LE DUE VIE DEL DESTINO - ERIC LOMAX con Colin Firth e Nicole Kidman

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LE DUE VIE DEL DESTINO - ERIC LOMAX con Colin Firth e Nicole Kidman
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   E di z io n E
 UN ESTRATTO
   s p Ec i a l E
 DEL LIBRO IN
  a t i r at u ra
  ANTEPRIMA
   l i m i tata

      

                      ERIC LO M AX
 LE DUE VIE DEL DESTINO
                    T H E R A I LWAY M A N

Il best seller che ha ispirato l’omonimo film
      con Colin Firth e Nicole Kidman
“Tra le migliaia di autori che hanno scritto
sulla seconda guerra mondiale, ad eccezione
  forse di Churcill, Lomax è quello che vale
 più la pena leggere: avvincente, romantico,
           spaventoso, edificante”.
                The Indipendent

    “Profonda e splendidamente scritta,
   è una delle testimonianze più toccanti
      della seconda guerra mondiale”.
              The Sunday Times

    “Un grande libro, un grande uomo”.
                 Daily Mail

 “Un’autobiografia che si affianca di diritto
            ai grandi classici”.
               The Guardian

     Miglior libro di non-fiction inglese
           NCR Book Award 1996

            Miglior autobiografia
           J.R. Ackerley Prize 1996
EDIZIONE
                         FUORI COMMERCIO

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Ferrovia Birmania-Siam 1942-45
                                                          Ban Pong
                                                                Punto di arrivo dei treni
                                                                prigionieri da Singapore
                                      Siam
                                                          Nong Pladuk
                                                                Inizio della ferrovia
               Birmania
                                                          Kanchanaburi
                  Per Rangoon
                                                                Quartier Generale giapponese
                                                                e officine ferroviarie
                            Estuario del
                            Saluen

                            Moulmein
                                                          Thanbyuzayat
                                                                Collegamento con
                                                                la tratta Moulmein-Ye
                             Thanbyuzayat
                                                                delle ferrovie birmane

                             Ye              Passo Tre Pagode

                                           Kwai       F. Kwai Yae
                                           Noi

                                                                Kanchanaburi
                                                                     Nong Pladuk            Per
                                                                                            Phnom
                                                                     Ban Pong   Bangkok     Penh

                                                           Per
                                                           Singapore

                   0     chilometri    100

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Il mediatore ufficiale tra carcerieri e prigionieri a Ban Pong era un
           giovane interprete giapponese dall’accento americano, che ribat-
           tezzammo «Hank lo Yankee». Era abbastanza cordiale, e quan-
           do all’inizio di febbraio del 1943 venne a comunicarci che dove-
           vamo prepararci a partire il giorno seguente, l’ordine non causò
           più spasmi di paura del solito.
               Almeno sapevamo dove stavamo andando: a Kanchanabu-
           ri, una città circa trenta miglia a nord-ovest di Ban Pong, lungo
           la nuova linea ferroviaria birmana che attraversava il Passo del-
           le Tre Pagode. Ormai eravamo quasi certi che la linea dovesse
           raggiungere Moulmein in Birmania, dove il fiume Saluen sfocia
           nel golfo di Martaban. Quindi, sollevati di non essere mandati
           troppo lontano lungo la linea, da dove man mano che gli operai
           si inoltravano nelle colline della provincia di Kanchanaburi era-
           no iniziate ad arrivare notizie terribili, radunammo le nostre co-
           se con un buon umore combattivo. Avevamo gli utensili da cu-
           cina, qualche scorta medica e pochi pezzi di arredamento: uno
           sgabello traballante o un tavolo fatto in casa, uno scaffale rime-
           diato da scatole riciclate; cose che avevamo trovato tra i rifiuti e
           accumulato nei mesi precedenti, per rendere le capanne più or-
           dinate e abitabili.
               Eravamo imprudenti, non ci curavamo dei rischi e ridevamo

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dei nostri carcerieri; ancora non avevamo compreso appieno la
            natura del pericolo che stavamo correndo. La vita sembrava an-
            cora un gioco, come sempre succede quando dei giovani si ritro-
            vano assieme, prima di capire di essere in trappola. Quasi osten-
            tavamo gli oggetti rubati. Io portavo una sega appesa alla borsa
            di tela che avevo comprato prima di lasciare Changi; avevamo
            cassette degli attrezzi nascoste nei bagagli: scalpelli, martelli, cac-
            ciaviti, il saldatore… Se per scappare da quella prigione fosse
            bastato segare delle sbarre, ce ne saremmo già andati da tempo.
                Ci pigiammo in un furgone guidato da un soldato britanni-
            co. Io sedevo davanti, con una guardia giapponese tra me e il
            conducente. Un modesto convoglio di autoveicoli svoltò a ovest
            uscendo dal campo, lasciandosi il recinto di bambù e la lun-
            ga capanna alle spalle. A metà della strada per Kanchanaburi, o
            «Kanburi» com’era universalmente nota tra i prigionieri inglesi,
            il piede dell’autista scivolò sulla frizione e andammo a sbattere
            contro il furgone che ci precedeva. La guardia giapponese andò
            su tutte le furie, iniziò a urlare incomprensibili improperi all’au-
            tista e lo spinse fuori dalla cabina. Io scesi cautamente dall’altro
            lato, tenendomi a distanza ma con lo sguardo fisso sulla guardia.
                Era un uomo pieno di rabbia, di paura e di risentimento. Non
            era più vecchio di me, e pur essendo numericamente in svantag-
            gio aveva un potere assoluto su di noi; e ora stava per perdere il
            controllo. Qualunque cosa facessimo, spettava a lui decidere la
            punizione. Continuò a imprecare contro l’autista. Pensai a tut-
            te le storie che avevo sentito, ai corpi delle infermiere tra le on-
            de dell’isola di Bangka. Afferrò il fucile, vidi nel colore olivastro
            della sua pelle le nocche che si sbiancarono. Ma si calmò in tem-
            po e non sferrò il colpo. Ci ordinò di risalire a bordo, e il con-
            voglio riprese la marcia.
                Fino a quel momento, ogni contatto con la violenza giappo-

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nese era stato, per così dire, di seconda mano, perché anche le
           teste mozzate dei poveri cinesi a Singapore non erano state una
           minaccia diretta verso i prigionieri britannici, come noi. Fino a
           quel momento non avevo mai visto un altro prigioniero subire
           minacce violente, anche se le squadre di operai erano spesso vol-
           garmente insultate dalla natura stessa del loro lavoro. È vero che
           avevo visto uomini costretti a restare per ore sotto il sole cocen-
           te per aver infranto la disciplina del campo, ma mai avevo visto
           un attacco fisico diretto. Ora, mi sembrava di essermi trovato
           vicinissimo alla violenza. Era difficile dire se fosse un uomo in-
           stabile, o se i suoi nervi rischiassero di saltare per qualche altra,
           peggiore, calamità; forse il presagio della sconfitta finale. Quello
           strano scontro sulla strada, contro lo sfondo verde dei mango e
           delle palme di nipah, sembrava un ulteriore passo verso il peri-
           colo, sempre più lontano dai residui di civiltà e di consolazione
           cui ancora ci aggrappavamo. Il miglio zero della ferrovia era su-
           bito a est di Ban Pong. Iniziai a temere che i numeri successivi
           sarebbero stati negativi, misurati su una scala inedita e brutale.
               All’inizio pensammo di essere di nuovo caduti in piedi: Kan-
           buri era allora una cittadina circondata da resti di mura difen-
           sive in mattoni. All’interno c’era la via principale, parallela al
           fiume Mae Klong, che scorreva all’esterno delle mura. C’erano
           negozi e qualche notevole edificio in legno, baracche di lamie-
           ra e fazzoletti di terreno incolti e selvaggi. Qualche edificio si
           affacciava sul fiume fangoso, coi cortili che digradavano verso
           le alte sponde.
               Appena fuori città c’era il principale «campo aeronautico»,
           come lo chiamavano i giapponesi, e a sud le officine ferrovia-
           rie dove le nostre conoscenze tecniche ci avrebbero nuovamen-
           te protetti dal peggio. Il campo delle officine era conosciuto dai
           giapponesi come «Sakamoto Butai», cioè il campo controllato

