La Copertina d'Artista - Il Natale che verrà 2019

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La Copertina d'Artista - Il Natale che verrà 2019
La Copertina d’Artista – Il Natale che verrà
2019
Una mano tesa è alla deriva. Cerca di richiamare la nostra attenzione suonando un campanello. Ma
l’allarme e la richiesta d’aiuto forse resteranno inascoltate. La campana suona per questo povero
naufrago, ma a sentire bene suona anche per noi.

È un’immagine alquanto strana quella che capeggia sulla Copertina d’Artista di questo numero del
nostro magazine. Uno strano essere formato da gambe umane e, al posto del resto del corpo, una
mano gigante che suona una campanella. Un ibrido, anzi una mutazione, forse figlia dei tempi
moderni, nei quali gli smartphone stanno rendendo, di fatto, la digitazione, eseguita appunto con la
mano, predominante rispetto ad altre funzioni, rendendo tutto il resto dei nostri corpi, se non
proprio superflui, quanto meno trascurabili. I biologi evoluzionisti e gli antropologi ci dicono che fu
proprio lo sviluppo di una mano con pollice opponibile, insieme ad altri fattori, a favorire lo sviluppo
quantitativo e qualitativo del nostro cervello. Senza una mano complessa, insomma, il nostro cervello
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sarebbe molto meno potente, creativo ed intelligente.

Sia come sia, la visione dell’immagine di questa Copertina d’Artista a me ha suscitato altre
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riflessioni, forse meno scontate, ma che si sono imposte alla mia attenzione da subito e in maniera
ridondante. Quindi non posso fare a meno di condividerle con i nostri lettori. L’opera mi ricorda i
famosi versi del poeta, religioso e saggista inglese John Donne:

“Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una
parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe
diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di
amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono
parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te.”

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rt Marketing, Domenico Velletri.

Ravviso diversi elementi di contatto tra l’immagine e la poesia di John Donne: tanto per cominciare
questo strano essere è posto su una piattaforma, ma potrebbe essere una zattera che galleggia su di
una distesa d’acqua che potrebbe essere il mare; l’essere è nudo come certi naufraghi, e suona una
campana, che è sì un simbolo natalizio (questo numero del nostro mensile si intitola “Il Natale che
verrà”), ma è pure uno strumento usato da sempre per avvertire dei pericoli e di situazioni di
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emergenza. Come spesso accade, quando le opere, come in questo caso, sono stratificate e dense di
simboli e significati, è il titolo che ci tira d’impaccio e ci chiarisce qualche dubbio: l’opera si intitola
“Only the music is at sea level” (Solo la musica è a livello del mare) e forse definisce, almeno in
parte, la comunione d’intenti fra il nostro artista e John Donne.

Quindi cosa vuole dirci l’artista di questo numero di Smart Marketing, al secolo Domenico Velletri
(classe 1973)?

Forse la sua è una critica a questo Natale 2019, nel quale, presi e persi come siamo dalle promozioni
delle grandi catene di distribuzione e dai colossi dell’e-commerce, stiamo dimenticando i naufragi
giornalieri, e le morti, che avvengono nei nostri mari, che le centinaia di migranti sono altrettante
“mani” tese che ci chiedono aiuto, che la morte di ogni migrante diminuisce la nostra umanità, e non
solo la nostra, ma anche quella dell’Italia e dell’Europa, che, come dice John Donne, ne saranno
diminuite e mutilate.

Insomma, lo strano essere che va alla deriva su di una zattera e suona la campana ci ricorda solo che
è Natale?

O che il pericolo è reale e che ogni morte ci rende meno umani, come ci ricorda John Donne alla fine
della poesia: “… La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte
dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te”?

Ed allora forse Domenico Velletri rincara la dose, dicendoci che se fingiamo di non sentire la
campana rimarrà “solo la musica – e la sua eco – al livello del mare”.

Non so se la mia interpretazione sia quella giusta, o sia solo una di quelle possibili, ma come ci
ricorda un altro celebre poeta, Rainer Maria Rilke: “una volta realizzata, l’opera non è più
dell’artista, ma appartiene all’umanità, all’eternità ed alla storia”; e mi piace pensare che Domenico
Velletri abbia voluto richiamare la nostra attenzione sul vero significato del Natale, su quei
sentimenti di comunione, integrazione e amore per il prossimo che questa festa porta con sé e che
spesso e volentieri dimentichiamo.
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La Copertina d'Artista - Il Natale che verrà 2019
Domenico Velletri è nato a Bisceglie in provincia di Bari. Artista a tutto tondo o, TONDODOMI
(Domenico a tutto tondo) come a lui piace definirsi, dopo un diploma di Decorazione Pittorica
conseguito nel 1992 presso l’Istituto “Pino Pascali” di Bari, frequenta prima la sezione di Grafica
Editoriale e Pubblicitaria dell’Istituto Europeo di Design di Pescara, poi nel 1995 consegue un
secondo diploma di Grafica Editoriale e Pubblicitaria a Modugno (BA). Artista eclettico, sperimenta
tutti i campi dell’arte, dalla grafica alla pittura, dall’animazione alla scultura, dalla scenografia
all’illustrazione, collaborando con agenzie pubblicitarie, programmi televisivi, enti ecclesiastici e
compagnie teatrali. Diverse le docenze in istituti professionali, scolastici e presso associazioni.

Un suo altorilievo in bronzo di Aldo Moro è affisso dal 2016 sulla strada omonima di Bisceglie
dedicata al grande statista.

Iconico ed ironico, l’artista è molto attivo sui social, il suo profilo Instagram, sul quale pubblica tutte
le sue opere, conta quasi 15mila follower.

L’opera “Only the music is at sea level” fa parte della serie “5ENSES”, realizzata con la penna a
sfera. Il primo nucleo di questa opere ha visto nel 2016 un’importante mostra personale presso il
prestigioso “Palazzo Tupputi – Laboratorio Urbano” di Bisceglie.
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Ultime mostre:

2016

“International Musical Art”, Palazzo Ducale, Martina Franca (TA);

“5ENSES – Metamorfosi romantica nel tratto a sfera”, personale, Palazzo Tupputi, Bisceglie (BA).
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2014

“Sinfonie d’Autunno”, Arsensum, Trani;

“Trani d’amore”, Palazzo Palmieri, Trani;

“Notte dei Musei di Cremona”, Museo Civico Ala Ponzone, Cremona;

“Esposizione di Pittura”, Fuori Salone Milano, Super Studio Più, Milano;

“A Cena con l’Autore”, personale, Bisceglie.

Il Natale che verrà – L’editoriale di
Raffaello Castellano
Con il 29 novembre, e l’arrivo del Black Friday, possiamo dire
anche noi che il Natale 2019 è veramente iniziato.

