Elezioni 2018: saranno 35 collegi del Sud a decidere la partita del voto - Il Corriere del Giorno
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Elezioni 2018: saranno 35 collegi del Sud a decidere la partita del voto di Marco Castelnuovo Chi vince le prossime elezioni? È possibile ottenere una maggioranza assoluta in un sistema che vede tre poli alternativi? Per scoprirlo, bisogna capire cosa sta succedendo nei singoli collegi uninominali, come i candidati sul territorio stanno spostando voti e se la vittoria di una coalizione o di un’altra nelle zone in bilico potrà avere ripercussioni sul dato finale. La situazione è abbastanza cristallizzata. Il centrodestra è
in largo vantaggio al nord, il centrosinistra al centro, mentre in buona parte del sud è sfida aperta tra Movimento cinque stelle e centrodestra. Se la coalizione di Berlusconi, Salvini e Meloni, riuscisse a imporsi anche nel Mezzogiorno potrebbe ottenere la maggioranza assoluta dei seggi. Leader e peones Le campagne elettorali sono due: una, mediatica e incentrata sui leader, è quella per il proporzionale, che determinerà i due terzi del Parlamento. L’altra, sul territorio, riguarda 348 collegi uninominali (232 alla Camera, 116 al Senato). Lì corrono alcuni leader (mai uno contro l’altro) qualche big e molti peones: la vittoria è certa per chi prende un voto più egli altri. Il sito Rosatellum.info Un gruppo di studiosi legati a Quorum, YouTrend e Reti, ha elaborato Rosatellum.info, un’analisi (a pagamento !) collegio per collegio basata su sondaggi, serie storiche e trend in grado di determinare quanto un collegio sia «sicuro» e quanto sia incerto, ovvero i collegi nei quali la differenza tra le prime due coalizioni è inferiore al cinque per cento dei voti. Sono i collegi contendibili, quelli nei quali un candidato o una campagna azzeccata possono cambiare il corso delle cose. Secondo Rosatellum.info ce ne sono 113, 78 alla Camera e 35 al Senato. «Effetto trascinamento»
Spostare gli equilibri nei collegi maggioritari non solo garantisce parlamentari eletti, ma ha anche un «effetto trascinamento» — seppur piccolo — sul collegio proporzionale soprastante, che è formato dalla «somma» di diversi collegi maggioritari affiancati. Il nord è deciso Al nord la partita è quasi chiusa. Il centrodestra ha largo margine di vantaggio in buona parte dei collegi e quelli incerti sono solo 29 (su 138), 21 alla Camera e 8 al Senato. Berlusconi è fuori dai giochi solo in due dei collegi incerti del nord (Torino 2 e Torino 4), mentre in Liguria combatterà alla pari praticamente ovunque, tranne che in due dei 4 collegi di Genova, saldamente in mano ai Cinque Stelle. Discorso simile per il Senato. Degli otto collegi incerti al nord per la conquista di Palazzo Madama, solo uno è conteso tra Movimento 5 Stelle e centrosinistra ( Torino), mentre in tutti gli altri la sfida sarà «classica» tra la coalizione di Berlusconi e quella di Renzi (sono 5 in totale: in Lombardia solo uno, nella zona di Milano che racchiude il centro e tutta la parte est). La variante adriatica Al centro, invece, molti collegi sono già considerati sicuri per il centrosinistra e anche in quelli incerti, Pd e alleati sono sempre in vantaggio. La roccaforte rossa tiene, anche se la spina nel fianco di
Liberi e Uguali rende molti collegi da «probabile» (percentuale superiore a oltre il 10% sul secondo arrivato) a «tendente» (tra il 5 e il 10%). Diverso però il discorso sul litorale adriatico, dove il Movimento 5 Stelle ha sempre ottenuto buoni risultati. Da Rimini a Bari ci sono 18 collegi e sono quasi tutti incerti. Le coalizioni si «spartiscono» equamente le regioni. Il centrosinistra è in vantaggio nei collegi incerti dell’alto Marche (Pesaro, Fano, Ancona); il Movimento 5 Stelle guida da Ascoli a Vasto. Da Cerignola a Bari invece, il centrodestra è davanti alla lista di Di Maio. Dove si decidono le elezioni E per tutto il sud sarà così. La vera sfida è tra centrodestra e Movimento 5 Stelle nei collegi del sud. Lì il centrodestra può trovare quella trentina di seggi (tra maggioritario e proporzionale) che ancora gli mancano per ottenere la maggioranza assoluta in entrambe le Camere. La gran parte dei collegi del sud e delle isole è infatti un testa a testa tra Berlusconi e Di Maio. Nell’area metropolitana di Napoli nulla è deciso: di nove collegi alla Camera, solo due sono — di fatto — già assegnati. Negli altri se la giocano, compreso il collegio di Acerra dove c’è una delle pochissime sfide tra big: quella tra lo stesso Luigi Di Maio, candidato premier M5S, e Vittorio Sgarbi per il centrodestra. In tutto il Sud c’è un unico collegio alla Camera che probabilmente andrà al centrosinistra, quello di Potenza. Ce ne sono altri due «incerti», quello di Potenza al Senato (che racchiude anche il collegio di Matera alla Camera) e quello di Corigliano Calabro. Per il resto, è sfida a due — aperta e incerta — in ben 35 collegi tra Camera e Senato. Intere regioni sono in bilico: Sicilia, Campania, Calabria. Qualora il centrodestra facesse filotto, cioè riuscisse a vincere i seggi in bilico anche in quelli in cui è per ora dietro, riuscirebbe nell’impresa di ottenere quei seggi in più che a oggi gli mancano per raggiungere i 315 seggi a Montecitorio e i 158 a Palazzo Madama.
*opinione tratta dal Corriere della Sera Processo Escort: trasferita a Milano l’ indagine su Berlusconi accusato di intralcio alla giustizia per aver pagato i testimoni ROMA– Il reato di intralcio alla giustizia contestato dai pm di Bari all’ex premier, Silvio Berlusconi, nell’indagine stralcio nata dal “processo Escort” sarà valutato per competenza territoriale dalla magistratura lombarda. La Procura di Bari, nell’ambito del procedimento per falsa testimonianza nei confronti di quattro ragazze, testimoni in quel processo, e dell’allora autista di Gianpaolo Tarantini, ha infatti stralciato la posizione dell’ex premier Berlusconi ed ha trasmesso per competenza territoriale gli atti alla Procura di Milano.