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dal maggiore Sakamoto. Come al solito, consisteva in una serie
            di capanne di bambù col tetto di palma intrecciata, che serviva-
            no da officine, depositi e uffici: alcune capanne simili ma sepa-
            rate erano riservate ai prigionieri e altre in migliori condizioni ai
            giapponesi. Le varie capanne erano separate da uno spazio pari
            all’ampiezza delle capanne stesse. Le latrine erano perpendicola-
            ri alle capanne: buche profonde (ma mai abbastanza) coperte di
            assi e riparate da uno steccato di bambù e palma intrecciata. Tut-
            to il campo era circondato da un recinto di bambù non proprio
            convincente e all’entrata principale, vicino alla strada, c’era una
            guardiola. Un guardia annoiata stava all’altro lato del perimetro
            del campo, a qualche centinaio di metri dalla linea ferroviaria.
                Binari di servizio erano stati posati nei pressi della città; più
            vicino c’era il deposito delle locomotive, con una torre idrica in
            legno e un enorme mucchio di legna da ardere. Tutte le locomo-
            tive andavano a legna, la consumavano voracemente. Di nuovo,
            il nostro campo divenne un’officina di riparazioni per i locotrat-
            tori, i veicoli strada-rotaia degli operai e, col tempo, per le loco-
            motive stesse.
                Al nostro gruppo si aggiunsero ufficiali e sottufficiali da altri
            campi, tra questi Fred Smith, sergente dell’Artiglieria Reale; era
            un soldato regolare, un tecnico di prima classe e una persona in
            cui stoicismo e buonumore si accompagnavano a una straordina-
            ria robustezza fisica. Mi sarei accorto più tardi che era uno degli
            uomini più ragguardevoli che avrei mai incontrato. Poi c’erano
            il maggiore Jim Slater, un produttore di macchinari tessili diven-
            tato artigliere, che scalzò immediatamente Bill Smith da ufficiale
            più anziano e che per il suo singolare e inestinguibile pessimi-
            smo divenne il Geremia del campo; Harry Knight, un simpati-
            co ingegnere australiano di una compagnia mineraria malese, un
            uomo affidabile e di valore, e Alexander Morton Mackay, un al-

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tro ufficiale d’artiglieria, che era nato in Scozia ma aveva a lungo
           vissuto in Canada. A poco più di quarant’anni era vigoroso e so-
           cievole, più giovane di spirito di quanto la sua età lasciasse im-
           maginare. Tra tutti i miei compagni prigionieri, Mac o Morton,
           com’era solitamente chiamato, era quello che sentivo più vicino.
               Due altri uomini della baracca di Kanburi possono essere ri-
           cordati solo in coppia, anche se non avevano nulla in comune:
           il capitano Jack Hawley e il tenente Stanley Armitage. Quest’ul-
           timo era un irlandese tranquillo e studioso; Hawley era l’esatto
           opposto, un personaggio raffinato ed eccentrico che si ispirava
           a stelle del cinema romantico come Ronald Colman – un uomo
           che amava i club e la bella vita della Singapore prebellica, dove
           lavorava per la British American Tobacco Company.
                                           ***
           Nelle officine escogitavamo stratagemmi ingegnosi per mantenere
           furgoni esausti in condizioni meccaniche apparentemente buone,
           benché con la sfortunata tendenza a rompersi una settimana do-
           po essere usciti dalle nostre mani. Imparavo l’arte del sotterfugio
           e della resistenza silenziosa e stavo diventando un abile ladro.
               Assunsi il ruolo ufficioso di carpentiere del campo; costrui-
           vo percorsi di legno in modo che le piogge frequenti non ci fa-
           cessero sprofondare nel fango. Scoprii che il modo più semplice
           per impossessarsi di materiali e attrezzi era entrare nei magazzi-
           ni in pieno giorno e uscire con gli oggetti bene in vista. Nessuno
           mi fece mai domande. Non sapevo che stavo approfittando della
           loro indifferenza, e che questa aveva un lato molto più oscuro.
               I giapponesi ci avevano imposto il fuso di Tokyo, il che signi-
           ficava che di solito ci alzavamo col buio. Quando annunciarono
           che anche gli ufficiali avrebbero dovuto lavorare, mi assegnarono
           il compito di tenere i tempi del lavoro e di scrivere i cartelli. Do-

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vevo suonare il gong nell’officina principale come segnale di ini-
            zio e di fine turno. Il gong andava suonato otto volte al giorno, e
            a guidare i miei segnali che riecheggiavano nel campo era un pic-
            colo orologio giapponese collocato su uno scaffale della centrale.
                Presto mi accorsi che le giornate lavorative potevano durare
            dieci ore eppure contenere meno di dieci ore. Mi adeguai con
            precisione agli orari ufficiali di inizio e fine turno, al mattino e
            alla sera, ma per il resto iniziai ad armeggiare con l’orologio e
            col passare dei giorni ogni segnale intermedio di inizio arriva-
            va un po’ più tardi e ogni segnale intermedio di fine un po’ pri-
            ma. Rubavamo il tempo ai nostri carcerieri come rubavamo lo-
            ro le informazioni. Era un approccio rivoluzionario e popolare
            al controllo della forza lavoro, e anche i meccanici giapponesi lo
            apprezzavano. Sfortunatamente venni scoperto e il mio lavoro
            fu affidato a un soldato giapponese. Come unica punizione rice-
            vetti l’ordine di limitarmi a compilare cartelli.
                Più di tutto, volevamo ritardare i lavori, ostacolare i loro sfor-
            zi, fare un lavoro mediocre in modo che ogni contrattempo non
            potesse essere ricondotto a nessuno in particolare. Anche chi si
            occupava di compiti come spaccare i massi – un lavoro conside-
            rato «leggero» – procedeva con incredibile lentezza, col minimo
            possibile di cooperazione. Credo che ogni prigioniero fosse di-
            ventato uno scansafatiche, un sabotatore, cosa che qualcuno di
            noi ancora è, dopo aver passato tanta parte della prima maturi-
            tà a creare un caos tranquillo.
               Non riuscivamo ad abbandonare la speranza di fuggire. Il
            Paese, in un certo senso, era una grande prigione aperta, e spe-
            ravamo di poter trovare, con un po’ di fortuna, una via di fu-
            ga verso il nord del Siam. Ma per andare da qualsiasi parte do-
            po le prime miglia c’era bisogno di informazioni – informazioni
            in forma di mappe.

