Working, remote company e nuove opportunità.

Pagina creata da Arianna Pasini
 
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Working, remote company e nuove opportunità.
Il mondo del lavoro dopo il 2020: smart
working, remote company e nuove
opportunità.
Ormai lo sappiamo: il salto in avanti che abbiamo fatto negli ultimi mesi, in termini di remote
working, smart working o lavoro da casa (per i polemici e i puristi della lingua italiana) è pari a
un salto avanti di anni. Almeno così dicono, o così ci piace pensare, perchè di fatto, a mio parere,
abbiamo assistito all’improvviso fenomeno di un’Italia buttata nel mondo digitale allo sbaraglio,
alla scoperta quotidiana di tool più o meno adeguati per continuare a lavorare e alla ricerca delle
modalità migliori per utilizzarli. A un’Italia, soprattutto in determinate zone, totalmente impreparata
e che mai avrebbe ceduto allo smart working libero che, però, per forza di cose, si è trovata
costretta a testarlo, in modalità estrema, e a tratti disorganizzata.

La pubblica amministrazione, le scuole, le aziende, le PMI, persino il mondo dello spettacolo si sono
ritrovati “Smart” (che poi letteralmente significa intelligente, traete voi le conclusioni in merito al
cambiamento). Comunque sia, ce la siamo cavata. Se ce lo avesse predetto un oracolo, o i Maya,
Marty McFly o chissà quale profeta…non ci avremmo creduto.

Lavorare da casa. Tutti. In Italia.
Secondo l’Osservatorio sullo Smart Working del Politecnico di Milano i lavoratori da remoto sono
passati da 570 mila a 8 milioni. Non tutti contenti, a dire il vero, perchè ci sono settori e ambiti in
cui lo smart working è più complicato o persone che non amano abbandonare la routine e il luogo di
lavoro con i risvolti di socialità e coesione che ne derivano.

L’italia si è un po’ divisa in due: i sostenitori dello smart working, che una volta abituati a
questa nuova modalità non vorrebbero più tornare indietro o sperano di poter avere questa opzione
più spesso possibile, e quelli che attendono con ansia il ritorno alla vecchia normalità, alla
pausa pranzo con i colleghi, alle riunioni tutti in una stanza, alle strette di mano…

Se ne discute da mesi sottolineando pregi e difetti: il risparmio di tempo per raggiungere la sede di
lavoro; la diminuzione dello smog; i minori costi aziendali; il maggior engagement di dipendenti
liberi di organizzarsi per bene e con meno distrazioni; ma anche la perdita del contatto umano; le
difficoltà nel suddividere il tempo lavorativo da quello personale e così via.

                     Scopri il nuovo numero: Just Working
   La pandemia è stato un fortissimo shock che ha interessato tutti gli aspetti della nostra vita e il
  mondo del lavoro è certamente tra questi. Dal telelavoro allo smart working, passando per il south
              working, vedremo come sta velocemente cambiando il concetto di lavoro.

Non c’è una risposta giusta. Meglio lo smart working o il vecchio e tradizionale modo di lavorare?
Anche in questo caso la risposta è soggettiva. E’ come chiedere se è meglio il mare o la montagna:
ognuno ha i suoi gusti e le sue esigenze e sarà in grado di supportare la sua teoria con molte
motivazioni valide. Ma nessuno potrà mai convincermi a trascorrere l’intero mese di Agosto in
montagna.
Working, remote company e nuove opportunità.
Lo smart working non fa per tutti, è vero, ma a questo punto
dovrebbe essere un’opzione reale, non qualcosa a cui siamo
costretti nei soli momenti di necessità o in soli casi di
pandemie mondiali.
Lo smart working è ormai una realtà, che ha persino creato delle interessanti sotto-realtà come il
southworking, di cui si parla tanto recentemente, e che altro non è che la possibilità di lavorare al
sud per realtà del nord. Io lo pratico da oltre 6 anni e non avevo mai pensato di dargli un nome. Però
adesso è molto più semplice da spiegare. Perchè questi mesi ci hanno fatto fare un salto in avanti
anche di mentalità, di apertura mentale.

Per anni ho spiegato che sì… vivo all’estremo sud Italia (persino all’estremo sud Europa) e lavoro
proprio come se fossi all’estremo nord Italia, senza il minimo problema e con poche differenze
organizzative rispetto ai colleghi localizzati a Milano, Bologna ecc…

Nel 2020, per la prima volta, vedo scomparire le espressioni perplesse e le domande del tipo “ma ti
pagano?”. In quello che chiamiamo il new normal lo smart working è a pieno titolo lavoro. Lo
abbiamo dovuto provare sulla nostra pelle, ma adesso lo sappiamo!

Quale sarà il prossimo step?
Il southworking è sicuramente una bellissima esperienza per chi al momento sta sperimentando la
possibilità di trasferirsi (per lo più tornare) al sud; ma parliamo di persone che fino a qualche tempo
fa vivevano al nord, probabilmente sono residenti a Milano, Torino, Bologna,…, persone che si sono
spostate al nord, hanno trovato un lavoro nelle grandi città e hanno lavorato a lungo in sede e poi,
complice la pandemia globale, si ritrovano a poter scegliere dove lavorare. E vanno al sud, che
hanno lasciato probabilmente alla ricerca di maggiori opportunità. E ora che le opportunità possono
essere smart?

Nel new normal potrò permettermi di studiare al sud, formarmi al sud e inviare il cv per una
posizione aperta in un’azienda di Milano/Londra/Torino/Parma anche se vivo al sud, in provincia, e
magari non ho tra i miei obiettivi quello di trasferirmi o non ne ho la possibilità?

Il numero degli annunci di lavoro per posizioni in smart
working negli ultimi mesi è aumentato, sia da parte delle
aziende che dai candidati.
Le aziende si rendono conto di non aver necessità di porre limiti territoriali alla ricerca di
competenze e profili validi, e anche chi cerca lavoro vede adesso aprirsi questa prospettiva.

Forse non ci stiamo rendendo conto di quanto questo fenomeno possa cambiare le carte in tavola nel
nostro paese, svoltare la vita di tante persone valide che magari difficilmente potrebbero avere
grandi occasioni. Non dobbiamo pensare al southworking solo come alla possibilità di
ritrasferirsi,ma come l’estensione delle opportunità anche nelle regioni meno sviluppate
economicamente.

