tue skills. Fai un brainstorming mettendo nero su bianco
le tue competenze, ma anche le tue passioni. Tutto quello che ti passa per la testa, dalla passione per
la cucina a quella per la fotografia, dal saper usare i fogli di calcolo Excel al saper disegnare.
Quando avrai scritto questa lista cerca di analizzarla e capire come poter utilizzare alcune di queste
passioni e competenze in qualcosa che potresti fare online. Ti può aiutare molto fare ricerca su
Google. Ci sono migliaia di lavori che si possono fare online, ma devi cercare e capire quello che fa
specificatamente al caso tuo.

  Leggi anche:

  ■   Cercare il lavoro nell’era di LinkedIn, di Google e del digitale: guida e consigli pratici.

Un altro suggerimento che vorrei dare è quello di fare networking con altre persone. Entra a far
parte delle community e partecipa, sia online, nei gruppi Facebook, in Instagram o in Twitter, sia
offline di persona. Frequenta i posti dove ci sono altri nomadi digitali e fai amicizia con chi ha già
dell’esperienza. Se hai la possibilità vai nelle città famose per essere meta di nomadi digitali.
Chiang Mai in Thailandia, Ubud in Indonesia, Medellin in Colombia, Las Palmas de Gran
Canaria in Spagna. Potrai avere tanta ispirazione da altri nomadi ma anche suggerimenti,
condivisione, collaborazione. Senza l’aiuto degli altri non potremmo mai crescere. Fare networking è
la chiave per il successo personale e lavorativo.

D: Un ulteriore precisione o consiglio utile: cosa metteresti in
valigia/zaino?
R: Pochissimo. Viaggiare deve farti sentire libero. Viaggiare con tanta ‘zavorra’, ti appesantisce, non
è facile e crea anche preoccupazione, perché si hanno troppe cose con sé. La mia scelta è quella
di viaggiare con bagaglio a mano. Una scelta minimalista che può non andar bene per tutti. Ma ti
assicuro quando si viaggia in questa maniera, tutto è più facile.

  Segui Gianni Bianchini per condividerne le esperienze ed essere aggiornato sul
  nomadismo digitale.
  Questi sono i suoi canali: Instagram – YouTube.

Il laptop è essenziale, meglio se uno superleggero. Poi dipende da cosa si fa, si può decidere di
portare altro tipo di elettronica, come macchine fotografiche, dischi esterni, videocamere, droni.
Questa tecnologia fa parte del mio lavoro, quindi mi è necessaria. Quello che non è necessario è
portarsi tanto cambio di vestiti, troppi pantaloni, magliette, scarpe; in ogni parte del mondo ci sono
lavanderie e negozi dove comprare quello che ti serve. Articoli per l’igiene, anche questi si trovano
dappertutto, inutile portarteli da casa, si comprano di volta in volta. E non portarti neanche
asciugamani, asciugacapelli, cuscini e cose simili. Si trovano in qualsiasi stanza d’albergo o Airbnb.

D: Non c’è dubbio che il nomadismo digitale porti con sé tutta una serie
di immagini positive (libertà, gestione del tempo, viaggio, scoperta, ecc.)
ma quali possono essere i lati negativi (es. incertezza del futuro,
problemi economici o affettivi, ecc.) a cui si potrebbe andare incontro
compiendo questa scelta?
R: Vivendo come nomade digitale si può sentire spesso la mancanza di familiari e amici.
Fortunatamente la stessa tecnologia che usiamo per lavorare ci viene in aiuto per comunicare con i
nostri cari. Grazie a Skype, Whatsapp e Facebook. Certo, magari guardarsi e salutarsi in webcam
non è la stessa cosa, ma ti assicuro che aiuta molto nel sentirsi meno lontani.

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nchini, nomade digitale dal 2013.

Anche il fatto di non avere un indirizzo fisico permanente crea alcune difficoltà. I rapporti
con la banca, la burocrazia. Anche farsi spedire un pacco da Amazon diventa complicato. Per
risolvere questo problema di solito ci si affida all’indirizzo dei propri familiari o di amici.

Un altro aspetto negativo è che la gente non capisce che lavoro fai, soprattutto se vivi e lavori con
un blog. È difficile spiegare che attività hai e come lavori. Il concetto di lavoro online sembra in
Italia ancora un’utopia, ma di fatto in tutto il mondo non lo è.