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Per me sapere dove mi trovavo era fondamentale, essere in
           grado di localizzarmi all’interno di una griglia: annotare, elenca-
           re, rappresentare la maggior porzione possibile del mondo che
           mi circondava. Era un modo di creare un minimo di certezza
           in un mondo che ne era privo. Fra tutti gli uomini del campo,
           ero io quello specializzato nelle mappe. Come addetto ai car-
           telli, avevo accesso alle matite e nell’officina c’era sempre car-
           ta a disposizione per i progetti meccanici. Presi dalla scrivania
           dell’ingegnere capo un grande foglio di carta bianca, di circa
           60 cm quadrati. Nel magazzino notai un atlante che includeva
           gran parte del Sud-Est asiatico e del Siam: lo «presi in prestito»
           e ricopiai lentamente a matita le pagine che m’interessavano, su
           una scala di circa 20 miglia per centimetro. In realtà era troppo
           piccola per qualsiasi scopo pratico, ma mi infondeva speranza
           aggiungere i dettagli ricavati da qualche prigioniero che lavora-
           va come autista lungo la tratta, e mandare a memoria informa-
           zioni topografiche dai piani e dai documenti giapponesi abban-
           donati nei magazzini.
               La mappa mostrava anche il percorso della ferrovia, che ero
           riuscito a identificare grazie a una catena di informatori lungo
           l’intera linea. I binari costeggiavano per un lungo tratto il fiume,
           e tenendoci vicini a entrambi ci sarebbe stato più facile allonta-
           narci rapidamente per rovistare alla ricerca di cibo. Ma mappa-
           re la ferrovia aveva il suo piacere intrinseco.
              Era un pezzo di artigianato clandestino, sebbene all’epoca la
           segretezza fosse un fatto d’istinto, espressione della cautela di
           un prigioniero piuttosto che della consapevolezza dei rischi che
           correvo. Nessuno ci aveva proibito di disegnare mappe, eppure
           era un’impresa così evidentemente mortale che cercai in tutti i
           modi di tenerla nascosta. Conservavo la mappa in una canna di
           bambù che nascondevo con cura. Era coperta di toponimi scrit-

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ti ordinatamente a matita, i confini del Siam e i suoi fiumi erano
            tracciati con tutta l’eleganza di cui ero capace. La carta assunse
            una consistenza antica, si ammorbidì, i bordi si sfrangiarono a
            causa dell’uso e dell’umidità assorbita dall’aria.
                                           ***
            Se qualcuno voleva uscire dal campo non trovava molti ostaco-
            li; presto avevamo esplorato l’intera area. Gran parte del terreno
            era ricoperta da fitto bambù peloso; gli enormi alberi da frutta
            erano così abbondanti, che quasi non sapevamo che farcene dei
            frutti – manghi, durian, papaie. Davanti a noi, a nord e a ovest,
            vedevamo colline tagliate coperte da una fitta vegetazione.
               Kanburi e i suoi mercati distavano poco meno di un miglio.
            Avevamo il permesso di comprare cibo in città, quindi non mo-
            rivamo di fame, anche se la dieta base consisteva sempre di riso
            e di un semplice stufato. A volte compravamo qualche leccornia
            locale come una poltiglia di banane fritte, che le donne dei vil-
            laggi preparavano in padelle di olio bollente, e pesce essiccato.
               Era sempre più evidente che gli ingegneri giapponesi avevano
            deciso che la ferrovia doveva seguire il percorso più arduo e che
            avevano intenzione di tenersi il più vicino possibile al fiume Kwai
            Noi, in modo da utilizzare le barche per rifornire le squadre di
            lavoro. Significava anche che ai nostri compagni erano richiesti
            sforzi immani, perché le colline calcaree scendevano a picco sul
            fiume in questa parte del suo corso sinuoso, e prigionieri e lavo-
            ratori dovevano aprirsi un varco. Per sostenere i binari sarebbe-
            ro stati necessari viadotti, trincee e ponti a cavalletto, che anda-
            vano costruiti con asce, seghe, pale e mani – nient’altro. Non ci
            dispiaceva essere dove eravamo.
              Tra i nostri carcerieri trovavamo ancora tracce di umanità. A
            Kanburi c’era un ufficiale molto ragionevole di nome Ishi, che

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diceva di essersi laureato a Cambridge e che, fosse vero o meno,
           parlava un ottimo inglese. Gli piaceva discutere con noi di inge-
           gneria e persino della guerra. Potevamo chiedergli che cosa stes-
           se succedendo, e lui ci forniva la versione ufficiale sugli svilup-
           pi in Nuova Guinea, anche se ammise che i giapponesi avevano
           già perso l’isola di Guadalcanal nelle Salomone. Un giorno dis-
           se che se eravamo davvero interessati alla guerra avremmo do-
           vuto abbonarci a un giornale. Credendo si trattasse di un freddo
           umorismo, molto diverso dal nostro, gli affidammo i soldi che
           ci aveva chiesto – presi dalla nostra «paga». Una settimana dopo
           ci venne consegnato per posta il «Bangkok Chronicle», in lingua
           inglese. Il quotidiano era ormai un organo giapponese, pieno di
           disinformazione, ma letto con un po’ di senso critico aveva co-
           munque molto da insegnare. Vi era un articolo dai toni entusia-
           stici sulle truppe tedesche che in Nordafrica «avanzavano ver-
           so ovest»: sembrava un modo strano per raggiungere l’obiettivo
           di Rommel di conquistare il canale di Suez. In questo modo se-
           guimmo, con crescente soddisfazione, le ritirate dell’Asse in Rus-
           sia, in Africa e in Asia.
              Ma avremmo dovuto essere molto, molto, molto più attenti a
           un nemico sempre più in difficoltà e confuso. Al campo i giap-
           ponesi con cui entrammo in contatto erano per lo più uomini ra-
           gionevoli. Ma non tutti i carcerieri erano persone come si deve,
           coinvolti a proprio discapito in una guerra che li aveva portati
           migliaia di miglia lontani da casa. Avevamo un gattino al campo,
           un tenero randagio nero per cui stravedevamo. Era una creatura
           ancora più indifesa di noi, di cui potevamo prenderci cura. Un
           giorno stava giocando nella sabbia del recinto quando una guar-
           dia coreana gli passò accanto; si sfilò il fucile con la lunga baio-
           netta fissa e infilzò il povero animale come se volesse arrostirlo.
                                          ***

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Avevamo di nuovo una radio funzionante, un apparecchio un po’
            più raffinato. Fred Smith era diventato il secondo addetto radio.
            Aveva rubato una vecchia radio elettrica in una casa sulla strada
            di Bukit Timah a Singapore e a Changi l’aveva riparata con val-
            vole di cui in qualche modo era riuscito a venire in possesso; pri-
            ma di essere inviato lungo la ferrovia aveva smontato l’apparec-
            chio improvvisato, nascondendolo alle perquisizioni giapponesi.
            Lance e Fred modificarono il cicalino di un vecchio telefono da
            campo alimentato a batteria, e dopo ore di tentativi riuscirono a
            sintonizzare l’apparecchio sulla frequenza giusta e a eliminare i
            rumori di fondo, e così le voci della BBC emersero distintamente.
                Ogni notte si svolgeva ancora lo stesso rituale: le vedette spar-
            se fuori dalla capanna, Thew nascosto sotto la coperta, e dopo
            la schietta discussione delle notizie. Nomi sconosciuti su mappe
            sbiadite nel ricordo: Charkiv, Kursk, le isole Trobriand; linee di
            vittoria e linee di sconfitta ci univano ormai al mondo in guerra.
                Le notizie viaggiavano grazie a uomini fidati, passando per
            centinaia di bocche diverse, attraverso il campo officina e lungo
            miglia di ferrovia fino ai veri campi di sterminio. Ci assicuram-
            mo che un uomo affidabile, Gunner Tomlinson, trovasse posto
            sul treno di rifornimento e gli comunicammo cosa riferire agli
            uomini che lavoravano sulla linea. Per loro come per noi era dif-
            ficile distinguere verità e invenzioni, sapere a che cosa credere.
            È probabile che le notizie venissero distorte durante il viaggio,
            che la verità diventasse leggenda e viceversa; ma avere qualche
            brandello di informazione serviva a tenerci su di morale e a far-
            ci sentire in contatto col mondo che avevamo perduto. Per noi
            prigionieri la radio aveva un’importanza difficile da immaginare,
            donava letteralmente senso e normalità alle nostre vite; ci sem-
            brava, ora, di avere una ragione per vivere.
                Anche leggere era una parte importante di quella normalità,

