Dante - "La storia di Cesena sfila in bicicletta "
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Dante il sommo poeta che dopo un lungo viaggio al termine della notte ci ha portato a rivedere le stelle. Dante, il poeta più conosciuto, studiato e commentato al mondo, l'ho amato tardi. Come altri ragazzi poco più che adolescenti - impreparata agli incontri letterari - leggere la Commedia, una delle opere più elevate di ogni tempo, istintivamente, l'ho considerato un compito di difficile comprensione per me ragazzina cresciuta in un contesto paesano povero di libri. In quella stagione, pur per certi versi formativa, a mettermi a disagio erano le parole arcaiche e sconosciute del testo che mi veniva imposto, parole che mi respingevano e mi escludevano. Quando ripenso a quelle iniziali insofferenze linguistiche, ricordo un accadimento non del tutto casuale (niente mai lo è). Ad accompagnarmi lungo quel viaggio scandito da un dialetto più musicale del mio, in- trapreso da Dante per seguir virtùte e conoscenza, ad aiutarmi a far pace e a famigliarizzare con i versi più oscuri della Commedia, sono state delle immagini che celebravano la luce come fenomeno mistico, rese nel loro massimo splendore dall'artista ottocentesco Gustave Doré. Immagini che porto 'incise' nella memoria e che mi hanno aiutato ad entrare nel mondo poetico di Dante e ad amare la Poesia, 'il luogo dove le parole sono più visibili'. Ad accompagnare Dante nel suo viaggio, a fargli da guida morale e da maestro, cinto di lauro, c'è il poeta Vir- gilio che rappresenta la 'ragione umana', una virtù che conduce al giusto ordine terreno: opera e realizzazione di un disegno divino. Molto presto però Dante dimentica questa simbologia e fa di Virgilio un dolcissimo padre, l'amico ideale che ognuno desidererebbe avere con sé nella vita. Aiutata dalle immagini grafiche del Doré, ritrovo il poeta alle porte dell'inferno. Qui c'è affissa un'inesorabile condanna per chi ha peccato: Lasciate ogni speranza voi che entrate, parole che lo fanno rabbrividire, consa- pevole che il vero inferno è nel male annidato nelle pulsioni più oscure dell'animo umano. A fatica Dante si inoltra nel groviglio della selva oscura tempestata di uccelli rapaci che coi loro artigli segna- lano un pericolo, e spaventato stenta a trovare la giusta direzione. I primi condannati che incontra, relegati in un Limbo, sono gli ignavi, quelli che sono vissuti invano e non si sono 'schierati'. Fra questi peccatori c'è anche un papa, nonché gli angeli che non hanno scelto di stare né con Dio, né con Lucifero. A comparire lungo la narrazione, ognuno nella sua postazioni, Cerbero, Minosse, il Minotauro, spaventosi simboli di tutto ciò che è contrario a ogni forma di bene. L'incontro più drammatico e raccapricciante é quello con il Conte Ugolino, con la sua storia in cui l'amore e la speranza sono distrutti dall'odio e dalla disperazione. Dante, pur mostrando una grande ammirazione per i poeti e i filosofi greci, li trasforma in ombre addolorate per la grande lontananza dal Gran Signore di tutti i cieli . Dante, non può avere pietà per coloro che Dio ha condannato. Secondo la teologia che domina la visione medioevale non è lecito in nome dell'amore dimenticare i doveri famigliari per arrendersi al fuoco dei sensi. Francesca contrita confessa il loro peccato: La bocca mi baciò tutto tremante. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante. Gli incontri si susseguono e il viaggio continua lungo le tre cantiche, ricco di storia, di incontri, di poesia. È un viaggio che simboleggia la vita: il tempo concesso all'uomo alla conquista della vera immagine di sé, verso una sua redenzione. In quella stagione dove ogni città faceva guerra alla vicina, parlare di Italia ancora non aveva molto senso, ma Dante senza saperlo riesce a riunire le tante parti divise con l'uso felicissimo del nascente volgare: la nostra lingua madre. Infine quel fuggiasco, dopo aver sondato l'abisso dell'animo umano, ormai 'savio', intrecciando i miti con la realtà, i sogni con la politica, l'amore con le sue contraddizioni, è pronto a scalare il buio per rimettersi nel flusso della vita. Siamo così giunti alla fine di questa storia che come ogni bella storia non poteva che finire bene: finalmente anche noi insieme a Dante possiamo lentamente risalire a riveder le stelle.
Don Baronio Quel prete dalle scarpe rotte che ha cantato la carità ... nel ritmo un po’ folle dei santi. Don Baronio era nato a Cesena l’11 maggio1887, ottavo di nove figli, in una famiglia di piccoli proprietari terrieri, originaria di Sorrivoli. Negli anni della prima giovinezza era stato un ragazzo allegro e vivace, amante dell’esercizio fisico e di lunghe camminate a contatto con la natura. Terminate le scuole elementari, aveva proseguito gli studi in seminario, dove, già animato da un nascente fervore religioso, aveva messo in luce una pronta intelligenza e una decisa fermezza di carattere. Nel luglio del 1911 venne ordinato sacerdote, e il vescovo di Cesena volle che il giovane prete proseguisse gli studi all’Università di Roma dove prese la laurea in Lettere e più tardi, a Bologna, quella in Filosofia. Allo scoppio della prima guerra mondiale don Carlo, richiamato alle armi, partì per il fronte come tenente cappellano in un reggimento di fanteria. Nel luglio del 1915, benché ferito dallo scoppio di una granata, rimane al suo posto per confortare i soldati e soccorrere i feriti. Per questo atto di coraggio verrà decorato con la medaglia d’argento al valor militare. Colpito nel profondo dell’animo dalle atrocità della guerra, Don Baronio seppe ugualmente compiere fino in fondo il suo dovere di soldato, così quando, con la disfatta di Caporetto, un senso di sfiducia e di diso- rientamento sembrò propagarsi in tutta la nazione, dalle pagine del “Corriere Cesenate” egli incitò i cittadini alla resistenza civile “...non saremo noi che daremo un esempio di fiacchezza, è ancora la voce del dovere che ci chiama”. Un sano patriottismo il suo, lontano da ogni esaltazione retorica, senza nessun abbandono sentimentale. La gioia per la fine di quell’ immane massacro non poteva far dimenticare coloro che non erano tornati, i figli orfani, gli invalidi, la disoccupazione, la spaventosa crisi economica. La scarsa alimentazione e le privazioni causate dalla povertà colpivano soprattutto i bambini che vivevano in uno stato di abbandono, di degrado fisico e morale. Il sacerdote fu subito colpito da questa piaga che gravava sull’infanzia orfana, abbandonata, un fenomeno non certo passeggero se nel 1927, ben dopo nove anni dalla fine di quella guerra, don Baronio scriveva: “Tur- be di fanciulli si aggirano nelle nostre vie, si uniscono a stormi su mucchi di ghiaia, o attorno a una fontana, e danno l’idea che siano veramente figli di nessuno”. Nominato canonico, il suo primo pensiero, il suo cruccio costante, era la sorte dei poveri “bambinelli” va- gabondi, sperduti per le strade. Accanto alla canonica di Sant’Agostino, la sua residenza, si trovava il “Camerone”, uno squallido edificio in cui il Comune ospitava i senza tetto. I figli di questa povera gente furono i primi a ricevere le cure di don Baronio che trascorreva in mezzo a loro tutto il suo tempo libero. A Cesena non esistevano Istituti che raccogliessero fanciulli indigenti, orfani, derelitti e l’assistenza all’infan- zia era quindi affidata al buon cuore di persone caritatevoli. Ecco quindi balenare nella mente del sacerdote l’idea di un ‘luogo’ in cui questi fanciulli potessero essere raccolti e sottratti alle miserie della strada e verso la metà del 1925 la realizzazione del programma umanitario di don Baronio prese corpo. Sotto la sua presidenza si costituì un comitato con lo scopo di raccogliere fondi per la fondazione di un Isti- tuto destinato ai bambini poveri. Il 6 novembre 1926, con quei proventi veniva acquistato in Subborgo Valzania un edificio che per oltre qua- rant’anni sarebbe stata la prima sede dell’Istituto “Figli del Popolo”. Nel corso della sua vita don Baronio ha accolto nei suoi Collegi più di 5000 ragazzi. Da ultimo, nel 1969 inaugurò il moderno Collegio di Via Mulini, ed è proprio in quell’Istituto che porta il suo nome che don Baronio trascorse gli ultimi anni della sua vita. Una vita interamente dedicata al bene del prossimo, a una carità senza limiti.
