Penalizzare i giovani per favorire i loro genitori? - Neodemos

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Penalizzare i giovani per favorire i loro genitori? - Neodemos
Penalizzare i giovani per favorire i loro
genitori?

Con l’avvicinarsi della Legge di Bilancio si torna a parlare di un anticipo dell’età al
pensionamento per ulteriori categorie di lavoratori. Ma lo spazio di manovra è
ristrettissimo, argomenta Gianpiero Dalla Zuanna, perché l’aggiunta di quasi tre
milioni di anziani in più è un ulteriore macigno sulla sostenibilità di tali misure.

Con l’avvicinarsi della Legge di Bilancio si torna a parlare di pensioni. Si discute se
prorogare Quota 100, Opzione Donna, APE social, magari estendendo quest’ultima
misura a un numero più ampio di categorie di lavoratori usurati, individuate dalla
Commissione Damiano.

Alti contributi e bassi salari
Molti vorrebbero andare in pensione il più presto possibile. Tuttavia, questo
legittimo desiderio va contemperato con la sostenibilità del sistema. Le pensioni di
oggi vengono pagate con i contributi versati dagli attuali lavoratori. Questi
contributi sono oggi i più elevati dell’area OCSE (i 33 paesi più ricchi del mondo),
poiché ammontano al 32% del salario lordo. La media OCSE (Figura 1) è 19%.
Oltre a questo, ogni anno le pensioni possono essere pagate grazie a 22 miliardi
(più dell’1% del PIL italiano) che arrivano non dai contributi, ma dalle imposte (cifra
indicatami dal collega Gustavo De Santis, deducibile dai bilanci consolidati degli
enti previdenziali, 2019).
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Questi due semplici dati ci dicono che una parte consistente del cuneo fiscale (la
differenza fra salario lordo e salario netto) è dovuta alla necessità di sostenere con
i contributi e con le imposte la spesa pensionistica. In futuro, tale spesa è destinata
inevitabilmente ad aumentare – anche a regole immutate – perché le persone che
hanno più di 65 anni, che oggi sono 13 milioni e 900 mila, stando alle previsioni
dell’Istat, fra appena dieci anni diventeranno 16 milioni e 600 mila, a causa
dell’invecchiamento dei figli del baby boom (nati fra il 1955 e il 1975).

Anticipare l’età al pensionamento? Un macigno,
la demografia, lo impedisce
Di conseguenza, lo spazio di manovra per anticipare l’età al pensionamento
rispetto alle regole attuali è molto, molto ristretto. Se lo facciamo, rischiamo di
penalizzare ancora di più i salari netti dei lavoratori, che già sono fra i più bassi dei
paesi ricchi. Oppure, rischiamo di dover tagliare voci del welfare, per spostare altre
risorse sulle pensioni. Se l’Italia “non è un paese per giovani”, se molti “cervelli”,
ma anche molte braccia, cercano all’estero retribuzioni maggiori, parte rilevante
della responsabilità risiede nell’eccessiva generosità del nostro sistema
pensionistico, specialmente nelle scelte dissennate degli anni passati.

È quindi opportuno pensare ad altri strumenti per rendere più sopportabile l’ultimo
tratto della vita lavorativa, strumenti alternativi al popolare, ma costoso
pensionamento anticipato dei lavoratori maturi. Si possono ad esempio
immaginare sistemi misti di lavoro e pensione: un po’ come già fanno molti
artigiani anziani lavoratori in proprio, che incassano pensioni basse, ma continuano
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a lavorare a orario ridotto, magari assieme a un figlio o a un nipote. Oppure
ragioniamo su cambiamenti di mansioni per gli ultimi anni di lavoro. E così via.

Possiamo fare molte cose, ma evitiamo di penalizzare i giovani, per favorire i loro
genitori.

Chiaroscuri demografici del PNRR

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) è demograficamente corretto? Su
due importanti aspetti il PNRR è sulla buona strada, ossia il contrasto alla bassa
natalità e la mitigazione dell’invecchiamento. Su altri due, come ci spiega
Gianpiero Dalla Zuanna, il PNRR non dice nulla, ossia il sistema pensionistico e le
immigrazioni. Si tratta comunque di un passo nella giusta direzione.

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) è demograficamente corretto? In
parte sì e in parte no. Il meccanismo che sta alla base del PNRR è largamente
condivisibile. Ogni Stato della UE soffre di problemi strutturali che – rallentandone
lo sviluppo economico e sociale – frenano anche gli altri Stati dell’Unione e lo
sviluppo armonico di tutta l’Europa. Quindi, l’UE finanzierà direttamente,
attraverso fondi europei, investimenti per iniziare a sciogliere questi nodi. Tuttavia,
non si tratta quindi di fondi incondizionati, bensì di soldi erogati a tranche, nel
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corso del prossimo quinquennio, sulla base di un programma (il PNRR, appunto).
Ogni tranche verrà erogata solo se le fasi precedenti saranno state rispettate. Fra
gli impegni presi dai singoli Paesi non c’è solo l’utilizzo integrale e appropriato
delle somme erogate, ma anche l’adozione delle riforme necessarie per superare
in modo duraturo i problemi strutturali di cui sopra. Come hanno detto alcuni
commentatori, adottando il PNRR l’Italia fissa per i prossimi sei anni non solo la sua
politica economica, ma anche un percorso di esigenti riforme di sistema.

Il “che fare” del PNRR è stato quindi fissato dal governo italiano echeggiando le
raccomandazioni che – in questi anni – la Commissione non ha mai mancato di
rivolgere al nostro Paese. Queste raccomandazioni individuano i problemi
strutturali cui il PNRR è chiamato a dare risposta. La serrata trattativa fra Governo
e UE ha avuto come oggetto l’inserimento nel PNRR di investimenti e riforme che
rispondono a tali raccomandazioni.

Lo sviluppo migliora la demografia
Gran parte delle osservazioni rivolte all’Italia dalla Commissione riguardano in
modo indiretto la demografia. In modo indiretto, ma sostanziale, perché solo in un
Paese che cresce economicamente e socialmente, fecondità e immigrazioni
possono aumentare, contrastando in modo efficace l’inevitabile incremento del
numero degli anziani. Secondo le previsioni delle Nazioni Unite, nel breve giro di
trent’anni gli ultraottantenni italiani passeranno da 4,5 a 8 milioni, mentre senza
immigrazioni la popolazione di 30-60 anni passerà da 25,5 a 16 milioni: una simile
evoluzione minaccia in modo evidente la sostenibilità della sanità e delle pensioni.
Bene, quindi, che gran parte delle investimenti e delle riforme del PNRR riguardino
la modernizzazione generale dell’Italia: lo snellimento del sistema giudiziario, la
digitalizzazione, la rivoluzione verde, le infrastrutture specialmente ferroviarie, la
concorrenza, il superamento dei divari di genere, e così via, nella speranza che
queste riforme e questi investimenti aumentino l’attrattività del nostro paese,
frenino la fuga dei giovani, creino un contesto favorevole per le coppie che
desiderano avere un figlio (in più).