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un modo per conservare la dignità. Avevo una copia della Bib-
           bia di re Giacomo, che leggevo con regolarità. Più tardi, la scam-
           biai con un’edizione Moffatt del 1926, di un australiano di nome
           Harkness. Ho ancora il libro: è sopravvissuto a tutto. Le coperti-
           ne una volta nere sono ridotte a consunti fogli di fibra grigia, su
           cui si intravedono ancora tracce di inchiostro nero; il dorso non
           c’è più. Harkness l’aveva quasi completamente sottolineato con
           una stilografica blu, piccole lettere precise in stampatello anno-
           tavano ogni colonna di ogni pagina di ogni libro della Bibbia. Le
           pagine bianche alla fine di ogni libro erano coperte della stessa
           ordinata scrittura blu. A Ban Pong e a Kanburi avevo annotato
           allo stesso modo la mia Bibbia, mentre rileggevo continuamente
           ogni parte del Nuovo Testamento, aiutandomi con un segnalibro.
               L’Apocalisse continuava a esaltarmi. «Io sono l’Alfa e l’Ome-
           ga, il principio e la fine…» La visione dell’Armageddon e delle
           ultime cose, di un mondo annientato solo per essere ricostituito
           in luce e gioia, era il fulcro del credo della Cappella e dei lunghi
           sermoni di Charlotte Street. Da quando ero arrivato in Malesia,
           nulla mi aveva convinto che il disastro fosse evitabile, che gli im-
           peri non si sarebbero disintegrati, o che gli esseri umani non si
           sarebbero ritrovati inermi in condizioni disperate.
              Forse solo i prigionieri alla mercé del nemico, senza condi-
           zioni certe e regole sicure, possono comprendere la confusione
           di Giobbe:

                    Se giusto, non avrei osato alzar la fronte, sazio d’ignominia,
                    spettatore della mia miseria. Se l’avessi alzata, m’avresti
                    dato la caccia come a un leone e contro di me avresti
                    rinnovato le tue meraviglie; m’avresti messo a fronte nuovi
                    testimoni, e avresti raddoppiato il tuo sdegno contro di
                    me; legioni su legioni m’avrebbero assalito.

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C’erano molte cose intime di cui non potevamo parlare, ma pote-
            vamo discutere di religione, anche se la maggior parte degli altri
            prigionieri apparteneva alla Chiesa d’Inghilterra e io a una setta
            battista. Ricordo che i giovani del campo si scambiavano lette-
            re appassionate, esortandosi a maggiori sforzi spirituali. Era un
            modo per affermare la parte migliore della nostra umanità, e ci
            aiutò a sopravvivere.
                Volevo ancora imparare, migliorare. Ricordo accurati appun-
            ti di indostano su fogli di fortuna verdi, colonne ordinate di vo-
            caboli e di tempi verbali. Ricordo anche di aver provato a impa-
            rare il giapponese col mio amico Williamson; padroneggiavamo
            un po’ del vocabolario di base, sufficiente a intuire quel che le
            guardie dicevano.
                Il 1943 proseguiva, la mitezza della primavera lasciò il posto
            alle temperature da fornace dell’estate. Dovemmo adattarci all’u-
            midità, alle piogge, al denso fango nero che creavano, e serbava-
            mo la nostra schiva vita interiore che i giapponesi non potevano
            toccare. Eravamo ormai abituati a stare mezzo nudi, con i cor-
            pi magri abbronzati dal sole, e al prurito e al fastidio della pol-
            vere incrostata sulla pelle, data la scarsità di sapone disponibile.
                Il campo di Kanburi era poco confortevole e opprimente, ma
            tutto sommato era un «buon» campo. La forza lavoro era qua-
            si tutta specializzata, raramente dovevamo operare all’esterno e
            le mansioni pesanti erano poche; i giapponesi al comando era-
            no, come a Ban Pong, ingegneri invece che soldati professionisti
            dell’Esercito Imperiale, tra cui vi erano alcuni fanatici e guardie
            coreane che si sfogavano sui prigionieri per il trattamento rice-
            vuto dai giapponesi; e potevamo raggiungere Kanburi e i suoi
            preziosi mercati alimentari nel giro di mezz’ora.
                Altri non ebbero la stessa fortuna. Una sera di aprile notai dei

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soldati britannici, sudici, depressi e stanchi, collassati sugli zaini
           appena fuori dal cancello principale del campo, lungo la strada
           per il nord. Uscendo, mi accorsi che erano centinaia. Giacevano
           con la calma immobile di uomini che versano in pessime con-
           dizioni e che sanno che le cose andranno ancora peggio. Uno di
           loro mi disse che avevano camminato per trenta miglia da Ban
           Pong, senza cibo e con pochissima acqua, spronati da aggressi-
           ve guardie coreane, e che avrebbero dovuto continuare e risali-
           re il Paese. Nessuno sapeva fino a dove, o che cosa li aspettasse
           una volta a destinazione.
               Quest’esercito cencioso di soldati malconci gettati sull’erba
           ai lati della strada era una cruda dimostrazione del disinteres-
           se di cui era capace l’esercito giapponese, una vera e propria in-
           differenza nei confronti dell’umanità e un crimine contro di es-
           sa. Quegli uomini esausti erano l’avanguardia delle forze F e H,
           inviate da Singapore a Ban Pong su treni speciali. I treni che da
           lì raggiungevano gli avamposti della linea Birmania-Siam, ormai
           prossima al completamento, venivano caricati giorno e notte con
           nuove rotaie ed equipaggiamento, così quegli uomini – «presi in
           prestito», come mi spiegò uno di loro, dall’amministrazione nip-
           po-malese – dovevano raggiungere a piedi, trasportando l’attrez-
           zatura, le stazioni di lavoro sulle colline.
               Nei due mesi seguenti colonne di uomini coperti di fango
           passarono davanti alle officine di Kanburi. Facevamo quel che
           potevamo, condividendo con loro cibo e acqua, ma ormai era-
           no perduti. Per qualche folle svista non vennero mai consegna-
           ti all’amministrazione nippo-malese, che, di conseguenza, non
           si sentì in dovere di prendersi cura di loro. I responsabili del lo-
           ro benessere si trovavano negli uffici di Singapore, a mille mi-
           glia di distanza.
               Ho provato a non anticipare, a non lasciarmi andare al sen-

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no di poi in questo resoconto della storia, ma il destino di que-
            gli uomini frastornati va ricordato qui. Le forze F e H registra-
            rono le percentuali di mortalità più alte tra tutti i prigionieri di
            guerra impiegati nella ferrovia. Dovevano fornire lo slancio fina-
            le per completare la linea in anticipo sui piani – un’iniezione di
            forza lavoro, di cui disporre a piacimento. Alcuni avrebbero ri-
            salito le colline per duecento miglia; uno su tre sarebbe morto,
            gli altri avrebbero trascorso il resto della vita minati dalle malat-
            tie e dalle ferite.
                Già allora credevamo che potesse esserci un qualche meto-
            do crudele in questa follia. L’ammiraglio Yamamoto, lo stratega
            dell’attacco a Pearl Harbor e probabilmente il comandante di Ma-
            rina più importante della storia del Giappone, fu ucciso a Bou-
            gainville, nelle isole Salomone, il 18 aprile, appena prima che le
            forze F e H venissero inviate al termine della ferrovia. Quel che
            successe loro fu forse una sorta di folle punizione di massa? La
            morte della loro guida provocò ai giapponesi il desiderio di umi-
            liare ulteriormente i prigionieri? Erano domande come queste che
            ci tormentavano, alle quali ancora non ho risposta.
                Gli uomini che passavano dal campo trascorrevano la notte
            all’aperto, senza protezione dalle zanzare che ci tormentavano
            nel buio. Quando riprendevano la marcia, lasciavano parte dell’e-
            quipaggiamento per alleggerire il carico. Mi domandavo quanto
            avrebbero abbandonato prima di arrivare alla fine.
                Circa nello stesso periodo cominciò ad arrivare la prima ma-
            nodopera civile. All’inizio erano piccole colonne di asiatici, ci-
            nesi, indiani, malesi, indonesiani, che avanzano alla spicciolata
            lungo la via principale tra Ban Pong e Kanburi. Poi fu un’inonda-
            zione, una marea di infelici, a volte anche donne e bambini, che
            risalì fino al tratto più interno del Kwai Noi e ai campi più lonta-
            ni lungo il percorso della ferrovia. Come i prigionieri, erano sta-

