Elezioni 2018: saranno 35 collegi del Sud a decidere la partita del voto - Il Corriere del Giorno

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Elezioni 2018: saranno 35 collegi del Sud a decidere la partita del voto - Il Corriere del Giorno
Elezioni 2018: saranno 35 collegi
del Sud a decidere la partita del
voto
di Marco Castelnuovo

                                          Chi vince le prossime
elezioni? È possibile ottenere una maggioranza assoluta in un sistema
che vede tre poli alternativi? Per scoprirlo, bisogna capire cosa sta
succedendo nei singoli collegi uninominali, come i candidati sul
territorio stanno spostando voti e se la vittoria di una coalizione o
di un’altra nelle zone in bilico potrà avere ripercussioni sul dato
finale. La situazione è abbastanza cristallizzata. Il centrodestra è
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in largo vantaggio al nord, il centrosinistra al centro, mentre in
buona parte del sud è sfida aperta tra Movimento cinque stelle e
centrodestra. Se la coalizione di Berlusconi, Salvini e Meloni,
riuscisse a imporsi anche nel Mezzogiorno potrebbe ottenere la
maggioranza assoluta dei seggi.

Leader e peones

Le campagne elettorali sono due: una, mediatica e incentrata sui
leader, è quella per il proporzionale, che determinerà i due terzi del
Parlamento. L’altra, sul territorio, riguarda 348 collegi uninominali
(232 alla Camera, 116 al Senato). Lì corrono alcuni leader (mai uno
contro l’altro) qualche big e molti peones: la vittoria è certa per
chi prende un voto più egli altri.

 Il sito Rosatellum.info

Un gruppo di studiosi legati a Quorum, YouTrend e Reti, ha
elaborato Rosatellum.info, un’analisi (a pagamento !) collegio per
collegio basata su sondaggi, serie storiche e trend in grado di
determinare quanto un collegio sia «sicuro» e quanto sia incerto,
ovvero i collegi nei quali la differenza tra le prime due coalizioni è
inferiore al cinque per cento dei voti. Sono i collegi contendibili,
quelli nei quali un candidato o una campagna azzeccata possono
cambiare il corso delle cose. Secondo Rosatellum.info ce ne sono 113,
78 alla Camera e 35 al Senato.

«Effetto trascinamento»
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Spostare gli equilibri nei collegi maggioritari non solo garantisce
parlamentari eletti, ma ha anche un «effetto trascinamento» — seppur
piccolo — sul collegio proporzionale soprastante, che è formato dalla
«somma» di diversi collegi maggioritari affiancati.

Il nord è deciso

Al nord la partita è quasi chiusa. Il centrodestra ha largo margine di
vantaggio in buona parte dei collegi e quelli incerti sono solo 29 (su
138), 21 alla Camera e 8 al Senato. Berlusconi è fuori dai giochi solo
in due dei collegi incerti del nord (Torino 2 e Torino 4), mentre in
Liguria combatterà alla pari praticamente ovunque, tranne che in due
dei 4 collegi di Genova, saldamente in mano ai Cinque Stelle. Discorso
simile per il Senato. Degli otto collegi incerti al nord per la
conquista di Palazzo Madama, solo uno è conteso tra Movimento 5 Stelle
e centrosinistra ( Torino), mentre in tutti gli altri la sfida sarà
«classica» tra la coalizione di Berlusconi e quella di Renzi (sono 5
in totale: in Lombardia solo uno, nella zona di Milano che racchiude
il centro e tutta la parte est).

La variante adriatica

Al centro, invece, molti collegi sono già considerati sicuri per il
centrosinistra e anche in quelli incerti, Pd e alleati sono sempre in
vantaggio. La roccaforte rossa tiene, anche se la spina nel fianco di
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Liberi e Uguali rende molti collegi da «probabile» (percentuale
superiore a oltre il 10% sul secondo arrivato) a «tendente» (tra il 5
e il 10%). Diverso però il discorso sul litorale adriatico, dove il
Movimento 5 Stelle ha sempre ottenuto buoni risultati. Da Rimini a
Bari ci sono 18 collegi e sono quasi tutti incerti. Le coalizioni si
«spartiscono» equamente le regioni. Il centrosinistra è in vantaggio
nei collegi incerti dell’alto Marche (Pesaro, Fano, Ancona); il
Movimento 5 Stelle guida da Ascoli a Vasto. Da Cerignola a Bari
invece, il centrodestra è davanti alla lista di Di Maio.

Dove si decidono le elezioni

E per tutto il sud sarà così. La vera sfida è tra centrodestra e
Movimento 5 Stelle nei collegi del sud. Lì il centrodestra può trovare
quella trentina di seggi (tra maggioritario e proporzionale) che
ancora gli mancano per ottenere la maggioranza assoluta in entrambe le
Camere. La gran parte dei collegi del sud e delle isole è infatti un
testa a testa tra Berlusconi e Di Maio. Nell’area metropolitana di
Napoli nulla è deciso: di nove collegi alla Camera, solo due sono — di
fatto — già assegnati. Negli altri se la giocano, compreso il collegio
di Acerra dove c’è una delle pochissime sfide tra big: quella tra lo
stesso Luigi Di Maio, candidato premier M5S, e Vittorio Sgarbi per il
centrodestra.

In tutto il Sud c’è un unico collegio alla Camera che probabilmente
andrà al centrosinistra, quello di Potenza. Ce ne sono altri due
«incerti», quello di Potenza al Senato (che racchiude anche il
collegio di Matera alla Camera) e quello di Corigliano Calabro. Per il
resto, è sfida a due — aperta e incerta — in ben 35 collegi tra Camera
e Senato. Intere regioni sono in bilico: Sicilia, Campania, Calabria.
Qualora il centrodestra facesse filotto, cioè riuscisse a vincere i
seggi in bilico anche in quelli in cui è per ora dietro, riuscirebbe
nell’impresa di ottenere quei seggi in più che a oggi gli mancano per
raggiungere i 315 seggi a Montecitorio e i 158 a Palazzo Madama.
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*opinione tratta dal Corriere della Sera

Processo Escort: trasferita a
Milano l’ indagine su Berlusconi
accusato di intralcio alla
giustizia per aver pagato i
testimoni

                                            ROMA–      Il  reato    di
intralcio alla giustizia contestato dai pm di Bari all’ex premier,
Silvio Berlusconi, nell’indagine stralcio nata dal “processo Escort”
sarà valutato per competenza territoriale dalla magistratura lombarda.

La Procura di Bari, nell’ambito del procedimento per falsa
testimonianza nei confronti di quattro ragazze, testimoni in quel
processo, e dell’allora autista di Gianpaolo Tarantini, ha infatti
stralciato la posizione dell’ex premier Berlusconi ed ha trasmesso per
competenza territoriale gli atti alla Procura di Milano.
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Ioana Visan

Stralciata anche la posizione della rumena Ioana Visan un’altra delle
ragazze testimoni nel processo barese,     protagonista della stessa
vicenda che coinvolge Berlusconi. In particolare l’ex presidente del
Consiglio avrebbe fatto consegnare alla ragazza 10mila euro per
“condizionare indebitamente la testimone per compromettere la
genuinità del suo narrato” hanno sostenuto i giudici baresi nella
sentenza “escort” a seguito della quale il Tribunale barese ha
disposto la trasmissione degli atti alla Procura perché procedesse nei
confronti dell’ex premier.