Violante Malatesta Signora di Cesena, una bella e nobile figura del XV secolo che ancora oggi onora col suo operato la città del Savio. Il matrimonio fra Violante da Montefeltro e Malatesta Novello, Signore di Cesena, viene celebrato nel 1442 a Urbino. Novello ha 22 anni e Violante 12 e data la giovane età di lei, i due sposi per circa cinque anni re- stano separati ciascuno nella propria città. Nel 1444, in seguito alla morte del fratello, ucciso in una congiura, nel terrore di quella notte Violante fa voto di castità perpetua. Si rifugia poi a Roma presso lo zio paterno, il Cardinale Prospero Colonna. È in quell’ambiente romano che entra in contatto con illustri umanisti. Nel giugno del 1447 si ricongiunge con Novello a Cesena per incominciare la sua vita di moglie e di Signora della città. Qui viene onorata da tutti e rispettata dal marito che non si oppone al suo voto di castità consa- pevole dei suoi problemi di salute. Violante è una donna molto bella, di onesti e nobili costumi, di grande religiosità e spiccate virtù. È semplice e modesta anche nel vestire, piacevole nei rapporti con le persone, sempre impegnata a intratte- nere buoni rapporti con la sua amata città d’adozione, pronta a dirimere le divergenze fra i sudditi, e a offrire con la sua presenza, protezione e assistenza al suo popolo. Grazie alle sue molteplici virtù cristiane nel 1460 si adopera perché venisse donato ai frati dell’Osservanza un terreno fuori porta sul quale costruire il loro convento. Promuove e sollecita inoltre la costruzione del nuovo ospedale del Crocifisso nei pressi della Cattedrale, si occupa dei problemi amministrativi del territorio, e di appianare le divergenze fra sudditi e affittuari. Quando Novello si dedica alla impegnativa costruzione della Biblioteca, che da lui prenderà il nome di Ma- latestiana, Violante, consapevole della portata dell’impresa, è pronta ad offrire il suo contributo grazie alla sua formazione umanistica acquisita prima a Urbino, poi nel suo soggiorno romano; grazie soprattutto ai contatti, a più riprese, che aveva intrattenuto coi più illustri umanisti del suo tempo. La Malatestiana sarà inaugurata il 15 agosto 1454. È stata la prima biblioteca in Italia ad essere inserita dall’ Unesco nel Registro delle Memorie del Mondo, elevando in tal modo un inno alla cultura umanistica e rinascimentale. Biblioteca che ancora oggi illumina la città di Cesena. Il 20 novembre 1465 Malatesta Novello muore a quarantasette anni e Violante, ancora giovane, fedele a un antico richiamo, decide di ritirarsi in un monastero di Ferrara, dove prenderà il nome di suor Serafina per essere in seguito nominata Badessa. Prima di lasciare Cesena e di ritirarsi in convento, dove morì nel 1493 in odore di santità, ha donato tutti i suoi beni, parte alla chiesa e parte alla città di Cesena che l’aveva amata e onorata come sua Signora.
Roberto Benigni e Nicoletta “la sua benedizione” È stato annunciato che sul palcoscenico della prossima 78esima Mostra Internazionale d’Arte Cinemato- grafica di Venezia, Roberto Benigni riceverà il Leone d’oro alla carriera e il suo sincero grazie non si è fatto attendere: “Questo premio ha per me un valore immenso. Il mio cuore è colmo di gioia e di gratitudine”. Sarà bellissimo assistere alla debordante felicità di un attore-regista che ha costruito sulla capacità di trasmet- tere emozioni, uno stretto rapporto col pubblico. Un pubblico al quale è legato da un filo diretto, che lo ama qualsiasi cosa faccia, che lo accompagna ovunque vada. Indimenticabile il trionfo del 1999 con le tre statuette a La Vita è bella! In quella cerimonia storica, chiamato a gran voce da Sophia Loren, raggiunse il palcoscenico camminando sugli schienali delle poltrone vellutate del teatro Dolby di Hollywood. Da allora ha continuato il suo percorso di regista con il “Pinocchio” del 2002 in cui interpretava il burattino, con “La tigre e la neve” dove accanto all’inseparabile consorte Nicoletta Braschi, nei panni dell’amata Vitto- ria, metteva in scena l’avventura in Iraq del poeta Attilio. In una sequenza del film, al capezzale di Vittoria, (ma col sentimento rivolto alla amatissima moglie) affran- to, novello Hauden, poeticamente straparla: “Se muore lei, tutta questa messa in scena del mondo che gira, possono anche smontarla, portarla via, schiodare tutto, arrotolare il cielo e caricarlo su un camion col rimor- chio, si può spegnere anche questa bellissima luce del sole che mi piace tanto”. Da attore Benigni è apparso nel film di Woody Allen “To Rome with love” nei panni di un illustre scono- sciuto che, vittima di uno equivoco, viene assalito da giornalisti e paparazzi. Dai primi anni Duemila, la sua straordinaria capacità di comunicazione con il pubblico, ha trovato la mas- sima valorizzazione nell’incontro coi testi sacri: la “Divina Commedia”, “I Dieci comandamenti” e ultima- mente i “Principi fondamentali” della Costituzione italiana. Doveroso che la Biennale abbia scelto di premiare l’estro di un artista che col suo talento versatile e la sua gioiosa irruenza ha dedicato una vita alla cultura e alla divulgazione, sempre animato da una straordinaria creatività. Delle sue capacità e dei suoi valori si sono accorti e avvalsi grandi registi: Fellini, Ferreri, Garrone, Bertolucci. Si è imposto come creatore di film di grande successo, e da ultimo come interprete dantesco ca- pace di attirare presenze da stadio. Sa essere buffo ma anche serissimo, dissacrante e allo stesso tempo solenne. Benigni è un autore a tutto tondo, unico, originale, insostituibile. Noi cesenati non l’ammiriamo soltanto per i suoi grandi valori professionali e umani, noi gli vogliamo bene perché oltretutto per noi è ‘uno di casa’. Ha sposato Nicoletta, “ la sua benedizione”, cresciuta nelle nostre contrade. Insieme hanno scelto di vivere qui, in un rustico che ha messo radici su una collina che guarda Cesena, la nostra amabile città baciata dalla storia. Come possiamo dirvi grazie? Di tutto naturalmente.