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ti assoldati per accelerare la conclusione dei lavori. A differenza
           dei prigionieri, comunque, erano privi di organizzazione. Erano
           individui, o famiglie, privi di strutture o di catene di comando.
               Già allora era possibile intuire, pur con la mia scarsa consape-
           volezza della scala degli eventi che ci avevano travolti, che que-
           sti sfortunati lavoratori sarebbero morti in quantità enormi, di-
           ventando le vittime più numerose della ferrovia.
              Eppure anche lì, in un campo di prigionia a fianco di uomi-
           ni responsabili di crudeltà organizzate su ampia scala, capaci di
           inimmaginabili violenze volontarie sugli individui, ero in grado
           di trovare gioia nelle macchine che amavo e con cui mi trovavo
           in stretta, forzata vicinanza. Restiamo più innocenti di quanto
           si possa immaginare, persino quando la morte è a un passo da
           noi. Un giorno, poco dopo la partenza delle forze F e H, sopra
           la nuova linea di Birmania si levò una colonna di fumo e di va-
           pore. Mai prima di allora una locomotiva aveva percorso quella
           linea, e io balzai immediatamente all’erta. Il treno, composto ap-
           pena da tre o quattro vagoni merce, entrò nel campo. Era mos-
           so da una delle più straordinarie locomotrici a vapore che aves-
           si mai visto. Era una macchina di inizio secolo, perfettamente
           conservata, costruita dalla Krauss di Monaco, com’era scritto su
           una magnifica targa di ottone. Ricordo la gioia della sua improv-
           visa comparsa sul polveroso e malridotto binario laterale sotto
           le palme. Il cacciapietre si levava baldanzoso sotto l’alto camino
           svasato; la scintillante caldaia nera e le finiture in ottone porta-
           vano con sé i fantasmi di viaggi tra stazioni termali, addii profu-
           mati e vite spese ai tavoli da gioco.

                                          ***
           La mia esperienza come involontario operaio ferroviario profes-
           sionale giunse improvvisamente al termine nell’agosto del 1943.

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Se fummo traditi, o se i giapponesi ebbero semplicemente un
            colpo di fortuna, non lo saprò mai; ho passato molte notti insonni
            nell’ultimo mezzo secolo, cercando di far combaciare tutti i pezzi,
            provando a individuare la falla. Forse qualcuno si vantò di una
            vittoria degli Alleati a portata d’orecchio di una guardia; o forse
            qualcuno, scioccamente, teneva un diario delle notizie riferite-
            gli dagli autisti che usavamo come messaggeri. Allora, scoprire
            chi ci avesse traditi era fondamentale, perché ai nostri occhi fu
            come se ci avesse consegnati volontariamente. Dopo la guerra, i
            sopravvissuti avrebbero cercato di rintracciarlo, con intenzioni
            omicide – se avessimo saputo chi era. Ma tutto quel che aveva-
            mo era quella sconfinata, dolorosa incertezza, come carta abra-
            siva sulla pelle delicata.
                Il 29 aprile 1943, invece di sciogliere le righe dopo il consue-
            to appello mattutino, le guardie fecero restare tutti i prigionie-
            ri sull’attenti nel punto di raduno. Era ancora abbastanza buio e
            faceva freddo anche se il sole si stava rafforzando. Un gruppo di
            guardie rientrò nelle capanne, mentre le altre, insolitamente vi-
            gili e aggressive, ci circondavano con le baionette spianate. Sen-
            tivamo i loro movimenti nelle capanne, dapprima senza molta
            energia o decisione, poi successe qualcosa che diede loro il via.
            Incominciò un crescendo di colpi, una confusione di oggetti sfer-
            raglianti e trascinati.
               Passò un’ora. Il sole adesso era alto e cocente, ma ci era vie-
            tato muoverci. Eravamo più di un centinaio, rigidi nelle cami-
            ciole e nei brandelli di uniformi. La perquisizione continuò, le
            nostre cose finivano ammucchiate alle nostre spalle a mano a
            mano che le trascinavano fuori dalla capanna. Non riuscii a ve-
            dere granché, ma in breve si formò una pila di oggetti. E sem-
            brava che gran parte dell’attività si concentrasse sull’angolo in
            cui dormiva Thew.

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Dopo circa tre ore, Thew venne convocato da una guardia
           giapponese che urlò il suo nome. Entrò nella capanna. Noi ve-
           nimmo congedati e ci voltammo verso un mucchio di batterie
           d’automobili, dinamo, scatole di legno e di latta, e una straordi-
           naria varietà di attrezzi – tutti giapponesi, il resto di quelli che
           avevamo già venduto ai thailandesi e ai cinesi attraverso i recin-
           ti del campo. Un furgone si avvicinò e tutta la refurtiva venne
           portata via. A Thew venne permesso di tornare tra noi; fu terri-
           bile constatare il suo shock. Le guardie avevano trovato la radio.
               Uno di noi era riuscito, da dove si trovava, a sbirciare den-
           tro la capanna. All’inizio, era sembrato che la perquisizione pro-
           cedesse in maniera sostanzialmente casuale. Le guardie si erano
           mosse lungo lo stanzone buio raccogliendo solo qualche oggetto
           sparso, poi un giapponese, oltrepassando il letto di Thew, aveva
           intravisto qualcosa tra le pieghe di una coperta scura. Probabil-
           mente gli era sembrato un triangolino di carta bianca, picco-
           lo come un francobollo, nella debole luce mattutina, ma contro
           la lana dell’ordinato letto di Thew doveva risaltare come un va-
           go invito a delinquere. Un pezzetto di carta un po’ fuori posto.
               La guardia, forse senza ancora sospettare nulla, l’aveva colpi-
           to col dito e l’aveva sollevato. Era un foglietto di carta che io co-
           noscevo bene: sopra c’era una mappa abbastanza accurata, fatta
           a mano, delle isole Salomone. L’avevamo copiata da un giorna-
           le giapponese rubato a una guardia, per aiutarci a seguire le no-
           tizie della All India Radio sui furiosi combattimenti a Rendova,
           Munda e Nuova Georgia nelle Salomone. La coperta venne sfi-
           lata dal letto e lì, inequivocabilmente, c’erano un paio di cuffie,
           le membrane di tela verde e l’acciaio nero degli auricolari raggo-
           mitolati come un animale addormentato.
              Durante la perquisizione, come sapevo sarebbe successo, tro-
           varono non una ma quattro radio a diversi stadi di fabbricazione.