“Poco prima di recarsi a Bari per rendere la sua testimonianza, la
donna – scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza ” avrebbe
ricevuto una somma di denaro di importo pari a diecimila euro che
doveva solo apparentemente servire a coprire le spese di viaggio ma
che, a parare del Tribunale, era, invece, finalizzata alla cosiddetta
falsità giudiziale”.

La vicenda, trasferita alle valutazioni del Tribunale di Bari, era
agli atti di un procedimento avviato dalla Procura di Milano motivo
per cui la Procura barese ha trasmesso gli atti per competenza ai
colleghi di Milano. A rivelarlo agli inquirenti di Milano in
un’audizione del 17 febbraio 2015, era stato il “famoso” ragioniere
Giuseppe Spinelli, amministratore delle finanze e dei conti bancari di
Berlusconi .
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Sulle bugie affermate dalle altre quattro ragazze Sonia Carpentone,
Vanessa Di Meglio, Barbara Montereale e Roberta Nigro,     e dall’ex
autista di Gianpi Tarantini, Dino Mastromarco, che accompagnava le
ragazze alle “cene eleganti” da Belrusconi (allora Presidente del
Consiglio) , la Procura di Bari ha chiuso nei giorni scorsi le
indagini per falsa testimonianza sostenendo che le ragazze abbiano
mentito quando hanno dichiarato nel dibattimento negando di essersi
prostituite con Berlusconi e di essere state poi pagate per quelle
prestazioni. A Mastromarco è contestato, invece, di aver detto il
falso quando ha riferito ai giudici di non sapere perché le giovani
andassero a casa del Cavalieri e quali fossero le abitudini sessuali
dell’allora premier.

Vendola, torno in politica a
sinistra. Emiliano? “Una grande
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delusione”

                                           ROMA – “Io non sono mai
fuggito dalla politica. La politica è una malattia da cui non si
guarisce. Torno, anche se resto in seconda linea“. Lo ha dichiarato
l’ex governatore della Puglia, Nichi Vendola, tornato sul palcoscenico
politico pubblico con diverse interviste, e recentemente intervistato
in una puntata del programma televisivo “Il Graffio” del TgNorba,
interamente dedicata a lui,     parlando di politica, della Regione
Puglia , della propria vita privata e del suo rapporto con il piccolo
Tobia (20 mesi) nato all’estero con il sistema della “gravidanza per
altri“.

Vendola si è detto deluso per quello che Emiliano “avrebbe potuto
essere e non è“, e “sconcertato da “questa rivendicazione
dell’autonomia“. “Questo simpatizzare con i referendum del Lombardo-
Veneto, magari con qualche nostalgia neo-borbonica – ha detto – non ha
senso“. “Io auguravo al mio successore di essere veramente in grado,
come aveva annunciato nella lunghissima campagna elettorale, di fare
molto meglio di come avessimo fatto noi”, ma – ha detto –
“l’impressione è di una regione in affanno, stanca, senza un’idea di
cosa sia il governo, senza un’idea della Puglia. Sono disilluso come
molti pugliesi. La primavera pugliese si è trasformata in un
inverno”. Uno scenario che costituirà sicuramente in Puglia il filo
conduttore della campagna elettorale d’elettorato che si colloca a
sinistra del Pd ed alla sua opposizione).
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Michele Emiliano e Nichi Vendola

L’opinione di Nichi Vendola sulla Puglia amministrata dal suo
successore Michele Emiliano è drastico. “Sento una delusione molto
grande per ciò che poteva essere e non è.– dice l’ex governatore –
Auguravo al mio successore di fare molto meglio di noi. Vedo invece
una Regione stanca, in affanno, senza idea di cosa sia il governo e di
cosa sia la Puglia. Sono due anni e mezzo che non vediamo nei Consigli
regionali provvedimenti di sostanza. Ho auspicato che Michele facesse
bene il suo lavoro, oggi sono disilluso“.

“Trovo stupefacente la simpatia di Emiliano verso il referendum
lombardo-veneto e le nostalgie neo borboniche“. Vendola si augura che
Emiliano sull’ Acquedotto Pugliese “non rinneghi la scelta di tenere
pubblico e non privatizzato l’acquedotto“. ed aggiunge manifestando
“la mia delusione cocente verso Emiliano non è animosità contro di
lui, è amore spasmodico per la Puglia, terra che merita di essere
governata e non vezzeggiata su Facebook“.

“Perché dove c’erano amministratori noti per profili di competenza e
moralità – ha detto Vendola – oggi ci sono consigli di amministrazione
con dentro profili di non elevata competenza, che consentono ai
partiti di ficcare il naso in vicende in cui dovrebbero essere
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osservatori esterni. Mi sembra – ha concluso – che si voglia occupare
ogni spazio per garantirsi consenso elettorale: a questo servono le
Asl, l’Acquedotto Pugliese, Aeroporti di Puglia?“.

“In Puglia la sinistra c’è. L’unica spina nel fianco di Emiliano è il
consigliere di Sinistra Italiana, Mino Borraccino”. “Il centrodestra –
ha aggiunto     Vendola – sembra incapace di svolgere un ruolo
fondamentale che è quello dell’opposizione, il M5S non sembra in grado
di andare oltre espressioni come ‘vergogna’“. “Noi in dieci anni – ha
aggiunto riferendosi ai suoi due mandati da governatore della Regione
Puglia – abbiamo fatto cose buone anche grazie ad un’opposizione che
ha fatto cose buone. L’ ex capogruppo alla Regione Rocco Palese ora
parlamentare di Forza Italia si spulciava ogni carta, ti costringeva
ad avere gli occhi aperti su tutto, ad alzare la qualità del governo“.

“Oggi le riunioni dei consigli regionali sono una fiera della vanità,
durano mezz’ora, non si discute di nulla. Pensate che invece di
parlare di lotta ai poveri e agli indigenti – ha concluso – hanno
dedicato cinque sedute del Consiglio Regionale al Corecom Puglia, per
aumentare il numero dei consiglieri di questo organismo, che è
francamente una schifezza“.

Vendola chiude ad un eventuale accordo con il Pd: “Renzi, dopo aver
stracciato il programma elettorale scritto da me e Bersani nel 2013,
ha realizzato il programma di Berlusconi. Fare accordi con quelli che
hanno scritto il Jobs Act, approvato lo Sblocca Italia e messo in atto
l’orrore della Buona scuola è impensabile. Il governo del Pd ha
aumentato le diseguaglianze e realizzato un programma di destra“. E
parlando dell’apertura di Renzi a      Napoli, aggiunge   “E’ come se
dicesse voi suicidatevi e io vinco. E se pure ci alleassimo, non
porteremmo più voti a Renzi ma solo meno voti a noi».
Allora con chi se non con il Pd ? “Con chi vuol ripartire dal lavoro e
dalla vita materiale delle persone. Con un leader capace di fare la
traduzione laica del pensiero radicale di papa Francesco” Vendola non
trascura “quel ragazzo di sinistra che è la seconda carica dello
Stato” riferendosi al presidente del Senato, Piero Grasso, che ha
lasciato il Pd, dopo il voto sulla legge elettorale.