Ioana Visan Stralciata anche la posizione della rumena Ioana Visan un’altra delle ragazze testimoni nel processo barese, protagonista della stessa vicenda che coinvolge Berlusconi. In particolare l’ex presidente del Consiglio avrebbe fatto consegnare alla ragazza 10mila euro per “condizionare indebitamente la testimone per compromettere la genuinità del suo narrato” hanno sostenuto i giudici baresi nella sentenza “escort” a seguito della quale il Tribunale barese ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura perché procedesse nei confronti dell’ex premier. “Poco prima di recarsi a Bari per rendere la sua testimonianza, la donna – scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza ” avrebbe ricevuto una somma di denaro di importo pari a diecimila euro che doveva solo apparentemente servire a coprire le spese di viaggio ma che, a parare del Tribunale, era, invece, finalizzata alla cosiddetta falsità giudiziale”. La vicenda, trasferita alle valutazioni del Tribunale di Bari, era agli atti di un procedimento avviato dalla Procura di Milano motivo per cui la Procura barese ha trasmesso gli atti per competenza ai colleghi di Milano. A rivelarlo agli inquirenti di Milano in un’audizione del 17 febbraio 2015, era stato il “famoso” ragioniere Giuseppe Spinelli, amministratore delle finanze e dei conti bancari di Berlusconi .
Sulle bugie affermate dalle altre quattro ragazze Sonia Carpentone, Vanessa Di Meglio, Barbara Montereale e Roberta Nigro, e dall’ex autista di Gianpi Tarantini, Dino Mastromarco, che accompagnava le ragazze alle “cene eleganti” da Belrusconi (allora Presidente del Consiglio) , la Procura di Bari ha chiuso nei giorni scorsi le indagini per falsa testimonianza sostenendo che le ragazze abbiano mentito quando hanno dichiarato nel dibattimento negando di essersi prostituite con Berlusconi e di essere state poi pagate per quelle prestazioni. A Mastromarco è contestato, invece, di aver detto il falso quando ha riferito ai giudici di non sapere perché le giovani andassero a casa del Cavalieri e quali fossero le abitudini sessuali dell’allora premier. Vendola, torno in politica a sinistra. Emiliano? “Una grande
delusione” ROMA – “Io non sono mai fuggito dalla politica. La politica è una malattia da cui non si guarisce. Torno, anche se resto in seconda linea“. Lo ha dichiarato l’ex governatore della Puglia, Nichi Vendola, tornato sul palcoscenico politico pubblico con diverse interviste, e recentemente intervistato in una puntata del programma televisivo “Il Graffio” del TgNorba, interamente dedicata a lui, parlando di politica, della Regione Puglia , della propria vita privata e del suo rapporto con il piccolo Tobia (20 mesi) nato all’estero con il sistema della “gravidanza per altri“. Vendola si è detto deluso per quello che Emiliano “avrebbe potuto essere e non è“, e “sconcertato da “questa rivendicazione dell’autonomia“. “Questo simpatizzare con i referendum del Lombardo- Veneto, magari con qualche nostalgia neo-borbonica – ha detto – non ha senso“. “Io auguravo al mio successore di essere veramente in grado, come aveva annunciato nella lunghissima campagna elettorale, di fare molto meglio di come avessimo fatto noi”, ma – ha detto – “l’impressione è di una regione in affanno, stanca, senza un’idea di cosa sia il governo, senza un’idea della Puglia. Sono disilluso come molti pugliesi. La primavera pugliese si è trasformata in un inverno”. Uno scenario che costituirà sicuramente in Puglia il filo conduttore della campagna elettorale d’elettorato che si colloca a sinistra del Pd ed alla sua opposizione).
Michele Emiliano e Nichi Vendola L’opinione di Nichi Vendola sulla Puglia amministrata dal suo successore Michele Emiliano è drastico. “Sento una delusione molto grande per ciò che poteva essere e non è.– dice l’ex governatore – Auguravo al mio successore di fare molto meglio di noi. Vedo invece una Regione stanca, in affanno, senza idea di cosa sia il governo e di cosa sia la Puglia. Sono due anni e mezzo che non vediamo nei Consigli regionali provvedimenti di sostanza. Ho auspicato che Michele facesse bene il suo lavoro, oggi sono disilluso“. “Trovo stupefacente la simpatia di Emiliano verso il referendum lombardo-veneto e le nostalgie neo borboniche“. Vendola si augura che Emiliano sull’ Acquedotto Pugliese “non rinneghi la scelta di tenere pubblico e non privatizzato l’acquedotto“. ed aggiunge manifestando “la mia delusione cocente verso Emiliano non è animosità contro di lui, è amore spasmodico per la Puglia, terra che merita di essere governata e non vezzeggiata su Facebook“. “Perché dove c’erano amministratori noti per profili di competenza e moralità – ha detto Vendola – oggi ci sono consigli di amministrazione con dentro profili di non elevata competenza, che consentono ai partiti di ficcare il naso in vicende in cui dovrebbero essere
osservatori esterni. Mi sembra – ha concluso – che si voglia occupare ogni spazio per garantirsi consenso elettorale: a questo servono le Asl, l’Acquedotto Pugliese, Aeroporti di Puglia?“. “In Puglia la sinistra c’è. L’unica spina nel fianco di Emiliano è il consigliere di Sinistra Italiana, Mino Borraccino”. “Il centrodestra – ha aggiunto Vendola – sembra incapace di svolgere un ruolo fondamentale che è quello dell’opposizione, il M5S non sembra in grado di andare oltre espressioni come ‘vergogna’“. “Noi in dieci anni – ha aggiunto riferendosi ai suoi due mandati da governatore della Regione Puglia – abbiamo fatto cose buone anche grazie ad un’opposizione che ha fatto cose buone. L’ ex capogruppo alla Regione Rocco Palese ora parlamentare di Forza Italia si spulciava ogni carta, ti costringeva ad avere gli occhi aperti su tutto, ad alzare la qualità del governo“. “Oggi le riunioni dei consigli regionali sono una fiera della vanità, durano mezz’ora, non si discute di nulla. Pensate che invece di parlare di lotta ai poveri e agli indigenti – ha concluso – hanno dedicato cinque sedute del Consiglio Regionale al Corecom Puglia, per aumentare il numero dei consiglieri di questo organismo, che è francamente una schifezza“. Vendola chiude ad un eventuale accordo con il Pd: “Renzi, dopo aver stracciato il programma elettorale scritto da me e Bersani nel 2013, ha realizzato il programma di Berlusconi. Fare accordi con quelli che hanno scritto il Jobs Act, approvato lo Sblocca Italia e messo in atto l’orrore della Buona scuola è impensabile. Il governo del Pd ha aumentato le diseguaglianze e realizzato un programma di destra“. E parlando dell’apertura di Renzi a Napoli, aggiunge “E’ come se dicesse voi suicidatevi e io vinco. E se pure ci alleassimo, non porteremmo più voti a Renzi ma solo meno voti a noi».