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Ci eravamo dati da fare, con attenzione e dedizione, per replica-
            re il primo successo. Come l’originale, anche i nuovi apparecchi
            erano precisi e ben assemblati, ed entravano perfettamente nei
            barattoli del caffè. Il fondo di ogni barattolo era mobile e serviva
            come base per la radio. Poteva ingannare un osservatore distrat-
            to, ma le guardie erano ormai estremamente attente.
                Quando rientrammo trovammo la capanna completamente a
            soqquadro. Ognuno esaminò il proprio nascondiglio di beni proi-
            biti, e lo trovò vuoto. Ogni sacco e ogni cassa erano stati rivoltati;
            ogni branda ispezionata. Anche il rampicante di maracuya fuo-
            ri dalla capanna degli ufficiali era stato sradicato e fatto a pezzi.
               Il giorno si era fatto tetro. I pessimisti, con Jim Slater come
            cupo portavoce, dicevano che tutto il campo sarebbe stato ster-
            minato. Gli ottimisti speravano che la scoperta in sé avrebbe
            soddisfatto i giapponesi, ma il loro volto diceva tutt’altro, e quel
            giorno l’intero campo andò al lavoro ammutolito e terrorizza-
            to. Thew si ritrovò al centro di un’imponente manifestazione di
            simpatia, mentre lavorava, teso e senza un sorriso, a un motore
            diesel. Si dormì poco quella notte nella capanna. Previsioni bi-
            sbigliate viaggiavano tra le brande come gli insetti che cadevano
            dal soffitto e saettavano sul pavimento di legno.
                La mattina seguente di buonora, Thew e un altro soldato, trova-
            to in possesso di un numero di oggetti rubati ai giapponesi maggio-
            re rispetto a quello degli altri prigionieri, vennero convocati dal co-
            mandante di campo giapponese, e dopo essere rimasti poco tempo
            nella sua capanna furono visti riemergere al sole, il cui calore rag-
            giungeva i 38 gradi all’ombra. Stavano sull’attenti, con una guardia
            vicino a loro, e qualche ora dopo erano ancora lì. Era la punizio-
            ne standard, lo sapevamo, e poteva durare un giorno intero o più.
                Quel pomeriggio, Thew scomparve per un po’ di tempo, ma

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ritornò con una pesante mazza di ferro. Fu di nuovo condot-
           to nello spiazzo, lontano da ogni sprazzo d’ombra, vicino a un
           grande ceppo; iniziò ad abbattere la mazza sul ceppo, colpo do-
           po colpo, ora dopo ora. Il rumore sordo del metallo che colpi-
           va il legno si sentiva in tutto il campo, faceva da sfondo a ogni
           altro suono, mentre gli uomini andavano e venivano dalle offi-
           cine. Era come un rombo di tamburi che annunciasse qualche
           evento terribile e senza nome.
               Thew non era debole, ma nessuno di noi era in forma, sicura-
           mente non abbastanza per quell’insensato pestare su un tronco
           morto. La sera, l’ufficiale a capo delle guardie giapponesi ordinò
           alla cucina dei prigionieri di portare del cibo a Thew. I cuochi gli
           resero onore: prepararono carne e verdure in razioni sufficienti a
           sfamare più uomini, depredando la nostra magra scorta di pro-
           teine, e versarono il tutto in una grande scodella, ricoprendo-
           la completamente con un mucchio del solito riso bollito. Il co-
           mandante ispezionò la scodella e approvò: l’appiccicosa massa
           bianca doveva parergli una punizione aggiuntiva. Thew otten-
           ne così il suo pasto.
              A tarda notte venne rilasciato, coperto di vesciche e di lividi,
           esausto e ustionato dal sole. Fu chiaro a tutti che non sarebbe
           finita lì, anche se non so dire come – un istintivo presentimen-
           to, o la consapevolezza acquisita dell’abitudine dei giapponesi
           di riferire ogni problema serio ad altri livelli e dipartimenti, cia-
           scuno dei quali pronto a dispensare una risposta, o una puni-
           zione. Il sistema, pensavamo, doveva essersi già messo in moto.
               È impossibile descrivere lo stato d’animo dei prigionieri in
           momenti come questo, sotto il peso di un’imminente rappresa-
           glia. Lavoro e pasti si alternavano regolarmente come se nulla
           fosse, ma ovunque aleggiava una paura disperata, sovrapposta
           all’abituale, perpetua, insicurezza che riempiva la mente di ogni

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prigioniero. Gruppetti di uomini sedevano negli angoli delle ca-
            panne o nel cortile rimuginando fosche prospettive.
                La prima mossa fu contro Bill Williamson. Fu convocato e ri-
            cevette l’ordine di accompagnare una squadra di uomini diret-
            ti alla ferrovia. Sul momento, sembrò un destino invidiabile: i
            giapponesi avevano evidentemente deciso che non era stato im-
            portante per la nostra impresa. Era stato un buon amico, ma le
            separazioni in tempo di guerra dovevano rispettare regole che
            vietavano troppe emozioni. La reticenza era più sicura.
               Una settimana dopo Thew venne portato via dal campo con
            tutto il suo equipaggiamento. Anche se dopo la prima punizio-
            ne gli era stato permesso di continuare a lavorare, non aveva mai
            pensato di essere al sicuro.
                Due giorni dopo, un messaggero del campo principale di Kan-
            buri, che si trovava a un miglio di distanza, arrivò alla capanna
            degli ufficiali. Disse che non appena Thew era arrivato al cam-
            po era iniziato un lungo interrogatorio seguito da percosse ter-
            ribili; poi l’avevano costretto a mettersi sull’attenti, nonostante
            si reggesse a malapena in piedi, e a restare in quella posizione
            per cinquanta ore fuori dalla cella di detenzione, tutto il giorno
            e tutta la notte, per due giorni.
               Il 10 settembre, Fred Smith seguì Thew al campo aeronauti-
            co. Non venne percosso violentemente, ma anch’egli fu costret-
            to a stare sull’attenti – per non meno di quattro giorni; quando
            cadeva a terra addormentato, veniva svegliato a calci e trascinato
            ogni volta in piedi. Smith era molto robusto fisicamente, ma cen-
            to ore di agonizzante veglia imposta sono più di quanto chiun-
            que possa sopportare.
              Come sempre, le informazioni arrivavano di seconda o terza
            mano, e nel passaggio si facevano più cupe. Quel che non pote-

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vamo vedere coi nostri occhi assumeva proporzioni terrificanti.
           Le diverse possibilità s’ingarbugliavano come trame nel futuro,
           ciascuna più dolorosa dell’altra, un labirinto da cui era impossi-
           bile uscire illesi. Ho scritto dell’insicurezza che divora la mente
           di un prigioniero e riempie i giorni di angosciosa tensione: quel-
           le tre settimane furono un inferno di incertezza – l’unica cosa si-
           cura era che ci trovavamo sull’orlo del precipizio.
               Ogni impressione di sicurezza era del tutto falsa. Li immagina-
           vamo lavorare alle loro scartoffie, scambiarsi telefonate, chieder-
           si come procedere. Era come stare nel braccio della morte senza
           una condanna ufficiale. E per tutto il tempo, fu evidente quella
           loro strana combinazione di indifferenza e ossessiva attenzione
           ai dettagli: non vi furono altre perquisizioni. A quanto ne sape-
           vano, potevamo aver avuto altre radio ed essercene liberati nel
           corso di quelle settimane.
               Né potevamo dimenticare la storia di Pomeroy, Howard e Kel-
           ly. A febbraio due gruppi di fuggitivi, uno composto dal capita-
           no Pomeroy e dal tenente Howard, l’altro da tre uomini guida-
           ti da un certo sergente Kelly, si erano allontanati dalla ferrovia
           vicino a Kanburi. Arrivarono abbastanza lontano ma avrebbero
           dovuto attraversare l’inospitale paesaggio calcareo, tra animali,
           fitti cespugli d’erba e selve di bambù. Probabilmente non ave-
           vano nemmeno una mappa accurata come la mia: che possibi-
           lità potevano avere?
              Il gruppo del sergente Kelly fu il primo a essere catturato, se-
           guito da Howard e Pomeroy. Tutti e sei, soldati e ufficiali, venne-
           ro uccisi, senza alcun processo o corte marziale. Ci dissero che
           erano stati fucilati su due piedi; ci dissero che erano stati uccisi
           lentamente, trafitti dalle baionette a uno a uno, dopo che si era-
           no scavati la fossa da soli. Nessuno sapeva a cosa credere.

