Come (e perché) la Cina può mettere a rischio la nostra economia e la pace mondiale

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Come (e perché) la Cina può mettere a rischio la nostra economia e la pace mondiale
Come (e perché) la Cina può
mettere a rischio la nostra
economia e la pace mondiale
written by Mario Menichella | 13 Ottobre 2021
Anestetizzati da mesi di pandemia, in Italia si sta forse un
po’ perdendo il senso della realtà ed, a mio avviso, si
sottovalutano i rischi – potenzialmente sistemici – insiti
nella situazione mondiale attuale. In Cina, Paese che ha ormai
sostituito gli Stati Uniti come “locomotiva dell’economia
mondiale”, ormai da qualche settimana si chiudono a turno le
fabbriche, nelle strade si spengono i semafori e nelle case i
forni a microonde, si fermano gli ascensori e viene meno la
copertura telefonica 3G, tutto a causa dei frequenti blackout;
e si mettono in allerta migliaia di città sul blocco
dell’acqua per mancanza di elettricità, in quanto all’eccesso
di domanda prodotto dalla ripresa post-Covid si è sommato il
crollo della produzione energetica delle centrali a carbone,
combustibile di cui sono state bloccate le importazioni
dall’Australia per la violenta guerra commerciale con questo
Paese, che chiedeva un’inchiesta sull’origine del SARS-CoV-2.
Il risultato è che ora c’è scarsità di componenti, di semi-
lavorati e di prodotti finiti, nonché un rilevante aumento dei
prezzi delle materie prime, del cibo, dei carburanti e di luce
e gas. Si rischiano, pertanto, anche in Italia interruzioni di
produzioni e frammentazioni di intere filiere, inflazione
galoppante, crescenti “default” di aziende e famiglie ed, a
cascata, un’impennata delle sofferenza bancarie, che
rappresentano una “spada di Damocle” per un Paese come il
nostro, con il secondo debito pubblico più grande al mondo;
per non parlare dell’impatto imprevedibile, sui mercati e
sulle banche, dell’eventuale scoppio della “bolla immobiliare”
cinese. Oggi, insomma, il mondo sta temendo un nuovo
“contagio” proveniente dalla Cina – e sarebbe il secondo – ma
Come (e perché) la Cina può mettere a rischio la nostra economia e la pace mondiale
questa volta è di tipo economico-finanziario, e potrebbe avere
delle ricadute geopolitiche importanti, oltre che un impatto
potenzialmente notevole sulla vita di tutti noi. Ma cosa sta
succedendo davvero in Cina e, soprattutto, che cosa potrebbe
succedere nei prossimi mesi nel nostro Paese e nell’area
dell’Indo-Pacifico (dove vive metà della popolazione mondiale,
transitano alcune delle principali vie di navigazione e sono
in aumento preoccupante le frizioni e le provocazioni fra Cina
e altri Paesi)? Esiste davvero il rischio di una ingestibile
pandemia finanziaria o, addirittura, di un conflitto armato? È
la vera “variante impazzita”, il cigno nero “che spazza via
tutto” (facendo impallidire, a confronto, le nostre
preoccupazioni per il Covid) o è soltanto un’esagerazione di
alcune Cassandre?

Un’altra potenziale minaccia dalla Cina: lo “scoppio” della
bolla immobiliare

Dopo la pandemia arrivata dalla Cina – che è stata un vero e
proprio “cigno nero”, per quanto in parte prevedibile, dopo
quelle di SARS e di MERS – dalla Cina rischia di arrivare
un’altra potenziale minaccia – se volete, un secondo “cigno
nero” – legata al probabile fallimento della società
Evergrande, un grandissimo player dell’economia cinese:
200.000 dipendenti che, con l’indotto, salgono a ben 3,8
milioni [25]. Precedentemente nota come Hengda Group,
Evergrande è stata fondata nel 1996 dall’uomo d’affari Hui Ka
Yan a Guangzhou, nel sud della Cina. La Evergrande Real Estate
è un colosso dell’immobiliare e possiede attualmente più di
1.300 progetti in più di 280 città in tutta la Cina. Ma il più
ampio Gruppo Evergrande ora comprende molto più del semplice
sviluppo immobiliare. Le sue attività spaziano dalla gestione
patrimoniale alla produzione di auto elettriche e alla
produzione di alimenti e bevande. Possiede persino una delle
più grandi squadre di calcio del paese: il Guangzhou FC. Il
signor Hui era una volta la persona più ricca dell’Asia e,
nonostante abbia visto la sua ricchezza precipitare negli
Come (e perché) la Cina può mettere a rischio la nostra economia e la pace mondiale
ultimi mesi, ha una fortuna personale di oltre 10 miliardi di
dollari, secondo Forbes.