                                           Vendola “privato”. Il resto
dell’intervista televisiva è stata una garbata incursione del
giornalista che lo intervistava nel Vendola “privato”, filmato nella
sua abitazione romana in tuta mentre prepara il caffè, mostrando il
suo vecchio studio “smantellato per far spazio alla stanza del piccolo
Tobia“.

“Nei dieci anni in cui sono stato presidente facevo fatica ad
addormentarmi, conscio della responsabilità che avevo nei confronti di
4 milioni di persone. Ora mi sveglio con il sorriso di un cucciolo
umano. Sono tormentato dalle insistenze dei pugliesi ed ho deciso di
tornare sulla scena politica ma senza la voglia di calcare la prima
linea: vorrei dare consigli e trasformarmi in una specie di ostetrica
per far nascere una nuova creatura politica».

È il quarto polo, quello di Sinistra Italiana. E Nichi Vendola vuole
esserne uno dei padri.

I troppi volti di Emiliano
di Angelo Rossano
L’ultimo fronte aperto è quello dell’autonomismo. “Gli Stati nazionali
– ha detto ieri in sintesi il governatore Emiliano in una trasmissione
radiofonica della Rai – ancora oggi interferiscono e non riescono a
gestire le grandi questioni di loro competenza come immigrazione,
difesa e fisco”. Un’affermazione fatta all’indomani del disastro
spagnolo e discutendo proprio del referendum per l’indipendenza della
Catalogna. Quindi un’affermazione non improvvisata, ma anzi
corroborata dall’idea che non sia “più accettabile l’idea che il Nord
sostenga totalmente il Mezzogiorno: io non sono – precisa il
governatore – su una posizione diversa rispetto a Toti, Maroni e
Zaia“.

                                          Quindi Emiliano sembra
voler affermare un modello che richiama l’autonomismo in camicia
verde, una sorta di neoleghismo del Sud all’incontrario. Lo Stato,
dunque, interferisce. Del resto -ci deve essere questo alla base del
ragionamento- non ha forse Emiliano vinto il referendum contro Renzi
che prevedeva di limitare le aree di competenza delle Regioni? Si
immaginano facilmente i temi sottintesi dal presidente della Regione:
c’è l’approdo Tap (che la Regione vorrebbe in un punto diverso da
quello stabilito), ma nel non detto ci sono senz’altro anche Ilva,
Trivelle, decarbonizzazione e Xylella. Una posizione politica che
afferma il primato del “no“» (pugliesi e meridionali),
“orgogliosamente noi“, fieri anche se poveri, sugli altri.

Ogni forma di forte identificazione, però, presuppone -e quindi crea-
separazione. Insomma, questo è un sentiero politico rischioso il cui
punto di arrivo è incomprensibile, inconfessabile oppure inesistente.

Fedele a un modello di comportamento politico che ha contraddistinto
la sua azione, Emiliano aggiunge un nuovo profilo alla poliedrica
sfaccettatura del suo agire. Zelig è al governo. Ora è autonomista. Ma
è anche ambientalista. Emiliano – scrisse già Francesco Strippoli
sul Corriere – utilizza l’ambiente per caratterizzarsi politicamente:
“L’ambiente diventa così il pilastro portante che tutto regge e
connette”, insomma – si disse – una via di mezzo tra Schwarzenegger e
Al Gore.

Ma Emiliano è anche berlusconiano, nel senso della manifesta simpatia
che si rese chiassosamente palese con lo striscione di saluto a Silvio
sventolante dai balconi del municipio. È pentastellato, fino ad
offrire un ruolo in giunta ai Cinque stelle. È neoborbonico, se si
pensa alla mozione sulla giornata della memoria. È no-vax e no tap.

Tante maschere confondono e non rendono possibile capire quale intenda
indossare per la Puglia. Quella che a noi preme di più.

*editoriale tratto dal Corriere del Mezzogiorno

Voto nei circoli Pd: Matteo Renzi
raggiunge più del doppio di Andrea
Orlando. Emiliano raggiunge il 6%

                                           In molti circoli Pd si vota
ancora fino alla mezzanotte, e quindi i dati non sono ancora
definitivi, ma secondo una nota diffusa dall’organizzazione del
Partito Democratico sulla base dei risultati definitivi di circa 4mila
circoli del Pd nelle votazioni per la corsa a tre per la segreteria
nazionale l’ex segretario Matteo Renzi ha conquistato il 68,22% delle
preferenze (con 141.245 voti), mentre il ministro della Giustizia,
Andrea Orlando, il 25,42% (52630 voti) e fanalino di coda il
presidente della Regione della Puglia, Michele Emiliano, il 6,36%
(13168 preferenze)

Il dato pressochè finale parla di 266.726 votanti ai congressi di
circolo, pari al 59,29% dei 449.852 iscritti: un’affluenza superiore
al precedente congresso del Pd, nel 2013, al quale aveva partecipato
il 55,34% degli iscritti. Ai congressi del Pci, giusto per offrire al
lettore un parametro di comparazione, in media votava appena il 20%
degli iscritti, ad eccezione dell’ultimo, quello di Rimini in
cui venne deciso lo scioglimento del partito e la nascita del Pds,
occasione in cui i votanti furono circa il 30% degli aventi diritto,
quindi circa la metà dei votanti della primarie di quest’anno.

Le cifre ufficiali verranno comunicate solo domani. L’affluenza al
voto degli iscritti al Partito Democratico per i congressi scrutinati
è del 58,1%, con una proiezione finale di votanti compresa tra 235mila
e 255mila.

Dal suo comitato Andrea Orlando con una nota si contestano sia le
percentuali relative al consenso ottenuto dai singoli candidati che
quelle relative all’affluenza: “L’affluenza si aggirerà intorno a
200.000 votanti. Orlando al momento ha un consenso intorno al 29,6%,
Renzi intorno al 62,4% ed Emiliano all’8%”. “Siamo stupiti –
aggiunge la nota- che a scrutinio ancora aperto di molti circoli e con
dati ancora incerti, l’organizzazione del Pd abbia fornito questi
risultati”.

Ai microfoni di Radio Cusano Campus , l’emittente radiofonico
dell’Università Niccolò Cusano, Orlando ha commentato: “Il mio è un
risultato che vedo con molta soddisfazione. Tenete presente che la mia
candidatura è arrivata nelle ultime ore utili, in un partito che ha
perso circa un terzo degli iscritti, e quegli iscritti probabilmente
sono persone che manifestavano una critica nei confronti della linea
di Renzi, con il 90% del gruppo dirigente schierato con Renzi e con
una partecipazione che non è stata eccezionale, visto che Renzi in
queste primarie prende esattamente gli stessi voti che aveva preso
l’altra volta”.