Bruchin l’ultimo cantastorie Nel cuore antico, ma ancora pulsante della città di Cesena, sopravvive il ricordo del popolare, amatissimo Bru- chin. L’ultimo cantastorie della Romagna, il poeta che riteneva fosse suo il compito di illuminare la mente del popolo di cui si sentiva parte, sempre pronto con le sue bonarie invettive a condividere le sorti degli operai, degli umili e di tutti coloro per i quali la vita era un ingrato e faticoso viaggio. Accanto a una delle panchine del viale Carducci, dove nella bella stagione siedono anziani pacificati, adolescenti svogliati e badanti senza una precisa identità, non può passare inosservato l’espressivo bronzo di Giovanni Mon- talti detto BRUCHIN (1879-1953) poeta dialettale; Cesena con quell’opera ha voluto rendere omaggio ai suoi meriti di divulgatore letterario di una ‘lingua’ che oggi - più che mai - andrebbe salvata dall’estinzione. Un altro suggestivo omaggio a questo cantastorie lo ritroviamo nel monumentale lavoro pittorico del mura- les che si snoda lungo il vicolo che lambisce un tratto delle vecchie mura (opera dell’artista Natali). È Bruchin a chiudere la lunga sfilata in bicicletta dei tanti personaggi storici qui ritratti, personaggi che con la loro pre- senza hanno dato lustro alla città di Cesena. A sorpresa, ultimo del corteo, ecco comparire un timido, tenero omino che a fatica sembra reggersi in piedi su una sedia malferma, al collo ha un fazzoletto scarlatto legato a svolazzo e a mani aperte disperde nel vento i volantini delle sue poesie. È il ritratto fedele quasi ‘fotografico’ del modesto e pur diligente cantore del laborioso popolo romagnolo: figura che sembra prendere le distanze dai protagonisti patinati della grande storia che nel murales lo precedono. Pur nella stanchezza e nelle privazioni, il nostro poeta, trovava a sera la voglia di scrivere le sue ‘zirondelle’ che pur sapide di allusioni e di rusticana comicità, non hanno mai perduto il contatto con la luminosità della poesia, poesia che sgorga dall’animo di un uomo del popolo che, privo perfino delle più irrilevanti esperienze culturali scolastiche e libresche, accessibili anche ai più umili, attinge la sua ispirazione dalle tradizioni della sua terra, dal suo folclore e dalle sue aspirazioni di uguaglianza e giustizia sociale. Così ogni giorno dalla casa quieta passo alla piazza a diventar poeta, la mia eloquenza dialettal si spande sopra una sedia anch’io divento grande. Dall’alto di quella sedia, che nei giorni di mercato metteva presso il Fontanone, il nostro oratore assumeva il tono cattedratico di chi conosce e comprende la vanità delle cose umane, parlando sempre per immagini in un colorito dialetto - “una lengua da puret” - conosciuta e parlata da gente come lui, alla quale lui si rivolgeva. Se per un lungo tratto della sua vita aveva scritto poesie dialettali per divertimento e passione, in seguito alle ristrettezze economiche imposte dalla sua numerosa famiglia aveva incominciato a farle stampare per poi passare nelle piazze a declamarle e a venderle per pochi spiccioli. Bruchin non possedeva solo il repertorio comune di ogni cantastorie che si rispetti, ma con le sue ‘storie’ è stato anche lo scrupoloso informatore della gente della sua città, del contado e di gran parte della Romagna: sensibile di fronte all’audacia dell’uomo e delle varie conquiste del progresso, ne informa il popolo, ammo- nendo i potenti, carichi come sono di egoismi e di superbia, a non superare i limiti. Nella sua opera non mancano accenti di buona poesia che spesso prendono spunto dal suo saltuario lavoro di bracciante, dalla sua lotta contro la miseria, nel tentativo estenuante di sbarcare il lunario. Ad illuminargli la vita è stata la sua vena poetica che gli ha fatto vedere le sventure e le pene con sereno di- stacco: disagi che colorava e impreziosiva col suo arguto e pensoso umorismo. Oltre ad avvertire forte il richiamo ai temi sociali, a dar voce alle aspirazioni e alle delusioni della sua gente, senza nessuna retorica, si è ancorato alla fede: una fede viva e genuina che considerava l’unico mezzo per riportare la pace, l’uguaglianza e l’amore fra la sua gente. Bruchin, l’ultimo nostro cantastorie, rappresenta un’epoca che ci è cara perché legata ai ricordi nostalgici della nostra infanzia, della nostra terra che allora conservava molte delle sue antiche tradizioni e quasi intatti i suoi aspetti caratteristici e pittoreschi: tratti della sua identità per cui la Romagna è sempre andata orgogliosa e fiera.