Soffermiamoci però su alcune questioni più direttamente demografiche. Su due
importanti aspetti il PNRR è sulla buona strada, ossia il contrasto alla bassa natalità
e la mitigazione dell’invecchiamento. Su altri due, invece, il PNRR non dice nulla,
ossia il sistema pensionistico e le immigrazioni.
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Contrastare la denatalità
Il PNRR prevede risorse che completino il Family Act, accostandosi all’Assegno
unico e universale per i figli a carico, recentemente approvato dal Parlamento e
citato nel PNRR come punto di partenza per il contrasto alla denatalità italiana.
Purtroppo il PNRR non incrementare i fondi per l’Assegno, in modo da portarlo
effettivamente ai 250 euro mensili ricordati dal premier nel corso di una
recentissima conferenza stampa (con le somme ora disponibili, si superano di poco
i 150 euro). Il PNRR stanzia invece somme cospicue per nuovi nidi, nuove scuole
materne e nuove mense per le scuole primarie. In una prospettiva di lotta alla
bassa natalità, sono scelte condivisibili, perché la possibilità di conciliare i tempi di
cura e di lavoro è preliminare alla scelta di avere un figlio (in più). Tuttavia, ci sono
due interrogativi di fondo. Per la sua natura di finanziamento temporaneo, il PNRR
privilegia le spese di investimento rispetto alle spese correnti. Il problema dei nidi
in Italia non sta tanto nella mancanza di strutture (anche perché è facile mettere in
piedi, e rapidamente, piccoli nidi privati) ma nell’alto costo di questi servizi, sia
pubblici che privati. E il costo è elevato non solo per le famiglie, ma soprattutto per
i Comuni: vi sono Amministrazioni che rinunciano a costruire un nido per evitare
poi di dissestare il bilancio per riuscire a mantenerlo. I 4,6 miliardi stanziati per i
nidi possono sembrare molti, ma diventano pochi se dovranno essere utilizzati per
calare le rette delle famiglie, finanziando nel contempo in modo strutturale questa
posta nel bilancio dei Comuni. In secondo luogo, la conciliazione fra lavoro e figli
non si gioca solo nella prima infanzia e nella scuola primaria, ma prosegue anche
nel corso della preadolescenza e dell’adolescenza. È tutto il tempo-scuola che va
ripensato, dal nido alle superiori, estendendosi al pomeriggio, come in quasi tutti i
Paesi europei. Per recuperare strutturalmente risorse si potrebbe accorciare di un
anno il percorso scolastico, diplomando i giovani a 18 invece che a 19 anni (come
in moltissimi altri Paesi europei) ed escludendo per tutti la scuola al sabato. Nel
PNRR queste riforme non vengono previste, ma per il futuro delle famiglie e dei
giovani italiani esse sono importanti almeno quanto quelle del fisco o della
concorrenza.

Sostenere gli anziani fragili
Importanti sono le risorse stanziate, in poste diverse, per favorire gli aiuti agli
anziani fragili (7,5 miliardi), ponendo come stella polare l’incremento delle cure
domiciliari e dei servizi di prossimità. In questi anni, in molte regioni italiane, i
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servizi territoriali sono stati svuotati di personale, e sono drammaticamente
mancate le cure per i sub-acuti: a fronte della corretta riduzione dei tempi di
ricovero, spesso le famiglie vengono poi lasciate sole. Manca, in particolare, la
presa in carico integrata del soggetto fragile. Anche in questo caso si deve
comprendere meglio quanto queste cifre saranno dedicate a strutture e quanto a
spesa corrente. Inoltre, anche se le cifre stanziate sono importanti, bisogna vigilare
affinché non si disperdano in mille rivoli, e affinché la domiciliarità diventi
effettivamente la prima scelta di cura.

Silenzio su pensioni e immigrazioni
Veniamo ora ai silenzi “demografici”. Fra le sue raccomandazioni all’Italia la
Commissione “… richiede di attuare pienamente le passate riforme pensionistiche,
al fine di ridurre il peso delle pensioni di vecchiaia nella spesa pubblica e creare
margini per altra spesa sociale e spesa pubblica favorevole alla crescita” (pag. 3
della versione da me consultata del PNRR). Poi, però, nel PNRR di pensioni non si
parla mai. È vero che i silenzi sono a volte più eloquenti delle parole, anche perché
– a legislazione corrente – si ritornerebbe semplicemente alla piena attuazione
della riforma Fornero. Tuttavia, questo silenzio ha molti margini di ambiguità,
perché sono forti le spinte politiche e sindacali verso un nuovo stop dell’età al
pensionamento, mentre non si vede quasi nulla in direzione di un’auspicabile
riforma dei tempi e modi di lavoro, che permetta a tutti una permanenza
sopportabile nella condizione di occupato anche fra i 62 (l’attuale età mediana alla
pensione) e i 70 anni.

Il secondo silenzio è sulle immigrazioni. Il PNRR si occupa di immigrazioni solo
quando parla di Giustizia: “Una quota parte dei neo-assunti (400 addetti all’Ufficio
del Processo) verrà specificatamente assegnata al progetto di innovazione
organizzativa della Corte di Cassazione che prevede la revisione delle sezioni civili,
in particolare la sezione tributaria e le sezioni dedicate all’immigrazione e al diritto
di asilo”. È un po’ poco. Nessuna risorsa è prevista – ad esempio – per irrobustire
l’integrazione delle prime e seconde generazioni di migranti né per il contrasto
all’immigrazione irregolare. E nel cronoprogramma delle riforme manca qualsiasi
riferimento a modifiche al testo unico delle immigrazioni e della concessione della
cittadinanza.
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Verificare l’impatto demografico del PNRR
Governare vuol dire scegliere, e le scelte possibili debbono inevitabilmente tener
conto anche delle circostanze politiche, nel caso specifico della necessità di
ottenere il consenso del Parlamento. Evidentemente, non sussistono oggi le
condizioni per raccogliere su questi temi un consenso largo e diffuso. Tuttavia, è
bene essere consapevoli che un sistema pensionistico e leggi migratorie
demograficamente inadeguate rischiano di essere forti ostacoli allo sviluppo del
nostro Paese.

Malgrado queste due totali mancanze e malgrado altre perplessità minori, va
riconosciuto che il PNRR prende di petto alcuni fra i problemi fondamentali che
affliggono la demografia italiana. A priori, non è possibile dire in quale misura sarà
in grado di contrastare la bassa natalità e permetterà una vita migliore agli anziani
fragili. L’ultima parte del PNRR parla di verifiche sull’efficacia e sull’efficienza degli
investimenti e delle riforme. Nei prossimi anni, noi di Neodemos cercheremo di
valutarne puntualmente gli effetti demografici.