Evergrande è venuta a trovarsi nei guai perché si è espansa in
modo aggressivo per diventare una delle più grandi aziende
cinesi, prendendo in prestito più di 300 miliardi di euro.
L’anno scorso, Pechino ha introdotto nuove regole per
controllare l’importo dovuto dai grandi promotori immobiliari.
Le nuove misure hanno portato Evergrande a offrire le sue
proprietà a grandi sconti per garantire che arrivassero soldi
per mantenere a galla l’attività [23]. Ora sta lottando per
far fronte al pagamento degli interessi sui suoi debiti, ed ha
un indebitamento di circa 305 miliardi di dollari. Ma,
considerando anche tutto l’indotto (banche, scoperture, etc.),
in realtà le cifre in ballo in caso di default sono pari al
doppio del Pil italiano. Per l’incertezza sul suo futuro, il
prezzo delle azioni di Evergrande è crollato di circa l’80%
quest’anno. Le sue obbligazioni sono state anche declassate
dalle agenzie di rating del credito globali a un gradino dal
livello di spazzatura. Anche se ancora il default non è stato
dichiarato perché teoricamente la società ha ancora tempo per
pagare i debiti, è chiaro a tutti – ed implicitamente
confermato da dirigenti ed autorità – che non lo farà perché
non ha i mezzi per farlo. Solo il Governo cinese potrebbe
salvarla per evitare un effetto Lehman Brothers, ma ciò
creerebbe al tempo stesso un precedente pericoloso.
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Confron
to del debito di Evergrande (indotto escluso) con quello della
Lehman Brothers, a cui viene spesso accostata. La banca
d’affari americana, quando è fallita, il 15 settembre 2008,
aveva un patrimonio di 680 miliardi di dollari e 613 miliardi
di debiti (si è trattato del più grande fallimento nella
storia degli Stati Uniti). Ciò che era significativo di Lehman
era il numero di paesi che vi avevano investito. Il suo crollo
ha portato a un calo del valore dell’economia mondiale. A
causa della complessa rete dell’economia globale, un altro
grande crollo come quello di Evergrande potrebbe essere una
pessima notizia.

Ci sono diversi motivi per cui i problemi legati all’eventuale
default di Evergrande sono seri [23]. In primo luogo, molte
persone hanno acquistato proprietà da Evergrande ancor prima
che iniziassero i lavori di costruzione. Hanno pagato depositi
e potrebbero potenzialmente perdere quei soldi se la società
fallisce. Ci sono poi le aziende che fanno affari con
Evergrande – comprese le imprese di costruzione e
progettazione e i fornitori di materiali – le quali corrono il
rischio di incorrere in gravi perdite, che potrebbero
costringerle al fallimento. Il terzo motivo è il potenziale
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impatto sul sistema finanziario cinese. La ricaduta
finanziaria sarebbe di vasta portata. Secondo quanto riferito
dalle testate locali, “Evergrande deve soldi a circa 171
banche nazionali ed a 121 altre società finanziarie”. Se
Evergrande fallisce, le banche e altri istituti di credito
potrebbero essere costretti a prestare meno. Ciò potrebbe
portare a quella che è nota come “stretta creditizia”, cioè
quando le aziende faticano a prendere in prestito denaro a
tassi convenienti. Una stretta creditizia sarebbe una pessima
notizia per la seconda economia mondiale, perché le aziende
che non possono prendere in prestito hanno difficoltà a
crescere e in alcuni casi non sono in grado di continuare a
operare. Ciò potrebbe anche innervosire gli investitori
stranieri, che potrebbero vedere la Cina come un luogo meno
attraente per investire con sicurezza i propri soldi.

Le gravissime ricadute potenziali del crollo di una società
così pesantemente indebitata ha portato alcuni analisti a
suggerire che Pechino potrebbe intervenire per salvarla.
Mattie Bekink, della Economist Intelligence Unit (EIU), la
pensa così: “Piuttosto che rischiare di interrompere le catene
di approvvigionamento e far infuriare i proprietari di case,
pensiamo che il governo probabilmente troverà un modo per
garantire che il core business di Evergrande sopravviva”.
Altri, però, non ne sono sicuri. In un post sull’app di chat
cinese e sulla piattaforma di social media WeChat, l’influente
caporedattore del quotidiano Global Times sostenuto dallo
stato, Hu Xijin, ha affermato che Evergrande non dovrebbe fare
affidamento su un salvataggio del governo e invece deve
salvarsi. Ciò si accorda anche con l’obiettivo di Pechino di
tenere a freno il debito societario, il che significa che un
salvataggio di così alto profilo potrebbe essere visto come un
cattivo esempio. D’altra parte, però, le autorità comuniste
sono colpevoli di non aver saputo controllare con attenzione
le attività e i bilanci del colosso immobiliare. Si parla,
inoltre, di casi di corruzione diffusa [25]. Insomma, in un
Paese “normale” sarebbe stato uno scandalo enorme. Ma le
Come (e perché) la Cina può mettere a rischio la nostra economia e la pace mondiale
proteste in piazza che si sono viste (soprattutto sul web)
rappresentano una grande novità, poiché nella Repubblica
Popolare le manifestazioni pubbliche sono severamente vietate.