Ilario Fioravanti Brevi note biografiche e considerazioni minime sulla sua grande opera Ilario Fioravanti, uno dei più interessanti protagonisti dell’Arte italiana, è nato a Cesena il 25 settembre del ‘22. Fin da giovanissimo, prima col disegno, poi attraverso l’incisione e la scultura, si avvicina all’arte figurativa. Nel 1949 si laurea in architettura a Firenze. La professione di architetto non lo distacca tuttavia dalla neces- sità di testimoniare ogni sua emozione ed esperienza attraverso nuove forme d’arte. Studia con ammirato interesse sia le gigantesche opere egizie che le terrecotte a misura d’uomo di antiche civiltà. Osserva le scul- ture nuragiche, l’arte etrusca e quella africana. A questo artista sono state dedicate diverse rassegne in spazi pubblici: a Cesena (1988), a Milano (1990) a Longiano (1996). Nel 2000 riceve l’incarico di realizzare due bronzi per l’ingresso principale del cimitero urbano di Cesena e nello stesso anno, in occasione del Giubileo, realizza l’opera imponente del portale del Duomo: sono otto formelle in bronzo ( con relativa lunetta), che raccontano con grande maestria storie evangeliche. Giovanni Testori è il suo mentore a livello nazionale e internazionale. In seguito è Vittorio Sgarbi a prendersi cura delle mostre personali presentate a Spoleto, a Potenza, a Cagliari, a Palermo; nel Palazzo Ducale di Pe- saro, a Palazzo Loffredo a Potenza. Nel 2007 ritroviamo i suoi capolavori alla Koller galleria di Budapest, a Bruxelles in Lussemburgo, a Haifa, in Israele dove Ilario è presente con un suggestivo presepe. Nel 2008 vie- ne celebrata a Cesena nell’intero Palazzo del Ridotto e nel Palazzo Romagnoli, la grande rassegna antologica di Ilario Fioravanti - il Destino di un Uomo nell’Arte. È dello stesso anno la rassegna al Museo Archeologico di Sarsina Il Diavolo e l’Acqua Santa dove vengono esposte 22 formelle di terracotta policroma, ora custodite presso il Museo di Arte Sacra. È del 2009 la personale I luoghi dell’Anima dedicata al tema della Via Crucis. Ilario Fioravanti si è spento a Savignano sul Rubicone il 29 gennaio del 2012. Viene tenuta viva la sua casa-studio che egli aprì al pubblico più vario: la Casa dell’Upupa a Sorrivoli. Ho un vago ricordo dei primi incontri di lavoro che ho intrattenuto con lIario Fioravanti - architetto, mentre ricordo chiaramente che è da ‘subìto’ che è nata la mia stima, la mia ammirazione, il mio amore per le sue opere: frutto di pura poesia. C’è stato un contatto immediato, intimo, fra me e le sue terrecotte policrome, ricche di una innocenza, che mi ha incantato. Opere in apparenza piene di semplicità, ma con radici lontane che alimentavano la profonda cultura di Ilario. Poetica e suggestiva, direi coraggiosa, l’idea di Ilario di mettere i Clown nel viaggio di Gesù Cristo verso la crocifissione. Qualcuno ha detto “È stato come mettere il sorriso dove c’e il massimo della sofferenza”. Credo sia questo il segreto dell’opera emozionante, a tratti struggente di Ilario: un’arte antica e dolente, intrisa di emozioni primordiali che vanno a completare la nostra umanità. Ma la Bellezza dei suoi capolavori non ha solo radici nella profondità delle cose antiche, è una profondità che ci riporta alla fanciullezza, all’emozione di quando per la prima volta abbiamo visto il mare, al mondo fantastico dei presepi, ai pastori, ai monasteri con la polvere del tempo. E ovunque tanto religioso silenzio che ti abbraccia e ti porta lontano, in un mondo che abbiamo perduto,
Leonardo a Cesena “A Porta Romana, sul far della sera, un uomo a cavallo si avvicina alle mura della città preceduto da un drappello di soldati di scorta e da un carro che trasporta casse che contengono qualche abito e, soprattutto, libri, alcune tele e strumenti di misurazione”. È così che il professor Franco Spazzoli nel suo ultimo romanzo Il nero e il bianco annuncia l’arrivo di Leonardo a Cesena la sera del 9 agosto del 1502. Non gli pesano i suoi cinquant’anni: ha il corpo ancora agile e negli occhi, a brillare, è una inesauribile curiosità. Certamen- te la prima cosa che vide in prossimità della Porta Romana dovette essere la grande Abbazia del Monte, alta sulle colline a proteggere la città. Già operativo dopo qualche giorno, il 15 agosto è lì a disegnare in uno dei suoi inseparabili taccuini l’ingegnoso meccanismo di una carrucola da pozzo. A Cesena era rimasto per poco più di un mese su incarico di Cesare Borgia che l’aveva nominato Architetto e Ingegnere Ge- nerale. Era stato munito di un lasciapassare che gli consentiva piena autonomia e libertà di movimento “...vedere, misurare, et bene extimare quanto vorrà”. Il Borgia aveva deciso di fare di Cesena la capitale del suo principato e aveva grandi progetti per ampliarla, abbellirla e collegarla al mare con un canale, ma occorreva, prima di tutto, renderla inespugnabile. Nel corso del tempo la tecnica militare era radicalmente cambiata: a decidere la vittoria non era più il valore dei soldati che combatteva- no a piedi e a cavallo, era l’artiglieria a determinare la sorte dello scontro: le vecchie mura medioevali alte e strette non erano più in grado di fronteggiare il nemico e di proteggere la città. Serviva un’altra tipologia di fortificazioni, mura più basse e più solide per meglio sostenere l’urto delle palle di cannone. È in questo contesto che si colloca la missione di Leonardo a Cesena. La più significativa traccia di questo suo lavoro è lo straordinario rilievo delle mura che aveva riportato nei fogli del suo taccuino dopo avere percorso passo a passo l’intero perimetro della città, con complesse misurazioni di estrema precisione. Naturalmente non mancò di osservare la singolare conformazione dell’area della città, ristretta all’inizio per poi via via acqui- sire maggior ampiezza fino ad assumere la forma di uno scorpione. La insaziabile curiosità di Leonardo lo portò alle più svariate annotazioni e alle più impensabili soluzioni per migliorare la ge- stione del territorio non solo urbano. I suoi disegni, sono stati piccoli e grandi accorgimenti che hanno spaziato dalla forma di un carro, ai rastrelli in difesa della Rocca e del Parco della Rimenbranza, dalla protezione delle anse del fiume Savio e del Cesuola che tendevano ad esondare provocando danni ingenti, ai provvidenziali telai alle finestre, fino all’efficace apparen- temente semplicistico metodo di appendere l’uva, per conservarla nell’inverno. Di veramente sorprende (sempre grazie ai suoi taccuini), nel nostro prezioso Museo di Strumenti Musicali Meccanici di Villa Silvia Carducci si può ammirare, perfettamente ricostruito e rigorosamente funzionante, il Tamburo Meccanico ideato e progettato da Leonardo. Grazie al suo genio, a dare la carica ai soldati e a spingerli all’attacco, non ci sarebbe più stato il coraggioso ‘tamburino del reggimento’, sempre il primo a morire, a sostituirlo e a guidare i soldati sarebbe stato un tamburo meccanico : un grosso cilindro dal suono battagliero e marziale che ‘eroicamente’ e in piena autonomia sarebbe stato lì da- vanti pronto a sfidare la sorte. Per decenni ho frequentato per lavoro vari mercati d’antiquariato che fiorivano un po’ ovunque, non solo nelle varie piazze d’ Italia: Ravenna, Arezzo, Pennabilli, ma anche nel sud della Francia: a Bèziers, Montpellier, Avignone. Il mio interesse primario, impastato di vibrante curiosità, lo riservavo alla ricerca di antiche raffigurazioni pittoriche a matita, a carboncino, a sanguigna, a volte illuminate da biacche rilucenti: una passione che mi aveva portato ad essere qualificata da qualche commerciante come ‘La signora dei disegni’, un appellativo di cui, a quei tempi, andavo molto fiera. Grazie a quel patrimonio di disegni studiati e catalogati, ho potuto allestire con soddisfazione interessanti mostre per i ragazzi delle scuole superiori della mia città. Fin da ragazzina, nell’aula di disegno, con a disposizione modelli in bassorilievo di gesso, mi avventuravo impavida a disegna- re morbide forme architettoniche, semplici nature morte e all’occasione qualche figura classica. Ma nonostante questa mia naturale attitudine e il plauso del professore e del preside, i risultati che ottenevo non mi sembravano mai soddisfacenti. Aver rinunciato all’iscrizione alla scuola d’arte di Ravenna è stata una scelta che anche adesso ( a più di ottant’anni ) ancora rimpiango. Come potevo col passar del tempo e questi precedenti non innamorarmi dell’ineguagliabile meraviglia dell’immenso corpo dei disegni di Leonardo che emozionano il mondo. Non solo quando si hanno davanti le grandi opere: la Gioconda, L’ultima cena, o La dama con l’ermellino, ma anche quando si guarda il più irrilevante dei suoi disegni, si avverte con indicibile intensità, che ci scorre dentro qualcosa di vivo. Basta anche solo lo studio di un panneggio, un elementare esercizio accademico, per capire che c’è qualcosa di magico in questo artista capace di intrappolare con una matita, su un foglio di carta, il senso inafferrabile della vita. Per sempre.