La popolazione del Mediterraneo
all’orizzonte del 2050: le previsioni
sollevano molti interrogativi
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L’area del Bacino Mediterraneo identifica da sempre un interessante aggregato
geografico in cui si osservano ancora oggi profondi divari. Mostrando gli scenari
previsivi delle Nazioni Unite, Gil Bellis, Maria Carella, Jean-François Léger e Alain
Parant inducono a riflettere sulle implicazioni dei persistenti squilibri demografici
tra le rive del Mediterraneo.

Nel 2020 la popolazione dei 22 paesi affacciati sul Mediterraneo ha raggiunto i 522
milioni di individui risultando 2,5 volte più numerosa rispetto a quella rilevata nel

1950 (206 milioni)1. Tuttavia, l’evoluzione demografica che ha interessato tali paesi
è stata contrassegnata da andamenti e ritmi differenziati tra le rive. Gli eterogenei
regimi demografici delle rive Nord (europea), Est (asiatica) e Sud (africana) hanno
profondamente modificato il peso demografico delle loro popolazioni: allo stato
attuale i paesi della sponda africana identificano l’area maggiormente popolata del
Bacino mediterraneo (39% contro 38% per i paesi della sponda europea), mentre
nel 1950 la riva settentrionale raggruppava i due terzi della popolazione totale.

Il trend evolutivo che ha riconfigurato la geografia del popolamento in questa
macroregione sembrerebbe irreversibile: secondo le ultime proiezioni delle Nazioni
Unite (variante media), entro il 2050, quasi la metà (46%) dei 635 milioni di
abitanti attesi nel Bacino del Mediterraneo dovrebbero risiedere sulla sponda
meridionale.

Questa inversione nella gerarchia demografica è imputabile sostanzialmente ad
“un doppio movimento”: mentre la riva settentrionale nella sua globalità ha
completato il processo di transizione demografica dalla fine degli anni ’60,
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diversamente, alcuni paesi delle rive meridionale e orientale stanno ancora
transitando verso lo stadio finale. Di conseguenza, la crescita naturale della
popolazione nei paesi della riva settentrionale è stata molto contenuta per diversi
decenni (in alcuni casi si è avuta perfino una flessione per saldo naturale negativo,
come in Italia) mentre i paesi della riva meridionale e orientale hanno continuato a
beneficiare di un incremento demografico ancora considerevole nonostante la forte
riduzione della fecondità.

Squilibri generazionali sulle rive del
Mediterraneo: giovani al sud e anziani al nord
Le dinamiche fin qui descritte hanno altresì influito sulla composizione per classi di
età modificandone la loro incidenza: la popolazione della riva settentrionale sta
inesorabilmente invecchiando, al contrario quella delle rive meridionale e orientale
è rimasta molto giovane nonostante l’aumento della speranza di vita. Di fatto nel
2020 il 47% degli individui della riva meridionale e il 42% di quelli della riva
orientale hanno meno di 25 anni; mentre nella riva nord gli under 25
rappresentano poco più di un quarto della popolazione (26%). Tale struttura per
età, unitamente ai più elevati livelli di fecondità osservati nei paesi delle rive
meridionale e orientale, spiegherebbe dunque il carattere ineluttabile del processo
di affermazione della loro preminenza demografica a svantaggio di quelli della
sponda europea. E se anche la fecondità dovesse scendere sotto la soglia del
ricambio generazionale, l’attuale composizione per età di queste due rive
garantirebbe la loro crescita demografica per altri decenni. D’altra parte, è
altrettanto inevitabile che la popolazione della riva nord perda abitanti entro il
2050, anche se la fecondità dovesse aumentare leggermente

Secondo le previsioni delle Nazioni Unite (variante media) la riva meridionale con
289 milioni di individui attesi entro il 2050 (87 milioni in più rispetto al 2020) si
imporrà per consistenza demografica nel Bacino Mediterraneo, posizionandosi
molto più avanti rispetto alla riva europea (188 milioni, 10 milioni in meno rispetto
al 2020) che sarà seguita da vicino dalla riva orientale (158 milioni, 36 milioni in
più rispetto al 2020). Questo atteso squilibrio demografico ne richiama un secondo
altrettanto importante, vale a dire la disuguale distribuzione per età che ne
conseguirà da un lato e dall’altro del Mediterraneo (figura 1). Nel 2050, infatti, i
paesi della riva africana dovrebbero contare un numero di under 25 superiore a
quello delle altre due rive congiunte: secondo lo scenario previsivo, 111 milioni di
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giovani di età inferiore a 25 anni abiteranno nei paesi della riva africana contro i 50
milioni di quelli della parte asiatica e i 42 milioni di quella europea. Più del 50%
della “gioventù mediterranea” risulterà concentrata in soli cinque paesi: Marocco,
Algeria, Tunisia, Libia ed Egitto. Al contempo, le previsioni stimano che quasi una
persona su due di età pari o superiore a 65 anni risiederà nei paesi della riva nord
(61 milioni contro 37 milioni nei paesi della sponda sud e 29 milioni in quelli della
sponda orientale).

Il necessario ricorso alla lungimiranza per meglio
comprendere le dinamiche future
I dati appena commentati inducono a molti interrogativi. Lato riva europea: una
popolazione in cui gli over 65 sono significativamente più numerosi dei giovani di
età inferiore ai 25 anni (33% contro 22%) è economicamente e socialmente
sostenibile? Quali conseguenze possono e potranno prodursi sul finanziamento
pubblico dei sistemi sanitari e/o pensionistici?

Dal lato delle rive meridionale e orientale si pone il problema delle prospettive
future che i paesi possono offrire alle giovani generazioni. Una delle determinanti
della “Primavera araba” fu proprio l’incapacità delle economie locali di integrare i
giovani tra i quali una parte rilevante possedeva la laurea. Da allora la situazione
in questi paesi non è migliorata, anzi, in alcuni casi è peggiorata in modo
drammatico, come in Libia o in Siria. Questi paesi, già in difficoltà, disporranno in
futuro di risorse adeguate a consentire l’accesso all’istruzione secondaria e
superiore ad una quota crescente di giovani?

E quali sono le prospettive per la popolazione potenzialmente attiva il cui numero
aumenterà notevolmente nei prossimi 30 anni? Nel 2020, si contano 95 milioni di
adulti in età compresa tra i 25 e 64 anni nella riva africana e 60 milioni nella riva
asiatica; i medesimi dovrebbero essere rispettivamente 141 e 79 milioni nel 2050,
mentre tale classe di età perderà contestualmente 20 milioni di individui nei paesi
della riva europea (da 105 milioni a 85 milioni).

Questi squilibri implicheranno un maggior numero di migrazioni? Non è questo lo
scenario che i demografi delle Nazioni Unite prevedono; al contrario secondo le
loro previsioni, anche se le popolazioni della sponda meridionale e orientale
dovessero continuare a crescere, i deficit migratori di queste due rive del
Mediterraneo dovrebbero diminuire entro il 2050 (figura 2). Dall’altra parte, sulla
riva europea, l’invecchiamento della popolazione non porterebbe ad alcun
aumento del surplus migratorio sebbene con una popolazione più anziana, che
evidentemente emigra meno, si dovrebbe prefigurare, nell’ ipotesi di immigrazione
costante, un aumento del saldo migratorio.