Nulla di nuovo all’orizzonte: i cosiddetti nomadi digitali lavorano online dove vogliono, per lo più in
luoghi dove il costo della vita è abbordabile, e per aziende e realtà all’avanguardia. E dico
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all’avanguardia nel senso di aziende aperte tanto da considerare il lavoro a distanza una normalità.
Adesso, nel 2020, vedo uno spiraglio di avanguardia anche da noi, in Italia, e se riusciremo a
sfruttarlo bene non parleremo di southworking, northworking, smart working, remote working, ma
semplicemente working, perchè per attivare le nostre capacità intellettuali non tutti abbiamo
bisogno di badge, mense aziendali, città munite di metro e pause caffè davanti alla macchinetta
automatica.

Cosa ci aspetta?
Il futuro, a mio avviso, è solo trovare la nostra dimensione: sorgeranno sempre più Remote
Company, ovvero aziende in cui si lavora al 100% da remoto, con sporadici incontri in punti
strategici comodi a tutti; e continueranno ad esserci le realtà tradizionali, con i dipendenti ognuno
alla propria scrivania. A questi si aggiungeranno delle aziende un po’ più smart, con formule miste:
alcuni collaboratori in smart working e altri ruoli in sede, o con la possibilità di scegliere
liberamente o richiedere giornate o periodi in smart working a piacimento, quelle che vengono
definite aziende remote friendly.

Il mio è un augurio più che una previsione, ma spero che il futuro del lavoro sia libero,
flessibile e senza barriere territoriali. E spero che il 2020 venga ricordato per essere stato
il punto di partenza di questa trasformazione e non “l’anno del lockdown”.

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Working, remote company e nuove opportunità.
Upgrade - L’editoriale di Raffaello
Castellano
Come sintetizzare con una parola, al massimo due, la
complessità e le sfide che ci pone il tempo presente?

Qual è, se c’è, la dicotomia che meglio identifica la dualità di questo tempo nuovo che stiamo
vivendo?

Non so voi, ma io mi sono convinto che le due parole o meglio i due sentimenti contrastanti, ma solo
apparentemente, di questo periodo sono: la paura e il desiderio.

Paura e desiderio, Fear and desire, come il titolo del primo lungometraggio di Stanley Kubrick del
1953, che il regista newyorkese non amò mai particolarmente e che cercò di eliminare in ogni modo,
non riuscendoci per la nostra e sua fortuna.

Ma, in realtà, Kubrick a parte, sono debitore di questa dicotomia allo scrittore Alessandro
Baricco, che l’ha usata recentemente sia in un articolo su Repubblica, che nell’evento finale del
Salone del Libro di Torino del 2020, anzi SalToEXTRA, come è stato ribattezzato questa edizione
digitale, che a causa del Covid19 è andato in “onda” esclusivamente sul web, riscuotendo comunque
un grandissimo successo con oltre 5 milioni di utenti, contando solo quelli tra Facebook e
Youtube.

Bene, nell’ultima serata dell’evento, il 17 maggio, Alessandro Baricco, intervistato dal direttore
artistico del Salone del Libro e scrittore Nicola Lagioia, ha proposto un paio di coppie di parole per
affrontare il presente ed immaginare il futuro: una era prudenza ed audacia e l’altra paura e
desiderio.

Entrambe le coppie di parole sono affascinanti e particolarmente calzanti per descrivere questo
periodo, ma mi sono soffermato sulla seconda coppia sia perché mi ricorda, come ho detto, il mio
regista preferito, Kubrick, sia perché è la coppia che meglio identifica il mio attuale stato d’animo.

Con la fine del lockdown il 4 maggio scorso e il lento, ma inesorabile, avvicinamento alla normalità,
io per primo sono combattuto fra l’aderenza ad una o l’altra di queste parole; ho ancora molta paura,
ma desidero ad ogni modo tornare a fare alcune delle cose che solo 3 mesi fa, a febbraio, mi
parevano scontate e banali.
Working, remote company e nuove opportunità.
Ma come sono stati questi due mesi di confinamento?
Innanzitutto, lo sappiamo, l’altra, e forse più eccellente, vittima di questa pandemia è stata
l’economia mondiale, franata a causa delle misure restrittive e delle chiusure di massa di attività
dovute al lockdown, che a livello mondiale si sono protratte ben oltre i due mesi di blocco.

                       Scopri il nuovo numero > Upgrade
    Upgrade rappresenta l’ultimo elemento di un racconto che parte a Febbraio 2020. In questi mesi
       abbiamo raccontato cosa stava succedendo (Virale), ci siamo domandati come la pandemia
       avrebbe cambiato noi stessi e l’economia (Tutto andrà bene(?)), e abbiamo offerto soluzioni
    (Reset). Con questo numero abbiamo voluto fare un passo in più: immaginare un domani diverso,
                                anche attraverso esperienze concrete.

Nel nostro Paese, il ritorno ad una fase con meno restrizioni è stato fortemente caldeggiato
soprattutto da tutti quei commercianti ed artigiani che dopo oltre 60 giorni di chiusura erano ormai
alla canna del gas ed incapaci di provvedere persino ai bisogni primari delle proprie famiglie.

Durante il lockdown la pachidermica burocrazia italiana ha dato il meglio di sè, rallentando ed alle
volte boicottando l’azione del Governo che, anche se talvolta confusa e tardiva, ha cercato di
fronteggiare, in ogni modo, una situazione senza precedenti.

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Working, remote company e nuove opportunità.
In questi due mesi di “fermo amministrativo” abbiamo assistito ad eventi duali e spesso in contrasto
fra loro, tanto al proliferare senza precedenti delle fake news e delle bufale non solo sul
Coronavirus, quanto al ritorno prepotente dei tecnici e degli scienziati che, soprattutto in TV,
hanno avuto spazi prima inimmaginabili; abbiamo visto il successo di applicazioni per le video
conferenze prima usate solo marginalmente ed ora diventate le app più famose e scaricate dagli
store; abbiamo appreso, volenti o nolenti, tutta una serie di abitudini che prima svolgevamo in
maniera differente, come studiare, lavorare, interagire o semplicemente conversare, che sono
migrate sul digitale, ed abbiamo imparato a farle, e molte volte anche bene, attraverso uno schermo
e con l’ausilio di una connessione internet.

Insomma, eravamo confinati, chiusi in casa, impauriti, eppure molti di noi erano desiderosi, e pur
di rimanere attivi abbiamo imparato ad usare molti nuovi strumenti ed appreso tutta una serie di
nuove abilità e competenze che adesso potrebbero tornarci utili per affrontare non solo il futuro ma
il presente di questa Fase 2 post Coronavirus.

Davanti a noi si schiudono tutta una serie di possibilità, di opportunità, di nuovi lavori, di nuove
incredibili professioni che dobbiamo saper cogliere per mettere a frutto questi due mesi di fermo che
però per molti di noi, ed anche per chi scrive, sono state importanti occasioni di formazione.