Secondo Orlando la partita è ancor aperta . “Aver messo in piedi una
rete che è presente in tutto il territorio e che rende competitiva la
mia candidatura per il 30 di aprile non era affatto scontato e oggi
invece credo che si siano realizzate queste condizioni e quindi si
apra un’altra partita”.
Renzi ancora una volta affida ai social
il proprio commento. “Il PD è un partito democratico. Nel nome. E nei
fatti. Decidono gli iscritti nel congresso e poi nelle primarie. Mesi
di polemiche e scissioni. Poi la parola passa agli iscritti. Migliaia
di circoli, migliaia di dibattiti, centinaia di interventi. Alla fine
si vota, grazie a uno sforzo democratico di volontari e militanti che
non ha paragoni in Italia. Lo ridico perché sia chiaro: nessuno fa ciò
che facciamo noi in termini di democrazia e trasparenza. Oggi Guido
Crosetto, già esponente della destra italiana e componente dei governi
Berlusconi, scrive su Twitter: “Lo dico per l’ennesima volta: invidio
il sistema democratico del PD. Dovrebbe essere obbligatorio per tutti
i partiti.” Prima o poi qualche commentatore si accorgerà anche di
questo“

“Alla fine del primo round abbiamo ottenuto oltre i due terzi dei
voti”. ha aggiunto Renzi. “Aspettiamo i dati ufficiali per dire la
percentuale esatta ma la matematica non è un’opinione. Domenica a Roma
i risultati saranno proclamati e in quella sede lanceremo lo sprint
per arrivare alle primarie di domenica 30 aprile. Senza attaccare i
nostri avversari interni perché noi non parliamo male degli altri: noi
raccontiamo che idee abbiamo per il PD e per l’Italia. Qualcuno dice
che in qualche caso ci sono stati dei problemi e delle incongruenze:
sono il primo a dire che dove ci sono problemi riconosciuti (ammesso
che ci siano) è giusto che si intervenga con decisione invalidando il
voto. Noi siamo i primi ad avere interesse che tutto sia trasparente:
perché una vittoria così larga e così bella non sia sporcata dalle
polemiche del giorno dopo. Allo stesso tempo chiediamo a tutti di
riconoscere la verità dei numeri che non possono essere oscurati da
nessuna polemica. Quando si vince, si vince. Quando si perde, si
ammette. Punto.”

Per il senatore Pd Francesco Verducci, del Coordinamento nazionale
della Mozione Renzi, quella che esce dai circoli Pd è “una grande
prova di democrazia, di trasparenza, di impegno che non ha paragoni in
Italia e che è un’assoluta rarità anche nel panorama europeo. Il Pd
sta dimostrando vitalità e energia che nessun altro partito o
movimento possiede, grazie alla passione di migliaia di iscritti e
volontari. Chi fa polemica e prova a sminuire e delegittimare quanto
sta avvenendo fa un torto alla comunità del Pd che sta dimostrando di
esserci, di voler contare e di avere le idee molto chiare”.

“Sono molto soddisfatto per il consenso così alto ricevuto da Renzi
nei nostri iscritti – commenta Lorenzo Guerini, coordinatore della
Mozione Renzi – è un grande risultato. La base del Pd ha espresso un
giudizio inequivocabile: Renzi è per gli iscritti il segretario in cui
ripongono la loro fiducia e le loro speranze. Le dimensioni del
risultato sono davvero importanti, per certi versi sorprendenti“.

Soddisfazione è stata espresso anche dal ministro Maurizio Martina,
che ha sottolineato come sia “stata una bellissima prova. Stiamo
parlando di migliaia di persone che hanno discusso, partecipato e
scelto, dando forza all’idea di un partito fatto dall’impegno di
tanti, uniti dalla volontà di dare una mano all’Italia. La netta
affermazione della nostra proposta con Matteo Renzi ci dà fiducia e
forza per i prossimi impegni. È il primo passo che ora va portato alle
primarie degli elettori di domenica 30 aprile. Per un Pd più forte e
più aperto, alternativo a Berlusconi, Grillo e Salvini, continueremo a
proporre il nostro progetto per l’Italia. Avanti, insieme”.

Da anticraxiano vi dico: gli
dobbiamo qualcosa
di Piero Sansonetti

Il 19 gennaio del 2000, e cioè 17 anni fa, moriva Bettino Craxi. Aveva
65 anni, un tumore al rene curato male, un cuore malandato, curato
malissimo.

Il cuore a un certo punto si fermò. Non fu fatto molto per salvarlo.
Non fu fatto niente, dall’Italia. Craxi era nato a Milano ed è morto
ad Hammamet, in Tunisia, esule. Era stato segretario del partito
socialista per quasi vent’anni e presidente del Consiglio per più di
tre. In Italia aveva subito condanne penali per finanziamento illecito
del suo partito e per corruzione. Quasi dieci anni di carcere in
tutto. Prima delle condanne si era trasferito in Tunisia. Se fosse
rientrato sarebbe morto in cella.

Craxi ha sempre respinto l’accusa di corruzione personale. Non c’erano
prove. E non furono mai trovati i proventi. In genere quando uno
prende gigantesche tangenti e le mette in tasca, poi da qualche parte
questi soldi saltano fuori. In banca, in acquisti, in grandi ville,
motoscafi. Non furono mai trovati. I figli non li hanno mai visti. La
moglie neppure. Lui non li ha mai utilizzati. Non ha lasciato
proprietà, eredità, tesori. Craxi era un malfattore, o è stato invece
uno statista importante sconfitto da una gigantesca operazione
giudiziaria? La seconda ipotesi francamente è più probabile. La prima
è quella più diffusa nell’opinione pubblica, sostenuta con grande
impegno da quasi tutta la stampa, difesa e spada sguainata da gran
parte della magistratura.

Craxi era stato uno degli uomini più importanti e potenti d’Italia,
negli anni Ottanta, aveva goduto di grande prestigio internazionale.
Si era scontrato e aveva dialogato con Reagan, col Vaticano, con
Israele e i paesi Arabi, con Gorbaciov, con quasi tutti i leader
internazionali. Aveva sostenuto furiose battaglie con i comunisti in
Italia, con Berlinguer e Occhetto e D’Alema; e anche con la Dc, con De
Mita, con Forlani, epici gli scontri con Andreotti; con la Dc aveva
collaborato per anni e governato insieme. Bene, male? Poi ne
discutiamo. Aveva anche firmato con la Chiesa il nuovo concordato.

Morì solo solo. Solo: abbandonato da tutti. Stefania, sua figlia,
racconta di quando la mamma la chiamò al telefono, nell’autunno del ‘
99, e le disse che Bettino era stato ricoverato a Tunisi, un attacco
di cuore. Lei era a Milano, si precipitò e poi cercò di muovere mari e
monti per fare curare il padre. Non si mossero i monti e il mare restò
immobile. Craxi fu curato all’ospedale militare di Tunisi. Stefania
riuscì ad avere gli esami clinici e li spedì a Milano, al San
Raffaele, lì aveva degli amici. Le risposero che c’era un tumore al
rene e che andava operato subito, se no poteva diffondersi. Invece
passarono ancora due mesi, perché a Tunisi nessuno se la sentiva di
operarlo. Arrivò un chirurgo da Milano, operò Craxi in una sala
operatoria dove due infermieri tenevano in braccio la lampada per fare
luce. Portò via il rene, ma era tardi. Il tumore si era propagato,
doveva essere operato prima, si poteva salvare, ma non ci fu verso.