I mercati finanziari globali sono stati tutti in allerta, in
queste settimane, poiché il gigante immobiliare cinese a corto
di liquidità doveva affrontare diversi test chiave in questi
giorni. Lo sviluppatore immobiliare più indebitato al mondo
era infatti destinato a rispettare una serie di scadenze per
il pagamento degli interessi obbligazionari, per un totale di
decine di milioni di dollari. Poiché la società faceva fatica
a soddisfare tali pagamenti, ha iniziato a rimborsare alcuni
investitori nella sua attività di gestione patrimoniale con
delle proprietà. Inoltre, invece di pagare i 47,5 milioni, che
non avevano in cassa, hanno ceduto un pacchetto di azioni – si
parla di 1,5 milioni di azioni – a una banca locale collegata
al governo cinese. Detto altrimenti, si tratta di uno
“scaricabarile”, di una soluzione tipo Monte dei Paschi di
Siena: in sostanza, il settore privato sta scaricando il
“barile” nel settore pubblico, per cui poi saranno i cinesi e
la Banca centrale cinese a pagare. Tutto questo mentre la
Banca centrale cinese inietta miliardi – il 22 settembre ne ha
messi 15,5 Mld (€) – che vanno a finire nelle banche
commerciali, verosimilmente per coprire, “a mo’ di pezze”, le
perdite in bilancio legate all’esposizione a Evergrande. Ma
non sappiamo fino a che punto lo Stato interverrà: l’opacità
del sistema informativo cinese non ha finora consentito di
capire come Xi Jinping e il suo gruppo dirigente intendano
affrontare il grosso del problema.

Come spiega il prof. Michele Marsonet [25], “in Cina, il nuovo
statalismo promosso dal Partito indurrebbe a credere che il
governo interverrà con una ristrutturazione del debito di
Evergrande. Si tratterebbe però di un’operazione assai
difficile dal punto di vista finanziario, i cui costi
ricadrebbero inevitabilmente sulle spalle dei contribuenti.
L’alternativa è lasciare che il colosso immobiliare fallisca,
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adottando la stessa strategia utilizzata nel celebre caso del
crac di Lehman Brothers nel 2008. Si tratta di capire se Xi
Jinping, che intende farsi eleggere ‘presidente a vita’, può
permettersi una simile via d’uscita. In fondo la Repubblica
Popolare ha continuato a prosperare grazie a una sorta di
‘patto sociale’ che promette ai cittadini una crescita
continua in cambio della rinuncia ad alcune libertà
fondamentali, e tale soluzione segnerebbe per l’appunto la
fine del patto di cui sopra”. In effetti, a differenza che in
altri Paesi, in Cina da anni investono in Borsa anche milioni
e milioni di persone del popolo, senza alcuna esperienza,
perché sanno che la crescita sarà in qualche modo “garantita”
dall’intervento statale.

Un’eventuale crisi economica e finanziaria della Repubblica
Popolare Cinese avrebbe effetti deleteri nel mondo intero,
essendo quasi tutti i principali Paesi legati al “carro”
cinese. Ma, come scrive Salvatore Dimaggio [24], “il grande
dubbio è capire se quello di Evergrande è solo un gigantesco
caso isolato oppure se segna l’inizio del temuto scoppio della
‘bolla immobiliare’ (nel frattempo, anche la cinese Fantasia
Holding, che ha un debito di 12,3 miliardi di dollari, è
sull’orlo del default [63], ndr). Tante autorità economiche e
finanziarie erano state da tempo messe in guardia
sull’evoluzione anomala del settore immobiliare assolutamente
tipica delle speculazioni delle bolle. Tuttavia, le banche
centrali sono sempre state molto timide – anzi assenti – su
questo fronte. I falchi della Banca Centrale Americana hanno
più volte sottolineato come si sarebbe dovuto intervenire con
forza per stroncare le dinamiche della bolla immobiliare.
Tuttavia sono rimasti sostanzialmente inascoltati e la Banca
Centrale Americana è rimasta immobile sulle sue politiche.
Come del resto anche la Banca Centrale Europea. A questo punto
è assai complesso capire se la bolla immobiliare si sgonfierà
in modo naturale e graduale o se il caso di Evergrande è un
fenomeno destinato a ripetersi magari con modalità molto
diverse anche in altre parti del mondo”.
Come (e perché) la Cina può mettere a rischio la nostra economia e la pace mondiale
La
bolla immobiliare cinese (e quella di Hong Kong) erano già
diversi anni fa preoccupanti per le loro dimensioni assai
maggiori rispetto a quella statunitense, scoppiata nel 2007
con la crisi dei mutui subprime. (fonte: Chinese property
bubble bigger than subprime, HSBC)

Tre Paesi quasi sull’orlo del “caos” per ragioni diverse:
Cina, Regno Unito e Italia