Dobbiamo solo imparare a non farci frenare dalla paura e, allo stesso tempo, non diventare avventati
per il troppo desiderio.

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Noi di Smart Marketing abbiamo immaginato un numero che potesse essere una road map per
questi tempi nuovi, lo abbiamo chiamato “Upgrade” proprio perché siamo convinti da una parte che
per ricominciare non avremo bisogno di un semplice “aggiornamento” ma dovremo passare alla
Working, remote company e nuove opportunità.
versione nuova di software se non ad un nuovo modello di computer; dall’altra che la maniera
migliore per entrare nel futuro sia raccogliere l’esperienza e il know-how di quelle persone e
professionisti che hanno fatto l’upgrade prima, più velocemente e più efficacemente degli altri.

In questo numero, il 73°, il primo del 7° anno di pubblicazioni, troverete soprattutto suggerimenti,
case history e best practice che secondo noi sono l’ideale per ri-cominciare o reinventarsi una
nuova normalità, sospesi e contesi fra le nostre paure e i nostri insaziabili desideri.

Buona lettura.

                                                                             Raffaello Castellano

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Innovazione ed Intelligenza Artificiale: il
progetto podcast
Per chi, come me, è nato nella metà degli anni ’70 ed appartiene alla Generazione X, quando si
sente parlare di “I.A.”, di Intelligenza Artificiale, i primi esempi che vengono in mente sono due,
distanziati di pochi anni l’uno dall’altro.

Il primo è un film del 1984 (anzi il primo episodio di quello che oggi si chiama un franchise
cinematografico), Terminator, terza opera del regista, all’epoca pressoché sconosciuto, James
Cameron. Il film, come è noto, ha una trama fantascientifica con al centro 3 personaggi principali:
la prima è la cameriera Sarah Connor (l’attrice Linda Hamilton), che nel futuro darà alla luce il capo
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delle forze ribelli; il secondo è un cyborg assassino, il Terminator T-800 (interpretato dal granitico
Arnold Schwarzenegger), mandato indietro dal 2029 per uccidere la madre del futuro capo dei ribelli
prima che venga messo al mondo; infine il soldato, sempre del futuro, Kyle Reese (interpretato da
Michael Biehn), spedito anch’egli indietro nel tempo per aiutare Sarah Connor a fronteggiare il
Terminator. Ovviamente durante lo svolgersi della storia apprendiamo che in un futuro non troppo
lontano dal 1984, in cui si svolge la storia, una sorta di super computer Skynet costruito per scopi
militari raggiungerà l’autocoscienza e scatenerà un olocausto nucleare che ridurrà gli umani a pochi
gruppi di sopravvissuti, che però impareranno a combattere le macchine proprio grazie alla guida,
alla forza e all’astuzia di John Connor, il figlio di Sarah.

Il secondo esempio, ancora più emblematico, è preso dalla cronaca: nel 1996 fa la sua comparsa
Deep Blue, un super computer costruito dalla IBM per giocare a scacchi al livello di un campione.
Ed infatti il 10 febbraio del 1996, a Filadelfia, Deep Blue riuscì in quella che all’epoca era una cosa
impensabile: sconfisse il campione mondiale in carica, il russo Garri Kasparov, in una partita a
scacchi. In realtà Deep Blue vinse solo la prima delle 6 partite della sfida; Kasparov vinse tre di
queste sei partite ed altre due finirono patte. Ma l’eco mediatica di quella prima partita vinta dal
computer contro il campione del mondo in carica nel gioco di intelligenza più “umano” di tutti fece sì
che molti cominciassero a parlare del sorpasso dei computer sull’uomo.

Questi due eventi hanno formato, in anni cruciali, il mio personale immaginario sull’evoluzione
dell’Intelligenza Artificiale che in seguito ho continuato a nutrire alternando (per fortuna) saggi e
libri a serie tv, ma soprattutto film, come Matrix o Person of Interest, che continuano a proporre,
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ancora oggi, una visione dispotica ed apocalittica sul futuro dell’I.A.

Ma perché vi sto raccontando tutto questo?
La risposta è semplice: il 5 maggio 2020, ad un giorno dalla fine del lookdown, ricevo una mail con
un comunicato stampa da una collega giornalista, Roberta Parrinello, dell’Agenzia Doppia Elica,
che parla di un’interessatissima iniziativa nata dalla collaborazione fra l’Associazione Italiana per
l’Intelligenza Artificiale (AIxIA) e Radio IT, il principale podcast network italiano del settore
information technology, che si sarebbe sviluppata nella realizzazione di un podcast divulgativo
sull’IA in 12 puntate con cadenza mensile.

Inutile dire che dopo aver ascoltato il primo episodio del podcast, apprezzandone sia il rigore
scientifico che il taglio divulgativo, ho intravisto la possibilità per il nostro magazine di promuovere e
divulgare questo ottimo contenuto anche attraverso i nostri canali. Con il direttore editoriale Ivan
Zorico e i responsabili del progetto, il dott. Matteo Ranzi (Radio IT) e il dott. Piero Poccianti
(presidente AIxIA), abbiamo deciso di creare una rubrica specifica sul nostro mensile “Innovazione
ed Intelligenza Artificiale”, che ospiterà le varie puntate del podcast sull’IA in concomitanza (ma
in realtà 24-36 ore prima) con l’uscita sulle varie piattaforme d’ascolto.

Per il lancio di questa nuova rubrica, abbiamo intervistato Matteo Ranzi e Piero Poccianti, con i
quali abbiamo parlato del progetto e delle sue finalità.

Cosa altro dire?
Per prima cosa, noi di Smart Marketing siamo orgogliosi di aver intrapreso questa collaborazione
con due consolidate realtà come Radio IT e AIxIA, dall’altro siamo curiosi di vedere come i nostri
lettori reagiranno ad un contenuto audio, estremamente interessante e formativo, che per il nostro
giornale rappresenta una novità sia per natura che per modalità di fruizione.
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Questa emergenza sanitaria quindi non è stata solo distruttiva, ha portato anche cose positive, come
questa nuova collaborazione dimostra; ho sempre pensato che accrescere le nostre conoscenze su un
tema tanto cruciale non solo del futuro ma del nostro presente come l’I.A. è una cosa non soltanto
utile ma necessaria, e sono particolarmente grato a tutti quelli che ci stanno permettendo di offrire
questo nuovo “contenuto”, anche attraverso il nostro magazine.

Per concludere, rivolgo un particolare ringraziamento al dott. Piero Poccianti e al dott. Matteo
Ranzi per la loro disponibilità nient’affatto scontata e alla collega Roberta Parrinello che mi ha
fatto scoprire queste due eccellenze italiane.

Anche noi di Smart Marketing faremo la nostra parte per promuovere al meglio questo podcast
sull’I.A.