Allora con chi se non con il Pd ? “Con chi vuol ripartire dal lavoro e dalla vita materiale delle persone. Con un leader capace di fare la traduzione laica del pensiero radicale di papa Francesco” Vendola non trascura “quel ragazzo di sinistra che è la seconda carica dello Stato” riferendosi al presidente del Senato, Piero Grasso, che ha lasciato il Pd, dopo il voto sulla legge elettorale. Vendola “privato”. Il resto dell’intervista televisiva è stata una garbata incursione del giornalista che lo intervistava nel Vendola “privato”, filmato nella sua abitazione romana in tuta mentre prepara il caffè, mostrando il suo vecchio studio “smantellato per far spazio alla stanza del piccolo Tobia“. “Nei dieci anni in cui sono stato presidente facevo fatica ad addormentarmi, conscio della responsabilità che avevo nei confronti di 4 milioni di persone. Ora mi sveglio con il sorriso di un cucciolo umano. Sono tormentato dalle insistenze dei pugliesi ed ho deciso di tornare sulla scena politica ma senza la voglia di calcare la prima linea: vorrei dare consigli e trasformarmi in una specie di ostetrica per far nascere una nuova creatura politica». È il quarto polo, quello di Sinistra Italiana. E Nichi Vendola vuole esserne uno dei padri. I troppi volti di Emiliano di Angelo Rossano
L’ultimo fronte aperto è quello dell’autonomismo. “Gli Stati nazionali – ha detto ieri in sintesi il governatore Emiliano in una trasmissione radiofonica della Rai – ancora oggi interferiscono e non riescono a gestire le grandi questioni di loro competenza come immigrazione, difesa e fisco”. Un’affermazione fatta all’indomani del disastro spagnolo e discutendo proprio del referendum per l’indipendenza della Catalogna. Quindi un’affermazione non improvvisata, ma anzi corroborata dall’idea che non sia “più accettabile l’idea che il Nord sostenga totalmente il Mezzogiorno: io non sono – precisa il governatore – su una posizione diversa rispetto a Toti, Maroni e Zaia“. Quindi Emiliano sembra voler affermare un modello che richiama l’autonomismo in camicia verde, una sorta di neoleghismo del Sud all’incontrario. Lo Stato, dunque, interferisce. Del resto -ci deve essere questo alla base del ragionamento- non ha forse Emiliano vinto il referendum contro Renzi che prevedeva di limitare le aree di competenza delle Regioni? Si immaginano facilmente i temi sottintesi dal presidente della Regione: c’è l’approdo Tap (che la Regione vorrebbe in un punto diverso da quello stabilito), ma nel non detto ci sono senz’altro anche Ilva, Trivelle, decarbonizzazione e Xylella. Una posizione politica che afferma il primato del “no“» (pugliesi e meridionali), “orgogliosamente noi“, fieri anche se poveri, sugli altri. Ogni forma di forte identificazione, però, presuppone -e quindi crea- separazione. Insomma, questo è un sentiero politico rischioso il cui punto di arrivo è incomprensibile, inconfessabile oppure inesistente. Fedele a un modello di comportamento politico che ha contraddistinto la sua azione, Emiliano aggiunge un nuovo profilo alla poliedrica sfaccettatura del suo agire. Zelig è al governo. Ora è autonomista. Ma
è anche ambientalista. Emiliano – scrisse già Francesco Strippoli sul Corriere – utilizza l’ambiente per caratterizzarsi politicamente: “L’ambiente diventa così il pilastro portante che tutto regge e connette”, insomma – si disse – una via di mezzo tra Schwarzenegger e Al Gore. Ma Emiliano è anche berlusconiano, nel senso della manifesta simpatia che si rese chiassosamente palese con lo striscione di saluto a Silvio sventolante dai balconi del municipio. È pentastellato, fino ad offrire un ruolo in giunta ai Cinque stelle. È neoborbonico, se si pensa alla mozione sulla giornata della memoria. È no-vax e no tap. Tante maschere confondono e non rendono possibile capire quale intenda indossare per la Puglia. Quella che a noi preme di più. *editoriale tratto dal Corriere del Mezzogiorno Voto nei circoli Pd: Matteo Renzi raggiunge più del doppio di Andrea Orlando. Emiliano raggiunge il 6% In molti circoli Pd si vota ancora fino alla mezzanotte, e quindi i dati non sono ancora definitivi, ma secondo una nota diffusa dall’organizzazione del Partito Democratico sulla base dei risultati definitivi di circa 4mila circoli del Pd nelle votazioni per la corsa a tre per la segreteria nazionale l’ex segretario Matteo Renzi ha conquistato il 68,22% delle
preferenze (con 141.245 voti), mentre il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, il 25,42% (52630 voti) e fanalino di coda il presidente della Regione della Puglia, Michele Emiliano, il 6,36% (13168 preferenze) Il dato pressochè finale parla di 266.726 votanti ai congressi di circolo, pari al 59,29% dei 449.852 iscritti: un’affluenza superiore al precedente congresso del Pd, nel 2013, al quale aveva partecipato il 55,34% degli iscritti. Ai congressi del Pci, giusto per offrire al lettore un parametro di comparazione, in media votava appena il 20% degli iscritti, ad eccezione dell’ultimo, quello di Rimini in cui venne deciso lo scioglimento del partito e la nascita del Pds, occasione in cui i votanti furono circa il 30% degli aventi diritto, quindi circa la metà dei votanti della primarie di quest’anno. Le cifre ufficiali verranno comunicate solo domani. L’affluenza al voto degli iscritti al Partito Democratico per i congressi scrutinati è del 58,1%, con una proiezione finale di votanti compresa tra 235mila e 255mila. Dal suo comitato Andrea Orlando con una nota si contestano sia le percentuali relative al consenso ottenuto dai singoli candidati che quelle relative all’affluenza: “L’affluenza si aggirerà intorno a 200.000 votanti. Orlando al momento ha un consenso intorno al 29,6%, Renzi intorno al 62,4% ed Emiliano all’8%”. “Siamo stupiti – aggiunge la nota- che a scrutinio ancora aperto di molti circoli e con dati ancora incerti, l’organizzazione del Pd abbia fornito questi risultati”. Ai microfoni di Radio Cusano Campus , l’emittente radiofonico dell’Università Niccolò Cusano, Orlando ha commentato: “Il mio è un risultato che vedo con molta soddisfazione. Tenete presente che la mia candidatura è arrivata nelle ultime ore utili, in un partito che ha perso circa un terzo degli iscritti, e quegli iscritti probabilmente sono persone che manifestavano una critica nei confronti della linea di Renzi, con il 90% del gruppo dirigente schierato con Renzi e con una partecipazione che non è stata eccezionale, visto che Renzi in queste primarie prende esattamente gli stessi voti che aveva preso l’altra volta”. Secondo Orlando la partita è ancor aperta . “Aver messo in piedi una rete che è presente in tutto il territorio e che rende competitiva la mia candidatura per il 30 di aprile non era affatto scontato e oggi invece credo che si siano realizzate queste condizioni e quindi si apra un’altra partita”.