E per finire, il bisogno essenziale di WiFi. Si è completamente dipendenti dalla connessione internet.
Diventa quindi difficile viaggiare e lavorare in paesi con accesso limitato. Molti paesi nel mondo sono
ancora arretrati con la diffusione del WiFi. In altri, vige un sistema di censura, che tuttavia può
essere bypassato con sistemi di VPN.

D: Carta bianca: lasciaci delle tue considerazioni personali su questa
nuova forma di vita e di lavoro.
R: Personalmente credo che in futuro sempre più persone lavoreranno da remoto, viaggiando, ma
anche solo da casa, o negli spazi di coworking della propria città. La tecnologia, e in particolare
internet, ci ha aperto infinite possibilità. Moltissimi lavori scompariranno e altri nasceranno. La
tecnologia ci aiuta nel momento in cui se ne fa un buon uso. Molta gente ha paura ed è critica
verso la tecnologia. Ha paura dei social media, dei video giochi, degli smartphone. Ma la
tecnologia è dannosa solamente quando se ne fa un uso sbagliato. Se si ha un approccio di diffidenza
verso tutto questo, si rimane tagliati fuori, sia a livello di rapporti sociali e di crescita, sia per quanto
riguarda la possibilità di lavorare per se stessi e di conseguenza di poter viaggiare, essere liberi e
crearsi un proprio destino. La rete e la tecnologia, oggi, ci aiutano anche a far questo. E i nomadi
digitali, o lavoratori da remoto di tutto il mondo, lo stanno dimostrando.

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                                          Iscriviti alla newsletter
I rischi della rete: il Safer Internet Day
Il web e il digitale offrono tante opportunità. E questo credo sia noto ai più. Ogni tanto, però, è
anche giusto ricordare i rischi che possono celarsi dietro l’utilizzo non corretto del mezzo. E il Safer
Internet Day è sicuramente l’occasione giusta.

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l Safer Internet Day 2019

Ecco alcuni tra i maggiori rischi:
■   Cyberbullismo: in Italia nella fascia 14-18 anni, l’8,5% è stato vittima di cyberbullismo mentre il
    28% è stato vittima di bullismo tradizionale. Scendendo con l’età questi numeri aumentano. Nella
    fascia 11-13 il 10% è stato vittima del bullismo online ed il 30% di quello tradizionale.
■   Fake news: 1 italiano su 2 ha creduto ad almeno una fake news nell’arco dell’ultimo anno.
    Secondo questa ricerca condotta da Doxa, 1 italiano su 6 ha creduto a più di 5 notizie false. Quello
    che appare rilevante è che, a dispetto di quanto si possa pensare, sono proprio gli appartenenti alle
    fasce d’età più elevate a non preoccuparsi di verificare quanto letto.

     Per approfondire:

     ■   Fake news, disinformazione e politica

■   Internet Addiction Disorder: in sostanza è la dipendenza da internet. Qualche settimana fa c’è
    stato un caso eclatante di una famiglia nel leccese segregata a casa per 2 anni. Ma se controlliamo
    il cellulare senza motivo, che sia per le app, per le notifiche o per smanettare sui social, più di 15
volte al giorno, allora si potrebbe avere un problema.

C’è la necessità di portare avanti percorsi di educazione al digitale: se pensiamo che FB ha
compiuto ieri 15 anni e che lo smartphone è in circolazione da poco più di 10 anni, molto
probabilmente non tutte le persone hanno avuto il tempo, o la capacità, di capire come maneggiare
al meglio questi strumenti.

Trend visual 2019: il ritorno del vintage
anche sul web
Sicuramente immaginare il mondo di domani è difficile, ma non impossibile soprattutto per gli
artisti e i creativi professionisti, capaci di respirare l’aria del cambiamento prima ancora che arrivi.
Lo stesso accade per chi si occupa di creazione di siti web e gestione di pagine sui social media,
ovvero del professionista che lavora sempre per i mesi a venire e vive costantemente proiettato nel
futuro.

Ogni anno Depositphotos parla con fotografi, designer e content creator per individuare idee,
movimenti e nuovi trend della comunicazione visiva, quelli che caratterizzeranno il futuro del
settore. Vediamo quindi cosa ci riserverà questo 2019.

Personalizzazione, l’unica via da seguire
Le campagne di digital marketing sfruttano oggi nuovi modi personalizzati per raggiungere il
singolo consumatore e questa è oggi l’unica via da seguire per avere successo. L’utente di oggi è
sempre più connesso e rinuncia volentieri alla privacy per accedere a contenuti – soprattutto
immagini – davvero rilevanti per lui.