Restate sintonizzati, anzi in ascolto, ne varrà sicuramente la pena.

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Perché’ il coach sarà la professione del
futuro
“Cosa fai nella vita?” se a questa domanda ti senti rispondere “faccio il coach” è il caso che
approfondisci la conversazione. In Italia la professione del coach non è ufficialmente riconosciuta e
certamente non ha tutele e limiti legali, ma la sovrabbondanza di corsi e master professionalizzanti
ci spinge a chiederci qualcosa di più.

Purtroppo nel nostro Bel Paese chiunque può avvalersi di questo titolo, almeno per il momento, ma
questo non deve neanche per sbaglio farvi pensare che la facilità con cui il titolo viene auto
attribuito sia sinonimo di inutilità o superficialità della professione. A livello Europeo esiste un albo
riconosciuto che vede iscritti anche tutti i coach italiani che hanno conseguito master e percorsi
professionalizzanti per specializzarsi in una disciplina che, non ho dubbi, diventerà popolarissima in
breve tempo.

Ma a questo punto chiediamoci “cosa è il coach?”.
L’International Coach Federation (ICF) definisce il coaching come una partneship con il cliente che,
attraverso un percorso collaborativo di riflessione e stimoli, accompagna l’assistito a sviluppare il
suo potenziale in maniera piena, migliorando la qualità della propria vita. A differenza di altre
professioni quali lo psicoterapeuta o il counseulor, il coaching si concentra esclusivamente sul
presente e sul futuro. Non serve ad alleviare il dolore psicologico derivante da nodi non risolti del
passato e tantomeno ad analizzare disturbi emotivi o cognitivi. Come suggerisce proprio la parola
coach, questo ruolo è quello dell’allenatore, del mister che ti prepara nel campo della vita. Lo sport,
dove questa disciplina oltre al nome è nata, si presta benissimo a spiegare i meccanismi che
supportano tale approccio.

I veri campioni nelle discipline sportive, quelli che toccano i record mondiali, che vincono numerose
medaglie alle olimpiadi o che fanno la storia della loro disciplina non sono solo atleti. Per diventare
dei grandi campioni non basta avere un fisico allenato e possente, una tecnica efficace e strategica.
Per diventare “qualcuno da ricordare” devi avere la testa focalizzata su quello che desideri
raggiungere. Il nostro cervello è una macchina fantastica, ma il suo obiettivo principale è quello di
proteggerci. È per questo che vede pericoli e fallimenti ovunque, è per questo che tende a pensare
negativo, è per questo che ci spinge ad essere conservativi piuttosto che coraggiosi nelle scelte di
tutti i giorni. Ed è così, spesso senza accorgercene, che ci troviamo rinchiusi in gabbie
immaginarie costruite da noi stessi senza ricordare come e quando questo processo di
ingabbiamento sia cominciato.

         Scopri il nuovo numero > Il futuro è aperto
Il coaching ti aiuta ad esplorare le tue possibilità, a risvegliare i tuoi talenti, a trovare il
coraggio di vivere la tua vita in modo pieno e appassionato assecondando i tuoi desideri e non le tue
paure. Un allenatore, appunto, di potenzialità che attraverso una serie di domande e di esercizi ti
aiuta ad esplorare il tuo essere. Avere una visuale diversa e imparare ad osservare i nostri limiti ci
aiuta a darci delle chances. Noi per primi, purtroppo, siamo i peggiori critici e boicottatori di noi
stessi.

È facile allora dedurre come mai la professione del coach da molti è considerata in crescita e in una
vera e propria fase di esplosione. Viviamo nel paradosso di avere un mondo pieno di
opportunità e la paura costante di non essere all’altezza dei nostri sogni. Sappiamo di poter
realizzare ciò che vogliamo, ma annaspiamo nell’incubo del fallimento. La società ci guarda, ci
giudica, ci condanna ancor prima che le nostre azioni si compiano e il timore dell’essere “fuori dal
gruppo” ci costringe ad una vita piatta e senza colpi di scena. Così si perdono occasioni, si lascia
passare il tempo, ci si accontenta di quello che arriva, anche quando si potrebbe essere destinati a
molto di più!

Partendo da se stessi, lavorando sulla propria autostima, analizzando le situazioni da ottiche diverse
e mettendosi in discussione, si può arrivare a capire le azioni da compiere per essere pienamente
consapevoli e attori protagonisti del proprio futuro. La guida di un coach non fa altro che
incentivare, sostenere, incoraggiare e accompagnare in un percorso di liberazione dagli
schemi mentali e dai limiti che ci si auto infligge.

Pensare ad un coach è come pensare ad un compagno di viaggio che non conosce la strada ma sa
aiutarti a trovarla.

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La Copertina d’Artista – Simply the best
2019
Il busto di un uomo riempie totalmente lo spazio visivo della Copertina d’Artista di questo dicembre.

È una strana prospettiva quella che ci offre l’artista di questo mese, DES, al secolo Giuseppe De
Simone (classe 1968), volutamente ci nasconde la testa e quindi la faccia dell’uomo, quasi a voler
impedire una qualsivoglia identificazione o riconoscimento. Ma, d’altra parte, l’artista ci offre una
grande quantità di indizi per provare ad azzardare qualche ipotesi, se non sull’identità del nostro
protagonista, quantomeno sulla sua nazionalità.

Per aiutarci, o forse confonderci, o entrambe le cose, DES utilizza la tecnica dell’assemblage,
componendo la sua opera con vari materiali, per lo più recuperati. Anche la scelta dei materiali non
sembra casuale, il corpo del nostro soggetto è fatto di cartoni o carta pacco riciclata ed incollata su
un supporto, riciclato anch’esso. Il colore e la consistenza del materiale scelto danno un effetto
simile ad un collage, o meglio ad un “patchwork”. Il tutto alla fine sembra il corpo asciutto di un
immigrato segnato dalla fatica, dalla fame e dalle cicatrici.

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u
esto numero: DES, Giuseppe De
Simone.

Ma, ancora più emblematici, anche se non chiarificatori, sono gli altri elementi che l’artista inserisce
sul suo assemblage, primo fra tutti il grande cuore di pezza letteralmente graffettato sul corpo del
nostro protagonista, che, non tanto per forma, ma per tipologia e materiali, ricorda in maniera
impressionante le stelle gialle di pezza che i nazisti cucivano sui pigiami degli Ebrei nei campi di
concentramento.

In alto, sulla sinistra del cuore (a destra per chi guarda l’opera), è attaccata la silhouette di un
angioletto, un amorino forse, che suona la tromba; ed anche qui la scelta operata dall’artista è
interpretabile in maniere differenti, l’angioletto può essere portatore di buone novelle, ma può anche
essere l’angelo dell’apocalisse che suona la sua tromba e preannuncia la fine del Mondo.