Renzi ancora una volta affida ai social il proprio commento. “Il PD è un partito democratico. Nel nome. E nei fatti. Decidono gli iscritti nel congresso e poi nelle primarie. Mesi di polemiche e scissioni. Poi la parola passa agli iscritti. Migliaia di circoli, migliaia di dibattiti, centinaia di interventi. Alla fine si vota, grazie a uno sforzo democratico di volontari e militanti che non ha paragoni in Italia. Lo ridico perché sia chiaro: nessuno fa ciò che facciamo noi in termini di democrazia e trasparenza. Oggi Guido Crosetto, già esponente della destra italiana e componente dei governi Berlusconi, scrive su Twitter: “Lo dico per l’ennesima volta: invidio il sistema democratico del PD. Dovrebbe essere obbligatorio per tutti i partiti.” Prima o poi qualche commentatore si accorgerà anche di questo“ “Alla fine del primo round abbiamo ottenuto oltre i due terzi dei voti”. ha aggiunto Renzi. “Aspettiamo i dati ufficiali per dire la percentuale esatta ma la matematica non è un’opinione. Domenica a Roma i risultati saranno proclamati e in quella sede lanceremo lo sprint per arrivare alle primarie di domenica 30 aprile. Senza attaccare i nostri avversari interni perché noi non parliamo male degli altri: noi raccontiamo che idee abbiamo per il PD e per l’Italia. Qualcuno dice che in qualche caso ci sono stati dei problemi e delle incongruenze: sono il primo a dire che dove ci sono problemi riconosciuti (ammesso che ci siano) è giusto che si intervenga con decisione invalidando il voto. Noi siamo i primi ad avere interesse che tutto sia trasparente: perché una vittoria così larga e così bella non sia sporcata dalle polemiche del giorno dopo. Allo stesso tempo chiediamo a tutti di riconoscere la verità dei numeri che non possono essere oscurati da
nessuna polemica. Quando si vince, si vince. Quando si perde, si ammette. Punto.” Per il senatore Pd Francesco Verducci, del Coordinamento nazionale della Mozione Renzi, quella che esce dai circoli Pd è “una grande prova di democrazia, di trasparenza, di impegno che non ha paragoni in Italia e che è un’assoluta rarità anche nel panorama europeo. Il Pd sta dimostrando vitalità e energia che nessun altro partito o movimento possiede, grazie alla passione di migliaia di iscritti e volontari. Chi fa polemica e prova a sminuire e delegittimare quanto sta avvenendo fa un torto alla comunità del Pd che sta dimostrando di esserci, di voler contare e di avere le idee molto chiare”. “Sono molto soddisfatto per il consenso così alto ricevuto da Renzi nei nostri iscritti – commenta Lorenzo Guerini, coordinatore della Mozione Renzi – è un grande risultato. La base del Pd ha espresso un giudizio inequivocabile: Renzi è per gli iscritti il segretario in cui ripongono la loro fiducia e le loro speranze. Le dimensioni del risultato sono davvero importanti, per certi versi sorprendenti“. Soddisfazione è stata espresso anche dal ministro Maurizio Martina, che ha sottolineato come sia “stata una bellissima prova. Stiamo parlando di migliaia di persone che hanno discusso, partecipato e scelto, dando forza all’idea di un partito fatto dall’impegno di tanti, uniti dalla volontà di dare una mano all’Italia. La netta affermazione della nostra proposta con Matteo Renzi ci dà fiducia e forza per i prossimi impegni. È il primo passo che ora va portato alle primarie degli elettori di domenica 30 aprile. Per un Pd più forte e più aperto, alternativo a Berlusconi, Grillo e Salvini, continueremo a proporre il nostro progetto per l’Italia. Avanti, insieme”. Da anticraxiano vi dico: gli dobbiamo qualcosa di Piero Sansonetti Il 19 gennaio del 2000, e cioè 17 anni fa, moriva Bettino Craxi. Aveva 65 anni, un tumore al rene curato male, un cuore malandato, curato malissimo. Il cuore a un certo punto si fermò. Non fu fatto molto per salvarlo.
Non fu fatto niente, dall’Italia. Craxi era nato a Milano ed è morto ad Hammamet, in Tunisia, esule. Era stato segretario del partito socialista per quasi vent’anni e presidente del Consiglio per più di tre. In Italia aveva subito condanne penali per finanziamento illecito del suo partito e per corruzione. Quasi dieci anni di carcere in tutto. Prima delle condanne si era trasferito in Tunisia. Se fosse rientrato sarebbe morto in cella. Craxi ha sempre respinto l’accusa di corruzione personale. Non c’erano prove. E non furono mai trovati i proventi. In genere quando uno prende gigantesche tangenti e le mette in tasca, poi da qualche parte questi soldi saltano fuori. In banca, in acquisti, in grandi ville, motoscafi. Non furono mai trovati. I figli non li hanno mai visti. La moglie neppure. Lui non li ha mai utilizzati. Non ha lasciato proprietà, eredità, tesori. Craxi era un malfattore, o è stato invece uno statista importante sconfitto da una gigantesca operazione giudiziaria? La seconda ipotesi francamente è più probabile. La prima è quella più diffusa nell’opinione pubblica, sostenuta con grande impegno da quasi tutta la stampa, difesa e spada sguainata da gran parte della magistratura. Craxi era stato uno degli uomini più importanti e potenti d’Italia, negli anni Ottanta, aveva goduto di grande prestigio internazionale. Si era scontrato e aveva dialogato con Reagan, col Vaticano, con Israele e i paesi Arabi, con Gorbaciov, con quasi tutti i leader internazionali. Aveva sostenuto furiose battaglie con i comunisti in Italia, con Berlinguer e Occhetto e D’Alema; e anche con la Dc, con De Mita, con Forlani, epici gli scontri con Andreotti; con la Dc aveva collaborato per anni e governato insieme. Bene, male? Poi ne discutiamo. Aveva anche firmato con la Chiesa il nuovo concordato. Morì solo solo. Solo: abbandonato da tutti. Stefania, sua figlia, racconta di quando la mamma la chiamò al telefono, nell’autunno del ‘ 99, e le disse che Bettino era stato ricoverato a Tunisi, un attacco di cuore. Lei era a Milano, si precipitò e poi cercò di muovere mari e monti per fare curare il padre. Non si mossero i monti e il mare restò immobile. Craxi fu curato all’ospedale militare di Tunisi. Stefania riuscì ad avere gli esami clinici e li spedì a Milano, al San Raffaele, lì aveva degli amici. Le risposero che c’era un tumore al rene e che andava operato subito, se no poteva diffondersi. Invece passarono ancora due mesi, perché a Tunisi nessuno se la sentiva di operarlo. Arrivò un chirurgo da Milano, operò Craxi in una sala operatoria dove due infermieri tenevano in braccio la lampada per fare luce. Portò via il rene, ma era tardi. Il tumore si era propagato, doveva essere operato prima, si poteva salvare, ma non ci fu verso. In quei giorni drammatici dell’ottobre 1999 Craxi era caduto in