Queste previsioni, inoltre, non tengono conto dei vincoli spaziali che molte
popolazioni delle sponde meridionali e orientali fronteggiano sempre più
frequentemente. Il caso dell’Egitto è il più emblematico: in questo paese solo il 5%
del suolo è abitabile. Tale problematica è accentuata dalla crescente
concentrazione di popolazioni nelle aree urbane e in particolare nelle città molto

estese2. Nei paesi a sud e ad est del Mediterraneo, queste ultime sono situate
spesso sui litorali che devono affrontare rilevanti minacce ecologiche, in particolare
il potenziale aumento del livello dell’acqua in reazione al riscaldamento globale. In
altri termini, considerando le zone desertiche dell’entroterra e il processo di
contrazione della costa mediterranea, le superfici abitabili delle rive meridionale e
orientale rischiano di ridursi, mentre il numero dei loro abitanti dovrebbe
aumentare. Le dissimili prospettive demografiche che interessano le rive così come
i vincoli spaziali richiederanno necessariamente risposte demografiche (in termini
di salute, riproduzione, distribuzione geografica) che si spera possano ricondursi a
scelte libere ma che potrebbero anche essere fortemente condizionate, inducendo
in questo caso ad un forte rischio di crisi. Le previsioni delle Nazioni Unite restano
dunque interessanti anche per i loro limiti e per le riserve che si possono
manifestare. Tuttavia, le medesime richiedono di essere ampliate nell’ottica di un
approccio lungimirante (di prospettiva) per poter discutere le sfide non solo
demografiche ma anche sociali, educative, sanitarie, economiche connesse alle
attuali dinamiche di popolazione nel Mediterraneo, dinamiche la cui inerzia

consente di anticipare alcune delle maggiori tendenze a venire3.

Note
1
    Intendiamo qui per paesi del Mediterraneo quelli che hanno un accesso
riconosciuto su questo mare. Si tratta di 22 paesi distribuiti su tre rive: la riva
settentrionale o europea include, da ovest a est, Spagna, Francia, Principato di
Monaco, Italia, Malta, Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Albania e
Grecia; la riva orientale o asiatica comprende, da nord a sud, Turchia, Cipro,
Repubblica araba di Siria, Libano, Israele e Stato di Palestina; Infine, la riva
meridionale o africana è costituita, da est a ovest, da Egitto, Libia, Tunisia, Algeria
e Marocco.

2
    Le Plan Bleu et ses missions

3
    Bellis, G., Carella, M., Léger, J.-F., Parant, A. (2021). Populations et crises en
Méditerranée. Milano, Edizioni Franco Angeli.

Gli effetti delle riforme pensionistiche
sulle imprese

A fronte dell’invecchiamento della popolazione, molti paesi hanno innalzato l’età
minima di pensionamento, sollevando preoccupazioni circa la produttività delle
imprese e il possibile spiazzamento dei lavoratori giovani. Carta, D’Amuri e von
Wachter ridimensionano tali preoccupazioni analizzando gli effetti della riforma
Fornero del 2012: la maggiore presenza di lavoratori anziani ha portato un
incremento del valore aggiunto in linea con quello dell’occupazione, cresciuta
anche nelle classi di età giovani. I lavoratori più maturi, pertanto, non sarebbero un
vincolo per le imprese, possedendo capacità ed esperienza difficilmente reperibili
sul mercato del lavoro.

Il mondo sta invecchiando rapidamente: entro il 2030, 34 paesi avranno una quota
di ultra sessantacinquenni superiore al 20 per cento della popolazione totale. Per
fronteggiare i problemi legati alla riduzione della popolazione attiva e alla
sostenibilità dei sistemi pensionistici, negli ultimi decenni i governi hanno cercato
di prolungare la vita lavorativa innalzando l’età minima di pensionamento. Gli
effetti di queste politiche sono molto discussi, in particolare per le possibili ricadute
sui lavoratori più giovani (Gruber e Wise, 2010); si sa molto meno invece delle
ripercussioni sulle scelte e sulla performance delle imprese. Da un lato, una
maggiore presenza di lavoratori maturi può ridurre la produttività delle imprese e
la crescita se questi sono meno innovativi o meno disposti a correre rischi rispetto
a quelli più giovani (Engbom, 2019). Dall’altro, un numero crescente di analisi
suggerisce che l’uscita di personale con molta esperienza può determinare
ripercussioni negative per i colleghi (Jaeger, S. e J. Heining (2020), Sauvagnat e
Schivardi (2020)). Inoltre, alcuni economisti (Acemoglu e Restrepo, 2018) hanno
evidenziato che l’invecchiamento della forza lavoro è associato ad aumenti
dell’automazione volti a sostituire le attività manuali, rendendo incerte le ricadute
sulla produttività.

L’analisi empirica
In un articolo recente (Carta, D’Amuri e von Wachter 2020), studiamo le
conseguenze della riforma Fornero del 2012 – che ha innalzato con effetto
immediato l’età minima di pensionamento in media di tre anni per i lavoratori con
almeno 55 anni – su occupazione, salari, valore aggiunto, capitale e produttività
delle imprese. L’aumento dell’età pensionabile determinato dalla riforma –
 differenziato in base a genere, età e anni di contributi previdenziali già versati –
 ha comportato una considerevole variabilità nel numero di lavoratori maturi per i
quali è venuta meno la possibilità di andare in pensione anche tra imprese con una
struttura demografica simile. Sfruttando questa variabilità, l’analisi empirica valuta
le ricadute della riforma sui livelli di occupazione in diverse classi di età (Figura 1)
e sulle principali variabili di bilancio (valore aggiunto, capitale, costo del lavoro;
Figura 2) confrontando imprese simili ma interessate in modo diverso
dall’incremento di lavoratori maturi.
L’analisi prende in considerazione l’anno della riforma e i due anni precedenti e
successivi. Secondo le stime riportate nella Figura 1, un aumento del 10% degli
occupati più anziani (55+) dovuto alla riforma implica un aumento dell’1,8% del
numero di lavoratori giovani (15-34) e dell’1,3% per quelli di età intermedia
(35-54). Pertanto, lavoratori di età diversa sembrano essere complementari nelle
imprese analizzate. L’effetto è concentrato nell’anno della riforma: negli anni
precedenti, i principali andamenti delle imprese erano indipendenti dall’incidenza
dei lavoratori il cui pensionamento sarebbe stato successivamente posticipato, a
conferma della validità della strategia empirica adottata. Inoltre, l’aumento del
costo del lavoro e del valore aggiunto avviene in modo proporzionale
all’occupazione: la produttività e il costo del lavoro per addetto rimangono costanti
(Figura 2).