All’apparenza, dunque, la Cina potrebbe sembrare sull’orlo del
caos per la vicenda Evergrande. Ma, in realtà, non è così.
Infatti, secondo il giornalista economico Andrea Muratore
[26], “il Dragone non intende ‘punire’ Evergrande
condannandola al fallimento rifiutando esplicitamente un
intervento, come è successo nel 2008 negli USA con Lehman
Brothers, ma è disposta a ritardare l’intervento a quando sarà
necessario per impedire lo scoppio della bolla”. E spiega:
“Secondo il Wall Street Journal, il governo di Xi Jinping
avvisa da giorni i funzionari locali ad essere ‘pronti per la
possibile tempesta’. Le agenzie governative di livello locale
Come (e perché) la Cina può mettere a rischio la nostra economia e la pace mondiale
e le imprese statali, scrive il quotidiano finanziario USA,
avrebbero ricevuto l’ordine di intervenire solo all’ultimo
momento nel caso in cui Evergrande non riuscisse a gestire i
propri affari”. A dimostrazione del fatto che, come molti
rilevano da tempo, quella cinese non è una vera economia di
mercato, bensì uno strano sistema – privo di trasparenza –
dominato totalmente dal Partito-Stato, al quale sono legati a
filo doppio anche i tanti miliardari spuntati come funghi dopo
le riforme nominalmente privatistiche promosse da Deng
Xiaoping [25]. L’agenzia di rating Fitch ha già stimato che lo
scandalo Evergrande porterà a un rallentamento del Pil cinese,
che dovrebbe passare dall’8,4 all’8,1 percento. Capirai.

Come spiega ancora Muratore, “le banche cinesi ed estere
esposte a Evergrande stanno già operando accantonamenti sulle
perdite”. La finanza occidentale e i decisori politici devono
capire la big picture e rendersi conto del fatto che
sostanzialmente il rischio Evergrande è già stato nelle scorse
settimane prezzato, interiorizzato e messo in conto dai
mercati e che ogni possibile slavina sarà unicamente dovuta
allo sdoganamento del panico”. Se però qualcuno pensasse che
in Cina “Tutto va ben, Madama la Marchesa!”, in quanto il
governo cinese probabilmente eviterà a Evergrande un default
che provocherebbe conseguenze sistemiche, o comunque cercherà
di depotenziare l’impatto della vicenda (ma la verità è che
ancora non si sa per certo se il futuro di questa crisi ci
riserverà solo alta marea oppure uno tsunami), si sbaglierebbe
di grosso. Difatti, quella che veramente preoccupa gli
analisti occidentali è un’altra crisi cinese, quella
energetica, che sta provocando grandissimi danni soprattutto
alle piccole e medie imprese, ma non solo [27], spingendo gli
analisti a tagliare le previsioni di crescita economica del
Dragone per quest’anno dall′8,2% al 7,7%, ma potrebbe persino
trattarsi di una previsione al ribasso troppo ottimista [42].
Non è un caso che Bloomberg abbia pubblicato in queste
settimane un articolo dal titolo significativo: “La crisi
dell’energia in Cina è il prossimo shock economico dopo
Come (e perché) la Cina può mettere a rischio la nostra economia e la pace mondiale
Evergrande”. In realtà, però, il suo impatto potrebbe essere
decisamente più grande e meno facile da gestire.

Come spiegato alla fine di settembre da Giuseppe Rodio su Wall
Street Italia [27], “nella provincia di Guangdong (la numero
uno per produzione industriale in Cina, e quindi possiamo dire
nel pianeta), il governo ha ordinato alle piccole e medie
imprese (PMI) considerate ad alto consumo energetico di
chiudere 3 giorni a settimana a causa della carenza di
energia. Almeno 9 province cinesi sono colpite da interruzioni
di energia elettrica, con aziende costrette a chiudere per 3
giorni alla settimana. Tra queste, troviamo le province di
Jiangsu, Zhejiang (da cui peraltro arrivano oltre il 90% dei
cinesi che vivono in Italia, ndr) e la sopra citata Guangdong,
le potenti zone industriali che da sole valgono quasi un terzo
dell’intera economia cinese. Considerando il fatto che siamo a
settembre e di inverno a Pechino fa davvero molto freddo,
sembra si tratti della punta di un iceberg… Del resto, nella
provincia di Jilin, una compagnia idrica locale ha scritto
giorni fa un post sul suo profilo social di WeChat dicendo che
“le interruzioni o i limiti irregolari, non pianificati e non
annunciati dureranno fino a marzo 2022, e le interruzioni di
corrente e acqua diventeranno la norma” [42]. Un vecchio detto
di Wall Street dice ‘se l’America starnutisce, l’Europa si
becca il raffreddore’. Cosa succederà al mondo, se alla Cina
viene la polmonite? Ma, soprattutto, questi “colli di
bottiglia temporanei”, come li ha definiti il presidente della
Fed Jerome Powell, e dovuti in parte alla forte spinta
produttiva connessa alle riaperture, risultano invece essere
alquanto strutturali, poiché derivano in parte dal processo di
transizione energetica dal carbone alle rinnovabili ed in
parte – come vedremo – dalla “guerra” commerciale nei
confronti dell’Australia [2] e dal riscaldamento globale.