profonda depressione. Non c’è da stupirsi, no? Parlava poco, non aveva forse voglia di curarsi. Era un uomo disperato: indignato, disgustato e disperato. Stefania mi ha raccontato che lei non sapeva a che santo votarsi: non conosceva persone potenti. Il Psi non esisteva più. Chiamò Giuliano Ferrara e gli chiese di intervenire con D’Alema. Il giorno dopo Ferrara gli disse che D’Alema faceva sapere che un salvacondotto per l’Italia era impossibile, la Procura di Milano avrebbe immediatamente chiesto l’arresto e il trasferimento in carcere. Stefania chiese a Ferrara se D’Alema potesse intervenire sui francesi, i francesi sono sempre stati generosi con la concessione dell’asilo politico. Era più che naturale che glielo concedessero. Curarsi a Parigi dava qualche garanzia in più che curarsi all’ospedale militare di Tunisi. Passarono solo 24 ore e Jospin, che era il presidente francese, rilasciò una dichiarazione alle agenzie: “Bettino Craxi non è benvenuto in Francia”. Quella, più o meno, fu l’ultima parola della politica su Craxi. Fu la parola decisiva dell’establishment italiano e internazionale. Craxi deve morire. Il 19 gennaio Craxi – per una volta – obbedì e se andò all’altro mondo. E’ curioso che quasi vent’anni dopo la sua morte, e mentre cade il venticinquesimo anniversario dell’inizio della stagione di Tangentopoli ( Mario Chiesa fu arrestato il 17 febbraio del 1992, e da lì cominciò tutto, da quel giorno iniziò la liquidazione della prima repubblica), qui in Italia nessuno mai abbia voluto aprire una riflessione su cosa successe in quegli anni, sul perché Craxi fu spinto all’esilio e alla morte, sul senso dell’inchiesta Mani Pulite, sul peso della figura di Craxi nella storia della repubblica. Ci provò Giorgio Napolitano, qualche anno fa. Ma nessuno gli diede retta. Vogliamo provarci? Partendo dalla domanda essenziale: Statista o brigante. Forse sapete che Bettino Craxi negli anni Ottanta scriveva dei corsivi sull’Avanti! , il giornale del suo partito, firmandoli Ghino di Tacco. Ghino era un bandito gentiluomo vissuto verso la metà del 1200 dalle parti di Siena, a Radicofani. Boccaccio parla di lui come una brava persona. A Craxi non dispiaceva la qualifica di brigante. Perché era un irregolare della politica. Uno che rompeva gli schemi, che non amava il political correct. Però non fu un bandito e fu certamente uno statista. Persino Gerardo D’Ambrosio, uno dei più feroci tra i Pm del pool che annientò Craxi, qualche anno fa ha dichiarato: “non gli interessava l’arricchimento, gli interessava il potere politico”. Già:
Craxi amava in modo viscerale la politica. La politica e la sua autonomia. Attenzione a questa parola di origine greca: autonomia. Perché è una delle protagoniste assolute di questa storia. Prima di parlarne però affrontiamo la questione giudiziaria. Era colpevole o innocente? Sicuramente era colpevole di finanziamento illecito del suo partito. Lo ha sempre ammesso. E prima di lasciare l’Italia lo proclamò in un famosissimo discorso parlamentare, pronunciato in un aula di Montecitorio strapiena e silente. Raccontò di come tutti i partiti si finanziavano illegalmente: tutti. Anche quelli dell’opposizione, anche il Pci. Disse: “se qualcuno vuole smentirmi si alzi in piedi e presto la storia lo condannerà come spergiuro“. Beh, non si alzò nessuno. Il sistema politico in quegli anni – come adesso – era molto costoso. E i partiti si finanziavano o facendo venire i soldi dall’estero o prendendo tangenti. Pessima abitudine? Certo, pessima abitudine, ma è una cosa molto, molto diversa dalla corruzione personale. E in genere il reato, che è sempre personale e non collettivo, non era commesso direttamente dai capi dei partiti, ma dagli amministratori: per Craxi invece valse la formula, del tutto antigiuridica, “non poteva non sapere”. Craxi era colpevole. Nello stesso modo nel quale erano stati colpevoli De Gasperi, Togliatti, Nenni, la Malfa, Moro, Fanfani, Berlinguer, De Mita, Forlani… Sapete di qualcuno di loro condannato a 10 anni in cella e morto solo e vituperato in esilio? Ecco, qui sta l’ingiustizia. Poi c’è il giudizio politico. Che è sempre molto discutibile. Craxi si occupò di due cose. La prima era guidare la modernizzazione dell’Italia che usciva dagli anni di ferro e di fuoco delle grandi conquiste operaie e popolari, e anche della grande violenza, del terrorismo, e infine della crisi economica e dell’inflazione. Craxi pensò a riforme politiche e sociali che permettessero di stabilizzare il paese e di interrompere l’inflazione. La seconda cosa della quale si preoccupò, strettamente legata alla prima, era la necessità di salvare e di dare un ruolo alla sinistra in anni nei quali, dopo la vittoria di Reagan e della Thatcher, il liberismo stava dilagando. Craxi cercò di trovare uno spazio per la sinistra, senza opporsi al liberismo. Provò a immaginare una sinistra che dall’interno della rivoluzione reaganiana ritrovava una sua missione, attenuava le asprezze di Reagan e conciliava mercatismo e stato sociale. Un po’ fu l’anticipatore di Blair e anche di Clinton ( e anche di Prodi, e D’Alema e Renzi…). Craxi operò negli anni precedenti alla caduta del comunismo, ma si comportò come se la fine del comunismo fosse già avvenuta. Questa forse è stata la sua
intuizione più straordinaria. Ma andò sprecata. Personalmente non ho mai condiviso quella sua impresa, e cioè il tentativo di fondare un liberismo di sinistra. Così come, personalmente, continuo a pensare che fu un errore tagliare la scala mobile, e che quell’errore di Craxi costa ancora caro alla sinistra. Ma questa è la mia opinione, e va confrontata con la storia reale, e non credo che sia facile avere certezze. Quel che certo è che Craxi si misurò con questa impresa mostrando la statura dello “statista”, e non cercando qualche voto, un po’ di consenso, o fortuna personale. Poi possiamo discutere finché volete se fu un buono o un cattivo statista. Così come possiamo farlo per De Gasperi, per Fanfani, per Moro. E qui arriviamo a quella parolina: l’autonomia della politica. Solo in una società dove esiste l’autonomia della politica è possibile che vivano ed operano gli statisti. Se l’autonomia non esiste, allora i leader politici sono solo funzionari di altri poteri. Dell’economia, della magistratura, della grande finanza, delle multinazionali… In Italia l’autonomia della politica è morta e sepolta da tempo. L’ha sepolta proprio l’inchiesta di Mani Pulite. C’erano, negli anni Settanta, tre leader, più di tutti gli altri, che avevano chiarissimo il valore dell’autonomia. Uno era Moro, uno era Berlinguer e il terzo, il più giovane, era Craxi. Alla fine degli anni Ottanta Moro