Conclusioni di policy
Questi risultati portano a concludere che esiste complementarità tra lavoratori
giovani e più anziani. I lavoratori maturi, con capacità ed esperienza specifiche
dell’attività lavorativa svolta presso l’impresa, rappresentano una risorsa di difficile
reperimento all’esterno, più che un fattore che compromette la produttività. Le
nostre evidenze, sebbene basate su una diversa metodologia di stima, sono
coerenti con quelle trovate dal lavoro di Bianchi et al. (2019), anch’esso incentrato
sugli effetti della riforma Fornero, secondo cui la maggiore permanenza
nell’impresa dei lavoratori più anziani compromette le opportunità di promozione
dei colleghi. La difficoltà di assumere dall’esterno lavoratori con un certo grado di
esperienza – che è alla base dei nostri risultati – permette di spiegare anche
perché il mancato pensionamento implicherebbe il venir meno di una promozione
interna.

La generalizzazione dei risultati va tuttavia effettuata con cautela: pur mostrandosi
robusta all’inclusione delle imprese di ogni dimensione, l’analisi si concentra su
quelle più grandi, caratterizzate da maggiori margini di aggiustamento per via del
più facile accesso al credito e del più ampio mercato del lavoro interno; l’età

effettiva di pensionamento in Italia è tuttora bassa rispetto alla media dell’OCSE1,
per cui il prolungamento della vita lavorativa analizzato ha riguardato persone
ancora relativamente giovani e presumibilmente produttive.

* Le idee e le opinioni espresse in questo articolo sono da attribuire
esclusivamente agli autori e non coinvolgono la responsabilità dell’Istituto di
appartenenza.
Riferimenti bibliografici
Acemoglu, D. e P. Restrepo (2018). Demographics and automation. mimeo.

Bianchi, N., Bovini, G., Li, J., Paradisi, M., e Powell, M. (2019). Career Spillovers in
Internal Labor Markets. Available at SSRN 3470761.

Carta, F., D’Amuri F. e M.T. von Wachter (2020). Workforce aging, pension reforms,
and firm outcomes. Banca d’Italia, Temi di Discussione, n. 1297.

Engbom, N. (2019). Firm and worker dynamics in an aging labor market. FED
Minneapolis WP (756).

Gruber, J. e D. A. Wise (2010). Social security programs and retirement around the
world: The relationship to youth employment. University of Chicago Press.

Jaeger, S. e J. Heining (2020). How Substitutable Are Workers? Evidence from
Worker Deaths. MIT, mimeo.

Maestas, N., K. J. Mullen e D. Powell (2016). The Effect of Population Aging on
Economic Growth, the Labor Force and Productivity. NBER WP, 22452.

OECD (2015). Ageing and Employment Policies – Statistics on average
effective age of retirement.

Sauvagnat, J. e F. Schivardi (2020). Are executives in short supply? Evidence from
deaths’ events. EIEF, mimeo.

1
 Secondo i dati OCSE “Statistics on average effective age at retirement”, l’età
effettiva di pensionamento ancora nel 2018 era pari a 63,3 anni per gli uomini e a
61,5 per le donne, in entrambi i casi inferiore di due anni rispetto alla media dei
paesi OCSE.
Work stress among older employees in
Germany: effects on health and
retirement age

Un modo per affrontare l’invecchiamento della popolazione e le sue conseguenze
negative sul sistema pensionisticio è di aumentare l’età minima alla pensione.
Tuttavia, la maggior parte dei lavoratori dipendenti va in pensione prima dell’età
prevista. Jana Mäcken testa l’ipotesi che lo stress da lavoro possa avere un effetto
sull’età al pensionamento effettivo di tipo diretto o indiretto attraverso lo stato di
salute. I risultati mostrano che lo stress influenza direttamente l’età pensiobile
senza che vi sia un effetto mediatore da parte dei livelli di salute.

Europe’s workforce is aging rapidly, especially in Germany. This demographic
change requires policies that seek to extend working lives, for example, by
increasing the statutory pension age and closing early retirement pathways. The
aim of these reforms is to increase the labor participation of older workers to
secure the long-term sustainability of the social security system. However, in the
case of Germany, for instance, the actual retirement age in 2016 was 63.2 years,
well below the statutory age of 65 years (OECD 2016).

This premature exit from paid work has also been a serious concern for individuals
and companies. Individuals leaving paid work may be at increased risk of financial
and social problems, while companies may face a skill shortage. This highlights the
importance of understanding risk factors contributing to early retirement. Previous
research has shown that one primary reason for early retirement is poor health.
Health in turn is influenced by exposure to the job environment, in which most
persons spend a comparatively high proportion of their lifetime.

In a recent paper (Mäcken 2019) I investigated the complex relationship between
work stress, health, and retirement age in Germany, taking educational differences
into account. The German case is particularly interesting as the labor market and
pension reforms aiming to delay retirement have been effective. Early retirement
is possible at age 63 for persons with an insurance record of at least 35 years, but
the pension benefit is lower. Disability retirement is possible at age 63 without
pension cuts and at age 60 with a deduction of 10.8%. Hence, the employment of
older workers has increased steeply in recent years in Germany, rising by more
than 10% between 2000 and 2012 for males aged between 55 and 59, for example
(König, Hess, and Hofäcker 2016).

Work stress can be best explained by two established theoretical models: the
demand–control model (Karasek and Theorell 1990) and the
effort–reward–imbalance model (ERI) (Siegrist et al. 2004). The former identifies
stressful work in terms of high demands in combination with low control. The latter
claims that an imbalance between high efforts and low rewards affects health and
retirement decisions. Rewards can be financial, e.g. promotion prospects, including
job security, or emotional through recognition and appreciation. The two models
complement each other, with the first focusing on work content, and the second
highlighting violations of reciprocity exchanges. Both models are measured with
shortened versions of the original scales of the demand–control model and the ERI
model, with higher scores indicating more work stress in both models. The
demand-control model is measured only by the control dimension with two
questions about (1) freedom to decide how to do one’s work and (2) the
opportunity to develop new skills, on an eight-point scale. The ERI is the ratio of
the sum score of the two effort items divided by the sum score of the five reward
items.

Three different health measures are taken into account. A strong predictor of
retirement is self-rated health (SRH). SRH is a commonly used generic health
indicator which is not necessarily related to a certain medical condition but broadly
reflects the different dimensions of health not covered by specific measures of
illness or disease. Another predictor is depression. Depression is the leading cause
of disability worldwide and contributes significantly to the global burden of disease
(WHO 2017). Finally, work stress may affect not only mental, but physical health,
inducing cardiovascular diseases (CVDs) such as hypertension, stroke, and heart
attacks. Poor outcomes on all three health measures — SRH, depression, and CVD
— can be caused by work stress and lead to a lower retirement age.