Anche se, a dire il vero, sono settimane che, sulla scia delle grandi compagnie di e-commerce, molte
catene di supermercati, abbigliamento, elettronica, etc., ci bombardano con campagne promozionali
incentrate sul Black Friday.

Insomma, una ricorrenza tutta americana, che segue il Giorno del Ringraziamento (l’ultimo giovedì
di novembre), che ha attecchito nel nostro paese da poco più di 10 anni ed è diventata popolare da
meno di 4, sta trasformando la ricorrenza del Natale in un appuntamento sempre più connotato dal
consumismo più sfrenato. Il tutto a scapito di quella ricerca di spiritualità, vicinanza, comunione,
condivisione e amore che il Natale dovrebbe innescare e favorire in tutti noi.

Allora, cosa vuol dire? Che la nostra vita è oramai segnata, che anche queste feste natalizie 2019
saranno l’occasione per riempire le nostre pance senza ritegno, stordirci con brindisi pantagruelici,
svuotare i nostri portafogli e riempire i conti in banca delle solite multinazionali?

Purtroppo ho paura di si! E credo, onestamente, che a nulla serviranno i consigli alla moderazione,
gli inviti ad uno stile di vita più austero o gli appelli alla ricerca di spiritualità, comunione e
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condivisione.

Infatti, se volete vedere la vittoria più schiacciante che il consumismo più sfrenato ottiene sui valori
più autentici dell’uomo, allora dovete volgere lo sguardo proprio al periodo natalizio.

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Mai come in questo periodo dell’anno la pubblicità, i negozi, i brand, le vetrine, le luci e tutto il resto
della scenografia operano per dimostraci che la “felicità” non sia qualcosa che vada ricercato,
attratto, scoperto o costruito; no, la felicità è qualcosa che posso acquistare alla modica cifra che le
mie finanze mi possono consentire. La felicità un tanto al chilo insomma, più o meno cara, a seconda
delle mie disponibilità finanziarie, una felicità prêt à porter, d’alta gamma o super lusso, tutto
comodamente a portata del mio smartphone e del mio conto in banca.

Inutile dire che questa felicità è effimera, illusoria e, quando non è amara, quantomeno di sicuro è
salatissima.

Ma chi mi conosce sa bene quanto sia testardo, quindi io non mi arrendo e, benché sia consapevole
che i miei consigli rimarranno per lo più inascoltati, ve li voglio dare lo stesso. Saranno pochi e
semplici, ma come tutte le cose semplici saranno i più difficili da mettere in pratica.

Consiglio n°1: approfittate del Natale per riunirvi con la vostra famiglia, quella
di sangue, quella nucleare, quella allargata, quella degli amici o quella della
vostra comunità, non importa, ma circondatevi delle persone che amate, sono
loro il regalo più grande che farete quest’anno e il più grande che riceverete.
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Consiglio n°2: fate i vostri regali con il cuore, non con i vostri portafogli, cercate
di ricordare quanto era bello quando eravate bambini e confezionavate i regali
per la mamma e il papà a scuola con le maestre. Si, sto parlando di quegli
orribili centrotavola o svuota tasche fatti con le mollette o le stecche dei gelati.
Erano bruttini, ma per i vostri genitori, e per voi, erano la misura più grande che
il vostro amore poteva colmare, erano strutture fragili, ma contenevano tutto il
vostro cuore.

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Consiglio n° 3: se proprio dovete acquistare degli oggetti, fatelo con attenzione,
non comprate d’impulso ma con la testa, ricordate che il vostro cervello
contiene, con buona pace di Google, ancora l’algoritmo più complesso del
Mondo. E soprattutto ricordate che le commesse ed i commessi dei negozi sono
esseri umani come voi, rispettateli e trattateli con gentilezza; questo mese di
shopping sfrenato esaurisce non solo i vostri conti ma anche la loro pazienza.

Consiglio n°4: approfittate delle feste per miglioravi umanamente, fate
esperienze nuove, la settimana bianca è out, impegnatevi in una qualche opera
sociale: servire il pasto ad una mensa dei poveri potrebbe essere l’esperienza più
significativa e trascendentale della vostra vita. Insomma, se donerete voi stessi
quello sì che sarà un regalo vero ed originale.

Consiglio n°5: in ultimo, le feste natalizie possono essere l’occasione per
accrescere i propri orizzonti culturali, approfittate di film, libri, teatro e musica
a più non posso, e osate, non battete sempre gli stessi sentieri, non abbiate
paura, il viaggio di scoperta, quello vero, comincia quando vi siete persi e
cercate la strada per tornare a casa. Perché ciò che in definitiva vi fa crescere,
maturare, migliorare ed evolvere è il viaggio stesso.
Cosa altro dirvi, se non augurarvi buona lettura con i nostri articoli e Buone Feste di vero cuore?

                                                                             Raffaello Castellano

Good Bye, Lenin! Lo straordinario film di
Wolfgang Becker torna al cinema per il
30ennale della caduta del Muro di Berlino
grazie alla Satine Film
Ci sono film che segnano indelebilmente il nostro immaginario, si fissano nella nostra memoria come
i ricordi, quelli dolorosi, che anche volendo non riusciamo a scordare, diventando veri e propri
tatuaggi emotivi che incidono la nostra viva carne e raccontano di amori passati, perduti e, qualche
volta, ritrovati.

“Good Bye, Lenin!”, lo straordinario film di Wolfgang Becker del 2003, è uno di questi. La storia
di amore fra una madre e un figlio che racconta è senza tempo, il momento storico in cui è
ambientato è unico ed irripetibile (la Germania divisa alla vigilia della caduta del Muro il 9 novembre
1989), il cast magistrale e perfettamente calato nei rispettivi ruoli.

Un film indimenticabile, almeno per chi scrive, che, come molte chicche, ha scoperto qualche anno
fa, per caso, durante la programmazione di una terza serata televisiva, in una notte dalle ore piccole
ma dalle grandi emozioni.

La storia del film è originalissima e parla di Christiane Krener (la brava ed intensa Katrin Sass),
fervente sostenitrice ed attivista del socialismo e della DDR (Repubblica Democratica Tedesca), e di
suo figlio Alex (il bravissimo ed ispirato Daniel Brϋhl), che invece appartiene a quella maggioranza
della popolazione, composta soprattutto da giovani, che è ormai insofferente verso il logoro regime
che tiene le redini del Paese fin dal 2° dopoguerra.