e Berlinguer erano morti. Era rimasto solo Craxi. Io credo che fu essenzialmente per questa ragione che Craxi fu scelto come bersaglio, come colosso da abbattere, e fu abbattuto. Lui era convinto che ci fu un complotto. Sospettava che lo guidassero gli americani, ancora furiosi per lo sgarbo che gli aveva fatto ai tempi di Sigonella, quando ordinò ai Carabinieri di circondare i Marines che volevano impedire la partenza di un un aereo con a bordo un esponente della lotta armata palestinese. I Carabinieri spianarono i mitra. Si sfiorò lo scontro armato. Alla fine, in piena notte, Reagan cedette e l’aereo partì. Sì, certo, non gliela perdonò. Io non credo però che ci fu un complotto. Non credo che c’entrassero gli americani. Penso che molte realtà diverse ( economia, editoria, magistratura) in modo distinto e indipendente, ma in alleanza tra loro, pensarono che Tangentopoli fosse la grande occasione per liquidare definitivamente l’autonomia della politica e per avviare una gigantesca ripartizione del potere di stato. Per questo presero Craxi a simbolo da demolire. Perché senza di lui l’autonomia della politica non aveva più interpreti. Dal punto di vista giudiziario “mani pulite” ha avuto un risultato incerto. Migliaia e migliaia di politici imputati, centinaia e
centinaia arrestati, circa un terzo di loro, poi, condannati, moltissimi invece assolti ( ma azzoppati e messi al margine della lotta politica), diversi suicidi, anche illustrissimi come quelli dei presidenti dell’Eni e della Montedison. Dal punto di vista politico invece l’operazione fu un successo. La redistribuzione del potere fu realizzata. Alla stampa toccarono le briciole, anche perché nel frattempo era sceso in campo Berlusconi. All’imprenditoria e alla grande finanza andò la parte più grande del bottino, anche perché decise di collaborare attivamente con i magistrati, e dunque fu risparmiata dalle inchieste. Quanto alla magistratura, portò a casa parecchi risultati. Alcuni molto concreti: la fine dell’immunità parlamentare, che poneva Camera e Senato in una condizione di timore e di subalternità verso i Pm; la fine della possibilità di concedere l’animista; la fine della discussione sulla separazione delle carriere, sulla responsabilità civile, e in sostanza la fine della prospettiva di una riforma della giustizia. Altri risultati furono più di prospettiva: l’enorme aumento della popolarità, fino a permettere al Procuratore di Milano – in violazione di qualunque etica professionale – di incitare il popolo alla rivolta contro la politica (“resistere, resistere, resistere… ”) senza che nessuno osasse contestarlo, anzi, tra gli applausi; il via libera all’abitudine dell’interventismo delle Procure in grandi scelte politiche ( di alcune parlava giorni fa Pierluigi Battista sul Corriere della Sera); l’enorme aumento del potere di controllo sulla stampa e sulla Tv; la totale autonomia. Ora a me restano due domande. La prima è questa: quanto è stata mutilata la nostra democrazia da questi avvenimenti che hanno segnato tutto l’ultimo quarto di secolo? E questa mutilazione è servita ad aumentare il tasso di moralità nella vita pubblica, oppure non è servita a niente ed è stata, dunque, solo una grandiosa e riuscita operazione di potere? E la seconda domanda è di tipo storico, ma anche umano: è giusto che un paese, e il suo popolo, riempiano di fango una figura eminente della propria storica democratica, come è stato Craxi, solo per comodità, per codardia, per “patibolismo”, deturpando la verità vera, rinunciando a sapere cosa è stato nella realtà il proprio passato? Io penso di no. Da vecchio anticraxiano penso che dobbiamo qualcosa a Bettino Craxi. *direttore del quotidiano IL DUBBIO
Fact-Checking: continuano le “bufale” grilline ! (AGI) Dopo aver incontrato il Presidente della Repubblica nell’ambito delle consultazioni, Giulia Grillo del M5S ha spiegato ai giornalisti che la posizione del suo partito è sempre la stessa: “qualunque nuovo governo ancora una volta calato dall’alto non avebbe la legittimazione popolare per governare“. Di fatto sposando la tesi, supportata anche da tutte le opposizioni, che con l’incarico a Paolo Gentiloni ci troveremo al “quarto governo di fila non passato per le elezioni“. Questa affermazione è basata su un grave fraintendimento. L’Italia è una Repubblica parlamentare, non presidenziale, pertanto non sono gli elettori a scegliere il governo (o meglio il presidente del Consiglio), tramite le elezioni, ma il Presidente della Repubblica. Solo il capo dello Stato, infatti, ha il potere di nominare il presidente del Consiglio, ovviamente tenendo conto del risultato delle elezioni – ma solo per quanto si è riflesso nella composizione del Parlamento. In base all’articolo 92 comma 2 della Costituzione, «Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questi, i ministri». Durante la Prima Repubblica, ad esempio, la scelta del Presidente del Consiglio avveniva regolarmente dopo le elezioni, sulla scorta dell’accordo tra le diverse forze politiche. In futuro, se al Senato restasse l’attuale legge elettorale (il cosiddetto “Consultellum”, un sistema proporzionale), è probabile che nessuna forza politica sia in grado di vincere col 50%+1 dei voti e di esprimere il proprio presidente del Consiglio. La carica verrebbe quindi attribuita a una personalità su cui diverse forze politiche, concorrenti alle elezioni, trovassero un eventuale accordo. Questo equivoco, su cui hanno insistito nel corso degli anni numerosi politici italiani (Berlusconi, Zaia, Salvini, Meloni e molti altri), nasce nel 2006. Alle elezioni politiche di quell’anno, Forza Italia inserì nel proprio simbolo il nome del leader, con la dizione