Sul collo del soggetto è collocata una collana, anche questa fatta con materiali poveri: il ciondolo
sembra una sorta di esca sintetica per la pesca e la collanina sembra quella dei tappi dei lavandini.
Infine, il supporto usato dal nostro artista è una tavola sul cui sfondo risaltano i simboli
internazionali del riciclo, con un omino stilizzato che butta i rifiuti ed il n° 6 all’interno di un
triangolo di frecce.

La domanda, allora, come sempre, è: cosa vuole dirci l’artista???
Forse vuole dirci che non importa la nazionalità del nostro protagonista, non conta la sua identità,
conta solamente la sua condizione, la sua umanità, conta solo l’amore con cui noi spettatori
guardiamo quest’immagine. Sì, forse la risposta al significato dell’opera è l’amore, quell’amore
universale ed incondizionato che dobbiamo ad ogni nostro simile, ad ogni essere umano. Sì, forse la
risposta, l’unica possibile, alla domanda posta sopra è l’amore, quello con la “A” maiuscola, l’Amore
Supremo che è anche il titolo scelto per l’opera da DES.

Forse, azzardando ancora di più la nostra interpretazione, l’opera di Giuseppe De Simone è uno
specchio, o meglio uno di quei pupazzi di cartone o plastica che si trovano nei parchi divertimenti,
quelli usati per farsi le fotografie e che sono il corpo di questo o quel personaggio dei cartoni
animati o dei fumetti, ma senza testa, in maniera che chiunque voglia farsi una foto possa mettere la
sua faccia al posto di quella del pupazzo stesso.

          Scopri il nuovo numero > Simply the best
Allora chissà, il messaggio ultimo che l’opera “Amore Supremo” di DES vuole darci è che l’altro,
chiunque sia, l’altro sono io, sei tu, l’altro siamo noi.

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DES, Giuseppe De Simone nasce a Cosenza nel 1968, ma vive e opera a Taranto.

Artista autodidatta dotato di un potente talento visionario, si interessa fin da giovanissimo all’arte, di
cui esplora tutti gli stili, le tecniche ed i linguaggi, passando agevolmente dalla scultura alla pittura
e all’assemblage. Le sue opere manifestano il suo eclettico girovagare fra stili e forme, la sua ricerca
è una sintesi armoniosa di contrasti, le sue opere che richiamano sia la Pop art, sia il Dada, sia l’Arte
povera, sono filosofiche dichiarazioni dell’ambivalenza insita nell’uomo: profondità ed elevazione,
luce ed ombra, movimento e immobilità, bene e male.
Per informazioni e per contattare l’artista DES – Giuseppe De Simone:

redazione@smarknews.itemail umanodisumano68@gmail.com

FACEBOOK facebook.com/giuseppe de simone uomo luce

Ricordiamo agli artisti interessati che è possibile candidarsi alla Copertina
d’Artista scrivendo alla nostra redazione: redazione@smarknews.it

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Simply the best – L’editoriale di Raffaello
Castellano

Cosa rimarrà di questo secondo decennio del
nuovo secolo?
Quali sono le parole che nel 2019, e negli ultimi anni, sono diventate il
bagaglio o il fardello di noi viaggiatori del terzo millennio?
Sono diverse le parole che ci hanno accompagnato, rintronato e confuso nei secondi anni ‘10 del
2000. Fra le tante: immigrazione, terrorismo, Brexit, Trump, ecosistema, riscaldamento
climatico, antropocene, violenza di genere, fake news, pseudoscienza, innovazione,
intelligenza artificiale, Marte, etc., etc.. Per ognuna di esse c’è una definizione, ma innumerevoli
spiegazioni o cause, molte delle quali controverse e ancora dibattute.

Secondo me sono almeno tre le parole a cui prestare più attenzione: fake news, riscaldamento
climatico e intelligenza artificiale; state pur certi che intorno a questi tre concetti si giocheranno
le sorti del nostro futuro sia come individui che come specie.

A ben vedere tutte e tre queste parole sono legate al progresso e all’innovazione tecnologica che
negli ultimi 20 anni ha fatto passi da gigante, correndo all’impazzata e lasciandoci spesso indietro ad
arrancare. Inoltre, ognuno dei termini che ho scelto è collegato a molti altri della lista e di altre liste;
prendete ad esempio “riscaldamento climatico”: da essa derivano parole come terrorismo,
immigrazione ed ecosistema.

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Insomma il prossimo anno ed il prossimo decennio che si stanno per aprire rappresenteranno per
tutti noi abitanti della terra sia un problema che un’opportunità. Dovremo, come in ogni aspetto
della vita, operare delle scelte dalle quali dipenderanno e deriveranno conseguenze più o meno gravi
e profonde che adesso possiamo solo immaginare.
Scopri il nuovo numero > Simply the best
Molte di queste parole sono state l’argomento delle nostre uscite mensili, infatti dal maggio del
2014, cioè da quasi 6 anni, il nostro magazine è on line ogni fine mese con un argomento sempre
diverso, che pesca sia dalle tematiche della nostra mission, come comunicazione, marketing, social
media, economia, innovazione, nuove tecnologie, sia da quelle di più stringente attualità.

Permettetemi di dire che, in un mercato editoriale dove la maggior parte dei giornali chiude, anche
sul web, il fatto che da 5 anni e mezzo, dopo 68 numeri e più di 1000 articoli pubblicati
(all’uscita di questo numero) noi altri si guardi al futuro con speranza e coraggio è un fatto non solo
positivo ma estremamente raro. Quest’anno, insieme all’amico e collega Ivan Zorico ed ad un
manipolo di irriducibili collaboratori vogliamo non solo continuare a fare le cose già fatte, e che i
nostri lettori hanno dimostrato di apprezzare, ma vogliamo lanciarci in nuove sfide e cogliere altre
opportunità.

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da Pixabay

Abbiamo cominciato già da qualche mese con la prima delle novità, la rubrica video “Il sonno della
Ragione”, che vede impegnati da una parte il sottoscritto e il nostro storico collaboratore Armando
De Vincentiis, dall’altra lo stesso Ivan Zorico che si occupa di tutti gli aspetti legati alla
postproduzione, alla grafica e al montaggio. La nuova rubrica rappresenta l’occasione per il nostro
magazine di intercettare nuovi “lettori” sul canale You Tube e, soprattutto, di gettare uno sguardo
fresco, nuovo e sopratutto rigoroso su tutto quel mondo che va sotto il nome di “pseudoscienza”.