Tutto si complica quando la sera del 7 ottobre 1989, due giorni prima della caduta del Muro, mentre
Christiane si reca in auto ad un ricevimento ufficiale in occasione dei festeggiamenti per i
quarant’anni della DDR, la sua vettura viene costretta a fermarsi da un corteo di dimostranti contro
il regime, fra cui c’è anche Alex. La vista del figlio fra i manifestati procura a Christiane un infarto e
un conseguente coma che la farà risvegliare 8 mesi dopo, in un Paese profondamente cambiato. La
sua salute è cagionevole e qualunque stress può causarle un altro infarto, questa volta fatale, spiega
ad Alex e a sua sorella Ariane (l’attrice Maria Simon) un solerte dottore, quindi una lunga degenza
a letto e la mancanza di forti emozioni sono le uniche cose che possono prolungare la vita della
madre.

È a questo punto che Alex ha l’idea di ricostruire nella stanza da letto della madre un pezzo della
Repubblica Democratica Tedesca, ricreando arredi, comprando prodotti ed addirittura filmando finti
telegiornali della Germania dell’Est, coinvolgendo in questa grande pantomima dapprima la sorella e
un suo giovane collega di lavoro ed appassionato di cinema, Denis (l’attore Florian Lukas), ma poi
sempre più vicini ed amici, tutto per non far conoscere la verità alla madre, che probabilmente ne
morirebbe.

Fin qui la trama, della quale non vogliamo raccontarvi più niente per non togliervi il gusto di vedere
il film. E non recuperando il dvd, che per altro in italiano non c’è, perché il film è tornato nelle sale
italiane dai primi giorni di novembre.

Questa voglia di revival non riguarda solo questo film ed è legato all’anniversario per i 30 anni dalla
caduta del Muro di Berlino, e nei cinema stanno tornando molte pellicole che parlano della Germania
divisa in due blocchi contrapposti, cult veri e propri come: “Il cielo sopra Berlino” di Wim
Wenders, “Le vite degli altri” di Florian Henckel von Donnersmarck e appunto “Good Bye,
Lenin!”, quest’ultimo grazie all’italiana Satine Film di Claudia Bedogni.

La titolare della Satine Film fu l’artefice, nel 2003, quando lavorava per Levi film, della prima
distribuzione nelle sale italiane di “Good Bye, Lenin!”, che aveva visto al Festival di Berlino di
quell’anno. Raggiunta al telefono, Claudia Bedogni ci ha raccontato dell’amore per questa pellicola e
della volontà, dopo 30 anni, di riproporre il film nelle sale in una versione rimasterizzata in digitale,
ma ci ha anche raccontato della sua delusione per il mancato interessamento da parte delle
televisioni e di una parte degli esercenti dei cinema, soprattutto del sud Italia: in Puglia, ad esempio,
il film è disponibile solo in pochissime sale, fra cui Bari, Santeramo in Colle ed Ostuni (a Taranto e
provincia, nessuna sala proietterà questo film).

“Good Bye, Lenin!” è tuttora uno dei maggiori successi della cinematografia tedesca: costato 4 800
000 euro, il film ha incassato nel mondo 75 320 680 dollari, oltre ad aver ricevuto diversi
riconoscimenti, tra cui 3 European Film Awards, il Premio l’Angelo Azzurro del Festival del cinema
di Berlino, il Premio César come Miglior film dell’Unione Europea, il Premio Goya come Miglior film
europeo, oltre a numerose altre nomination in Festival e Concorsi internazionali.

Cosa altro dire di questo film che, se proiettato nella vostra città (qui trovate la lista aggiornata),
vi consigliamo vivamente di andare a vedere?

Almeno tre cose:

La prima, il film è pieno di citazioni di grandi capolavori del cinema che non vi sveliamo e vi sfidiamo
a scovare.

La seconda, la colonna sonora del film è opera del talentuoso compositore francese Yann Tiersen
(già autore delle musiche de “Il favoloso mondo di Amélie”), tra cui spicca la struggente “Summer
‘78”, tema del film stesso.

La terza, il film è una delle più belle e riuscite rappresentazioni dell’Ostalgie, il fenomeno
sviluppatosi nei primi anni ’90 e che indica il sentimento nostalgico che colpì i cittadini della
Germania Orientale a seguito della scomparsa della DDR.

Fatevi un regalo, concedetevi questa visione, ne varrà la pena, sarà una maniera originale di
celebrare il 30ennale della Caduta del Muro di Berlino e, ci scommetto, una dei più bei film che
vedrete in questa ricca stagione.

La Copertina d’Artista – Generazione Z
Un’allegra adolescente in salopette e sneakers digita su uno smartphone una serie di like ed
emoticon che, come in un fumetto, vediamo rappresentati sulla sua testa come una nuvoletta, ma
meglio sarebbe dire cloud. Il suo entusiasmo è contagioso, la sua allegria evidente, la sua felicità
tangibile.

L’opera si intitola “#zgeneration”, e per rappresentarla l’’artista di questo numero, Giambo, al
secolo Giovanni Battista Montinaro, ci propone un’immagine che è una sintesi perfetta della
Generazione Z, argomento di questo numero di Smart Marketing.

Una generazione sempre connessa, che gestisce con estrema disinvoltura diversi device elettronici
ed è presente su diversi social network. Una generazione che ha semplificato la sua maniera di
comunicare e che preferisce la velocità e la leggerezza ad una comunicazione scritta e più lenta. Una
generazione sensibile, impegnata, green e politicamente disillusa, per la quale la realtà virtuale e
quella materiale sono la stessa cosa.

            Scopri il nuovo numero > Generazione Z
Lo stile utilizzato dall’artista è un misto di fumetto e illustrazione, e se da un lato il legame ai manga
pare inevitabile, sia per gli occhi grandi che per la composizione in generale, dall’altra non possiamo
non notare riferimenti ed omaggi alti all’arte contemporanea ed ad artisti come Takashi
Murakami, soprattutto alle sue opere come “Miss Ko2” per lo stile della ragazza, ed a “Flower
Ball” per quanto riguarda la nuvoletta di like ed emoticon.
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Giovanni Battista Montinaro (classe 1991) ha studiato presso il liceo scientifico De Ruggeri, per poi
formarsi artisticamente presso “Grafite scuola di grafica e fumetto”. Specializzato in matite e
inchiostrazione tradizionale e digitale, storyboard e sceneggiatura.
Tra i suoi lavori più recenti troviamo le locandine per il Moonwatchers Festival del cortometraggio
di Statte per il 2018 e il 2019 e la pubblicazione con il Grifo editore del fumetto “Leo e Martina a
spasso nel tempo”. Ha curato anche la sezione grafica per una serie tv diretta e scritta da Giorgio
Amato, e lo storyboard e il moodboard per un cortometraggio diretto e scritto da Ivan Saudelli.

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, Giovanni Battista Montinaro, in arte Giambo.

Inoltre ha maturato esperienze di insegnamento come tutor per il corso della scuola Grafite, sezione
Kids, e presso il centro diurno Progetto Popolare cooperativa sociale-onlus di Martina Franca per il
corso di fumetto “Graphic Novel” nel 2017/2018. Attualmente è impegnato nella realizzazione di
alcuni progetti indipendenti.