Di grande tendenza sono i contenuti UGC – creati dai consumatori per i consumatori – e quelli co-
creati con gli influencer, studiati per adattarsi alle singole persone e raggiungere il destinatario
anche in un momento in cui la ad-blindness è ai massimi livelli.

Abbandonato il marketing per tutti, che si rivolgeva a un pubblico ampio e indistinto, oggi il segreto
del successo è portare l’utente a vivere un’esperienza ravvicinata con il brand e per farlo si
utilizzano soprattutto i contenuti visivi.

Provocazione creativa per attirare la curiosità
Chi lavora sui social media conosce bene l’importanza della provocazione visiva, che può portare a
un concreto vantaggio competitivo e stimolare la curiosità dell’utente online. Oggi le campagne di
Digital Marketing puntano su immagini audaci e folli, approcci non convenzionali alla
fotografia e all’arte e a tecniche pensare per un consumo in movimento del contenuto visivo.
Scopri il numero dedicato al marketing della nostalgia:

■   Back to the Future

L’immagine che oggi ha successo online è un’immagine incredibile e inaspettata, che si fa notare
ed emerge dal feed sovraffollato che caratterizza tutte le piattaforme social, da Facebook a
Instagram, da Twitter a Linkedin. Non basta più individuare l’argomento e l’orario perfetto: il
vero marketer di oggi sa creare conversazioni e ampliare la portata organica del suo contenuto
sul web.

La nostalgia e il vintage: il sito Adidas ispirato agli anni
‘90
L’uso di colori, pattern e caratteri degli anni ’90 è alla base del nuovo sito Adidas, che ha
catturato la nostalgia di quel periodo per presentare le sneaker del futuro, rivolte ai Millennials di
oggi.

Il sito della Yung Series sembra uscire dall’epoca iniziale del web design, ma è rivisitato in
chiave assolutamente moderna, l’ideale per chi si sente retrò ma ha da sempre un occhio attento
al design e che questo sforzo promozionale del brand catturerà sicuramente.

La nota azienda ha, infatti, deciso di promuovere la collezione di sneaker Yung ispirate agli anni
’90 con un sito nostalgico, che richiama gli inizi della storia del World Wide Web e si
aggancia al trend attuale che prevede la creazione di siti web addirittura brutali. Abuso di GIF
animate, un vortice di colori e orribili sfondi piastrellati, rendering 3D ispirati al passato e font di
sistema che annunciano che il nuovo sito web è ancora “Under Construction”. Manca sicuramente
l’invito animato a aderire al webring Adidas, ma un pulsante animato davvero terrificante
impone al visitatore l’iscrizione alla mailing list.

Il sito vintage include anche Yung Rappa, un vero gioco per browser che si ispira all’hip hop e
che si adatta a ogni schermo dal 640×480 tipico del passato, ad un 1920×1080 allora
impensabile.

Sicuramente vedere un sito di questo tipo fa un certo effetto, ma i brand come Adidas hanno
saputo sfruttare lo stile vintage, portando online la nostalgia per il passato per presentare la
nuova collezione di scarpe sportive ispirate agli anni ’90.

Non abbiamo dubbi che nei prossimi mesi, navigando online, troverete davvero tanti altri
riferimenti alla cultura visiva degli anni ’60, ’70, ’80 e ’90 per attirare tutti coloro che in
quegli anni erano giovani, ma anche i Millennials che guardano al passato con curiosità.

Fare impresa non è una cosa da uomini:
le donne Millennials ribaltano finalmente
le convenzioni.
Quando si parla di lavoro, purtroppo, in Italia abbiamo poco di cui vantarci. Picchi di
disoccupazione vergognosi, divari di opportunità esagerati tra regioni e in particolare tra nord e
sud, troppo lavoro in nero, riforme che non sempre aiutano i lavoratori e così via. Altro vanto che
non possiamo permetterci è quello della parità di genere in ambito imprenditoriale, ma pian
piano qualcosa inizia a muoversi e a farci sperare.

I Millennials, a suon di startup, idee innovative, capacità di reinventarsi o inventarsi del
tutto, stanno mostrando alle generazioni precedenti che si sopravvive anche senza il posto fisso,
che le opportunità bisogna crearsele e non aspettarle…e dunque sono le donne millennials che
iniziano a porre le basi per la vera crescita dell’imprenditoria femminile italiana.