In addition, the influence of work stress and health on retirement age likely varies
between individuals, as less educated employees have a higher risk of poor health
and early retirement. Lower-educated employees often have less influence over
their effort and therefore lower motivation to stay at work compared with higher-
educated employees with more challenging work and a higher influence level.
However, the lower-educated employees might not have the financial resources to
retire early.

Data and findings
The associations between work stress, health, and retirement age in Germany
were investigated with data from the longitudinal Survey of Health, Aging and
Retirement in Europe (SHARE) which were linked to German register data, SHARE-
RV. Respondents had to give consent to record linkage, and the linkage was
47.5%. The survey collected data on health as well as the social and economic
circumstances of participants aged 50+ years (Börsch-Supan et al. 2013) starting
in 2004. The sample was restricted to 302 respondents who were in paid work at
the first observation and retired during the observational period between
2004-2014. Self-employed persons and civil servants were excluded because,
contrary to other employees, they are not eligible for the German pension scheme
and were therefore not included in the SHARE-RV.

Self-reported health (or SRH) was measured using the question, “Would you say
your health is… 1- excellent, 2- very good, 3- good, 4- fair, or 5- poor”. Depressive
symptoms were measured using the 12-point EURO-D depression scale, with a
higher value indicating more depressive symptoms. Cardiovascular diseases
(CVDs) were proxied by risk factors, such as hypertension, diabetes, and high
blood cholesterol and measured with a dummy, equaling one if any of these
conditions was present.

Results show that health does not mediate the association between work stress
and retirement age. Low job control leads to earlier retirement age: a one-point
decrease in job control leads to a three-month decrease in retirement age. Instead,
and contrary to the findings of previous research, ERI (effort–reward–imbalance)
seems to have no effect on health and retirement age in Germany. Additionally,
poor SRH reduces retirement age by two and a half months on average, whereas
depressive symptoms and CVD do not.

Work stress affects health differently, depending on the employee’s level of
education and the health measure used. In the case of SRH, a higher ERI is
associated with better SRH for highly educated employees. Highly educated
employees with a high ERI also had a lower probability of CVD. In contrast, less-
educated people with low job control had more depressive symptoms. Educational
differences were only significant in the association between work stress and
health, but not in the retirement context (fig. 1).

German employees tend to retire early when they perceive their job as stressful.
Within this process, employees’ subjective assessment of their health status (SRH)
matters more than the presence of depressive symptoms and a high risk of
cardiovascular diseases. In line with previous research, this study shows that self-
rated health reflects a multidimensional concept of health and well-being, even in
the absence of a disease. The results of work stress on health differ from those of
previous research, which showed that effort–reward–imbalance and low job control
increase the risk of depression and cardiovascular diseases. This could be because
ERI was measured on a shortened scale, for example, excluding over-commitment
as a measure of employees’ response to job demands, which may not capture the
complexity of work stress. Highly educated employees may be more over-
committed as they identify more strongly with their jobs.

Beyond measures to address workers’ health status, improving psychosocial
working conditions could help to reduce early retirement. In particular, improving
job control potentially extends people’s working life, as it directly contributes to
explaining low retirement ages in the present study. Policy makers and
stakeholders, such as employers and trade unions, should closely monitor people’s
work stress if they wish to prolong working lives and tackle the shortage of skilled
professionals in times of demographic change.

References
Börsch-Supan Axel et al. 2013. “Data Resource Profile: The Survey of Health,
Ageing and Retirement in Europe (SHARE).” International Journal of Epidemiology
42(4): 992–1001.

Karasek Robert and Töres Theorell. 1990. Healthy Work: Stress, Productivity, and
the Reconstruction of Working Life. eds. Robert Karasek and Töres Theorell. New
York: Basic Books.

König Stefanie, Moritz Hess and Dirk Hofäcker. 2016. “Trends and Determinants of
Retirement Transition in Europe, the USA and Japan: A Comparative Overview.” In
Delaying Retirement, eds. Dirk Hofäcker, Moritz Hess, and Stefanie König. London:
Palgrave Macmillan UK, 23–51.

Mäcken, Jana. 2019. “Work Stress among Older Employees in Germany: Effects on
Health and Retirement Age” ed. Adrian Loerbroks. PLOS ONE 14(2): e0211487.
(February 4, 2019).

OECD. 2016. “Ageing and Employment Policies – Statistics on Average Effective
Age of Retirement.”

Siegrist Johannes et al. 2004. “The Measurement of Effort–reward Imbalance at
Work: European Comparisons.” Social science & medicine 58(8): 1483–99.

WHO. 2017. “Depression.”

Anziani sempre più “giovanili”:
evitiamo le letture superficiali

A pochi giorni dall’annuncio dell’Istat di un ulteriore allungamento delle speranze
di vita in Italia, è opportuno domandarsi se la quantità degli anni e la loro qualità
stiano andando a braccetto: Vittorio Filippi ci mette in guardia da interpretazioni
superficiali, che non cogliendo la complessità del fenomeno dell’invecchiamento
potrebbero condurre a scelte infelici sul piano delle politiche sanitarie e
previdenziali.

Una nuova definizione della biografia
All’ultimo congresso annuale dei geriatri italiani (SIGG) è stato proposto di alzare la
tradizionale soglia dell’anzianità da 65 a 75 anni, “riducendo” così gli appartenenti
alla terza età in Italia di circa sette milioni (1). Questa nuova definizione dell’età
anziana, che riprende e rilancia un’acquisizione propria degli studiosi di
popolazione, non è una sorta di maquillage giovanilistico ma trova essenzialmente
le sue giustificazioni in almeno due ordini di motivi.

Il primo, più quantitativo, sta nella brillante demografia della longevità. La
speranza di vita alla nascita è pari a 82,8 anni (dato 2016), un dato costruito sulla
base di progressi storicamente continui (solo rispetto al 2013 il guadagno è di
sette mesi) e che ha interessato in particolare proprio le età più anziane, dato che
la riduzione dei rischi di morte nella classe di età 60-69 anni, per esempio,
contribuisce già da sé al 15% del guadagno maschile e al 9% di quello femminile.
Dice l’Istat che tali contributi aumentano nella classe di età 70-79 anni, nella
misura del 26% e del 20% rispettivamente per uomini e donne ed infine
raggiungono il massimo tra gli 80 e gli 89 anni di vita con livelli rispettivamente
pari al 37 e al 44%. Assai significativo è anche il contributo spiegato dalla riduzione
della mortalità oltre i 90 anni di vita: pari al 10% tra gli uomini e pari a un quarto
del guadagno complessivo tra le donne (2).

Secondo una recente ricerca sul limite biologico della vita umana, se fino a
ottant’anni il rischio di mortalità cresce esponenzialmente ed a velocità costante,
dopo quell’età decelera e superati i centocinque anni (sono i cosiddetti semi-
supercentenari) la curva della mortalità non sale più, si ferma. Ovviamente ciò non
significa che non c’è il rischio di morire, ma semplicemente che tale rischio non
cresce, fermandosi allo 0,475% (e con una aspettativa di vita ulteriore pari a 1,55
anni): questo livello costante, chiamato plateau, unito al fatto che per le
generazioni più giovani i livelli di mortalità sono leggermente più bassi, suggerisce
che la longevità umana sta ancora aumentando e che non è stato ancora raggiunto
un suo limite, ammettendo che esso esista (3).