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Generazione Z – L’editoriale di Raffaello
Castellano
Li abbiamo dispregiati in tutti i modi chiamandoli fanulloni,
ignoranti e più recentemente webeti e gretini. Ma se i
giovanissimi, i nativi digitali, la Generazione Z, quelli nati dal
1995 al 2010 fossero non solo una risorsa fondamentale ma,
addirittura l’unica speranza per la sopravvivenza dell’umanità?

Forse vi sembro troppo apocalittico, ma sono sicuro che questa generazione rappresenti la sola ed
unica possibilità di svolta che ci resta.

I giovanissimi di oggi saranno entro il 2025-2030 non solo il più vasto gruppo di consumatori, ma
anche il 30% della forza lavoro del mondo e basta sentirli parlare fra loro per rendersi conto di
quanto questa generazione sia ben consapevole della realtà che la circonda.

Sono nati in un mondo iperconnesso, utilizzano in media 5 dispositivi elettronici, sono molto sensibili
verso le problematiche ambientali (vedi il fenomeno innescato da Greta Thunberg), estremamente
mobili e pronti a spostarsi in altre nazioni sia per studio che lavoro, sono estremamente aperti verso
le questioni di genere, hanno uno spiccato spirito imprenditoriale, sono consumatori attenti ed
informati, ed hanno dimestichezza naturale verso tutte le nuove tecnologie.
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Insomma, sono tutto ciò che noi 40-45enni, nati fra il 1960 ed il 1980, la cosiddetta Generazione X,
non siamo: razzisti, omofobi, attaccati al posto fisso, pantofolai, un po’ mammoni, poco avvezzi alle
nuove tecnologie, patologicamente legati alla nostra terra di origine, con uno scarsissimo rispetto
dell’ambiente e dei beni comuni.

Eppure, quando si decide la nuova linea politica di un paese, di una regione, di una nazione, siamo
noi 45enni e la generazione precedente, i baby boomer, gente che per intenderci ha più di 65 anni, a
decidere le elezioni e la linea politica. Prendiamo il caso dell’Italia, uno dei Paesi più vecchi
d’Europa: ebbene, oggi il peso politico degli elettori italiani ultra 65enni rappresenta più del 26% e
incentiva politiche a breve termine, che penalizzano i Millennials e la Generazione Z.

Allora, una delle prime cose che questo governo giallo/rosso dovrebbe fare è quello di abbassare
l’età per votare, consentendo anche ai 16enni di farlo. La proposta è stata formulata a fine
settembre, dall’ ex premier, oggi professore dell’Istituto di Studi politici di Parigi, Enrico Letta, e
riportata e commentata dai principali quotidiani ed organi d’informazione.
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Insomma, la nostra visione corta e appannata, le nostre politiche dal fiato corto, il nostro incespicare
incerto e la nostra apatia sono solamente i sintomi dell’età, lasciare davvero spazio ai giovani,
lasciandoli votare a 16 anni, può essere un primo passo concreto verso un ricambio generazionale
che serve al nostro Paese in primis, ma anche all’Europa ed al Mondo.

            Scopri il nuovo numero > Generazione Z
Il gap fra le generazioni è sempre esistito e continuerà anche in futuro, ma un contrasto può essere
costruttivo e fecondo per tutti gli attori coinvolti, vecchi, giovani e giovanissimi.

Tutto quello che oggi diamo per assodato e culturalmente accettato, il rock, il punk, l’hip-hop, il
graffitismo, l’arte pop, la minigonna, i capelli rasta, etc. etc. prima di diventare mainstream erano
controcultura, erano il gesto di ribellione, alle volte anche violento, delle nuove generazioni per
andare contro il sistema, i valori e la cultura dei propri padri e inventare nuove rotte, nuovi percorsi,
nuove coordinate, per scoprire l’isola che non c’è, ma che si sapeva esisteva.
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L’utopia non appartiene alle vecchie generazioni, ma alle nuove, saranno le nuove generazioni
Millennials e Generazione Z quelle che inventeranno, edificheranno ed abiteranno il futuro, al quale
noi potremo contribuire al massimo con la nostra saggezza ed esperienza, le uniche cose che
possiamo e dobbiamo condividere con i nostri figli e nipoti.

Buona lettura.

                                                                           Raffaello Castellano

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Il documentario “Tony Driver” di Ascanio
Petrini chiude la Settimana Internazionale
della Critica al Teatro Fusco di Taranto
Ultima giornata di proiezioni al Teatro Fusco di Taranto della SIC – Settimana Internazionale della
Critica, curata da Gemma Lanzo. Sette giorni che hanno permesso ad un pubblico, che è cresciuto
di serata in serata (e che, durante la giornata conclusiva, contava oltre 100 presenze), di ritrovare
voglia di esplorare, attraverso filmografie diverse ed alternative, le nuove rotte dell’immaginario e le
nuove geografie cinematografiche mondiali.

Il film di chiusura è stato l’irriverente ed amaro documentario “Tony Driver” del talentuoso regista
barese Ascanio Petrini, che racconta le idiosincrasie e i paradossi dell’America di Donald Trump.
Attraverso la vera vicenda umana di un deportato al contrario, Pasquale Donatone, americano di
origine italiana, tassista di giorno e trasportatore di migranti messicani di notte, che viene arrestato
e per evitare la galera viene estradato in Italia, finendo a vivere in una grotta a Polignano a Mare.

Il film parla di radici recise e di innesti che non sempre attecchiscono: Pasquale Donatone, che si fa
chiamare Tony Driver, non riesce a farsi una vita in Italia, patria che non sente propria, e cerca
disperatamente di tornare in America, per riabbracciare una ex moglie e due figli. Attraverso un
rocambolesco piano che prevede di scavalcare il muro fra Messico e Stati Uniti, percorrendo un
vasto deserto, assistiamo all’epopea di un antieroe, fra il Trevis Bickle di Taxi driver e il Willy Coyote
dei Looney Tunes, che non si arrende mai al suo destino e con il quale non possiamo fare a meno di
empatizzare.

In collegamento telefonico, il regista ha raccontato come il film sia evoluto da semplice
documentario quando ha conosciuto il protagonista, Pasquale Donatone, e la sua storia, che è poi
diventata centrale nella struttura del racconto.

Nei giorni di programmazione che abbiamo seguito, noi di Smart Marketing abbiamo assistito alla
proiezione di 6 lungometraggi e 5 cortometraggi, tutti a loro modo sorprendenti e esemplari di
cinematografie geograficamente, sentimentalmente o idealmente lontane dalla nostra, e proprio per
questo ancora più interessanti e stimolanti per tutti quegli spettatori curiosi e affamati di estendere
il proprio orizzonte visuale, emozionale e immaginativo.