Secondo i dati dell’Osservatorio per l’imprenditorialità femminile di Unioncamere e InfoCamere,
le imprese rosa, ovvero quelle a conduzione femminile, nel nostro paese crescono di
anno in anno.

Lo scorso anno le imprese create da donne sono state 10 mila in più rispetto al
precedente, e ben 30 mila in più rispetto a tre anni prima. Una crescita che si concentra in
particolare in Sicilia, Lazio, Campania e Lombardia.

Per quanto riguarda i settori, sono quello turistico e quello dei servizi ad avere maggiori numeri.
Il settore dell’innovazione e del digitale, poi, è uno di quelli in cui sempre più donne decidono di
investire e avviare la propria attività. La rivoluzione tecnologica e digitale rappresenta una
grande opportunità per le donne, soprattutto grazie alla flessibilità e allo smart working, che
permettono di gestire più liberamente le proprie attività e conciliare il lavoro con numerose altre
esigenze.
Entrando nello specifico sono soprattutto le giovani donne under 35 a decidere di lanciare
il proprio business. Complice dell’imprenditorialità femminile crescente è sicuramente la
situazione economica attuale e le opportunità di lavoro che scarseggiano e che spingono le donne
più intraprendenti a muoversi autonomamente, ad auto-impiegarsi.

Tutto ciò è possibile grazie anche alle numerose opportunità che oggi agevolano soprattutto le
idee di impresa femminili e giovanili, come i finanziamenti agevolati, i contributi a fondo
perduto, il fondo di garanzia o il micro credito.

Esistono poi bandi e opportunità dedicati a determinate zone geografiche, come il recente bando
Resto al sud di Invitalia a favore del Mezzogiorno (rivolto non solo alle donne ma a tutti gli under
35 residenti in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia che
vogliono avviare una nuova impresa) o i bandi che si rivolgono a settori specifici come
Smart&Start, ideato in particolare per le startup innovative. [Per tenersi aggiornati sulle
opportunità basta tenere d’occhio il sito della propria regione, quello del ministero delle pari
opportunità e ancora il sito Invitalia e la Gazzetta Ufficiale.]

Purtroppo nel tempo ci siamo abituati all’idea che l’imprenditore sia uomo, ci stupiamo
quasi quando troviamo un business creato da una donna, tanto da trasformarlo in case history da
raccontare o in curiosa storia di successo. Capita di pensare così anche a noi donne. Non è
discriminazione, è abitudine, e ci vorrà un po’ di tempo e qualche generazione per invertire la
rotta.

Nell’imprenditoria, in Italia, la parità di genere è sempre stato solo un miraggio, e anche oggi, in
cui sembra che le cose stiano cambiando, le imprese femminili rappresentano ancora
soltanto circa il 20% del totale del tessuto produttivo nazionale.

Come anticipato, le giovani donne stanno cercando di invertire la tendenza, infatti secondo
Unioncamere il 29% delle attività di under 35 ha oggi una donna al comando e
complessivamente sono 154 mila le donne al di sotto dei 35 anni che sono a capo di una impresa
in Italia: una ogni 12 aziende femminili. Umbria e Friuli Venezia Giulia sono le regioni con
un maggior tasso di femminilizzazione delle imprese giovanili.

Inoltre in Italia sono in crescita anche le imprese femminili create da donne straniere
immigrate nel nostro paese. Nell’ultimo anno le attività avviate da donne con passaporto
straniero sono, infatti, aumentate del +3,7%. Anche in questo caso si tratta di imprese guidate
soprattutto da under 35.

Altro dato interessante da sottolineare è che le giovani donne under 35 iniziano lanciare le
proprie attività anche in settori tradizionalmente maschili come quello finanziario e assicurativo,
immobiliare, sportivo e quelle scientifico e tecnico. La Tecnologia non è una cosa da uomini, e
lo ha evidenziato anche Booking.com, che ha appena lanciato Technology Playmaker Awards
2019, la seconda edizione di un premio internazionale con l’obiettivo di riconoscere e premiare le
donne che sono state capaci di trasformare o avere un impatto su business, settori e comunità
grazie all’uso della tecnologia. L’iniziativa è stata lanciata con il claim “We know women are
making an incredible impact in technology everyday, and we want to celebrate their successes”
ed possibile candidarsi in tutto il mondo, per 7 diverse categorie, entro il 22 Dicembre 2018.