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Giorno dopo giorno gli ufficiali nella capanna del Sakamoto
            Butai si interrogavano e si preoccupavano, inventando e cancel-
            lando versioni diverse del peggio. Spesso mi sono chiesto perché,
            in simili circostanze, conservai la mia mappa. Stava arrotolata in
            un pezzo cavo di bambù, nel muro posteriore della latrina dietro
            la capanna. Suppongo che rappresentasse una vaga opportuni-
            tà – un lontano barlume di speranza. Per quanto ne sapessi, era
            l’unica mappa accurata dell’area in possesso dei prigionieri, e la
            conservavo nell’eventualità di un tentativo di fuga, nel caso aves-
            simo avuto bisogno di partire per le mille miglia di marcia verso
            la Strada di Birmania. E poi, era una mappa così ben disegnata!
                Il 21 settembre scoprimmo che cosa ci attendeva.
                La mattina presto, quattro soldati giapponesi con la barba lun-
            ga e gli abiti trasandati fecero ingresso nella capanna degli uffi-
            ciali. Ricordo che uno di loro era grasso. Uno disse che avevano
            l’ordine di condurre cinque ufficiali a «un altro campo». Erava-
            mo in nove nella capanna, e sette di noi erano presenti al loro
            arrivo. Era il momento che avevamo atteso; la fine si avvicinava
            con le sembianze di un gruppo di guardie indifferenti e malcon-
            ce. Non ci fu bisogno di scambiare neanche una parola per sape-
            re che tutti condividevamo la stessa idea su quello che stava av-
            venendo. Mi sedetti. Il giapponese grasso lesse i nomi di quelli
            che voleva: maggiore Smith, maggiore Slater, maggiore Knight,
            tenente Mackay e tenente Lomax.
               Mentre parlava, fuori si fermò una camionetta. Sul fondo se-
            devano immobili il capitano Hawley e il tenente Armitage. Non
            dissero nulla, perché non c’era nulla da dire o fare. I giapponesi
            ci ordinarono di preparare immediatamente i bagagli e di salire
            sulla camionetta in attesa. Oltre al riferimento a un altro campo,
            non avevamo idea di quale fosse la destinazione.

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I cinque minuti successivi furono di muto panico. Smontai la
           zanzariera malconcia e il lettino di tela e li arrotolai. Il resto en-
           trò nello zaino, con qualche vestito e altri piccoli oggetti. I mo-
           bili fabbricati e raccolti nel corso di tanto tempo vennero abban-
           donati in un istante; il tavolo traballante, lo sgabello di bambù,
           lo stendiabiti, i ganci e gli scaffali: erano tutti inutili. L’unica co-
           sa che importava ora era sopravvivere.
               Mentre raccoglievo le mie cose, dovetti ragionare in fretta, il che
           non sempre significa ragionare bene. Trovandoci in grande perico-
           lo, avremmo avuto magre prospettive se avessimo lasciato l’inizia-
           tiva ai giapponesi. Sapevo che non era un’eventualità remota che
           alla fine del viaggio imminente ci attendessero il plotone d’esecu-
           zione o la forca. Riflettei – se una decisione impulsiva può essere
           considerata una riflessione – che se avessimo tentato la fuga verso
           nord in direzione della Strada di Birmania, avremmo avuto mag-
           giori possibilità con una mappa. Decisi di portarla con me, dovun-
           que stessimo andando. Era una specie di talismano; dava l’illusio-
           ne di una meta ai passi ciechi che stavamo compiendo.
               Chiesi il permesso di usare la latrina e mi avvicinai allo stec-
           cato di palma intrecciata e di bambù che circondava la fossa sca-
           vata nel terreno. Nel taschino della camicia avevo il mio «dia-
           rio», appunti su libri ed eventi seguiti alla caduta di Singapore
           scritti con grafia minuscola su pezzi di carta igienica; meditai di
           gettarlo nella fossa, ma mi sembrava un peccato disfarmene, ed
           era così innocuo. Non riuscivo a pensare chiaramente. Dopo es-
           sermi svuotato la vescica per salvare le apparenze, recuperai nel-
           la parete posteriore il bambù cavo dove conservavo la mappa.
           Lo estrassi senza difficoltà, e insieme a esso uscì uno scorpione
           nero, molto rabbioso, che si contorse cercando di pungermi. Lo
           gettai a terra dai bordi del foglio ripiegato, e fendette l’aria con
           la coda avvelenata. Quelli neri erano più pericolosi, mi avevano

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detto. Mi sono spesso chiesto che cosa ne sarebbe stato di me se
            mi avesse punto.
               Nessuno mi vide recuperare la mappa, che infilai nella cami-
            cia. Rientrato nella capanna la feci scivolare in una borsa di cuo-
            io per gli strumenti dei Trasmettitori in cui conservavo i più pic-
            coli oggetti del mio equipaggiamento. Le guardie trasandate si
            tenevano un po’ in disparte. La mancanza di interesse nei nostri
            confronti aumentava ancora di più la tensione. Era come se fos-
            simo stati convocati per un colloquio di lavoro da una grande,
            approssimativa organizzazione.
                Tutti e cinque salimmo sulla camionetta sedendoci sui baga-
            gli ammassati. Le guardie giapponesi vennero a sedersi vicino a
            noi; ci fecero comprendere che ogni tentativo di fuga avrebbe
            avuto conseguenze fatali. La camionetta ingranò la marcia e partì.
                I prigionieri gemevano e si lamentavano di tutto, ogni gior-
            no, tutti i giorni; con ogni probabilità l’intero esercito britanni-
            co non faceva che dolersi interminabilmente. Era un modo per
            superare la noia della guerra e quella ancora peggiore della pri-
            gionia. Ciononostante, i nostri uomini erano ben consapevoli
            che gli ufficiali facevano del loro meglio, che spesso per difen-
            derli dovevano correre rischi reali affrontando l’amministrazione
            giapponese del campo, e ovviamente erano a conoscenza della
            scoperta della radio. Quando le cose si misero per il verso sba-
            gliato – e ovviamente allora sapevano che le cose si erano mes-
            se per un verso davvero sbagliato – gli «alti ranghi» si serrarono
            alle nostre spalle dandoci un incrollabile sostegno. Tutti i prigio-
            nieri vicini alla nostra capanna ci rivolsero un cenno di saluto:
            un saluto esausto per alcuni, per altri solenne. La maggior parte
            di loro non ci rivide mai più.
                Oltrepassammo velocemente la guardiola, sballottati sui sedi-