La Cina è nel bel mezzo di una crisi dell’approvvigionamento
energetico (in particolare, di carbone, che lì è ancora
ampiamente usato nonostante l’elevato livello di inquinamento
che produce il bruciarlo), la quale è diventata molto critica
nelle ultime settimane, minacciando intere reti elettriche e
spingendo gli analisti a tagliare le previsioni di crescita
economica per l’anno. La metà delle 31 giurisdizioni
provinciali cinesi – da quelle industriali nel sud a quelle
nel nord-est – impongono ormai il razionamento
dell’elettricità, ma la scarsa comunicazione e la tempistica
poco chiara hanno lasciato il pubblico arrabbiato
nell’oscurità, innescando un allarme diffuso tra gran parte
della popolazione e facendo precipitare il settore
dell’industria nel caos [27]. Le Autorità hanno avvertito che
l’intera rete elettrica rischia il collasso se l’elettricità
non viene razionata. Diversi fornitori, ad esempio, di Apple e
Tesla hanno così annunciato chiusure di fabbriche per giorni
per rispettare gli ordini delle autorità locali di razionare
l’elettricità. Ma le interruzioni diffuse non si limitano alle
fabbriche, nonostante in Cina queste siano le prime a dover
ridimensionare i consumi. I residenti di grattacieli sono
stati costretti a prendere le scale in città dove sono stati
sospesi i servizi di ascensore per risparmiare elettricità.
Nel Guangdong, è stato chiesto ai residenti di smettere di
usare l’aria condizionata e di affidarsi alla luce naturale al
posto delle lampadine elettriche [28].

Le ragioni principali della mancanza di energia nel sud della
Cina sono diverse da quelle che la causano nel nord. Il sud
sta esaurendo l’energia idroelettrica; il nord sta soffrendo
per la diminuita disponibilità del carbone per la guerra
commerciale con l’Australia (di cui vedremo più avanti la
causa) e per l’aumento del suo prezzo per l’elevata domanda
dovuta alla ripresa [29]. Il Guangdong ottiene circa il 30%
della sua elettricità dall’energia idroelettrica, generata
nella vicina provincia dello Yunnan. Ma un’estate più calda
della media a causa del riscaldamento globale ha prosciugato i
bacini idrici e fatto evaporare la fornitura di energia nello
Yunnan. Allo stesso tempo, l’aumento dei volumi delle
esportazioni di prodotti ha causato un picco nella domanda di
energia industriale nel Guangdong, portando a una carenza di
energia. Anche la domanda locale di energia idroelettrica
dello Yunnan è aumentata. La spinta di Pechino a
decarbonizzare il suo settore industriale ha spinto le
fonderie di alluminio assetate di energia a trasferirsi nella
provincia ricca di idroelettrico, e ciò ha accresciuto la
concorrenza per l’energia verde locale. Infine, nel nord del
Paese, ricco di centrali elettriche a carbone, un certo numero
di province hanno superato già ad agosto la quota delle
emissioni inquinanti introdotta dal governo nel 2019, e quindi
la loro azione immediata è stata quella di iniziare a
razionare l’elettricità. La Cina guarda al gas naturale
liquido (GNL) per ridurre l’utilizzo del carbone, e
l’Australia è insieme al Qatar il principale produttore
mondiale di GNL.

                                                       Schema
riassuntivo delle cause della carenza di elettricità in Cina.
               (fonte elaborazione dell’Autore)

Ma la Cina non è l’unico Paese che in queste settimane sembra
quasi sull’orlo del caos. Sia pure per motivi in parte
diversi, anche il Regno Unito è in balia di una doppia
emergenza, tra il forte aumento dei prezzi delle forniture
domestiche di luce e gas (con decine di utilities fallite in
pochi mesi, dirottando centinaia di migliaia di utenti verso
nuovi fornitori) e la scarsità di carburante alle stazioni di
servizio (con un quarto delle pompe a secco, lunghe code e
disagi), con il governo costretto a mobilitare l’esercito come
misura temporanea per riattivare i rifornimenti di benzina nel
Paese [30]. Per non parlare degli scaffali dei supermercati
vuoti o quasi vuoti, ed anche in questo caso all’origine della
crisi vi è la carenza di camionisti, tradizionalmente
provenienti dall’Europa dell’Est (in quanto accettavano
compensi molto più bassi rispetto agli autotrasportatori
anglosassoni), provocata dalla Brexit ed acuita dalla
pandemia, nonché da fenomeni di accaparramento del carburante
e del cibo [31]. L’aumento dei prezzi di luce e gas e dei
carburanti è dovuto, invece, all’aumentare della domanda
internazionale di gas, petrolio e suoi derivati, ed è
accentuata dalla speculazione da parte degli investitori
finanziari che non sono interessati alla consegna “fisica” e
che sfruttano il cosiddetto “contango” (che permette ad alcuni
investitori di acquistare petrolio oggi, immagazzinarlo,
bloccare quel prezzo e venderlo mesi dopo con un enorme
profitto).