Malatesta Novello dei Malatesti Domenico Malatesta nasce a Brescia nel 1418. Successivamente cambierà il proprio nome in Malatesta No- vello dei Malatesti. Insieme al fratello Sigismondo è figlio illegittimo di Pandolfo III Malatesta, ma entrambi, una volta deceduto, erediteranno dal padre la signoria che verrà spartita tra i due non ancora maggiorenni. Rimini e Fano andranno a Sigismondo, Cesena e Meldola a Novello Malatesta. Il loro destino, già segnato dalla tradizione famigliare, sarà quello di diventare dei cavalieri al soldo delle mag- giori potenze del tempo. Nonostante questo, l’educazione dei due giovani è ampia e variegata. Ciò si deduce dall’interesse precoce che Novello rivela per la cultura quando, appena quattordicenne, farà acquistare per conto proprio a Costantinopoli il codice greco di Demostene, tutt’oggi conservato nella biblioteca di Cesena. Durante il periodo di cavalierato, spesso al servizio del papato, Novello annovererà diverse vittorie ma anche alcune sconfitte rimanendo, più volte, gravemente ferito. A 19 anni si legherà attraverso un contratto matrimoniale all’infante Violante di Montefeltro allora di ap- pena quattro anni. I due convoleranno a nozze nel 1447, data che segna inesorabilmente anche la fine del cavalierato di Novello. In quell’anno il M. sviluppò la malattia che lo avrebbe allontanato dalla vita militare. Costretto a lasciare le operazioni belliche, fece ritorno a Cesena, dove, in seguito a un intervento chirurgico mal riuscito ad una gamba, rimase zoppicante per il resto dei suoi giorni. Da quel momento l’interesse del signore si rivolgerà interamente alla città e alla costruzione della biblioteca collegata alla chiesa di S. Francesco, da lui donata poi alla comunità di Cesena. Voluta dal signore come aperta al pubblico, è la prima biblioteca, di cui si abbia notizia, ad essere non di pro- prietà religiosa, ma comunale. Grazie a questa sua caratteristica non verrà soppressa durante il periodo della messa al bando degli ordini monastici voluta da Napoleone. Rimasta intatta fino ai giorni nostri mantiene l’intero arredo conservato integralmente, con i codici legati tramite catenelle ai plutei del periodo. Patrimonio dell’Unesco, all’interno custodisce un gran numero di codici scritti a mano su pergamena con ricche decorazioni miniate, molti dei quali commissionati dallo stesso Malatesta. Il signore stesso decise di usare per i propri volumi, pelli di capretto al posto di quelle di capra, al fine di ottenere pergamene più chiare e fini. Visto poi che spesso per un codice era necessario utilizzare le pelli fin anche di un intero gregge, lui decise di mettere in piedi un allevamento proprio. Al Malatesta si devono anche i rinforzi e le ricostruzioni delle mura e delle porte cittadine in particolare il ripristino della turrita Rocca Malatestiana sul Monte Garampo. M. Novello non ebbe figli. Al riguardo si disse che la moglie Violante avesse fatto voto di castità e che aves- sero vissuto per tutta la vita castamente animati da amore fraterno. La mancanza di un erede e il fatto di essere, insieme a Sigismondo, entrato in guerra contro il papa Pio II Pic- colomini costarono ai Malatesti la perdita della signoria di Cesena e Meldola. Dopo la morte di M. Novello avvenuta nel 1463 i suoi possedimenti rientrarono in quelli della chiesa. La moglie Violante, donna molto casta e devota, una volta rimasta vedova, prese i voti e, a soli 35 anni, si rinchiuse nel monastero del Corpus Domini di Ferrara, dove vi morì dopo 28 anni.
Marco Pantani Marco Pantani è nato il 13 gennaio 1970. Dopo aver praticato il calcio, la pesca e la caccia, si appassiona al ciclismo su strada e capisce immediatamente di essere portato per questo sport, che lo porta a vincere diverse gare a livello dilettantistico, e a mettere subito in mostra le sue qualità di scalatore. Nel 1992 si aggiudica il titolo di campione italiano dilettanti. Passato subito al professionismo partecipa al suo primo Giro d’Italia, ma per colpa di una tendinite è costret- to al ritiro. L’esplosione ciclistica di Marco avviene durante il Giro d’Italia del 1994, dove si piazza al secondo posto in classifica. E guadagna inoltre un buon terzo posto al Tour de France, aggiudicandosi, a sorpresa, il titolo di ‘miglior giovane’ della grande competizione. Il 1998 è un anno d’oro per Marco, l’anno della sua definitiva consacrazione: infatti si aggiudica il Giro e il Tour, dimostrando con questa accoppiata vincente di essere un imbattibile scalatore; in Francia è un tripudio di tifosi, in Italia la gente lo acclama. Nel 1999 “il Pirata”, pronto a fare il bis al Giro d’Italia, alla penultima tappa e ormai dato per vincente, viene escluso dal Giro, in quanto, in seguito ai controlli, sul suo sangue viene rilevato un valore di ematocrito oltre i limiti consentiti dal regolamento. Quell’episodio segnerà per sempre la carriera di Pantani che non riuscirà più a rialzarsi, sia come uomo che come atleta. Nel 2000 prova a ritornare in gruppo, ma le vicende giudiziarie, l’ostilità dell’ambiente e una serie infinita di fattori mentali, glielo impediscono. Nello stesso anno la Procura di Forlì lo condanna a tre mesi per frode sportiva. Nel 2002 durante l’ultimo Giro d’Italia è al 75esimo posto in classifica generale e si ritira. Il 15 giugno del 2003 in preda a forte stato depressivo si fa ricoverare in una Casa di cura del padovano. È il dramma di un grande campione caduto dall’alto, è l’inizio della sua clausura, lontano da tutti, prigionie- ro delle sue insicurezze, delle sue crisi, dei suoi demoni. Morirà il 14 febbraio 2004 in un hotel di Rimini per un edema polmonare e celebrale causato da un abuso di psicofarmaci e cocaina. La morte di Pantani, uno dei campioni più popolari del dopo guerra, protagonista di tante imprese, lasciò sgomenti non solo i romagnoli, ma tutti gli appassionati di ciclismo. Uno sport ‘povero’ molto amato dalla gente, che oltre a particolari doti naturali, richiede agli atleti sforzi fisici ai limiti della sopravvivenza. Prova ne siano le parole rilasciate dal nostro ‘Pirata’ con la bandana a un grande giornalista che un giorno al Tour, gli aveva familiarmente chiesto dove trovasse la spinta per andare così forte in salita. Il ‘Pirata’ ci aveva pensato su un attimo, e poi aveva risposto: “ Per abbreviare la mia agonia”. E questa definizione, il grande giornalista Gianni Mura, non se l’era mai dimenticata. Per tagliare per primo quei traguardi che ogni volta gli richiede- vano tanta ‘allucinante’ fatica fisica e mentale, Marco, si era giocato la vita.