In quei giorni drammatici dell’ottobre 1999 Craxi era caduto in
profonda depressione. Non c’è da stupirsi, no? Parlava poco, non aveva
forse voglia di curarsi. Era un uomo disperato: indignato, disgustato
e disperato.

Stefania mi ha raccontato che lei non sapeva a che santo votarsi: non
conosceva persone potenti. Il Psi non esisteva più. Chiamò Giuliano
Ferrara e gli chiese di intervenire con D’Alema. Il giorno dopo
Ferrara gli disse che D’Alema faceva sapere che un salvacondotto per
l’Italia era impossibile, la Procura di Milano avrebbe immediatamente
chiesto l’arresto e il trasferimento in carcere. Stefania chiese a
Ferrara se D’Alema potesse intervenire sui francesi, i francesi sono
sempre stati generosi con la concessione dell’asilo politico. Era più
che naturale che glielo concedessero. Curarsi a Parigi dava qualche
garanzia in più che curarsi all’ospedale militare di Tunisi.

Passarono solo 24 ore e Jospin, che era il presidente francese,
rilasciò una dichiarazione alle agenzie: “Bettino Craxi non è
benvenuto in Francia”.

Quella, più o meno, fu l’ultima parola della politica su Craxi. Fu la
parola decisiva dell’establishment italiano e internazionale. Craxi
deve morire.

Il 19 gennaio Craxi – per una volta – obbedì e se andò all’altro
mondo. E’ curioso che quasi vent’anni dopo la sua morte, e mentre cade
il venticinquesimo anniversario dell’inizio della stagione di
Tangentopoli ( Mario Chiesa fu arrestato il 17 febbraio del 1992, e da
lì cominciò tutto, da quel giorno iniziò la liquidazione della prima
repubblica), qui in Italia nessuno mai abbia voluto aprire una
riflessione su cosa successe in quegli anni, sul perché Craxi fu
spinto all’esilio e alla morte, sul senso dell’inchiesta Mani Pulite,
sul peso della figura di Craxi nella storia della repubblica. Ci provò
Giorgio Napolitano, qualche anno fa. Ma nessuno gli diede retta.

Vogliamo provarci? Partendo dalla domanda essenziale:
Statista o brigante.

Forse sapete che Bettino Craxi negli anni Ottanta scriveva dei corsivi
sull’Avanti! , il giornale del suo partito, firmandoli Ghino di Tacco.
Ghino era un bandito gentiluomo vissuto verso la metà del 1200 dalle
parti di Siena, a Radicofani. Boccaccio parla di lui come una brava
persona. A Craxi non dispiaceva la qualifica di brigante. Perché era
un irregolare della politica. Uno che rompeva gli schemi, che non
amava il political correct. Però non fu un bandito e fu certamente uno
statista. Persino Gerardo D’Ambrosio, uno dei più feroci tra i Pm del
pool che annientò Craxi, qualche anno fa ha dichiarato: “non gli
interessava l’arricchimento, gli interessava il potere politico”. Già:
Craxi amava in modo viscerale la politica.

La politica e la sua autonomia. Attenzione a questa parola di origine
greca: autonomia. Perché è una delle protagoniste assolute di questa
storia. Prima di parlarne però affrontiamo la questione giudiziaria.
Era colpevole o innocente? Sicuramente era colpevole di finanziamento
illecito del suo partito. Lo ha sempre ammesso. E prima di lasciare
l’Italia lo proclamò in un famosissimo discorso parlamentare,
pronunciato in un aula di Montecitorio strapiena e silente. Raccontò
di come tutti i partiti si finanziavano illegalmente: tutti. Anche
quelli dell’opposizione, anche il Pci. Disse: “se qualcuno vuole
smentirmi si alzi in piedi e presto la storia lo condannerà come
spergiuro“.

Beh, non si alzò nessuno. Il sistema politico in quegli anni – come
adesso – era molto costoso. E i partiti si finanziavano o facendo
venire i soldi dall’estero o prendendo tangenti. Pessima abitudine?
Certo, pessima abitudine, ma è una cosa molto, molto diversa dalla
corruzione personale. E in genere il reato, che è sempre personale e
non collettivo, non era commesso direttamente dai capi dei partiti, ma
dagli amministratori: per Craxi invece valse la formula, del tutto
antigiuridica, “non poteva non sapere”.

Craxi era colpevole. Nello stesso modo nel quale erano stati colpevoli
De Gasperi, Togliatti, Nenni, la Malfa, Moro, Fanfani, Berlinguer, De
Mita, Forlani… Sapete di qualcuno di loro condannato a 10 anni in
cella e morto solo e vituperato in esilio?

Ecco, qui sta l’ingiustizia. Poi c’è il giudizio politico. Che è
sempre molto discutibile. Craxi si occupò di due cose. La prima era
guidare la modernizzazione dell’Italia che usciva dagli anni di ferro
e di fuoco delle grandi conquiste operaie e popolari, e anche della
grande violenza, del terrorismo, e infine della crisi economica e
dell’inflazione. Craxi pensò a riforme politiche e sociali che
permettessero di stabilizzare il paese e di interrompere l’inflazione.

La seconda cosa della quale si preoccupò, strettamente legata alla
prima, era la necessità di salvare e di dare un ruolo alla sinistra in
anni nei quali, dopo la vittoria di Reagan e della Thatcher, il
liberismo stava dilagando. Craxi cercò di trovare uno spazio per la
sinistra, senza opporsi al liberismo. Provò a immaginare una sinistra
che dall’interno della rivoluzione reaganiana ritrovava una sua
missione, attenuava le asprezze di Reagan e conciliava mercatismo e
stato sociale. Un po’ fu l’anticipatore di Blair e anche di Clinton (
e anche di Prodi, e D’Alema e Renzi…). Craxi operò negli anni
precedenti alla caduta del comunismo, ma si comportò come se la fine
del comunismo fosse già avvenuta. Questa forse è stata la sua
intuizione più straordinaria. Ma andò sprecata. Personalmente non ho
mai condiviso quella sua impresa, e cioè il tentativo di fondare un
liberismo di sinistra. Così come, personalmente, continuo a pensare
che fu un errore tagliare la scala mobile, e che quell’errore di Craxi
costa ancora caro alla sinistra. Ma questa è la mia opinione, e va
confrontata con la storia reale, e non credo che sia facile avere
certezze.

Quel che certo è che Craxi si misurò con questa impresa mostrando la
statura dello “statista”, e non cercando qualche voto, un po’ di
consenso, o fortuna personale. Poi possiamo discutere finché volete se
fu un buono o un cattivo statista. Così come possiamo farlo per De
Gasperi, per Fanfani, per Moro.