Ancora più impegnativa sarà la sfida che ci accingiamo a intraprendere nei prossimi mesi: dopo 5
anni e mezzo di storia il nostro magazine e l’Associazione Culturale Smart Media che lo edita hanno
deciso di aprire il “settore formazione”, promuovendo attraverso il know-how dei suoi collaboratori
una serie di corsi sulle tematiche più attinenti alla nostra filosofia.

Insomma, per tornare al principio di questo editoriale e per chiudere il cerchio delle mie
considerazioni, cosa ci dobbiamo aspettare dal nuovo decennio?
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Credo che il futuro, il nostro “comune futuro” sia, nonostante i pericoli e le insidie, pieno di
possibilità ed opportunità, credo che il nostro futuro sia quanto mai aperto, come ci ha ricordato già
il secolo scorso il filosofo austriaco Karl Raimund Popper:

“Il futuro è molto aperto, e dipende da noi, da noi tutti. Dipende da ciò che voi e
       io e molti altri uomini fanno e faranno, oggi, domani e dopodomani.

E quello che noi facciamo e faremo dipende a sua volta dal nostro pensiero e dai
            nostri desideri, dalle nostre speranze e dai nostri timori.

Dipende da come vediamo il mondo e da come valutiamo le possibilità del futuro
                             che sono aperte.”
Buona lettura, buon anno e buona vita a tutti voi.

                                                                            Raffaello Castellano

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Il fenomeno del 2019: TikTok, il social
della Generazione Z
Probabilmente se hai più di 18 anni ti starai chiedendo cosa sia TikTok e ti rispondo in breve: si
tratta di un’app per video brevi, dai 15 ai 60 secondi, che può essere definita come il vero
fenomeno social del 2019.

Grazie a questa app per smartphone gli utenti possono creare contenuti veloci e divertenti,
accompagnandoli con una colonna sonora musicale e con gli effetti della realtà aumentata.

I numeri di TikTok nel 2019
Oggi TikTok è disponibile in 34 lingue e tra chi lo usa con maggiore entusiasmo troviamo soprattutto
bambini e teeneger, per un totale di 500 milioni di utenti attivi già a luglio 2019. Un numero in
costante crescita e sicuramente da non trascurare se pensiamo che Instagram ha un miliardo di
utenti attivi e Snapchat 188 milioni, sempre su base mensile.

Eppure il grande successo di TikTok non è legato solo ai numeri, ma soprattutto al fatto che si tratta
di un fenomeno sociale, che offre ai giovani uno spazio creativo in cui sono liberi di esprimersi in
modo veramente semplice ed intuitivo.

Possiamo affermare, quindi, che TikTok sia più una piattaforma di intrattenimento che un social
media, anche se di questo mantiene i Like (cuoricini) e le modalità di interazione, ma diventa
qualcosa di totalmente coinvolgente. La mission? Dare vita alla creatività dei giovani, senza alcuna
regola, mescolando musica, meme e libertà espressiva.

          Scopri il nuovo numero > Simply the best
Bisogna, quindi, prestare attenzione ai trend di crescita di TikTok (+144%), ma anche di Twitch
e Twitter, da sempre outsider tra i social media, ma che in questo 2019 hanno dimostrato di poter
diventare grandi ed aumentare il loro peso come fenomeni sociali, soprattutto tra i giovanissimi della
Generazione Z. (fonte: https://www.financialounge.com/)

TikTok è il social dei giovani e della musica
Sempre parlando di trend social possiamo affermare come Facebook sia la prima app in termini di
tempo trascorso online e, in generale, tutte le app social segnano un aumento di ore mensili per
singolo utente. Anche in questo caso un ruolo da protagonista è giocato da TikTok, soprattutto se
prendiamo in considerazione la fascia di utenti tra i 18 ed i 24 anni, con una classifica che vede
ai primi tre posti YouTube, TikTok e Instagram.

In generale, inoltre, è il mondo del divertimento e dei video a far salire engagement e tempo
speso sui social, come emerge da una ricerca di Comscore e TikTok, con la sua musica e i suoi video
è un protagonista di questa tendenza.

Perché TikTok piace ai teenager
Possiamo dire che il successo di TikTok sia dovuto al fatto che si tratta di un social pulito, senza
pubblicità e fake news e che offre quindi un senso di appartenenza ad una community molto forte e
poca pubblicità. Non solo: questa app ha ad oggi il sistema di montaggio video e audio più avanzato
al mondo e ospita contenuti senza tempo e barriere linguistiche.

  Per approfondire:

  ■   Il nostro numero dedicato alla Generazione Z. Conoscerla e comprenderla è
      indispensabile se si vuole avere uno scambio comunicativo efficace.

Rispetto ad Instagram, inoltre, scompare l’ansia di apparire e rende possibile ai giovani
presentare se stessi in modo più autentico, tra balli goffi e canti stonati oppure mentre fanno smorfie
improbabili. Divertire e divertirsi è il segreto alla base di questa piattaforma, in cui nessuno si sente
giudicato o ha l’obbligo di apparire cool come avviene su Instagram.

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, è la muser più influente di TikTok con 33 milioni di follower e 2 miliardi di like.

Le Muser o gli Influencer di TikTok
Gli influencer di TikTok si chiamano Muser e tra questi abbiamo ad oggi Loren Gray, di 17 anni
che pubblica ogni mattina un video in cui canta in playback e con 33 milioni di follower e 2 miliardi
di like ha ottenuto un contratto con la Virgin Records ed ha sei singoli all’attivo.

Segue Baby ariel di 18 anni definita dal Time come una delle persone più influenti del web con i
suoi 30 milioni di fan. Il personaggio maschile più influente è, invece, Jacob Sartorius con 20
milioni di fan che realizza campagne contro il bullismo, di cui lui stesso è stato vittima. E in Italia?

Tra gli utenti più seguiti abbiamo Luciano Spinelli, che balla sulle note dei principali brani italiani
e Cecilia Cantarano, 19 enne romana famosa per gli sketch comic e i lip-sync.

Siamo sicuri che TikTok continuerà a crescere anche nel 2020, ma soprattutto che vedremo anche le
aziende interessarsi a questa app social per conquistare un pubblico di giovanissimi sempre più
difficili da coinvolgere nella comunicazione e nel marketing.

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Innovation Manager: l’innovazione non
bussa alla porta

Siamo pronti a regalarci un futuro digitale?
Ricordo ancora con il sorriso la mia prima macchina da scrivere.
Una “Hermes Baby” arancio vivo che, fino a diversi anni fa e proprio in questi periodi dell’anno, con
solerzia rispolveravo per avanzare le mie richieste natalizie.

Ne ho scritte tante di lettere.
Alcune richieste sono state soddisfatte, altre no. Come giusto che fosse, d’altronde.