Il secondo motivo, più qualitativo, è dato dal netto miglioramento delle
complessive condizioni funzionali e di salute della fascia di età compresa tra i 65
ed i 75 anni: secondo i geriatri italiani ormai un 65enne di oggi ha la forma fisica e
cognitiva di un 40-45enne di 30 anni fa ed un 75enne quella di un individuo che
aveva 55 anni nel 1980. Inoltre nella stessa autopercezione come nella percezione
collettiva la definizione di anziano tende ad essere allontanata e spinta verso età
sempre più elevate: secondo un’indagine presentata alla London School of
Economics, condotta intervistando oltre 12 mila over 65 in diversi Paesi, due
ultrasessantacinquenni italiani su tre dichiarano di non sentirsi affatto anziani e
addirittura quattro su dieci pensano che la vecchiaia inizi davvero solo dopo gli
ottant’anni. In tutto ciò gioca anche una evidente “giovanilizzazione” delle
mentalità e dei comportamenti dei sessantenni e settantenni odierni.
Più anni alla vita, ma meno vita agli anni?
Tuttavia l’invecchiamento longevo presenta anche il suo lato oscuro trascinando
un carico sempre maggiore di patologie croniche, comprese quelle disabilitanti. È
quanto emerge da uno studio del Global Burden of Disease, il consorzio
internazionale che coinvolge oltre mille ricercatori di centoventi Paesi. Dal
complesso dei dati raccolti emerge pure che la situazione in Italia, almeno rispetto
ad una parte d’Europa, va sensibilmente peggiorando (4). Lo studio è la più
approfondita indagine su livelli e tendenze dei cosiddetti YLDs (years lived with
disability), cioè gli anni vissuti in un cattivo stato di salute o in condizioni di
disabilità. Gli YLDs sono cresciuti globalmente del 42,3% – trascinati soprattutto
dalla crescita demografica e dall’invecchiamento della popolazione e presenti in
particolare nella fascia di età compresa tra i 40 ed i 69 anni – e la tendenza non
risparmia comunque l’Italia, dove la variazione è pari al 20,2%, ciò comportando
quasi un trentennio, mediamente, di vita all’insegna della disabilità. [MS1] Si
moltiplica ovunque la multimorbilità, cioè la compresenza di più patologie, che
ovviamente grava soprattutto sulla popolazione in età avanzata (ma non
risparmiando anche quella più giovane). Ulteriori conferme arrivano poi sui fattori
di rischio: sovrappeso e obesità, soprattutto infantile, sono in crescita, ed è alta
l’incidenza di ipertensione, glicemia elevata ed eccesso di colesterolo. Guardando
in dettaglio al nostro Paese (dove peraltro esistono sensibili differenze regionali
anche per quanto riguarda l’aspettativa di vita), le prime dieci cause di YLDs sono
(in ordine decrescente di diffusione): l’Alzheimer, l’ipoacusia, i dolori cervicali, le
altre patologie muscolo-scheletriche, il mal di schiena, la cefalea, gli stati ansiosi,
le cadute, il diabete, i disordini depressivi maggiori. Buona parte delle citate cause
sono con ogni evidenza age related: va sottolineato l’Alzheimer, demenza
degenerativa con un notorio impatto sociale assai pesante in termini di caregiving,
ma attenzione va anche data alla forte crescita in Italia – tra le principali patologie
disabilitanti – del diabete e dell’ipoacusia (cresciute negli ultimi dieci anni
rispettivamente del 29 e del 17%).

La letteratura epidemiologica ha prodotto tre ipotesi circa il rapporto tra morbilità
e mortalità. La prima (compression of morbidity) pensa ad uno spostamento verso
gli anni terminali delle patologie con conseguente aumento dei tempi di vita vissuti
in modo sostanzialmente sano. La seconda (expansion of morbidity) ritiene
all’opposto che l’aumento della longevità trascini anche un aumento degli anni
vissuti in cattive condizioni di salute. Infine una terza ipotesi (dynamic equilibrium)
prevede una sorta di status quo in cui malgrado la crescita delle patologie la
mortalità calerebbe per la migliore gestione medicale delle patologie stesse. Ma la
ricerca empirica sembra oggi proporre un ulteriore quadro – più pessimistico,
chiamato infatti la double expansion of morbidity – in cui non solo i guadagni di
vita sono appesantiti dal peggioramento delle condizioni di salute, ma in cui
addirittura vi è una crescente anticipazione delle malattie croniche che riducono
nettamente il numero di anni mediamente vissuti in buona salute. Più in
dettaglio[MS2] in Italia è stato calcolato che dal 2000 al 2014 il numero medio di
anni vissuti nella cronicità è cresciuto di 6,4, di cui 3,4 anni dovuti all’allungarsi
della vita e tre da imputare alla precocizzazione delle malattie croniche (da 56,5
anni a 53,5: ma è già dal trentacinquesimo anno – cinque anni prima della media
europea – che crescono in Italia le patologie disabilitanti) (5). L’ipotesi esplicativa è
che sulle generazioni dei cosiddetti giovani adulti pesino oggi in maniera crescente
e perversa possibilità economiche e lavorative ridotte ed incerte, stili di vita e
consumi alimentari meno salubri, realtà ambientali deteriorate (specie urbane, ove
gioca pesantemente l’inquinamento dell’aria) e quindi maggiormente
patogenetiche. Anche negli Stati Uniti, ad esempio, i trentenni risentono di
condizioni di salute più scadenti dei loro pari delle generazioni precedenti e la
tendenza sembra volgere al peggioramento.