Mariangela Gualtieri Una delle voci più coerenti e appassionate del nostro presente, è nata a Cesena nel 1951. Laureata in archi- tettura alla IUAV di Venezia, ha fondato, insieme a Cesare Ronconi, il Teatro Valdoca nel 1983 che ha dato vita a un laboratorio di poesia. Ho incominciato a scrivere dopo avere incontrato gran parte dei poeti italiani, credo che l’incontro con que- sti poeti sia stato scatenante, mi ha dato la libertà che mi spetta, mi ha dato coraggio [...] ed ha affinato la mia capacità di attenzione e di ascolto. [...] Sono stata abbellita, nutrita e cresciuta dalla parola altrui e sono infatti piena di riconoscenza fraterna nei confronti dei poeti che amo - non maestri, ma compagni di banda, bloccati in una adolescenza che non muta. Frammenti di un dialogo con Milena Mucci Chi è Mariangela Gualtieri oggi e che cosa vorrebbe si sapesse di lei? “Di me vorrei che si conoscessero le mie poesie, cioè il meglio che io possa condividere e per il resto, [...] diventare anonima è il più alto destino che possa capitare ad un autore, come è stato per Omero e per tanti altri delle cui vite sappiamo poco o niente e che sono diventati patrimonio di tutti”. Cos’è la poesia oggi? “Ecco a me piace pensare che la poesia abbia gli stessi poteri delle sacre scritture, e anche quelli delle parole magiche”. Qual è il valore della “parola” oggi? Quella infinita detta, scritta o letta? “Credo che il valore della parola sia proporzionale al silenzio che la abita - e la poesia è parola che ha al centro il silenzio”. Cos’è arte per lei? Cosa bellezza? Potrei dire che l’arte è la mia religione - sulla bellezza Anna Maria Ortese scrive “La bellezza? Cioè la natura”, in quel cioè c’è anche la mia risposta. Come avverte questi “cambiamenti” di modi, di gesti, di sentire profondo? In genere li accolgo con curiosità e spirito d’avventura [...]Non dimentico mai da dove veniamo, l’animale che eravamo e che siamo. [...] c’è dell’oro in questo tempo strano. [...] sento intorno a me persone consape- voli, che onestamente e con urgenza sono disposte a molti cambiamenti e da questa nuova consapevolezza arriveranno molte belle sorprese. I primi di gennaio è stato possibile godere dello streaming di un suo spettacolo attraverso la rete con un suc- cesso incredibile di pubblico [...] È stata una sofferenza recitare a teatro vuoto, per il teatro è indispensabile la presenza [...] è come guardare il mare in un monitor: impossibile rendere l’emozione di entrare dentro l’acqua, di galleggiare, nuotare. Il teatro è vivo di quella stessa forza dell’aperto, e sacrifica il meglio se deve accucciarsi dentro uno schermo. (9 marzo 2021) “A quella stretta a quel semplice atto che ci è interdetto ora - Noi torneremo con una comprensione dilatata. Saremo qui, più attenti credo - Più delicata la nostra mano starà dentro il fare della vita. Adesso lo sappiamo quanto è triste stare lontano un metro”. Hanno un respiro largo le fruttuose raccolte poetiche di Mariangela, caratterizzate da tensioni positive, a volte veementi, ma sempre pacificate, e da un canto istintivo, gioioso, quasi francescano, dove si alternano riflessioni sulla natura, su un albero, sull’aria, sul ritmo delle stagioni, sul risveglio primaverile della terra, sulle cose umane, sul silenzio che lega le cose. Non manca il lato ombroso nella percezione di Mariangela: il vento che scuote, i nodi mentali che impediscono il senso più compiuto della gioia. Lo “stile semplice” ma ricchissimo di risonanze letterarie è il punto di forza delle sue più recenti raccolte che intrecciano versi e parole a formare una sorta di grande potente sublime “preghiera”. Una preghiera che nello strappo finale del tempo, più misterioso che triste, trasforma “il niente in un niente più grande”.
Papa Francesco a Cesena Francesco, il Papa venuto dalle Americhe, è partito dalla Città del Vaticano il 1 ottobre 2017 e alle 8 è atterra- to all’eliporto di Cesena per una visita pastorale in occasione del terzo centenario della nascita di Papa Pio VI. Microbiografia Francesco, giovane gesuita che aveva completato la sua formazione nella Compagnia di Gesù, pur molto amato dalla sua gente, aveva scelto di lasciare la sua terra, l’Argentina, per girare il mondo in lungo e in largo, a piedi, in autobus, e in metropolitana, immerso nella faticosa quotidianità degli uomini, raccomandando la misericordia, il coraggio, e ‘porte aperte’ a tutti. Sosteneva che il più grande errore che poteva commettere l’uomo era considerare se stesso al centro del mon- do. Quando citava la giustizia sociale invitava la gente a prendere in mano il catechismo e a rispettare i dieci comandamenti. Era nato il 17 dicembre del ‘36 a Buenos Aires, figlio di emigrati piemontesi: suo padre Mario era un impie- gato delle ferrovie, sua madre si era occupata dell’educazione dei cinque figli. Diplomato come tecnico chimico, ma spinto da una nascente vocazione, era entrato in seminario sotto la guida dei gesuiti. Dopo la laurea aveva insegnato filosofia e letteratura in vari collegi della città. Il 31 dicem- bre del ‘69 venne ordinato sacerdote e proseguì la sua specializzazione in Spagna. Il 31 luglio del ‘73 venne scelto come ‘provinciale’ dei gesuiti dell’Argentina. Nell’ ‘86 soggiornò in Germania per completare i suoi studi a largo raggio. Dopo averlo nominato Vescovo, Giovanni Paolo II, il 21 febbraio del 2001 lo creò cardinale: intanto, in America latina la sua figura era diventata sempre più popolare. Nel 2005 prese parte al conclave in cui venne eletto Benedetto XVI. Come arcivescovo di Buenos Aires ( tre milioni di abitanti), in seguito, aveva lanciato un nuovo progetto missionario con l’invito a preti e laici a lavorare insieme per realizzare entro il 2016 duecento opere di carità. Al di là di ogni annunciata previsione il 13 marzo del 2013, è stato nominato Papa. Finalmente il mondo avrebbe avuto un Papa dal nome Francesco, quello del fraticello umile e scalzo che tutti, con immenso trasporto, amiamo. Incontro con la cittadinanza nella Piazza del Popolo di Cesena Dopo aver rivolto un semplice e famigliare buongiorno a fratelli e sorelle, Francesco, si presenta alla folla festante, col suo fare dimesso, come a ribadire il suo posto nel mondo: la mia gente è povera e io sono uno di loro. Ha poi espresso il piacere di essere a Cesena: “Una città ricca di civiltà e di storia che ha dato i natali oltre a dei figli illustri, a due Papi: Pio VI, e Pio VII” che hanno fatto la storia della chiesa. Per questo storico incontro con la cittadinanza, è stata scelta, non a caso, Piazza del Popolo. La “piazza” è un luogo caro a Francesco, perché appartiene al popolo, e rappresenta quel luogo emblemati- co, dove le aspirazioni dei singoli si confrontano con le esigenze, le aspettative, i sogni dell’intera comunità; dove gruppi particolari possono prendere coscienza che i loro desideri debbono armonizzare con quelli della collettività. Tutto concentrato su questo tema dominante, Francesco, nel cuore della sua predica, per rendere chiaro il suo pensiero, si concede una semplice e significativa immagine che resterà nella memoria dei presenti: “È nella piazza che si ‘impasta’ il bene comune”. E aggiunge che è soprattutto lì “che si avverte il richiamo alla buona politica: una politica che non deve essere né serva, né padrona, ma amica e collaboratrice; non paurosa o avventata, ma responsabile e quindi coraggiosa, prudente e nello stesso tempo che faccia crescere il coin- volgimento delle persone, la loro progressiva inclusione. Una politica che non saccheggi le risorse naturali che non sono un pozzo senza fondo, ma un tesoro che ci è stato donato ed è da usare con estremo rispetto.” Invita poi i giovani a prepararsi adeguatamente all’impresa, e a impegnarsi per il bene comune, respingendo ogni forma di corruzione. “ È la corruzione il tarlo di ogni politica” E quando il politico sbaglia dovrebbe avere l’accortezza di dire: “Ho sbagliato, scusatemi, andiamo avanti. E questo è nobile!” Chiude infine il suo accorato discorso con una esortazione: “Siate esigenti con voi stessi e con gli altri. Ascoltate tutti, tutti hanno il diritto di far sentire la loro voce, specialmente i giovani e gli anziani. I giovani perché hanno la forza di portare avanti le cose, e gli anziani, perché hanno la saggezza della vita”.