Sono passati un paio di decenni e quel fantastico strumento è ancora lì nel suo splendore d’annata.
Manca l’inchiostro, qualche lettera fa fatica ad alzarsi, alcuni tasti paiono incepparsi al solo toccarli.

Cosa potrei scrivere oggi su quelle lettere a Babbo Natale?

A metà strada tra i trenta e quarant’anni, ovviamente le richieste sarebbero davvero tante.
Tuttavia, andando un po’ oltre i desiderata personali, mi piacerebbe soffermare su un aspetto che
interessa molto da vicino chi fa impresa, chi si occupa di marketing e, in generale, tutti noi: oggi più
che mai l’innovazione corre veloce e, come ricorda Luca Tomassini, non chiede permesso,
condiziona la nostra quotidianità e ci pone delle sfide importanti. Coglierle è il regalo che ogni
imprenditore, consulente o dirigente può farsi oggi.

Abbiamo solo due strade in realtà. Lasciarci travolgere dal
futuro digitale oppure contribuire alla sua realizzazione.
E, devo dire la verità, la recente iniziativa messa in campo dal MISE, mi ha lasciato piacevolmente
sorpreso: istituzionalizzare la figura del Manager dell’innovazione (Innovation Manager)
attraverso voucher per le imprese con l’obiettivo di sostenere i processi di trasformazione
tecnologica e digitale delle PMI e delle reti di impresa di tutto il territorio nazionale.

       Scopri il nuovo numero > Il Natale che verrà
Al netto di alcuni limiti sostanziali (fondi vs iscritti), una gran bel regalo per le piccole e media
imprese italiane che potranno avvalersi di figure manageriali in grado di sostenerle
nell’implementare le tecnologie abilitanti previste dal Piano Nazionale Impresa 4.0, nonché nell’
ammodernare gli assetti gestionali e organizzativi dell’impresa, compreso l’accesso ai mercati
finanziari e dei capitali.

I Voucher per la consulenza in Innovazione rappresentano
una gran bella opportunità di sviluppo per le PMI.
Considerando i tempi e la dirompenza delle trasformazioni tecnologiche in atto, la speranza è
davvero che le imprese possano e vogliano regalarsi questa opportunità di sviluppo: la capacità di
reggere le nuove sfide del mercato dipendono in gran parte ora dalla capacità di leggere ed
interpretare le coordinate del cambiamento, adeguando processi, strumenti e paradigmi.

Ovviamente, l’iniziativa del MISE rappresenta ancora un piccolo passo che tuttavia indica una
strada, una direzione. A ben vedere, il focus è anche molto centrato su aspetti molto tecnici e
operativi: la consulenza, infatti, deve essere finalizzata a indirizzare e supportare i processi di
innovazione, trasformazione tecnologica e digitale negli ambiti dei big data, quantum computing,
cyber security, realtà virtuale, IoT, open innovation robotica, NPR, sistemi cyber fisici, interfaccia
uomo macchina, programmi di digital marketing.

Attualmente sono circa novemila i consulenti che a vario titolo sono entranti a far parte dell’albo del
MISE e, come si evince dalla tabella, gran parte di questi è specializzato nei processi di
digitalizzazione: la speranza è che ci possa essere spazio e tempo per tutti quegli aspetti legati alle
capacità creative che da sempre distinguono i manager italiani e che da sempre rappresentano il
collante necessario tra il saper essere e il saper fare.
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: vetrina degli ambiti di specializzazione. Fonte: MISE (www.mise.gov.it)

Perché se è vero che il digitale è un insieme di nuovi strumenti, di nuove prassi e di nuovi approcci,
è anche e soprattutto un nuovo modo di essere azienda.

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L’economia della felicità. Il contributo
delle imprenditrici di Confcommercio al
Terziario Donna LAB 2019.
Si è tenuto a Palermo dal 24 al 26 ottobre l’incontro chiamato TD LAB 2019, organizzato dal
gruppo di Terziario Donna di Confcommercio. Le quote rosa del commercio organizzano con cadenza
annuale un convegno dai temi di massima attualità e quest’anno è stata trattata l’economia della
felicità. Attraverso dibattiti e discussioni e con gli interventi di massimi esponenti del campo tra cui
il prof. Sandro Formica docente dell’Università della Florida, sono emerse interessanti valutazioni su
come l’uomo moderno affronta il tema della felicità.

Ma che cos’è la felicità?
La felicità è uno stato d’animo di durata variabile che quando arriva permette di vivere un
momento di grande entusiasmo nonostante la presenza di problemi che tuttavia persistono. È
un’emozione in divenire che non può essere né definitiva né permanente ma che spesso viene
utilizzato come obiettivo da raggiungere. La felicità è stata studiata e affrontata nei secoli passati,
cercando sempre di offrire al povero essere umano una modalità per raggiungerla. Già Aristotele ci
informava che la felicità è nelle nostre mani e come lui molti filosofi più recenti hanno
confermato questo potere nelle mani dell’uomo. Altri pensatori e in particolari religiosi rimandano
ad un bene superiore la possibilità di elargire tale sentimento.

In tutti i casi, oggi come oggi, possiamo affermare che la felicità è una competenza. Ci si può
impegnare per raggiungerla e insieme si può dare un senso più profondo al proprio valore. Il
raggiungimento di tale momento di estatico piacere può essere considerato diverso da individuo a
individuo, è una questione puramente personale.

Come posso misurare il mio avvicinamento alla felicità?
Non è una cosa insensata ma assolutamente fattibile. Si tratta di analizzare la propria vita e
rispondere e far luce sulla propria esistenza. Già Maslow, famoso sociologo, aveva trascritto su una
piramide la scalata ai bisogni dell’uomo, dal primario via via salendo nelle sempre più alte
aspettative dell’uomo. Insomma per scoprire se siamo sulla strada giusta per la felicità dobbiamo
farci questa domanda: quali sono i miei bisogni? Li sto soddisfacendo? Spiegata meglio, una
volta che ho soddisfatto i miei bisogni primari di fame, sete, sonno, cosa ritengo necessario per me,
per vivere una vita appagante?

           Scopri il nuovo numero > Generazione Z
La domanda potrebbe a prima vista sembrare banale ma non lo è affatto. Nessuno ci insegna a
strutturare dei desideri reali e realizzabili, e soprattutto nessuno ci aiuta a comprendere il
senso di se stessi e della vita. Uno studio americano ha stimato in 20.000 ore il tempo dedicato
allo studio dalle scuole elementari alla maturità, considerando le ore passate a scuola e 10 minuti
al giorno per i compiti. Sapete quanto di questo tempo è stato dedicato allo studio di se stessi e al
raggiungimento della propria felicità? Zero!