Diritto d’autore e copyright al tempo del
web e delle informazioni Social Sharing
Solitamente quando si sente parlare di diritto d’autore si tende a fare l’associazione immediata a
canzoni e cantanti; libri e scrittori e non ci si rende conto che, invece, in realtà si tratta di un
diritto che si estende a qualsiasi tipologia di opera di ingegno che sia caratterizzata
dall’elemento creatività.

  Dalla letteratura alla musica, dalle arti figurative all’architettura, alle creazioni di design, alle
  opere teatrali o cinematografiche fino al software, ai contenuti on line tutto ciò che è creativo è
  anche tutelato.

La sottovalutazione naturale avviene perché Il grande mondo del WEB, da sempre riconosciuto
come luogo virtuale di libertà dell’espressione ha infatti reso disponibile contenuti di facile
accesso per i consumatori, e l’evoluzione delle tecnologie digitali ha radicalmente modificato il
modo in cui le opere dell’ingegno vengono prodotte, ma anche quello con cui vengono
distribuite e sfruttate, determinando due lati di una stessa medaglia.

Da un lato una maggior facilità per gli autori di ottenere visibilità per le proprie opere, dall’altro
una maggior difficoltà per autori ed editori di vedere garantita una adeguata remunerazione per
la fruizione dei contenuti, ha fatto sì che la Commissione Europea si interrogasse sul diritto
d’autore e lo regolamentasse.

Ma cerchiamo di capire di più su cosa effettivamente sia il
diritto d’autore e come questo possa essere tutelato
nell’era dell’“appropriazione” dei contenuti per la
condivisione nella rete.
Si tratta di quel diritto, appunto, che consente all’autore di poter disporre in maniera esclusiva
delle sue opere e di rivendicarne la paternità decidendo se e quando pubblicarle. È il diritto
che gli dà la facoltà di opporsi ad ogni loro modifica, di autorizzarne l’utilizzo e di ricevere i
relativi compensi e sorge, in capo all’autore o agli autori dell’opera, nel momento in cui avviene la
creazione della medesima. A differenza di quanto previsto per i brevetti e i marchi non è
necessario adempiere a formalità amministrative. Per la paternità dell’opera non è richiesto
alcun deposito ma è sufficiente dimostrare di esserne l’autore e di averla creata prima di altri.
Colui che si dichiara autore di un’opera è considerato tale fino a prova contraria per cui è
consigliabile, al fine di avere la prova che ne testimoni la paternità, depositare l’opera presso un
ente che ne certifichi la data*.

Con lo sviluppo di internet e delle tecnologie con contenuti sul web che facilmente vengono
condivisi, riprodotti, riutilizzati, il diritto d’autore ha subito profondi mutamenti e
adattamenti, soprattutto in materia di diffusione, aprendo una panoramica molto diversa da
un’epoca precedente dove tutto questo era impensabile (La legge sul diritto d’autore che
disciplina la materia è la n.633 del 22 Aprile 1941 “Protezione del diritto d’autore e di altri diritti
connessi al suo esercizio) tanto da richiedere un aggiornamento ultimamente.

Se parliamo di diritto d’autore non possiamo non considerare i copyright che vengono
utilizzati in molti casi come sinonimi. Esistono alcune differenze tra i due termini sia in
riferimento al significato che alla tutela dei diritti in questione.
Storicamente il copyright – tradotto letteralmente come “diritto di copia” – nasce in Inghilterra
nel XVI secolo, con il diffondersi delle prime macchine automatiche per la stampa, per poi
assumere l’accezione di diritto patrimoniale ponendo al centro la persona, quindi l’autore (e il
suo diritto morale).

La principale differenza tra il copyright di stampo anglosassone e la sua evoluzione nel diritto
d’autore, infatti, riguarda l’origine del diritto stesso:

■   Il copyright nei sistemi anglosassoni nasce con il deposito dell’opera all’Ufficio Copyright;
■   Il diritto d’autore si acquista con la semplice creazione dell’opera, espressione del lavoro
    intellettuale, senza che sia necessario alcun deposito formale dell’opera.

Ecco perché in rete e sui social network ci si imbatte frequentemente in contenuti testuali o visivi
in documenti, immagini e video protetti da copyright, attraverso un apposito simbolo: ©, formato
dalla lettera “c” all’interno di un cerchio, oppure posta tra parentesi: (c) o (C). a segnalare la
presenza del diritto d’autore o copyright che si utilizza.
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