In conclusione
La realtà demografica e biostatistica si presenta quindi paradossale: l’indubbia
longevità deve fare i conti con il doppio movimento biografico delle patologie e
delle disabilità, un movimento che non solo si estende elasticamente con
l’allungamento della vita, ma aggredisce anche, a ritroso (ed inaspettatamente), le
generazioni più giovani, con un aggravio stimato di spesa sanitaria pubblica pari a
8,7 miliardi di euro nel 2014 rispetto al 2000. Naturalmente non si tratta solo di
costi economici: la precocizzazione delle disabilità e delle malattie croniche getta
ombre sull’evoluzione futura non solo della qualità della vita, anziana e non, ma
anche della stessa longevità, nonostante la sempre migliore capacità della
medicina di evitare che la morbilità viri rapidamente in mortalità (risolvendola o
altrimenti cronicizzandola e contenendola). La revisione “giovanilizzante” dei
sessantenni e dei settantenni proposta dai geriatri, enfatizzata dai modelli culturali
mainstream e adottata come riferimento per le riforme previdenziali potrebbe
dunque richiedere un ripensamento e qualche correttivo alla luce di queste – se
confermate – spiacevoli tendenze epidemiologiche.
Note
(1) Sociatà italiana di Geriatria e Gerontologia Quando si diventa anziani? 7
dicembre 2018;

(2) Istat, Indicatori di mortalità della popolazione residente. Anno 2016, 24 ottobre
2017;

(3) E. Barbi, F. Lagona, M. Marsili, J. W. Vaupel, K. W. Wachter. The plateau of
human mortality: Demography of longevity pioneers, “Science”, 29 June 2018, Vol.
360, Issue 6396, pp. 1459-1461;

(4) The Global Burden of Disease Study 2016, “The Lancet”, September 16, 2017,
Vol. 390, No. 10100, pp. 1083-1464;

(5) V. Atella, F. Belotti, C. Cricelli, D. Dankova, J. Kopinska, A. Palma, A. Piano
Mortari, The “Double Expansion of Morbidity” Hypothesis: Evidence from Italy,
January 2017, CEIS Working Paper No. 396.
La disparità di genere in Italia nella
partecipazione lavorativa e nelle
pensioni

In Italia, le disparità di genere sono ancora molto forti, anche se significativi
progressi sono stati fatti, soprattutto nell’istruzione. Pietro Pedemonte argomenta
come, per la donna, alle criticità di scarsa occupazione dopo gli studi, si
aggiungano l’insoddisfacente qualità del lavoro e le minori retribuzioni.

A 70 anni dall’entrata in vigore della Costituzione – il cui articolo 3 evidenzia come
la Repubblica abbia un ruolo attivo nella rimozione degli ostacoli di ordine
economico e sociale che limitano l’eguaglianza dei cittadini – la parità tra uomini e
donne rimane uno dei temi più dibattuti.

Il XVII Rapporto Annuale dell’INPS – relativo all’anno 2017 – fornisce alcuni dati
circa l’importo lordo del reddito pensionistico ricevuto dagli uomini e dalle donne e
permette di comprendere come vi siano ancora difficoltà all’interno del mondo del
lavoro per la componente femminile della popolazione.
I risultati confermano sostanzialmente quanto emerso dal Global Gender Gap
Report 2017, in cui l’Italia riguardo alle pari opportunità tra uomini e donne si è
classificata 82esima su 144 Paesi: un risultato molto deludente, se si considera che
nel 2015 e nel 2016 l’Italia si era piazzata rispettivamente 41esima e 50esima.

Suddividendo per classi di importo mensile le pensioni, emerge come il 45% delle
pensioni femminili abbia un valore inferiore a 1.000 euro, mentre solo il 25% delle
pensioni maschili si trovi al di sotto di questa soglia. Allo stesso modo, se il 32%
delle pensioni maschili assume un valore superiore ai 2.000 euro, per il genere
femminile la percentuale si abbassa al 16%.

Se si guarda ai pensionati complessivi, la media mensile della pensione è 1.750
euro per i maschi e 1.257 euro per le femmine. La domanda da porsi è se tale
divario – di quasi 500 euro – dovuto alla differenza di stipendi maturata nel corso
della carriera lavorativa sia attribuibile alle diverse posizioni rivestite dai generi o
viceversa a fattori di disuguaglianza.

Le cause
L’ “Indagine conoscitiva sulle politiche in materia di parità tra donne e uomini”
condotta nel 2017 dall’Istat ha l’obiettivo di evidenziare quali siano le cause e le
fasi in cui emergono tali disparità.

Tale ricerca è stata condotta a partire dai dati riguardanti l’istruzione, al fine di
verificare se la differenza delle retribuzioni sia dovuta ad una minore preparazione
della componente femminile della popolazione.

E’ stato tuttavia dimostrato che le donne conseguono durante gli studi risultati
significativamente superiori a quelli degli uomini, ed anzi il divario di genere a loro
favore risulta in aumento negli ultimi anni. Inoltre, l’Italia risulta essere uno dei due
Paesi UE (insieme alla Spagna) in cui il livello di istruzione femminile è più alto di
quello maschile, anche grazie ad un minore tasso di abbandono precoce degli studi
rispetto agli uomini. In particolare, in Italia, la percentuale di donne e uomini in
possesso di un titolo di studio terziario tra i 30 e i 34 anni è rispettivamente pari a
32,5% e 19,9%. Pertanto, le cause dei minori stipendi non possono essere
attribuibili a minori competenze a livello educativo.

I principali problemi sorgono, quindi, in una fase successiva, quella della
transizione tra istruzione e lavoro.

Bisogna innanzitutto considerare che l’Italia è uno dei Paesi UE in cui il tasso di
occupazione risulta più basso se si è in possesso di un diploma secondario
superiore o terziario. A ciò si deve aggiungere, per le donne, un ulteriore
svantaggio occupazionale che, sebbene sia diffuso in tutti i Paesi UE, in Italia
risulta particolarmente marcato per le diplomate.

Il fattore responsabile del minor impiego di forza lavoro femminile è la difficile
conciliazione tra lavoro domestico e lavoro remunerato che le donne devono
svolgere. In effetti, nella suddivisione dei carichi familiari permangono le principali
differenze di genere, anche se negli ultimi anni vi sono stati segni di
miglioramento: se le donne dai dati dell’uso del tempo del 2008-2009 svolgevano il
71,9% del lavoro domestico, la quota è scesa al 67% nel 2013-2014; una fetta
comunque alta che evidenzia una componente culturale molto forte.

La minore partecipazione lavorativa femminile non è solo negativa da un punto di
vista sociale, ma anche per motivi economici: il fatto che le donne conseguano
migliori risultati durante gli studi, ma poi non vengano inserite in modo appropriato
nel mondo lavorativo implica che alcune delle migliori menti del Paese non
potranno contribuire adeguatamente allo sviluppo di aziende e imprese, etc.

Dal 1977 al 2017 si è comunque assistito ad un trend positivo riguardante
l’occupazione femminile, passata da 33,5% al 48,1% e ad una riduzione del gap di
genere, dal 41,1% al 18%.

Tuttavia, se i dati sembrano confortanti, le principali difficoltà riscontrate dalle
donne emergono in un’analisi di tipo qualitativo. La quota di donne che hanno una
bassa paga, sono occupate a termine da almeno 5 anni o hanno un livello di studio
superiore a quello richiesto supera sempre la percentuale maschile assoggettata
alle stesse condizioni. Un caso emblematico è quello del lavoro part-time
involontario, in cui nel 2016 la percentuale delle donne ad esso sottoposte era tre
volte quella degli uomini.

Altre disparità emergono se si analizza il tasso di occupazione delle donne in
relazione al fatto di essere madri: il tasso di occupazione di una donna che vive da
sola è dell’81,1%, se si trova in una coppia senza figli è del 70,8% mentre scende
fino al 56,4% in presenza di uno o più figli.
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