Vi riproponiamo il titoli che abbiamo visto e che vi consigliamo di recuperare e vedere.

Lungometraggi (tutti in lingua originale sottotitolati in italiano):
Rare Beasts (Regno Unito) l’esordio alla regia della cantante britannica Billie Piper, che mette in
scena la vita frizzante ma complicata di una moderna casalinga disperata sullo stile dei film di
Almodovar, con un gruppo di interpreti effervescenti e perfettamente calati nei loro ruoli.

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El Principe (Cile, Argentina, Belgio) di Sebastian Muñoz (presente a Taranto). Un film cupo ed
ossessivo, a tratti disturbante, che mette in scena le dinamiche all’interno di un carcere maschile
all’arrivo di un giovane e affascinate detenuto. Il film accende i riflettori sull’amore omosessuale
all’interno di un perimetro ben definito come il carcere, con una fotografia magistrale ed una
scenografia che citano i quadri di Caravaggio e un gruppo di attori superlativo.

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Saydat Al Bahr | Scales (Emirati Arabi uniti, Iraq, Arabia Saudita), di Shahad Ameen. Una storia di
emancipazione femminile raccontata attraverso il mito ancestrale delle sirene. Girato in un bianco e
nero slavato molto evocativo, alle volte quasi espressionista, il film ha la sua forza nella
sceneggiatura e nella protagonista Hayat, che cerca in ogni modo di sfuggire al suo destino deciso
da una società profondamente maschilista.

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Sanctorum (Messico, Qatar, Repubblica Dominicana) di Joshua Gil. Un film che racconta la vita di
poveri contadini sfruttati dai cartelli della droga che li costringono a coltivare la Cannabis e vessati
dall’esercito regolare che cerca di porre un freno al traffico di droga. Su tutti e tutto però
sopraggiunge il castigo apocalittico di una natura lussureggiante e vendicativa. Il film è
caratterizzato da un contrappunto sonoro e musicale potente e da una fotografia superlativa.

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Bombay Rose (Regno Unito, India, Francia, Qatar) di Gitanjali Rao. La storia di amore fra una
ragazza indù e un giovane mussulmano sullo sfondo di una Bombay divisa fra il rispetto delle
tradizioni e il desiderio di modernità. La forza del film risiede nella tecnica di animazione 2D
utilizzata con colori molto saturi e vividi, che richiamano sia i film di Bollywood che l’arte pop,
tecnica molto complessa che ha richiesto 6 anni di lavorazione.

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Tony Driver (Italia, Messico) di Ascanio Petrini. Un documentario che racconta la storia vera di
Pasquale Donatone, cittadino americano di origine italiana che sperimenta una deportazione al
contrario quando viene cacciato dagli Stati Uniti per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Amaro ed irriverente atto d’accusa all’America di Donald Trump girato come un road movie fra la
Puglia ed il confine messicano.

Cortometraggi (tutti in lingua italiana):
Fosca di Maria Chiara Venturini. Una favola nera che racconta la vita di una giovane cenerentola
immergendola in uno scenario preso di forza da un film di Tim Burton. La giovane protagonista vive
con il padre e i due fratelli che la vessano e maltrattano, ma la sua vendetta sarà cruda e spietata e
permetterà alla ragazza di affrancarsi dalla sua misera condizione. Una storia di emancipazione
femminile raccontata con gusto dell’orrido ed originalità.

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Monologue di Lorenzo Landi e Michelangelo Mellony. La storia drammatica di un cacciatore di
suoni e musicista che dopo il tradimento del suo migliore amico, piano, piano diviene sordo da un
orecchio. L’handicap trasformerà per sempre la sua percezione e la sua vita, che diventano mutilate
come il suo udito. Il film, inutile dirlo, presenta una interessantissima colonna sonora ed è girato in
uno stile che amalgama videoclip, documentario e cinema sperimentale.
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Destino di Bonifacio Angius. La storia di un dimesso e fallito borgataro, probabilmente vittima del
malocchio. La sua vita diviene sempre più sciatta, fino al giorno in cui addirittura perde la propria
nipote che aveva portato a spasso in passeggino. Una storia di periferie ed individui al margine
raccontata con uno stile quasi neorealista che strizza l’occhio a Pasolini.

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Il nostro tempo di Veronica Spedicati. Una storia lieve e delicata che racconta una famiglia del sud
Italia, concentrandosi sul rapporto fra un padre ed una figlia di 10 anni. Girato in Puglia, il film
celebra la bellezza struggente del paesaggio e ha la sua forza in un cast di attori che gira a
meraviglia, con la sorprendente interpretazione della giovanissima protagonista Emanuela Minno, al
suo esordio.
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Veronica non sa fumare di Chiara Marotta. La storia della diciasettenne Veronica che
frequentando Alessia ed i suoi amici entrerà in un mondo del tutto nuovo. Romanzo di formazione
che racconta il passaggio della fatidica linea d’ombra fra la fanciullezza e la vita adulta. Il film è
caratterizzato da uno stile di ripresa, un uso del suono, ed una colonna sonora in stile videoclip.

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Ultimi giorni di proiezioni della SIC -
Settimana Internazionale della Critica in
trasferta a Taranto
Due i film proiettati ieri alla SIC – Settimana Internazionale della Critica, che domani giunge al
termine dopo una settimana di proiezioni che piano, piano hanno avvicinato un pubblico sempre più
numeroso, che dapprima era solo curioso ma poi si è scoperto affascinato ed appassionato.

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e docente di cinema Angela Bianca Saponari e la critica cinematografica e curatrice della SIC
a Taranto Gemma Lanzo.

Ieri, per il penultimo giorno, in una serata tutta al femminile, curata dalla critica cinematografica
Gemma Lanzo, coadiuvata per l’occasione dalla critica e docente di cinema Angela Bianca
Saponari, è stato proiettato prima il corto “Veronica non sa fumare” di Chiara Marotta,
vincitore del Premio Miglior Cortometraggio della sezione SIC@SIC. Il film racconta quel delicato
passaggio dall’adolescenza alla maturità di una diciasettenne che entra in un gruppo di ragazzi
molto diversi da lei. La cifra del film è tutta nell’originale messa in scena, ed è girato come un
videoclip (l’autrice è un’esperta della materia). Inoltre presenta una calzante punteggiatura musicale
ed una fotografia che, spesso e volentieri, indugia in effetti visivi e sfocature che sottolineano lo
straniamento della protagonista che si appresta a varcare la fatidica linea d’ombra.