“Berlusconi presidente”. Gli elettori, in questo modo, furono rafforzati nella falsa convinzione che il loro voto determinasse la scelta del presidente del Consiglio. Due anni dopo, alle elezioni del 2008, sia il Popolo della Libertà che il Partito Democratico inserirono nei propri loghi il nome del leader (Berlusconi e Veltroni) “presidente”, ed effettivamente nel 2008 – grazie anche al sistema elettorale cosiddetto “Porcellum” – Silvio Berlusconi, vinte le elezioni, divenne presidente del Consiglio. I governi che l’opposizione definisce “non legittimati dal popolo” 1. Nel 2011 cadde il governo Berlusconi e venne nominato presidente del Consiglio Mario Monti. La sua nomina è costituzionalmente legittima, in quanto l’incarico gli venne conferito dal Presidente della Repubblica e il suo esecutivo ottiene la fiducia dal Parlamento. 2. Di nuovo nel 2013 il Presidente del Consiglio non diventò il leader del partito che pure alla Camera vinse il premio di maggioranza (sempre col Porcellum), cioè Pierluigi Bersani, ma un altro esponente del Pd, Enrico Letta, su cui convergono i voti anche di parte del centro-destra. 3. Matteo Renzi nel 2014 è subentrato a Enrico Letta, sempre senza un passaggio elettorale, e sempre nel pieno rispetto del dettato costituzionale. 4. Il Presidente della Repubblica ha ora incaricato di fare un nuovo governo l’ex ministro degli Esteri dell’esecutivo guidato da Renzi, dimissionario, Paolo Gentiloni. Con la nuova legge elettorale al momento in vigore (e che vale per la sola Camera), l’“Italicum”, l’equivoco viene ulteriormente peggiorato. La legge prevede infatti che ipartiti indichino il nome del “capo” del partito o dell’organizzazione politica che – nel progetto che affiancava la nuova legge elettorale alla riforma costituzionale – avendo il suo partito vinto il premio di maggioranza alla Camera, sarebbe diventato presidente del Consiglio. Questa forzatura non è in ogni caso in grado di sovvertire il testo della Costituzione, in primo luogo perché la Costituzione non può essere contraddetta da leggi ordinarie (è gerarchicamente superiore come fonte del diritto) e in secondo luogo perché nella prassi non si potrebbe comunque escludere un “ribaltone” interno al partito che ha ottenuto il premio di maggioranza che porti alla scelta di un presidente del Consigliodiverso da quello nominalmente indicato come “capo” alle elezioni. Per approfondire:
Repubblica parlamentare Repubblica presidenziale Articolo 92 comma 2 della Costituzione Legge Calderoli (Porcellum) poi modificata in Consultellum Cos’è l’Italicum, legge elettorale valida per la Camera Tutte le “bufale” dell’Economist sul referendum costituzionale in Italia L’ Economist, dilettandosi in una delle sue campagna di stampa mal riuscite: cosiddetto bacio della morte alla parte politica che intende appoggiare, ha titolato : “Perché l’Italia dovrebbe votare No al suo referendum”. La stessa cosa accadde con Berlusconi nel 2001, che vinse a mani basse.ricordate ?“Unfit to lead Italy” . Altrettanto è accaduto per la Brexit e per le elezioni presidenziali americane che hanno visto trionfare Donald Trump. Anche in questi eventi il settimanale londinese (attualmente di proprietà di una finanziaria della famiglia Agnelli. Quel che sorprende di un settimanale notoriamente autorevole come l’Economist è l’attuale bassa qualità dei suoi articoli sull’ Italia , sconclusionati ed insussistenti al punto tale da poter presagire in buona fede ad un’immaginario un pesce d’aprile ritardatario. O a creare un finto sostegno per il No, in maniera tale da consentire a Renzi di poter affermare che i poteri forti sono contro di lui. Il
settimanale inglese sostiene che l’attuale presidente del Consiglio ha rappresentato una grande speranza di cambiamento e che il referendum, nelle sue intenzioni, serve a realizzare i cambiamenti di cui l’Italia ha bisogno per far crescere l’economia nazionale e non essere più “la principale minaccia alla sopravvivenza dell’euro”. “La riforma di Renzi non affronta il principale problema dell’Italia, che è la ritrosia alle riforme”, scrive il settimanale britannico. Un’errore iniziale che in ogni caso si potrebbe anche perdonare a chid a Londra scrive di vicende italiane . ”Tutti i benefici secondari -scrivono – sono superati dagli inconvenienti – primo fra tutti quello che, per fermare l’instabilità, si apra la strada a un “uomo forte” (…) nel Paese di Mussolini e Berlusconi”. Ma nessuno ha informato ed avvisato l’Economist che in realtà Berlusconi è uno dei più accesi sostenitori del fronte del No, e potrebbe tornare in gioco politicamente, proprio nel caso in cui gli italiani bocciassero la riforma della Costituzione. L’Economist sostiene che “Le dimissioni di Renzi potrebbero non essere la catastrofe temuta da molti in Europa. L’Italia potrebbe mettere insieme un governo tecnico ad interim, come ha fatto molte volte in passato. Se invece un referendum perduto scatenasse il collasso dell’euro, allora sarebbe un segnale che la moneta europea era così fragile che la sua distruzione era solo questione di tempo“. Il rischio che il settimanale britannico intravede è che in futuro a beneficiare di queste condizioni sarebbe Beppe Grillo: “Lo spettro di Grillo come primo ministro, eletto da una minoranza e tenuto al potere dalle riforme di Renzi, è una possibilità che molti italiani e una gran parte dell’Europa giudicano allarmante“. All’Economist , non conoscono limiti e sostengono che “Il Senato non sarà eletto”. In realtà non è così in quanto i senatori saranno
indicati dai cittadini al momento delle elezioni dei consigli regionali. E allo stesso modo, quando gli elettori dei sindaci delle aree metropolitane sapranno che il loro voto vale anche un giro in Senato ogni quindici giorni. Ma il fatto più divertente è un’altro. E cioè che l’Economist ha sede in uno Stato Paese in cui la camera alta si chiama House of Lord e non è elettiva sin dal quattordicesimo secolo, e che tutte le riforme in Inghilterra che negli ultimi vent’anni hanno provato a renderla tale sono naufragate. L’erba del vicino, a volte, è realmente la più verde… Se i sostenitori del No hanno smesso di leggere l’articolo per trovare qualche oggetto in ferro, scaramanzia a parte, qualche ragione ce l’hanno. Secondo indiscrezioni raccolte da La Repubblica, la decisione di schierarsi per il no avrebbe diviso l’Economist. Da una parte ci sarebbero la direttrice Zanny Minton Beddoes ed alcuni giovani editorialisti, dall’altra – schierati per il sì e fortemente perplessi sulla scelta opposta – il corrispondente dall’Italia, i responsabili dei servizi sull’Europa e altri analisti. Una fonte dall’interno della redazione del giornale britannico, racconta Enrico Franceschini corrispondente da Londra di Repubblica: “Abbiamo appoggiato Remain nel referendum sulla Ue e Hillary Clinton nelle presidenziali americana. La nostra decisione di appoggiare il No nel referendum in Italia potrebbe dunque essere considerata il bacio della morte“. Infatti, sarebbe il terzo endorsement sconfitto alle urne. Il battaglione Sammarco di Massimo Gramellini La cosa grave non è tanto che la sindaca Raggi abbia nominato assessore al Bilancio un ex magistrato economico che dice «sprid» invece di spread e «down ground» invece di downgrade. E non è neanche che i conti depressi della Capitale siano finiti nelle mani di un signore che chiese, inascoltato, 351 miliardi di euro alle agenzie di rating per avere complottato contro Berlusconi e che ha dato alle stampe un saggio, ingiustamente passato sotto silenzio, dal titolo “Giulio Andreotti, Paolo Conte e Tinto Brass” .