In Italia, invece, la situazione è solo all’apparenza migliore
rispetto al Regno Unito, poiché ai problemi già illustrati in
un mio articolo di aprile [32] – come i ristori del tutto
insufficienti rispetto al danno subito con lockdown, chiusure
“a colori” e restrizioni varie, ed il conseguente aumento dei
fallimenti di attività e delle sofferenze bancarie, etc. – se
ne sono sommati altri. Il turismo italiano è ormai in profondo
rosso, mentre i bar ed i ristoranti in vendita non si contano
più. Anche da noi mancano ora dei componenti per l’industria
costringendo al blocco di intere produzioni [35]; e materie
prime, cibo, carburanti ed energia hanno prezzi sempre più
alti (e non parlo solo dell’elettricità; per il caro-gas da
noi si sono già dovute fermare delle industrie [56]),
alimentando l’inflazione e mettendo sempre più persone in
difficoltà. E qui vorrei evidenziare un fatto che fa capire
perché nel Regno Unito siano già fallite delle utilities
energetiche: come spiegava un anno fa Diego Pellegrino,
portavoce dei fornitori privati di energia [37], “subito dopo
il periodo di lockdown, le punte degli insoluti da parte degli
utenti riguardo la fornitura di energia da noi sono state del
40%; ma, a differenza di quanto è avvenuto all’estero, il
governo da un lato ha bloccato i distacchi per morosità ma
dall’altro non ha previsto fondi per aiutare un settore che ha
registrato un calo degli incassi, non del fatturato, poiché i
crediti sono a bilancio e la riduzione del fatturato avviene
solo successivamente, quando vengono contabilizzate le perdite
sui crediti. Però gli impatti finanziari sono immediati: le
aziende possono fallire non solo per un calo del fatturato, ma
anche per crisi di liquidità!”.

Un altro problema incombente, in Italia, è quello del green
pass per il lavoratori delle piccole e medie imprese (PMI),
che ha tutta l’aria di essere una “bomba a orologeria” pronta
ad esplodere se non viene disinnescata. L’applicazione pratica
in maniera coercitiva con l’obbligo sul posto di lavoro della
certificazione verde a partire dal 15 ottobre rischia di
mettere in ginocchio tante piccole imprese (per non parlare
delle potenziali ricadute sul Pil), poiché ci sono ancora
circa 3 milioni di dipendenti del settore privato non
vaccinati. Unioncamere ha avvertito che in moltissimi casi
bastano una o due assenze per fermare l’attività delle PMI.
Ma, in tanti casi, la perdita di dipendenti o collaboratori
non vaccinati porterà, verosimilmente, addirittura al
fallimento delle attività più piccole, in quanto trovare
figure specializzate è oggi difficilissimo [33]. Si tenga
presente che il numero di addetti medi per impresa è in Italia
è di circa 3,5: l’assenza di un solo dipendente equivale,
quindi, in media al 33% della forza lavoro, cosa che non
sembra essere stata tenuta in alcun conto da chi ha partorito,
letteralmente unico al mondo, un’idea così “geniale”. Un
problema simile si presenta nel trasporto locale e soprattutto
nella logistica, poiché circa un quarto dei camionisti è non
vaccinato, e da qui a sotto Natale le merci rischiano di
rimanere ferme e accumularsi nei porti, a cominciare da quello
– importantissimo – di Genova [34].

Infine, in tutti e tre i Paesi qui analizzati, un problema
emergente è quello della mancanza di manodopera. Come spiega
Gianluca Modolo [53], “si cercano disperatamente lavoratori
per le fabbriche. Con i migranti interni che non migrano più,
con i giovani neolaureati che di andare a fare gli operai non
ne vogliono sapere e con una popolazione che invecchia sempre
più velocemente, l’economia ha un problema di carenza di
manodopera”. Modolo parla della Cina, ma non notate che questa
situazione somiglia non poco a quella italiana? Nel Regno
Unito la mancanza di manodopera è legata soprattutto alla
Brexit ed ai salari troppo bassi per certi lavori. In Cina,
invece, come racconta Modolo, “molti non lasciano più le città
(il Covid ha accelerato questo trend) e, nonostante i bonus
offerti dagli imprenditori, molti giovani non hanno nessuna
voglia di spaccarsi la schiena alla catena di montaggio con
orari duri e paghe comunque ancora basse. Possono permettersi
di attendere più a lungo, protetti nel frattempo da mamma e
papà, e cercano opportunità nel crescente settore dei servizi,
attirati anche dalle nuove occupazioni – a volte bizzarre –
che stanno nascendo. Fashion blogger, vlogger, dietologi per
animali domestici, giocatori di e-sport, stilisti di abiti
tradizionali: paghe migliori e meno fatica”. In Italia, si
tende a spiegare la carenza di manodopera solo con il reddito
di cittadinanza [54]; ma siamo davvero sicuri che basti a
spiegare il trend in atto?
In
Cina, molti dei millennial che sono cresciuti in un’era
dominata dai social media non sono interessati a lavori mal
pagati e con poche prospettive, considerato anche che nelle
grandi città i prezzi delle case sono saliti alle stelle nel
corso degli anni (per dare un’idea, a Shanghai il prezzo medio
a mq di una casa è 33 volte più alto che a Chicago). Uno dei
nuovi lavori molto in voga fra i giovani è quello
dell’influencer, un settore la cui economia nella sola Cina è
stata valutata, nel 2016, in circa 8,4 miliardi di dollari da
CBNData. Nella foto, alcuni dei tanti influencer orientali
spuntati letteralmente dal nulla. (fonte: Chinoy.tv)