Se possibile, ancora più straniante è stata la proiezione del lungometraggio di animazione “Bombay
Rose” di Gitanjali Rao (evento speciale e film di apertura alla SIC di Venezia), realizzato con una
tecnica di animazione 2D, dipingendo a mano ogni fotogramma, procedimento che ha richiesto un
lavoro durato 6 anni. Il film racconta una storia di amore sullo sfondo di una Bombay disegnata in
caldi e sfolgoranti colori che celebrano da una parte i film della Bollywood e dall’altra l’arte pop.
L’autrice si immerge spesso nella tradizione indiana, consegnandoci uno spettacolo visuale profondo
e lieve allo stesso tempo, dove la poesia aleggia come il profumo dei gelsomini, i veri protagonisti
floreali della pellicola.

Quindi abbiamo altre due visioni che vi consigliamo caldamente di recuperare per ampliare
l’orizzonte visuale nel quale ci muoviamo; fidatevi, ne varrà la pena, imparerete a guardare il mondo
e le cose da altri, ed alti, punti di vista.
Continuano le proiezioni della SIC -
Settimana Internazionale della Critica in
trasferta a Taranto
La Settimana Internazionale della Critica è in pieno svolgimento a Taranto, ospitata negli eleganti
ambienti del Teatro Fusco.

Nel quinto giorno di proiezioni, come al solito, si sono visti un corto della sezione SIC@SIC ed un
lungometraggio fra quelli selezionati o fuori concorso.

Ieri è toccato al cortometraggio vincitore del premio alla regia “Il nostro tempo” della giovane
regista Veronica Spedicati, presente in sala e che noi abbiamo intervistato. Il corto è una poetica e
lieve esplorazione delle dinamiche parentali di una famiglia pugliese attraverso il rapporto fra un
padre e una figlia. Una bellissima fotografia e la bravura degli attori contraddistinguono questo
piccolo gioiello in cui spicca l’intensa interpretazione della giovanissima protagonista Emanuela
Minno, di soli 12 anni ed alla sua prima prova di attrice.

Una vera sorpresa il lungometraggio proiettato “Sanctorum” di Joshua Gil, che racconta delle vite
dei poveri abitanti di un piccolo villaggio dell’America latina costretti a coltivare e raccogliere piante
di cannabis dai signori della droga e per questo maltrattati anche dall’esercito che combatte i
cartelli dei narcotrafficanti. A risolvere e risollevare le misere vite dei contadini sarà la maestosa
natura in cui si svolge la storia: la grande foresta pluviale. Il film è uno strano ma riuscito mash-up
fra un film di fantascienza e uno drammatico in salsa ecologista, dove la vera protagonista è
l’intricata foresta che incombe minacciosa sulle vite di tutti gli uomini e che ricorda la natura
maligna del film “E venne il Giorno” di M. Night Shyamalan, filmata in una fotografia superlativa.

Due visioni da recuperare per accrescere il nostro immaginario e, grazie a ciò, comprendere meglio
il mondo in cui viviamo.

La SIC – Settimana Internazionale della
Critica dalla Città del Lido alla Città dei
Due Mari
Dal Lido ai Due Mari, da Venezia a Taranto, la SIC – Settimana internazionale della Critica è in pieno
svolgimento presso il Teatro Fusco, tutti i giorni di questa quarta settimana di ottobre, dalle ore
19:00 in poi.
Grazie ad un accordo fra Comune di Taranto, Fondazione Mostra del Cinema di Venezia e
SNCCI, per la prima volta nella sua storia la “SIC” si trasferisce per una intera settimana nel
capoluogo ionico per consentire a tutti gli appassionati di cinema di entrare in contatto con visioni,
geografie ed immaginari non allineati ed alternativi al cinema mainstream che oggi va per la
maggiore.

Curata da Gemma Lanzo, critica cinematografica nonché membro del Consiglio Nazionale del
SNCCI, la rassegna tarantina vedrà le proiezioni introdotte da critici cinematografici e da alcuni
degli autori e registi presenti in questi giorni in città.

I film in programma provengono da paesi come Libano, Cile, Emirati Arabi, Messico ed India.

Ognuno dei lungometraggi è preceduto dalla proiezione di uno o due cortometraggi provenienti dalla
selezione denominata SIC@SIC (dove il primo SIC sta per “Short Italian Cinema”). Fra i
cortometraggi della selezione di giovani autori italiani ci sono anche opere di maestri come Gianni
Amelio (Passatempo) e di uno dei nostri migliori giovani autori, Bonifacio Angius (Destino). Molto
atteso il lungometraggio “Tony Driver” del pugliese Ascanio Petrini, che sarà ospite della rassegna
jonica, e che è stato l’applauditissimo film italiano della SIC di quest’anno.

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intervista il regista cileno Sebastian Munoz, autore del film “El Principe”, ospite a Taranto.

Scopo della Settimana Internazionale della Critica è, come si legge nell’home page del sito:
“Scoprire nuovi talenti, individuare le tendenze emergenti nel vasto panorama del cinema
internazionale, promuovere la diffusione dei film di qualità. In estrema sintesi sono queste
le finalità e gli obiettivi che, fin dalla nascita, hanno caratterizzato l’attività della
Settimana Internazionale della Critica di Venezia”.
Noi di Smart Marketing, da sempre appassionati spettatori cinematografici nonché autori di una
seguitissima rubrica di cinema, seguiremo questo evento per voi per proporvi visioni alternative che
possano educare il nostro sguardo a capire meglio la complessa realtà che ci circonda.

Joker – Il Film
Un corpo smunto, emaciato, filiforme, svicola come un ratto lungo le strade di Gotham City. Siamo
agli inizi degli anni ’80 del secolo scorso in una città sporca e lurida in cui il disagio sociale è non
solo tangibile, ma addirittura insopportabile, opprimente, claustrofobico.

Arthur Fleck (uno straordinario Joaquin Phoenix) è un fantasma alla deriva in una città che pare
non accorgersi di lui, è depresso, alienato ed affetto da un disturbo neurologico che gli provoca
improvvisi ed incontrollabili attacchi di risate, soprattutto in momenti di tensione.

Arthur sogna di diventare un cabarettista come il suo idolo, Murray Franklin (il sempre bravo
Robert De Niro), un presentatore televisivo di successo, ma il suo complicato stato emotivo ed
esistenziale, insieme alla mancanza di talento, non gli permette di sfondare, nonostante il suo
impegno e la partecipazione a spettacoli in diversi comedy club della città.

Arthur vive con l’anziana madre Penny Fleck (l’attrice e doppiatrice Frances Conroy) e sbarca il
lunario lavorando come pagliaccio pubblicitario per una piccola agenzia.

Quello cui assistiamo sullo schermo è il romanzo di formazione di un sociopatico, la lenta discesa nei
meandri più oscuri dell’animo umano, il declino morale, esistenziale ed emotivo di un uomo il cui
destino è ormai segnato fin dalle prime inquadrature.