Renato Serra Un passo dietro l’altro a cercare l’infinito Renato era un giovane che viveva appartato nella sua amata Cesena, fra i libri della Biblioteca Malatestiana che dirigeva, fra la gente comune, mescolato alle passioni di tutti: il gioco, le donne e il paesaggio della sua pascoliana Romagna. Aveva mille progetti nel cassetto, amici vicini e lontani, una passione smodata per la lettura e una certa ten- denza per oziare e sognare ad occhi aperti. Ogni tanto si innamorava. Amava andare in bicicletta. E di frequente risaliva ‘le scalette’ per raggiungere Porta Montanara, un luogo d’elezione. Un passo dietro l’altro, su per la rampa di ciottoli vecchi e lisci, con un muro alla fine e una porta aperta sul cielo; e di là il mondo... da l’ Esame di coscienza di un letterato Renato Serra, nato a Cesena il 5 dicembre 1884, era cresciuto in una famiglia benestante di tradizione risor- gimentale. Aveva concluso gli studi al Liceo Ginnasio di Cesena, e a sedici anni, senza sostenere l’esame di maturità, era stato considerato ‘maturo’ per meriti scolastici. Nel 1900 si iscrisse all’Università di Bologna, alla facoltà di Lettere e Filosofia, dove ebbe come insegnante, insieme ad altri personaggi illustri, Giosuè Carducci, il cui magistero rimase un riferimento nella sua attività di critico letterario. Scelse poi di perfezionare i suoi studi in un Istituto di Firenze. Nel 1906 fece ritorno a Cesena, dove svolse il servizio militare di leva; nel 1907 si trasferì a Torino dove collaborò alla creazione di un vocabolario di italiano-latino per l’editore Paravia. Dopo i primi articoli sulla rivista La Romagna si inserì nell’ambiente fiorentino de La voce dove pubblicò diversi articoli e saggi stringendo rapporti con Prezzolini e De Robertis, entrando in corrispondenza con Benedetto Croce. Il 24 settembre del 1909 ottenne l’incarico di direttore della Biblioteca Malatestiana. In quella silenziosa e serena biblioteca - per quanto egli non fosse sempre sereno e quieto a causa di dolenti disavventure famigliari, disagi sentimentali e scontentezze varie - produsse molti importanti testi e per la prima volta pose la sua attenzione alla critica letteraria italiana con saggi sul Pascoli, Carducci e Croce. In quel periodo, un evento legato alla sua storia privata, gli procurò una forte delusione che cambiò la sua vita di scrittore e di pensatore. Fu inoltre coinvolto in qualcosa di ancora più radicale, la Prima Guerra Mondiale, che sconvolse l’Europa, per la quale chiese di partire come volontario. Nel 1915, in piena guerra, scrisse uno dei capolavori della letteratura italiana del Novecento: l’Esame di coscienza di un letterato. Dopo una licenza ottenuta per i postumi di un incidente automobilisti- co, richiamato alla armi, combatté col grado di tenente nel settore del Podgora. Ed è in una trincea di quella collina, che Renato Serra il 20 luglio del 1915 rimase ucciso in combattimento a soli trentun anni.
Fra’ Michelino Un frate di Cesena che ha ispirato il capolavoro “ Il nome della rosa “ di Umberto Eco In questo tempo di rinascita dei valori francescani, ora che finalmente un papa ha deciso di chiamarsi Fran- cesco ed ha scelto “la povertà come sorella”, è il caso di ricordare che nella località denominata Ficchio, poco distante da Cesena (l’odierna Ronta), nacque nel 1270 una figura importante nell’ordine dei francescani minori, un certo Michele Fuschi o Foschi, oggi conosciuto ai più dalle pagine del romanzo di Umberto Eco come Fra’ Michele da Cesena, indissolubilmente legato alla nostra città. Una figura affascinante di frate, portatore di una potente forza ideologica, in lotta con le più alte cariche ecclesiastiche. Un uomo di fede profonda che dopo una vita di studi, predicazioni e patimenti vari, fu nominato Maestro di teologia a Parigi e Ministro generale dell’Ordine francescano dal 1316 al 1328. La sua piccola corporatura gli valse l’appellativo di Fra’ Michelino. Una via del centro storico cesenate porta il suo nome a onorare la sua significativa figura, e a ricordare il suo puro, drammatico atto di ribellione a Papa Giovanni XXII. Da principio fu un suo soste- nitore, in seguito, quando costui mise in discussione il concetto di povertà dei francescani - gli unici fedeli allo stile di vita di San Francesco - lo avversò con un atto di ribellione senza ritorno che gli costò l’accusa di eretico e tante durissime conseguenze. Umberto Eco ne “Il nome della rosa “racconta l’incontro di una delegazione di francescani tra cui Michele con la delegazione papale al fine di tentare una impossibile riconciliazione e lo descrive come uno strano per- sonaggio, ardente nella sua fede francescana, un tipo gioviale, abile nella sua terrestre natura di uomo delle Romagne. Attorno al 1330 Fra’ Michelino e il teologo Guglielmo da Ockham (protagonista anch’egli del romanzo di Eco), entrambi scomunicati, si riunirono alla Corte di Ludovico il Bavaro che nel 1328 era stato incorona- to imperatore col quale si erano schierati, e insieme elaborarono una difesa del loro credo e della dottrina dell’indipendenza dell’Impero dalla Chiesa di Roma, negando - fra l’altro - il diritto al Papa di deporre il re. Dopo la scomunica e dopo essere stato deposto come Ministro generale, Michele da Cesena, protetto da Ludovico visse alla corte imperiale di Avignone fino alla sua morte avvenuta nel 1342. Quelle idee innovative che erano state promulgate, sono rimaste alla base della visione moderna della sepa- razione fra Stato e Chiesa.