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li di legno del furgone, poi svoltammo a destra sulla strada prin-
           cipale di Kanburi. Il panico per la guida e la tensione mi afferra-
           rono; avvicinandosi a un pericolo estremo si avverte come una
           pulsazione in testa e una pesantezza nelle membra, l’impulso a
           fuggire è trattenuto da un peso che non si può spostare. Parlam-
           mo pochissimo, quasi non ne avemmo il tempo. Dopo un miglio
           attraversammo il cancello del campo principale di Kanburi, do-
           ve avevano portato Thew e Smith. Vi erano diverse centinaia di
           uomini e i militari giapponesi lì di stanza si occupavano dei pri-
           gionieri di ogni campo sul tratto inferiore della ferrovia.
               Superata l’entrata principale, la camionetta si arrestò vicino
           alla guardiola. Ci ordinarono di scendere, il nostro equipaggia-
           mento fu gettato a terra. Ci dissero di dividerlo, e penosamen-
           te radunammo i nostri miseri averi prendendoci la responsabi-
           lità di ogni singolo oggetto. Dopo un lungo ritardo, le guardie
           coreane perquisirono gli zaini, ma ormai rimaneva poco che po-
           tesse interessare anche il più rigoroso dei carcerieri – tranne una
           cosa. Il coreano che perquisì il mio bagaglio non riuscì a trovarla.
               Le guardie ci portarono verso la guardiola principale, dove
           ci ordinarono bruscamente di metterci sull’attenti, a pochi pas-
           si dall’edificio e ben distanti da qualsiasi ombra o riparo dal so-
           le. La guardiola aveva tre sottili pareti di legno e di canne, era
           aperta sul davanti, con un tavolo a sbarrare l’ingresso. Sul lato
           più prossimo all’ingresso del campo, una guardia stava sull’atten-
           ti; poche altre sedevano dietro il tavolo. Tra loro c’era un uomo
           coi capelli bianchi, imponente, massiccio e abbastanza elegante,
           che si rivolse a noi in un fluente inglese-americano. Ci ordinò
           di farci avanti. Il suo atteggiamento mentre verificava la nostra
           identità era aggressivo, derisorio e ostile; nel corso della breve
           procedura fece commenti sprezzanti sulla doppiezza e sulla co-
           dardia degli occidentali.

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Ci ordinò di tornare al sole. Rimanemmo lì a fianco di un lun-
            go fossato, ben distanziati come cinque pali del telegrafo lungo
            una strada. Erano le dieci del mattino.
                Mattina e pomeriggio passarono, ogni minuto era lungo quasi
            un’ora. Quando si è costretti a rimanere rigidamente sull’attenti
            sotto un sole feroce, non resta altro da fare che pensare; eppure
            il pensiero è un processo che dovrebbe dipendere dalla volontà,
            e a causa di uno stress estremo i pensieri si dispiegano per pro-
            prio conto, correndo sempre più rapidi come una macchina fuo-
            ri controllo, sfuggita al tocco di una mano umana.
               Non potevamo farci niente: restammo lì, sapendo che cosa ci
            attendeva. La squallida guardiola non era più grande di un co-
            mune soggiorno, e le poche guardie all’interno e quelle alle no-
            stre spalle, che ci controllavano, decidevano della vita di diver-
            se centinaia di uomini. Così pochi per opprimerne così tanti.
                Restammo per dodici ore con la schiena a questa capanna. I
            nervi e la carne della schiena diventano estremamente sensibili
            e vulnerabili quando sono voltati contro un nemico. Mi aspetta-
            vo di sentire da un momento all’altro il calcio di un fucile contro
            la spina dorsale, una baionetta infilzata tra le scapole. Non udi-
            vamo altro che le loro parole, di tanto in tanto le risate sguaiate.
                Il calore ustionante del sole, l’irritazione per le mosche e le
            zanzare che si nutrivano del sudore, il prurito sulla pelle, le con-
            trazioni dolorose degli occhi contro la luce e persino la paura di
            una morte violenta, verso sera erano stati sostituiti da un’ancora
            più intensa sete bruciante. Per tutto il giorno non ci diedero nul-
            la da bere, ma ci permisero di recarci alle latrine. Durante una di
            queste visite dovetti a malincuore liberarmi del diario. Le pagine
            sottili ricoperte di appunti ordinati su libri, grammatica, liste di
            francobolli da collezione, svolazzarono nella fossa maleodorante.

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Al crepuscolo ci fecero raggruppare davanti alla guardiola. Il
           buio arrivò con insolita rapidità. Eravamo illuminati da una fio-
           ca luce proveniente dalla guardiola alle nostre spalle. Sentimmo
           suonare l’ora mentre un gruppo rumoroso di giapponesi e coreani
           si avvicinò dagli uffici del campo attraverso l’oscurità. Sembra-
           vano sottufficiali, avevano uniformi scompigliate, uno o due si
           reggevano a malapena in piedi; tutti portavano in mano dei pic-
           coni. Si fermarono a parlare con le guardie, come per confron-
           tarsi su che cosa fare di noi.
               Il maggiore Smith venne chiamato a fare un passo avanti; gli
           dissero di sollevare le braccia sopra la testa. La sua figura alta e
           magra, con le braccia sottili distese come uno spaventapasseri,
           sembrava tristemente debole e patetica. Si trovava al limite del
           cerchio di luce. Per un istante pensai – un ultimo barlume di spe-
           ranza – che si trattasse di una forma estrema dei loro incessan-
           ti saluti militari. Un corpulento sergente giapponese si mise in
           posizione, sollevò il manico del piccone e sferrò sulla schiena di
           Smith un colpo che avrebbe steso un bue. Smith cadde a terra,
           ma fu costretto a rialzarsi a calci e a rimettersi in piedi. La stessa
           guardia lo colpì ancora, con forza. Tutte le altre bestie si misero
           all’opera. Ben presto non si vide altro che il sollevarsi e l’abbat-
           tersi dei picconi al di sopra delle teste del gruppo, e si udivano
           colpi rivoltanti mentre le armi scendevano sul corpo che si di-
           menava e scalciava, costantemente rimesso in piedi solo per es-
           sere di nuovo gettato a terra. Bill Smith urlò ripetutamente di
           avere cinquant’anni, implorò pietà, ma senza risultato. Il grup-
           po di aggressori sembrava muoversi allo stesso ritmo della vitti-
           ma insanguinata e strisciante, nelle tenebre oltre il fioco cono di
           luce della guardiola, ma i rumori dei picconi sulla carne conti-
           nuarono a raggiungerci dal buio della piazza d’armi.
               Usavano i manici dei picconi: erano simili alle solide spade

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dell’esercito britannico, e forse lo erano davvero. Le guardie al-
            le nostre spalle non si muovevano. Né si aspettavano che noi ci
            muovessimo, che intervenissimo, o fuggissimo: ci restava solo la
            stanca, sprezzante consapevolezza di essere in trappola. Il primo
            colpo: come un operaio che si adegui al ritmo del lavoro; poi gli
            altri che si uniscono in un crescendo confuso e martellante di
            colpi e botte su carne e ossa. Continuarono a sferrargli calci, a
            sollevarlo in piedi, a rigettarlo a terra – finché smise del tutto di
            muoversi, se morto o svenuto non sapevo dirlo. Né sapevo dire
            per quanto andò avanti. Come si fa a misurare il tempo in circo-
            stanze simili? I colpi avevano sostituito i normali, vuoti secon-
            di del tempo che scorre, ma credo che ci vollero circa quaranta
            minuti prima che Smith giacesse al suolo immobile.
               Il gruppo riemerse dalla notte. Questa volta venne chiamato il
            mio caro amico Morton Mackay. Io ero il prossimo in fila. Quan-
            do incominciarono con Mackay e la pioggia di orrendi colpi pre-
            se forza, guardai di lato verso un gruppo di guardie che trasci-
            navano una figura malconcia che incespicava verso la guardiola.
            Smith era ancora vivo; gli fu consentito di accasciarsi nel fosso
            di fianco all’entrata.
               Mackay cadde ruggendo come un leone, solo per essere di
            nuovo rimesso in piedi a suon di calci; in pochi minuti fu con-
            dotto nella semioscurità lontano dalle luci, circondato dal vorti-
            care dei picconi che si alzavano e cadevano incessantemente. Ri-
            cordo di aver pensato che nella scarsa luce sembravano le pale di
            un mulino, tanto il movimento era costante. Alla fine, il corpo di
            Mackay venne trascinato e abbandonato nel fosso vicino a Smith.
               Gli istanti in cui rimasi in attesa del mio turno furono i peg-
            giori della mia vita. L’attesa è indescrivibile; mi tornò alla mente
            una storia che ricordavo dall’infanzia sui martiri protestanti che
            assistettero all’agonia e alla tortura dei compagni. Essere costret-

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