Zero è il tempo che viene dedicato per spiegare alle nuove generazioni, ai bambini, ai ragazzi che
dopo la maturità dovranno affrontare il mondo, qual è il senso della loro vita.

Zero è l’investimento che la scuola, pubblica o privata che sia, attua per formare gli adulti di
domani.

Zero è il valore che viene attribuito alla realizzazione di esseri umani felici e pensanti.

Zero è quello che otterranno le generazioni che verranno dopo di noi se non insegneremo loro a
spegnere il cellulare ed accendere il cervello.

Allora la domanda corretta da fare ai nostri giovani, prima ancora di quali bisogni soddisfare
probabilmente potrebbe essere: conosci te stesso? Hai contezza dei tuoi talenti e delle tue qualità?
Cosa ti fa stare bene veramente ed in modo sano?

Solo fornendogli gli strumenti corretti potremo sperare di crescere ragazzi sani e consapevoli in
grado di affrontare con tenacia, curiosità e motivazione le sfide del futuro.

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The Matrix – Il Film
È il marzo del 1999 quando nella sale USA esce il film “The Matrix”, realizzato dagli allora fratelli
Andy e Larry Wachowski (prima di diventare le sorelle Lana e Lilly), film epocale sia per gli
argomenti trattati sia per le tecnologie cinematografiche impegnate.

Siamo alla fine di un secolo e di un millennio, il mondo è profondamente diverso da come lo
conosciamo oggi. In esso vi erano poco meno di 400 milioni di utenti collegati ad internet e non
esistevano Facebook, You Tube, Iphone ed app. La preoccupazione principale legata alla rete
internet, ancora appannaggio di pochi utenti, era rappresentata dal “Y2K bug”, meglio noto come
Millennium bug, un difetto informatico che si sarebbe manifestato al cambio di data della
mezzanotte tra venerdì 31 dicembre 1999 e sabato 1º gennaio 2000 nei sistemi di elaborazione dati
di tutto il mondo.

Il film dei fratelli Wachowski ci presenta un futuro prossimo venturo dispotico, claustrofobico e
terrorizzante. Tutto prende avvio dalla vita di Thomas A. Anderson, programmatore di software
presso la Metacortex, cittadino modello di giorno e attivo hacker, sotto lo pseudonimo di “Neo”, di
notte. Ad un certo punto il nostro inconsapevole eroe viene contattato da Trinity, esperta e
conturbante hacker braccio destro del misterioso Morpheus, vero e proprio criminale informatico.

L’incontro con Morpheus è illuminante: Neo viene a conoscenza del fatto che il mondo reale a cui è
abituato altro non è che una gigantesca simulazione al computer a cui tutti gli esseri umani sono
collegati a loro insaputa, simulazione che prende il nome di “Matrix”, che serve a nascondere una
amara e allucinata realtà creata dalla macchine e dall’intelligenza artificiale per assoggettare gli
esseri umani.

Risvegliato alla vera realtà, Neo entrerà nella resistenza guidata da Morpheus, che cerca di
scollegare quanti più umani possibili da questa simulazione globale.

Il film presenta profondi riferimenti filosofici, religiosi e sociologici e, in un certo senso, profetizza il
mondo in cui oggi ci troviamo a vivere, perennemente collegati ai nostri dispositivi elettronici, che
misurano e profilano ogni aspetto della nostra vita, “suggerendoci” che cibo mangiare, come vestire,
cosa leggere, quale opinione avere, chi frequentare, chi votare e così via. Gli smartphone e le
innumerevoli app su di essi scaricate sono quanto di più simile all’incubatrice in cui si risveglia Neo
dopo aver ingerito la famosa pillola rossa datagli da Morpheus.
Il film è passato alla storia principalmente per gli effetti speciali, ma tutta la lavorazione fu difficile e
complessa: pensate che la sceneggiatura richiese più di 5 anni di lavorazione, per un totale di 14
bozze e che gli storyboard furono più di 600.

Gli spunti letterari per la storia furono innumerevoli: in primis il film saccheggia il “mito della
caverna” di Platone”, poi “Alice nel Paese delle Meraviglie” di Lewis Carroll, l’“Odissea” di
Omero e soprattutto “Simulacri e Simulazione” di Jean Baudrillard, ritenuto così essenziale ai fini
della storia che i fratelli Wachowski comprarono molte copie del testo, che fecero leggere a gran
parte del cast e della troupe. Questo libro era così importante che a Keanu Reeves (Neo) venne
imposto di leggerlo ancor prima di iniziare a sfogliare la sceneggiatura. Reeves ha sempre sostenuto
che fu proprio grazie a questo libro che fu capace di cogliere e capire tutte le sfumature filosofiche
del film.

A proposito di Keanu Reeves, che regalò al personaggio di Neo un’interpretazione magistrale,
l’attore non fu la prima scelta dei registi: il ruolo del protagonista fu offerto prima a Johnny Deep,
Brad Pitt, Val Kilmer, Leonardo Di Caprio ed anche all’allora giovanissimo Will Smith, ma alla
fine la scelta si restrinse tra Johnny Deep e Keanu Reeves, con quest’ultimo preferito dalla Warner
Bros perché, fin da subito, sembrò aver capito l’essenza del film. Anche per il ruolo di Morpheus si
pensò a diversi nomi, tra questi Gary Oldman e Samuel L. Jackson, ma alla fine a spuntarla fu
Laurence Fishburne, che definì il suo personaggio di Morpheus come un mix tra Obi-Wan Kenobi e
Darth Vader.

Le scene e le ambientazioni dark del film furono calibrate su un scelta cromatica molto forte e
precisa. Tre furono i colori principali usati per colorare e caricare di significato i fotogrammi.
Innanzitutto il verde, che fu utilizzato per tutte le scene ambientate nel mondo fittizio di Matrix; si
voleva ricreare l’effetto di una realtà filtrata attraverso il monitor di uno schermo di computer (nel
1999 molti schermi del computer erano ancora monocromatici, appunto verdi, perché si era scoperto
che questo colore aumentava la definizione e non stancava la vista), poi perché questo colore è da
sempre associato al mistero ed all’oscurità. Poi il blu, che divenne il colore per rappresentare le
scene della realtà e della vita vera fuori dalla simulazione di Matrix; il colore blu fu usato per le
sensazioni di freddezza e melanconia che trasmette, le stesse che i registi volevano traspirassero dal
film. Infine fu scelto il giallo per rappresentare il limbo fra vita reale e Matrix, come ad esempio le
simulazioni dell’addestramento di Neo: il giallo è da sempre associato all’insicurezza e sembrò ideale
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