Tutto il mondo attorno sembra tramare contro Arthur. Nel suo lavoro è spesso vittima di soprusi da
parte del capo e di furti e pestaggi da parte di bande di balordi in mezzo alla strada.

Perfino la stessa architettura della città di Gotham (New York), opprimente e squallida, pare
preludere al declino del nostro protagonista. Della città vediamo solo i vicoli, i marciapiedi, la
metropolitana, i comedy club nei seminterrati o degli interni angusti e claustrofobici, dai colori lividi
e male illuminati da luci diafane e tremolanti, spazzatura e degrado dappertutto. La Gotham del film
è come Arthur Fleck stanca, alla deriva e pronta ad esplodere.

Come rivela acutamente Paola Casella su CineCriticaWeb, il regista Todd Phillips (Starsky &
Hutch, Una notte da leoni, Parto col folle) decide di filmare e rappresentare Gotham/New York
sempre sul piano della strada, rinunciando alla verticalità insita nei geni di questa metropoli; mai la
cinepresa ci mostra uno scorcio di cielo, quasi mai un grattacielo, e la grande scalinata che compare
nel film, quella che Arthur percorre ogni giorno tornando a casa, benché ripresa dal basso non
ascende a nulla ma, anzi, sprofonda nei meandri oscuri di una metropoli infima, alienante e putrida.

In ultimo, anche la diseguaglianza sociale mina la salute mentale del nostro protagonista. Siamo
negli anni ’80 ed è in quegli anni che si accentua il divario fra ricchi e poveri; nelle inquadrature
vediamo una netta divisione fra la Gotham ricca, abitata da yuppies in griffati completi doppiopetto,
e un’umanità misera, caotica ed oppressa, vestita di stracci ed abiti dimessi.

Arthur frequenta le sedute da un’assistente sociale, che gli prescrive anche le ricette per i farmaci,
la quale durante un incontro gli confessa che, a causa della crisi economica e dei tagli al budget
delle spese sanitarie, il centro sarà chiuso e gli incontri di sostegno finiranno.

Come un clown triste uscito dall’opera “Pagliacci” di Ruggero Leoncavallo, Arthur si trascina lungo
le strade invase dalla spazzatura di una metropoli che semplicemente non pare accorgersi di lui, del
suo disagio, del suo malessere, del suo grido d’aiuto.

Le ispirazioni del film di Todd Phillips sono tutte rintracciabili nel cinema della New Hollywood e
soprattutto nei film di Martin Scorsese come “Re per una Notte” (al quale il personaggio
interpretato da Robert De Niro è un dichiarato omaggio), od ancora come “Serpico” diretto da
Sidney Lumet, al quale il film pare debitore delle atmosfere, ma soprattutto a “Taxi driver”
(sempre di Martin Scorsese), nel quale sempre lo stesso De Niro dà corpo e sostanza al protagonista
Travis Bickle, il disturbato tassista, ex veterano della guerra del Vietnam, che decide di dare senso
alla propria squallida esistenza pianificando l’uccisione di un candidato politico e salvando una
prostituta dal suo pappone e che tante, troppe similitudini pare avere con il nostro Arthur
Fleck/Joker.

Insomma, Arthur Fleck è un predestinato, la vittima sacrificale di una società votata al cinismo, ma è
pure un capro espiatorio che è necessario alla stessa società per affrancarsi dalle sue scorie nocive,
dai suoi rifiuti putridi, dalla sua mancanza di empatia. Arthur Fleck diventerà il sociopatico Jocker,
che affermerà la sua individualità e il suo esistere nel mondo attraverso l’omicidio per redimersi dal
suo stato di fantasma, di ultimo, di scarto indesiderato, perché una città votata al collasso ha bisogno
di un cattivo, sul quale scaricare sia le proprie pulsioni autodistruttive sia, in ultimo, per potersi
affrancare dalle proprie responsabilità.

Arthur Fleck diventa una sorta di giustiziere della notte impazzito, un Robin Hood omicida, un
rivoluzionario delirante, e questa diventa la sua vera prova d’attore, la sua cifra stilistica. Attraverso
l’omicidio afferma se stesso e la sua individualità e diviene finalmente un uomo di successo,
riconosciuto e seguito da centinaia di fan ed epigoni che mettono a ferro e fuoco la città di Gotham.

Noi spettatori assistiamo, ed in un certo senso viviamo, la lenta metamorfosi di Arthur in Joker, una
trasformazione che è fisica, morale e psicologica, e non possiamo fare altro che empatizzare con
questo antireroe, soffriamo con lui per tutto il film e quando, alla fine, la transizione di Arthur in
Joker è completa siamo inorriditi, nauseati e traumatizzati dalla sua violenza e dalla sua mancanza di
qualsiasi scrupolo morale. Siamo stati per tutto il film dalla sua parte e ora ci accorgiamo che la sua
follia può essere anche la nostra, la sua furia omicida può diventare la nostra, insomma che in
ognuno di noi riposa un mostro pronto a svegliarsi.

Il Joker di Todd Phillips permette al cinema di assolvere ad uno dei suoi compiti più specifici e
insieme complicati, quello di essere lo specchio dei tempi; noi ci riflettiamo in esso e, come il
protagonista della pellicola, ci rendiamo conto che ciò che vediamo è l’immagine di un mostro che
diviene giorno per giorno più concreta e definita.

Fra i tanti interventi sul film il grande regista Michael Moore ha saggiamente dichiarato:
“Questo non è un film su Donald Trump. È sull’America che ci ha dato Trump – l’America che non
sente il bisogno di aiutare gli emarginati e i poveri. L’America dove i ricchi sfondati lo diventano
ancora di più […] il pericolo più grande per la società sarebbe se non vedeste il film. Perché la storia
che racconta e i problemi che affronta sono talmente profondi e necessari che se distogliete lo
sguardo da questa grande opera d’arte vi perderete il dono dello specchio che ci offre. Sì, c’è un
clown turbato in quello specchio, ma non è da solo – noi siamo lì, di fianco a lui”.

Il film ha vinto il Leone d’Oro come miglior film alla 76esima Mostra internazionale d’arte
cinematografica di Venezia e mentre scrivo questa recensione (23 ottobre 2019) ha incassato
250,0 milioni di dollari negli Stati Uniti e Canada e 491,3 nel resto del mondo, per un totale di 741,3
milioni, diventando uno dei campioni d’incasso della stagione.

Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo
sempre.

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La Copertina d’Artista - #ripartitalia 2019
Immaginate di esprimere un desiderio, quale scena si forma nei vostri pensieri, dove andrà a pescare
la vostra memoria?