E qui arriviamo a quella parolina: l’autonomia della politica. Solo in
una società dove esiste l’autonomia della politica è possibile che
vivano ed operano gli statisti. Se l’autonomia non esiste, allora i
leader politici sono solo funzionari di altri poteri. Dell’economia,
della magistratura, della grande finanza, delle multinazionali…

In Italia l’autonomia della politica è morta e sepolta da tempo. L’ha
sepolta proprio l’inchiesta di Mani Pulite. C’erano, negli anni
Settanta, tre leader, più di tutti gli altri, che avevano chiarissimo
il valore dell’autonomia. Uno era Moro, uno era Berlinguer e il terzo,
il più giovane, era Craxi. Alla fine degli anni Ottanta Moro e
Berlinguer erano morti. Era rimasto solo Craxi. Io credo che fu
essenzialmente per questa ragione che Craxi fu scelto come bersaglio,
come colosso da abbattere, e fu abbattuto.

Lui era convinto che ci fu un complotto. Sospettava che lo guidassero
gli americani, ancora furiosi per lo sgarbo che gli aveva fatto ai
tempi di Sigonella, quando ordinò ai Carabinieri di circondare i
Marines che volevano impedire la partenza di un un aereo con a bordo
un esponente della lotta armata palestinese. I Carabinieri spianarono
i mitra. Si sfiorò lo scontro armato. Alla fine, in piena notte,
Reagan cedette e l’aereo partì. Sì, certo, non gliela perdonò.

Io non credo però che ci fu un complotto. Non credo che c’entrassero
gli americani. Penso che molte realtà diverse ( economia, editoria,
magistratura) in modo distinto e indipendente, ma in alleanza tra
loro, pensarono che Tangentopoli fosse la grande occasione per
liquidare definitivamente l’autonomia della politica e per avviare una
gigantesca ripartizione del potere di stato. Per questo presero Craxi
a simbolo da demolire. Perché senza di lui l’autonomia della politica
non aveva più interpreti.

Dal punto di vista giudiziario “mani pulite” ha avuto un risultato
incerto. Migliaia e migliaia di politici imputati, centinaia e
centinaia arrestati, circa un terzo di loro, poi, condannati,
moltissimi invece assolti ( ma azzoppati e messi al margine della
lotta politica), diversi suicidi, anche illustrissimi come quelli dei
presidenti dell’Eni e della Montedison. Dal punto di vista politico
invece l’operazione fu un successo. La redistribuzione del potere fu
realizzata. Alla stampa toccarono le briciole, anche perché nel
frattempo era sceso in campo Berlusconi. All’imprenditoria e alla
grande finanza andò la parte più grande del bottino, anche perché
decise di collaborare attivamente con i magistrati, e dunque fu
risparmiata dalle inchieste. Quanto alla magistratura, portò a casa
parecchi risultati.

Alcuni molto concreti: la fine dell’immunità parlamentare, che poneva
Camera e Senato in una condizione di timore e di subalternità verso i
Pm; la fine della possibilità di concedere l’animista; la fine della
discussione sulla separazione delle carriere, sulla responsabilità
civile, e in sostanza la fine della prospettiva di una riforma della
giustizia. Altri risultati furono più di prospettiva: l’enorme aumento
della popolarità, fino a permettere al Procuratore di Milano – in
violazione di qualunque etica professionale – di incitare il popolo
alla rivolta contro la politica (“resistere, resistere, resistere… ”)
senza che nessuno osasse contestarlo, anzi, tra gli applausi; il via
libera all’abitudine dell’interventismo delle Procure in grandi scelte
politiche ( di alcune parlava giorni fa Pierluigi Battista sul
Corriere della Sera); l’enorme aumento del potere di controllo sulla
stampa e sulla Tv; la totale autonomia.

Ora a me restano due domande. La prima è questa: quanto è stata
mutilata la nostra democrazia da questi avvenimenti che hanno segnato
tutto l’ultimo quarto di secolo? E questa mutilazione è servita ad
aumentare il tasso di moralità nella vita pubblica, oppure non è
servita a niente ed è stata, dunque, solo una grandiosa e riuscita
operazione di potere?

E la seconda domanda è di tipo storico, ma anche umano: è giusto che
un paese, e il suo popolo, riempiano di fango una figura eminente
della propria storica democratica, come è stato Craxi, solo per
comodità, per codardia, per “patibolismo”, deturpando la verità vera,
rinunciando a sapere cosa è stato nella realtà il proprio passato?

Io penso di no. Da vecchio anticraxiano penso che dobbiamo qualcosa a
Bettino Craxi.

*direttore del quotidiano IL DUBBIO
Fact-Checking: continuano le
“bufale” grilline !
(AGI) Dopo aver incontrato il Presidente della Repubblica nell’ambito
delle consultazioni, Giulia Grillo del M5S ha spiegato ai giornalisti
che la posizione del suo partito è sempre la stessa: “qualunque nuovo
governo ancora una volta calato dall’alto non avebbe la legittimazione
popolare per governare“. Di fatto sposando la tesi, supportata anche
da tutte le opposizioni, che con l’incarico a Paolo Gentiloni ci
troveremo al “quarto governo di fila non passato per le elezioni“.

Questa affermazione è basata su un grave fraintendimento. L’Italia è
una Repubblica parlamentare, non presidenziale, pertanto non sono gli
elettori a scegliere il governo (o meglio il presidente del
Consiglio), tramite le elezioni, ma il Presidente della Repubblica.

Solo il capo dello Stato, infatti, ha il potere di nominare il
presidente del Consiglio, ovviamente tenendo conto del risultato delle
elezioni – ma solo per quanto si è riflesso nella composizione del
Parlamento.

In base all’articolo 92 comma 2 della Costituzione, «Il Presidente
della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su
proposta di questi, i ministri». Durante la Prima Repubblica, ad
esempio, la scelta del Presidente del Consiglio avveniva regolarmente
dopo le elezioni, sulla scorta dell’accordo tra le diverse forze
politiche.

In futuro, se al Senato restasse l’attuale legge elettorale (il
cosiddetto “Consultellum”, un sistema proporzionale), è probabile che
nessuna forza politica sia in grado di vincere col 50%+1 dei voti e di
esprimere il proprio presidente del Consiglio. La carica verrebbe
quindi attribuita a una personalità su cui diverse forze politiche,
concorrenti alle elezioni, trovassero un eventuale accordo.

Questo equivoco, su cui hanno insistito nel corso degli anni numerosi
politici italiani (Berlusconi, Zaia, Salvini, Meloni e molti altri),
nasce nel 2006. Alle elezioni politiche di quell’anno, Forza Italia
inserì nel proprio simbolo il nome del leader, con la dizione
“Berlusconi presidente”. Gli elettori, in questo modo, furono
rafforzati nella falsa convinzione che il loro voto determinasse la
scelta del presidente del Consiglio.

Due anni dopo, alle elezioni del 2008, sia il Popolo della Libertà che
il Partito Democratico inserirono nei propri loghi il nome del leader
(Berlusconi e Veltroni) “presidente”, ed effettivamente nel 2008 –
grazie anche al sistema elettorale cosiddetto “Porcellum” – Silvio
Berlusconi, vinte le elezioni, divenne presidente del Consiglio.