La guerra commerciale fra Cina e Australia innescata dal
coronavirus

Sebbene i legami economici tra Cina ed Australia siano fioriti
dagli anni ’90, dalla fine del 2019 le due nazioni sono state
coinvolte in una guerra commerciale quasi senza quartiere che
ha lasciato entrambi i paesi a subire conseguenze economiche.
Le lamentele dell’Australia vanno dalla mancanza di
trasparenza sull’origine del Covid-19 a gravi preoccupazioni
per i diritti umani che, per usare le parole del ministro
degli Esteri australiano Marise Payne, sono “profondamente
inquietanti” [3]. Nel frattempo, la Cina ha presentato
all’Australia un elenco di rimostranze, tra cui interferenze
con gli affari interni, diffusione di retorica anti-cinese e
blocco degli investimenti basati su “motivi di sicurezza
nazionale opachi e infondati”. I disaccordi hanno coinvolto
ampi settori di entrambe le economie, i giganti della
tecnologia, e i politici di entrambe le parti si sono
scambiati accuse al vetriolo. I prodotti australiani hanno
sempre più attratto una classe media cinese in crescita e la
loro insaziabile domanda di materie prime come carne di manzo,
vino e aragosta ha contribuito a guidare la prosperità
economica australiana. E per molto tempo entrambi i paesi ne
hanno beneficiato. Allora, perché ricorrere a una guerra
commerciale? E chi sta davvero vincendo?

Un eccellente pezzo di Pete Carpenter [2], uscito ad aprile di
quest’anno, spiega molto bene quanto accaduto: “La Cina ha
imposto barriere commerciali con apparentemente poca risposta
dall’Australia. Il motivo è l’importanza relativamente elevata
per l’Australia del commercio transfrontaliero tra i due.
Eventuali dazi o restrizioni australiani reciproci sulle
importazioni cinesi danneggerebbero in modo significativo le
imprese e l’economia dell’Australia. Il rapporto tra i due
paesi si è deteriorato da quando l’Australia ha sostenuto una
richiesta per un’inchiesta internazionale sulla gestione del
coronavirus da parte della Cina quando la pandemia è diventata
una questione internazionale. Le cose sono peggiorate
costantemente e, alla fine del 2020, le agenzie di stampa
australiane hanno riferito che l’ambasciata cinese aveva
minacciato il governo australiano di ulteriori azioni; e ha
consegnato un elenco di presunte lamentele nei confronti di
Canberra (che includevano anche le ‘incessanti interferenze’
nell’approccio della Cina a Hong Kong e Taiwan). La Cina ha
così adottato diverse misure selettive che ostacolano il
commercio australiano, che vanno dall’imposizione di dazi
all’imposizione di divieti e restrizioni”. Esse sono costate
all’Australia, nella sola prima metà del 2021, circa 4
miliardi di dollari, ma la sua economia si è dimostrata assai
resiliente, e la perdita è stata compensata da un aumento con
il resto del mondo [43].

Carpenter fornisce diversi dettagli che aiutano a inquadrare
meglio la situazione: “analizzando le relazioni commerciali,
la Cina è il più grande partner commerciale dell’Australia e
di gran lunga la sua principale destinazione di esportazione.
L’Australia è una delle poche nazioni sviluppate sulla Terra
che esporta più in Cina di quanto non importi dalla Cina. la
Cina assorbe circa 1/3 di tutte le esportazioni australiane.
L’esportazione di gran lunga più grande è il minerale di
ferro. Fra il 2014 e il 2019 le esportazioni australiane verso
la Cina sono raddoppiate e le importazioni sono aumentate del
42%. Dopo l’inizio del battibecco, impattato comunque anche da
un rallentamento degli scambi dovuto alla pandemia globale,
nella prima metà dello scorso anno il commercio è sceso in
modo significativo ed è stato in realtà sostenuto solo dal
minerale di ferro. La Cina ha imposto tariffe/restrizioni su
carbone, vino, orzo, aragoste, legname, carne rossa e cotone.
Infine, con il nuovo stimolo industriale in Cina, il governo
cinese ha concesso l’autorizzazione alle centrali elettriche
per importare carbone senza restrizioni di sdoganamento ad
eccezione dell’Australia. Il carbone è la terza più grande
esportazione dell’Australia verso la Cina”.