Umberto Eco Due o tre cose che so di umberto eco dopo aver letto la sua ‘speciale’ autobiografia Umberto Eco, il giocoliere dell’intelligenza, l’umorista, il filosofo, il narratore, è nato nel 1932 ad Alessan- dria, una città storica che aveva avuto un ruolo nella resistenza contro l’imperatore Federico Barbarossa, an- che se poi, nel corso del tempo, i suoi concittadini non hanno mai mostrato nessun entusiasmo per le virtù eroiche. Da loro ha ereditato una forma di scetticismo che lo ha portato involontariamente a un costante attitudine all’umorismo, per cui ha sempre messo in forse anche cose in cui credeva, ironizzando pure su ciò che aveva scritto con grande convinzione. Una leggenda paesana narrava che ad Alessandria come a Gubbio fosse passato San Francesco e pare che anche lì avesse convertito un lupo, ma gli alessandrini che non credono alle leggende, col tempo se ne sono dimenticati. Comunque resta il fatto che non prendersi mai troppo sul serio gli era sembrato un giusto at- teggiamento filosofico. I suoi genitori erano piccoli borghesi e in casa non circolavano molti libri. Era stato comunque educato alla lettura dalla nonna materna abbonata a una biblioteca circolante, anche se non faceva molta distinzione fra letteratura e romanzi da quattro soldi. Quando il suo nonno paterno, che era tipografo e rilegatore di libri, morì, molti clienti non andarono a reclamare quel loro materiale che venne messo in un grande baule finito nella cantina di famiglia del nipote. Per l’uso sorprendente che il giovane Umberto fece del tesoro che con- teneva, era solito definire quel contenitore “Il baule dei miracoli”. Insieme a tante riviste d’avventura c’era anche “Il milione di Marco Polo” e “L’origine della specie” di Darwin; furono proprio tutte quelle letture a incoraggiarlo a scrivere. Essendo nato nel ‘32 era stato educato sotto il regime fascista, dove si insegnava ad amare il Duce e ad essere disposti a morire per amore di patria. Con la caduta del fascismo nelle edicole comparvero i giornali che non si erano mai visti prima e di colpo aveva capito la differenza fra dittatura e democrazia. Dopo vari interessi e molte esperienze letterarie, sempre immerso in temi trasversali che toccavano l’alta e la bassa cultura (non sempre con l’approvazione dei cattedratici), fu solo a cinquant’anni che divenne uno scrittore di narrativa. Si considerava un filosofo che scriveva romanzi e diceva che quando aveva iniziato a scrivere Il nome della rosa, anche se aveva usato molte testimonianze filosofiche, aveva preso la sua avventura narrativa come una vacanza. Non potendo la filosofia risolvere ogni quesito aveva fatto suo il concetto che ciò di cui non si poteva teorizzare si doveva narrare. È così che hanno preso vita sette romanzi. Il capolavoro Il nome della rosa dove viene proposto l’inesauribile, avvincente dibattito sul tema della verità. Il pendolo di Faucault che oltre a una polemica sulla cospirazione, mostrata la follia dell’antisemitismo. Il problema della memoria viene affrontato ne La misteriosa fiamma della regina Luana. Ne L’isola del giorno prima viene gettato uno sguardo su un universo senza limiti. Bau- dolino è una riflessione sulla relazione fra verità e menzogna. Infine il testo Numero zero approfondisce il dibattito sul giornalismo. Il professore ci tiene a ribadire che mentre nella poesia c’è la scelta dell’espressione che determina il contenuto (lui non si ritiene certamente un poeta), in prosa accade il contrario: sono gli eventi ad accendere il ritmo, lo stile, persino le scelte verbali. Meglio il romanzo, con la storia animata dalla fantasia, storia che deve divertire e appassionare; non ha interesse per la psicanalisi dalla quale si tiene lontano. Non è fra coloro che rimpian- gono la giovinezza. Ma il pensiero che tutta la sua esperienza andrà perduta nel momento della sua morte è certamente causa di sofferenza. Per porre rimedio a questa tristezza meglio scrivere, disegnare, costruire una città. Non potrebbe mai trasmet- tere la somma delle sue esperienze, i sentimenti che prova nel vedere un volto umano o una rivelazione avuta guardando un tramonto: questo è il vero inconveniente della morte. Allora meglio ‘sorridere’ che è un modo radicalmente umano di reagire all’inevitabile. È ne Il nome della rosa la profonda elaborazione del tema del sorriso, una esclusiva dell’uomo, un modo per esorcizzare l’idea che tutti noi umani dobbiamo morire. Umberto Eco è morto il 19 febbraio 2016. Di Umberto Eco oltre al suo romanzo d’eccellenza ‘Il nome della rosa’ che ho amato anche se non tutto quel
sapere ho potuto farlo mio, ho molto apprezzato le sue ‘lezioni magistrali’, testi brevi, destinati al grande pubblico in cui risaltano le caratteristiche che hanno fatto di Eco uno scrittore letto in tutto il mondo per la chiarezza espositiva, l’acutezza della riflessione, l’umorismo e per il gusto intellettuale della divagazione. È trascorso tanto tempo, ma non ho dimenticato una sua lezione tenuta nel chiostro dell’Abbazia di Santa Maria del Monte (conosceva quel convento per aver cercato nell’antica biblioteca notizie su Fra’ Michele da Cesena, il fraticello che gli aveva ispirato Il nome della rosa ). Quella calda serata di primavera avanzata, fra i vari argomenti culturali che avevano catturato l’interesse del folto pubblico, a colpirmi fu la lettura conclusiva di un suo erudito gioco ‘colto’ col quale trasformava Mike Bongiorno nell’eroe della mediocrità. Si trattava di uno dei primi esempi di critica televisiva che figurava all’interno dell’opera Diario minimo, dove, di totalmente innovativo, il professore aveva creato un genere letterario che nasceva dal suo guardare gli avvenimenti con un cannocchiale capovolto. Alla fine aveva chiuso l’evento con l’esclamazione “Lasciatemi divertire”. In questi giorni di pioggia ho riletto con rinnovato piacere alcune sue ‘lezioni’ . Quella che ho sottomano ha per titolo Perché i libri allungano la vita. Queste le sue semplici, sagge parole conclusive: “ Oggi i libri sono come i vecchi. Non ce ne rendiamo conto, ma la nostra ricchezza rispetto all’analfabeta (o di chi, alfabeta, non legge) è che lui sta vivendo e vivrà solo la sua vita e noi ne abbiamo vissute moltissime”.
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