I governi che l’opposizione definisce “non legittimati dal popolo”

 1. Nel 2011 cadde il governo Berlusconi e venne nominato presidente
    del Consiglio Mario Monti. La sua nomina è costituzionalmente
    legittima, in quanto l’incarico gli venne conferito dal Presidente
    della Repubblica e il suo esecutivo ottiene la fiducia dal
    Parlamento.
 2. Di nuovo nel 2013 il Presidente del Consiglio non diventò il
    leader del partito che pure alla Camera vinse il premio di
    maggioranza (sempre col Porcellum), cioè Pierluigi Bersani, ma un
    altro esponente del Pd, Enrico Letta, su cui convergono i voti
    anche di parte del centro-destra.
 3. Matteo Renzi nel 2014 è subentrato a Enrico Letta, sempre senza un
    passaggio elettorale, e sempre nel pieno rispetto del dettato
    costituzionale.
 4. Il Presidente della Repubblica ha ora incaricato di fare un nuovo
    governo l’ex ministro degli Esteri dell’esecutivo guidato
    da Renzi, dimissionario, Paolo Gentiloni.

Con la nuova legge elettorale al momento in vigore (e che vale per la
sola Camera), l’“Italicum”, l’equivoco viene ulteriormente peggiorato.
La legge prevede infatti che ipartiti indichino il nome del “capo” del
partito o dell’organizzazione politica che – nel progetto che
affiancava la nuova legge elettorale alla riforma costituzionale –
avendo il suo partito vinto il premio di maggioranza alla Camera,
sarebbe diventato presidente del Consiglio.

Questa forzatura non è in ogni caso in grado di sovvertire il testo
della Costituzione, in primo luogo perché la Costituzione non può
essere contraddetta da leggi ordinarie (è gerarchicamente superiore
come fonte del diritto) e in secondo luogo perché nella prassi non si
potrebbe comunque escludere un “ribaltone” interno al partito che ha
ottenuto il premio di maggioranza che porti alla scelta di un
presidente del Consigliodiverso da quello nominalmente indicato come
“capo” alle elezioni.

Per approfondire:
Repubblica parlamentare
    Repubblica presidenziale
    Articolo 92 comma 2 della Costituzione
    Legge Calderoli (Porcellum) poi modificata in Consultellum
    Cos’è l’Italicum, legge elettorale valida per la Camera

Tutte le “bufale” dell’Economist
sul referendum costituzionale in
Italia

                            L’    Economist,      dilettandosi     in
una delle sue campagna di stampa mal riuscite: cosiddetto bacio della
morte alla parte politica che intende appoggiare, ha titolato
: “Perché l’Italia dovrebbe votare No al suo referendum”. La stessa
cosa accadde con Berlusconi nel 2001, che vinse a mani basse.ricordate
?“Unfit to lead Italy” . Altrettanto è accaduto per la Brexit e per le
elezioni presidenziali americane che hanno visto trionfare Donald
Trump. Anche in questi eventi il settimanale londinese (attualmente
di proprietà di una finanziaria della famiglia Agnelli.

Quel che sorprende di un settimanale notoriamente autorevole come
l’Economist è l’attuale bassa qualità dei suoi articoli sull’ Italia ,
sconclusionati ed insussistenti al punto tale da poter presagire in
buona fede ad un’immaginario    un pesce d’aprile ritardatario. O a
creare un finto sostegno per il No, in maniera tale da consentire a
Renzi di poter affermare che i poteri forti sono contro di lui. Il
settimanale inglese sostiene che l’attuale presidente del Consiglio ha
rappresentato una grande speranza di cambiamento e che il referendum,
nelle sue intenzioni, serve a realizzare i cambiamenti di cui l’Italia
ha bisogno per far crescere l’economia nazionale e non essere più “la
principale minaccia alla sopravvivenza dell’euro”.

 “La riforma di Renzi non affronta il principale problema dell’Italia,
che è la ritrosia alle riforme”, scrive il settimanale britannico.
Un’errore iniziale che in ogni caso si potrebbe anche perdonare a
chid a Londra scrive di vicende italiane . ”Tutti i benefici secondari
 -scrivono – sono superati dagli inconvenienti – primo fra tutti
quello che, per fermare l’instabilità, si apra la strada a un “uomo
forte” (…) nel Paese di Mussolini e Berlusconi”. Ma nessuno ha
informato ed avvisato l’Economist che in realtà Berlusconi è uno dei
più accesi sostenitori del fronte del No, e potrebbe tornare in gioco
politicamente, proprio nel caso in cui gli italiani bocciassero la
riforma della Costituzione.

                                           L’Economist      sostiene
che “Le dimissioni di Renzi potrebbero non essere la catastrofe temuta
da molti in Europa. L’Italia potrebbe mettere insieme un governo
tecnico ad interim, come ha fatto molte volte in passato. Se invece un
referendum perduto scatenasse il collasso dell’euro, allora sarebbe un
segnale che la moneta europea era così fragile che la sua distruzione
era solo questione di tempo“.

Il rischio che il settimanale britannico intravede è che in futuro a
beneficiare di queste condizioni sarebbe Beppe Grillo: “Lo spettro di
Grillo come primo ministro, eletto da una minoranza e tenuto al potere
dalle riforme di Renzi, è una possibilità che molti italiani e una
gran parte dell’Europa giudicano allarmante“.

All’Economist , non conoscono limiti e sostengono che “Il Senato non
sarà eletto”. In realtà non è così in quanto i senatori saranno
indicati dai cittadini al momento delle elezioni dei consigli
regionali. E allo stesso modo, quando gli elettori dei sindaci delle
aree metropolitane sapranno che il loro voto vale anche un giro in
Senato ogni quindici giorni.

Ma il fatto più divertente è un’altro. E cioè che l’Economist ha sede
in uno Stato Paese in cui la camera alta si chiama House of Lord e non
è elettiva sin dal quattordicesimo secolo, e che tutte le riforme in
Inghilterra che negli ultimi vent’anni hanno provato a renderla tale
sono naufragate.    L’erba del vicino, a volte, è realmente la più
verde… Se i sostenitori del No hanno smesso di leggere l’articolo per
trovare qualche oggetto in ferro, scaramanzia a parte, qualche ragione
ce l’hanno.

Secondo indiscrezioni raccolte da La Repubblica, la decisione di
schierarsi per il no avrebbe diviso l’Economist. Da una parte ci
sarebbero la direttrice Zanny Minton Beddoes ed alcuni giovani
editorialisti, dall’altra – schierati per il sì e fortemente perplessi
sulla scelta opposta – il corrispondente dall’Italia, i responsabili
dei servizi sull’Europa e altri analisti.      Una fonte dall’interno
della redazione del giornale britannico, racconta Enrico Franceschini
corrispondente da Londra di Repubblica: “Abbiamo appoggiato Remain
nel referendum sulla Ue e Hillary Clinton nelle presidenziali
americana. La nostra decisione di appoggiare il No nel referendum in
Italia potrebbe dunque essere considerata il bacio della morte“.
Infatti, sarebbe il terzo endorsement sconfitto alle urne.