Penso che, più o meno, la maggior parte di voi sarà equamente divisa fra chi ha immaginato la scena
di una stella cadente e quelli che si sono immaginati davanti alla propria torta di compleanno, pronti
a soffiare sulle candeline.
Quest’ultima scena pare aver ispirato l’artista di questo mese nella realizzazione della copertina
d’artista. Caterina Ardizzon (classe 1988) ci propone un’immagine gioiosa e positiva, un
sorprendente mix fra illustrazione, fumetto e grafica, solo apparentemente semplice ed immediata,
ma in realtà densa, finanche stratificata, piena di simboli da scoprire.

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zine con l’opera “Soffia Forte!” dell’artista Caterina Ardizzon.

Ciò che immediatamente salta all’occhio sono due elementi: la figura di un grande uccello al centro
dell’opera e quella di una donna, in basso a sinistra, che soffia via qualcosa dal palmo della sua
mano. Lo sfondo della composizione è scombussolato dal turbinare di tante decorazioni che, come
coriandoli, accentuano l’atmosfera allegra di tutta la scena.

Dopo un’osservazione più attenta e meditata, quindi, l’iniziale semplicità e immediatezza pare
disperdersi in una complessità assai maggiore. Ma, allora, cosa ci vuole comunicare l’artista?

Il titolo dell’opera: “Soffia forte!” fa riferimento sicuramente all’atto di spegnere le candeline, e il
vortice delle decorazioni, che richiamano il piumaggio dell’uccello, accentua il clima di festa. Ma
cosa rappresenta il grande uccello che troneggia al centro dell’immagine?
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Ho avuto una certa perplessità nel proporre una qualche interpretazione, sapevo che l’artista
predilige la rappresentazione degli uccelli nelle sue opere e sapevo che si era attenuta al tema del
mese di settembre del nostro magazine che, come sapete, è #ripartitalia, e che è fra i più propositivi
e ottimisti della nostra rivista. Insomma, avevo capito che l’uccello al centro dell’immagine era
importante, ma non riuscivo a capirne il motivo, finché mi sono tornati in mente i versi di una poesia
di Emily Dickinson, “Speranza”, che recita:
“La speranza è quella cosa piumata –

  che si viene a posare sull’anima –

  Canta melodie senza parole –

  e non smette – mai –

  E la senti – dolcissima – nel vento –

  E dura deve essere la tempesta –

  capace di intimidire il piccolo uccello

  che ha dato calore a tanti –

  Io l’ho sentito nel paese più gelido –

  e sui mari più alieni –

  Eppure mai, nemmeno allo stremo,

  ho chiesto una briciola – di me.”

Insomma, la speranza per la grande poetessa americana è un uccello che non smette mai di cantare
alla nostra anima e, forse, anche per Caterina Ardizzon la speranza, il coraggio, il desiderio, la voglia
di ripartire è un uccello, forse una fenice che, come nel mito, risorge dalle proprie ceneri.

Non dimentichiamoci che il motto della fenice è: “Post fata resurgo” (“Dopo la morte torno ad
alzarmi”) e che adesso ci pare il più sincero augurio che l’artista ci possa fare, perché le cadute sono
inevitabili ma, come la fenice mitologica o l’uccello della speranza dickinsoniana, non dobbiamo
smettere né di rialzarci, né di cantare, né di librarci leggeri nei cieli del possibile.
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Caterina Ardizzon è nata a Venezia nel 1988. Dopo essersi diplomata al liceo scientifico e aver
frequentato per 5 anni la Scuola Internazionale di Grafica di Venezia, si trasferisce a Milano per
laurearsi alla triennale di design del prodotto al Politecnico, e, successivamente, in Inghilterra, per
conseguire la laurea specialistica in design per la sostenibilità presso la Bournemouth University.

Agli studi di design seguono tre anni di formazione attoriale. Caterina è designer, attrice e scrittrice,
e al momento collabora come illustratrice e grafica per aziende, associazioni culturali, privati e
progetti teatrali.
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La sua ricerca risente fortemente della sua eclettica formazione ed i suoi soggetti sono caratterizzati
in egual misura da elementi della grafica e dell’illustrazione. Caratteristici dell’artista sono i soggetti
favolistici ed animali ricorrenti nelle sue opere, soprattutto gli uccelli che, secondo l’artista, “ironici
e liberi di comunicare, arrivano direttamente da un mondo fantastico”.

Per informazioni e per contattare l’artista Caterina Ardizzon:

cateardizzon@gmail.com

www.caterinaardizzon.com

Ricordiamo ai nostri lettori ed agli artisti interessati che è possibile candidarsi alla selezione della
quinta edizione di questa interessante iniziativa scrivendo ed inviando un portfolio alla nostra
redazione: redazione@smarknews.it
#ripartitalia - L'editoriale di Raffaello
Castellano
Vi ricordate di Haley Joel Osment, l’attore, bambino prodigio
del film “Il sesto senso” del 1999, scritto e diretto dal
talentuoso regista indiano M. Night Shyamalan?

All’epoca del film aveva solo 11 anni, quasi la stessa età (9 anni) del personaggio che interpretava,
Cole Sear, e la sua magistrale performance lanciò non solo la sua carriera, ma fu anche fra le
principali ragioni del successo del film che, con 672.806.292 dollari al botteghino, è non solo uno dei
più grandi incassi della storia del cinema, ma anche il film horror di maggior successo di sempre fino
al 2017, quando è stato superato da “It”.

Perché ve ne sto parlando?

Perché, l’anno dopo il successo del “Sesto senso”, Haley Joel Osment recita in un altro film, “Un
sogno per domani”, di Mimi Leder (qui la nostra recensione). Se non lo avete visto, dovete
assolutamente recuperarlo perché questo film mi sembra lo spunto ideale per parlare
dell’argomento di questo numero di Smart Marketing, che, come sapete, ogni settembre, da sei anni
ormai, è #ripartitalia.

Nel film Osment interpreta Trevor McKinney, uno studente di scuola media intelligentissimo,
sensibile e un po’ impacciato che, ispirato da un professore di scienze sociali, Eugene Simonet,
interpretato da un intenso e sempre all’altezza Kevin Spacey, decide di rispondere al compito del
professore “Cosa vuole il mondo da noi?”, proponendo una sua particolare formula per cambiare in
meglio il mondo.

La sua formula si chiama “passa il favore” e prevede che lui dia il suo aiuto a tre persone in difficoltà
per risolvere un problema che li affligge senza chiedere nulla in cambio, se non l’impegno di fare lo
stesso con altre tre persone. Mentre Trevor McKinney, descrive ad una classe incredula ed ad un
affascinato professore il suo metodo, alla lavagna, piano, piano, si delinea uno schema a crescita
esponenziale che in soli 5 passaggi raggiunge 243 persone.

Il metodo “passa il favore” del piccolo Trevor mi sembra quello di cui noi Italiani, e non solo,
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