Non è neppure che questo portento, il dottor De Dominicis, le sia stato segnalato dall’avvocato Sammarco, socio del berlusconiano di estrema destra Cesare Previti. Né che la Raggi, in campagna elettorale, si sia dimenticata di avere fatto pratica nel loro studio per poi minimizzare quella frequentazione imbarazzante riducendola a fugace struscio (a giudicare dalle ultime mosse, non così fugace). La cosa grave è che la sindaca dei Cinquestelle sia salita al Campidoglio senza uno straccio di classe dirigente, mentre il principale scopo di un movimento politico dovrebbe essere quello di selezionare le personalità da inserire nelle istituzioni. Così la Raggi ha dovuto affidarsi al bricolage, mettendo insieme pezzi della destra romana e figure discusse come quell’assessora all’Ambiente che ha tenuto nascosto per mesi un avviso di garanzia. Ricordate quando Grillo arringava i grulli profetando che in una politica liberata dall’infame presenza dei partiti avrebbe fatto gestire i bilanci dalle casalinghe di Voghera? Evidentemente le casalinghe sono finite. O non sono mai cominciate. commento tratto dal quotidiano La Stampa La Raggi in Commissione Ecomafie: “Muraro indagata, l’ho saputo il 18
luglio e ho informato i 5 Stelle” di Antonello de Gennaro Le bugie hanno sempre le gambe corte, come nel caso di Virginia Raggi, che si preoccupa troppo della cellulite in fotografia e poco della millantata e dovuta trasparenza. Infatti è sin dallo scorso 18 luglio che gli esponenti del Movimento Cinque Stelle, Virginia Raggi e l’assessora all’ ambiente Paola Muraro sono a conoscenza che quest’ultima è iscritta nel registro degli indagati della Procura della repubblica di Roma. per “reati ambientali” ed “abuso d’ufficio“. Lo hanno ammesso e dichiarato all’inizio dell’audizione odierna a Palazzo San Macuto. La Sindaca Raggi ha persino aggiunto di aver informato i vertici del Movimento 5 stelle: “Ho avvisato alcuni parlamentari” ha detto, facendo i nomi di Paola Taverna e Stefano Vignaroli, che gliel’aveva presentata, ma anche di “un eurodeputato ed un consigliere regionale“. La Sindaca ha inoltre tenuto a precisare che non aveva informato invece Grillo e Di Maio. I quali non a caso, il primo tace ed il secondo parla di “complotti” inesistenti ! Accuse e repliche La giunta a guida M5S si è insediata lo scorso 7 luglio in Campidoglio . E fino a ieri la sindaca di Roma ed il suo assessore dell’Ambiente hanno sempre ripetuto senza esitare, mentendo e ben sapendo di mentire, che a loro l’iscrizione a «modello 21» nel registro degli indagati non risultava. La verità invece è che la Muraro invece risulta indagata sin dal 21 aprile.
Lo ha reso noto il presidente della Commissione Parlamentare Alessandro Bratti, che ha anche spiegato anche ciò che è successo subito dopo: il legale dell’assessora Muraro, l’ avv. Salvatore Sciullo, ha depositato in base all’articolo 335 del codice di procedura penale un’istanza al tribunale Penale di Roma, ed in data 18 luglio ha ottenuto attestazione ufficiale della presenza ed iscrizione a “modello 21” della sua assistita in qualità di “indagata”. Il sostituto procuratore della repubblica dr. Alberto Galanti contesta all’ Assessora dell’Ambiente Paola Muraro nel fascicolo RGNR n. 19790/16 di cui è titolare, la presunta avvenuta violazione dell’articolo 256 (comma 4) della legge 152 del 2006: “gestione dei rifiuti non autorizzata“. La Muraro si è difesa in Commissione accuando di essere vittima di “un attacco mediatico” ad aggiungendo: “Io avevo fatto richiesta ai sensi dell’ art. 335 come d’abitudine ogni anno e come mi ha insegnato a fare il mio avvocato avendo spesso rapporti con la pubblica amministrazione. Il 25 marzo non ero indagata“. L’Assessora Muraro nel corso dell’audizione ha anche aggiunto di non essere a conoscenza se l’iscrizione a suo carico come “indagata” riguardi il periodo in cui ha collaborato con l’Ama. E sull’inchiesta che la riguarda, con imbarazzante spavalderia ha detto : “Non ho niente da temere, anzi, ho molto da dire: quindi senz’altro andrò nei prossimi giorni dal pm” ignorando che in procura non si va come in un bar e che sarà quindi il Pm Galanti a decidere
quando, come e se ascoltarla. La Sindaca Virginia Raggi ad una domanda di Filiberto Zaratti, di Sinistra italiana ha risposto :”Sono venuta a conoscenza dell’iscrizione nel registro degli indagati verso la fine del mese di luglio, tra il 18 e il 19. Muraro ci ha dato prontamente la notizia e io ho informato i vertici del partito. Ho convocato una riunione con l’ex capo di gabinetto (Carla Raineri, che si è dimessa giovedì scorso) e valutato che il 335 non contenesse sufficienti elementi per decidere. Appena avremo maggiori informazioni prenderemo provvedimenti “. Affermazioni queste che però non trovano riscontro nell’odierna intervista rilasciata in merito, dalla dr.ssa Carla Raineri, che a differenza della Raggi, è un magistrato. Quando il Sen. Alessandro Baìratti, presidente della Commissione Parlamentare ha chiesto alla Raggi : “Non ha ritenuto a luglio che fosse inopportuno mantenere la delega e l’attività della gestione rifiuti a un assessore sottoposto a indagine proprio nel suo settore? ” la Sindaca di Roma ha insistito con la linea «garantista» ben diversa da quella sinora adottata in tutt’ Italia dal Movimento 5 stelle. “Per il fascicolo Muraro – ha risposto la sindaca – fino alla chiusura delle indagini non è possibile sapere quali sono le questioni per cui si sta indagando. Se lei mi chiede un giudizio di opportunità politica, io le rispondo che fino a che non leggo le carte non so quali sono i fatti che vengono contestati, non so le date, non sappiamo niente, l’unico che conosce il fascicolo è il pm”. Beppe Grillo e la Casaleggio Associati tacciono. Per loro il problema è l’ euro…come si vede visitando il sito del comico genovere
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