Il battaglione Sammarco
di Massimo Gramellini

La cosa grave non è tanto che la sindaca Raggi abbia nominato
assessore al Bilancio un ex magistrato economico che dice «sprid»
invece di spread e «down ground» invece di downgrade. E non è neanche
che i conti depressi della Capitale siano finiti nelle mani di un
signore che chiese, inascoltato, 351 miliardi di euro alle agenzie di
rating per avere complottato contro Berlusconi e che ha dato alle
stampe un saggio, ingiustamente passato sotto silenzio, dal titolo
“Giulio Andreotti, Paolo Conte e Tinto Brass” .
Non è neppure che questo portento, il dottor De Dominicis, le sia
stato segnalato dall’avvocato Sammarco, socio del berlusconiano di
estrema destra Cesare Previti. Né che la Raggi, in campagna
elettorale, si sia dimenticata di avere fatto pratica nel loro studio
per poi minimizzare quella frequentazione imbarazzante riducendola a
fugace struscio (a giudicare dalle ultime mosse, non così fugace).

La cosa grave è che la sindaca dei Cinquestelle sia salita al
Campidoglio senza uno straccio di classe dirigente, mentre il
principale scopo di un movimento politico dovrebbe essere quello di
selezionare le personalità da inserire nelle istituzioni. Così la
Raggi ha dovuto affidarsi al bricolage, mettendo insieme pezzi della
destra romana e figure discusse come quell’assessora all’Ambiente che
ha tenuto nascosto per mesi un avviso di garanzia. Ricordate quando
Grillo arringava i grulli profetando che in una politica liberata
dall’infame presenza dei partiti avrebbe fatto gestire i bilanci dalle
casalinghe di Voghera?

Evidentemente le casalinghe sono finite. O non sono mai cominciate.

    commento tratto dal quotidiano La Stampa

La Raggi in Commissione Ecomafie:
“Muraro indagata, l’ho saputo il 18
luglio e ho informato i 5 Stelle”
di Antonello de Gennaro

                                           Le bugie hanno sempre le
gambe corte, come nel caso di Virginia Raggi, che si preoccupa troppo
della cellulite in fotografia e poco della millantata e dovuta
trasparenza. Infatti è sin dallo scorso 18 luglio che gli esponenti
del Movimento Cinque Stelle, Virginia Raggi e l’assessora all’
ambiente Paola Muraro sono a conoscenza che quest’ultima è iscritta
nel registro degli indagati della Procura della repubblica di
Roma. per “reati ambientali” ed “abuso d’ufficio“. Lo hanno ammesso e
dichiarato all’inizio dell’audizione odierna a Palazzo San Macuto.
La Sindaca Raggi ha persino aggiunto di aver informato i vertici del
Movimento 5 stelle: “Ho avvisato alcuni parlamentari”       ha detto,
facendo i nomi di Paola Taverna e Stefano Vignaroli, che gliel’aveva
presentata, ma anche di “un eurodeputato ed un consigliere regionale“.
La Sindaca ha inoltre tenuto a precisare che non aveva informato
invece Grillo e Di Maio. I quali non a caso, il primo tace ed il
secondo parla di “complotti” inesistenti !

Accuse e repliche La giunta a guida M5S si è insediata lo scorso 7
luglio in Campidoglio . E fino a ieri la sindaca di Roma ed il suo
assessore dell’Ambiente hanno sempre ripetuto senza esitare, mentendo
e ben sapendo di mentire, che a loro l’iscrizione a «modello 21» nel
registro degli indagati non risultava. La verità invece è che la
Muraro invece risulta indagata sin dal 21 aprile.
Lo ha reso noto il presidente
della Commissione Parlamentare Alessandro Bratti, che ha anche
spiegato     anche   ciò   che    è  successo    subito    dopo:    il
legale dell’assessora Muraro, l’ avv. Salvatore Sciullo, ha depositato
in base all’articolo 335 del codice di procedura penale un’istanza al
tribunale Penale di Roma,       ed in data 18 luglio ha ottenuto
attestazione ufficiale della presenza ed iscrizione a “modello 21”
della sua assistita in qualità di “indagata”.

Il sostituto procuratore della repubblica        dr. Alberto Galanti
 contesta all’ Assessora dell’Ambiente Paola Muraro nel fascicolo RGNR
n. 19790/16 di cui è     titolare, la presunta avvenuta violazione
dell’articolo 256 (comma 4) della legge 152 del 2006: “gestione dei
rifiuti non autorizzata“. La Muraro si è difesa in Commissione
accuando di essere vittima di “un attacco mediatico” ad aggiungendo:
“Io avevo fatto richiesta ai sensi dell’ art. 335 come d’abitudine
ogni anno e come mi ha insegnato a fare il mio avvocato avendo spesso
rapporti con la pubblica amministrazione. Il 25 marzo non ero
indagata“. L’Assessora Muraro nel corso dell’audizione ha anche
aggiunto di non essere a conoscenza se l’iscrizione a suo carico come
“indagata” riguardi il periodo in cui ha collaborato con l’Ama.
E sull’inchiesta che la riguarda, con imbarazzante spavalderia ha
detto : “Non ho niente da temere, anzi, ho molto da dire: quindi
senz’altro andrò nei prossimi giorni dal pm” ignorando che in procura
non si va come in un bar e che sarà quindi il Pm Galanti a decidere
quando, come e se ascoltarla.

La Sindaca Virginia Raggi ad una domanda di Filiberto Zaratti, di
Sinistra italiana ha risposto :”Sono venuta a conoscenza
dell’iscrizione nel registro degli indagati verso la fine del mese di
luglio, tra il 18 e il 19. Muraro ci ha dato prontamente la notizia e
io ho informato i vertici del partito. Ho convocato una riunione con
l’ex capo di gabinetto (Carla Raineri, che si è dimessa giovedì
scorso) e valutato che il 335 non contenesse sufficienti elementi per
decidere. Appena avremo maggiori informazioni prenderemo provvedimenti
“. Affermazioni queste che però non trovano riscontro nell’odierna
intervista rilasciata in merito, dalla dr.ssa Carla Raineri, che a
differenza della Raggi, è un magistrato.

Quando il Sen. Alessandro Baìratti, presidente della Commissione
Parlamentare ha chiesto alla Raggi : “Non ha ritenuto a luglio che
fosse inopportuno mantenere la delega e l’attività della gestione
rifiuti a un assessore sottoposto a indagine proprio nel suo
settore? ” la Sindaca di Roma ha insistito con la linea «garantista»
ben diversa da quella sinora adottata in tutt’ Italia dal Movimento
5 stelle. “Per il fascicolo Muraro – ha risposto la sindaca – fino
alla chiusura delle indagini non è possibile sapere quali sono le
questioni per cui si sta indagando. Se lei mi chiede un giudizio di
opportunità politica, io le rispondo che fino a che non leggo le carte
non so quali sono i fatti che vengono contestati, non so le date, non
sappiamo niente, l’unico che conosce il fascicolo è il pm”.

Beppe Grillo e la Casaleggio Associati tacciono. Per loro il problema
è l’ euro…come si vede visitando il sito del comico genovere
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