Scrive ancora Carpenter: “L’orzo ha dazi dell’80,5% che
impediscono di fatto le esportazioni australiane in Cina. La
Cina ha affermato che l’Australia stava scaricando l’orzo sui
mercati cinesi danneggiando i produttori locali. L’Australia
ha presentato ricorso all’OMC. Il vino ha ricevuto dazi anti-
dumping tra il 107% e il 212%, a seguito dell’indagine anti-
dumping cinese sulle importazioni di vino dall’Australia. La
Cina ha sospeso le importazioni da 6 fornitori di carne
bovina, presumibilmente per problemi di etichettatura e
salute. Alla fine del 2020, gli esportatori di agnello non
sono stati in grado di esportare nel mercato cinese sotto le
restrizioni per il Covid-19 e ora le esportazioni di miele,
frutta e prodotti farmaceutici verso la Cina sono a rischio.
Tonnellate di aragoste vive sono rimaste bloccate negli
aeroporti e nei centri di smistamento cinesi, in attesa di
ispezione da parte della dogana. Non sorprende che la Cina non
abbia introdotto alcuna restrizione sulla più grande
esportazione australiana verso la Cina, quella di minerale di
ferro. Questo poiché la Cina dipende dal minerale di ferro
dell’Australia (oltre il 60% proviene da tale Paese) ed è
sempre più importante per la Cina a causa degli stimoli
aggressivi all’economia guidati dall’industria”.

Il giornalista economico australiano Stephan Bartholomeusz
chiariva, già a maggio, gli altri aspetti della vicenda [1]:
“Deve essere fonte di crescente frustrazione per i burocrati
cinesi il fatto che i propri successi economici stiano
schiacciando i loro sforzi per sanzionare l’Australia per i
nostri commenti poco diplomatici sulle origini della pandemia
e sul trattamento riservato dalla Cina agli uiguri nella
regione dello Xinjiang. Sebbene le sanzioni su orzo, vino,
aragoste, carbone e altri prodotti siano state pungenti, sono
state molto più che compensate dall’insaziabile domanda cinese
di minerale di ferro e gas naturale liquido (GNL) e
dall’impennata dei prezzi di entrambi. Se questa è una guerra
commerciale,     l’Australia    sta   vincendo   abbastanza
profumatamente la sua prima fase. Il prezzo del minerale di
ferro è superiore a $ 200 la tonnellata e i prezzi del GNL
sono rimbalzati dalla pandemia ai livelli visti l’ultima volta
due anni fa. Per quanto riguarda il carbone, i produttori
australiani hanno risposto ai divieti della Cina spostando le
loro esportazioni altrove, in particolare in India. Anche se i
produttori potrebbero non ottenere gli stessi prezzi di prima,
la Cina è costretta ad acquistare carbone di qualità inferiore
a prezzi più elevati, mentre i suoi concorrenti beneficiano
della manna inaspettata del carbone australiano di alta
qualità a prezzi inferiori”.
L’andamen
to, alla Borsa di New York, dei prezzi dei futures dei tre
principali combustibili fossili (petrolio, gas naturale e
carbone) negli ultimi 5 anni, fino alla data dell’8 ottobre.
Si noti come, a salire enormemente rispetto alla media degli
anni precedenti, siano stati solo il gas naturale e il
carbone, guarda caso entrambi largamente usati dalla Cina per
la produzione di elettricità. L’impatto è quindi enorme sia
per gli utenti di gas domestici e industriali sia sulla
bolletta elettrica di quei Paesi – come purtroppo l’Italia –
che d’inverno hanno ancora un contributo modesto da parte
delle fonti rinnovabili (fonte: Trading Economics)

Dunque, nonostante il danno che ha fatto ad alcune categorie
di esportazione con le sue tariffe e altre sanzioni, la Cina
non è stata in grado di danneggiare i produttori australiani
delle due grandi materie prime che contano davvero: ferro e
gas naturale liquido. Come spiega inoltre Bartholomeusz, “la
Cina potrebbe acquistare più GNL dal Qatar e dagli Stati Uniti
(in effetti si è impegnata nell’ambito della tregua
commerciale dell’era Trump per acquistare più GNL dagli Stati
Uniti, ed è in trattative con il Qatar per acquisire azioni
nel più grande nuovo progetto del mondo e ha ampliato le sue
relazioni con Turkmenistan), ma il GNL è un prodotto scambiato
a livello internazionale e la domanda nell’Asia del Pacifico è
abbastanza forte da consentire la ridistribuzione dei carichi
australiani altrove, come è avvenuto per il carbone. Un
fattore di complicazione sussidiario è che le società
energetiche statali cinesi hanno grandi partecipazioni
azionarie multimiliardarie e contratti a lungo termine con i
principali esportatori australiani di GNL, quindi danneggiare
l’industria australiana danneggerebbe le stesse imprese
pubbliche cinesi”.

Come chiarisce ancora il giornalista australiano, “la Cina ha
cercato di ritirare lo stimolo correlato alla pandemia che ha
iniettato nella sua economia lo scorso anno come parte di uno
sforzo più ampio per ridurre l’indebitamento, decarbonizzare e
migliorare la produttività della sua base industriale. C’è
anche il sospetto che la Cina stia accumulando le sue scorte
di materie prime vitali in mezzo a crescenti tensioni
geopolitiche. Naturalmente, non è nell’interesse a lungo
termine né dell’Australia né della Cina che le relazioni
diplomatiche e commerciali continuino a deteriorarsi, ma nel
frattempo, nonostante i danni che ha arrecato ad alcune
categorie di esportazione con i suoi dazi e altre sanzioni, la
Cina non è stata in grado di ferire i produttori australiani
delle due grandi materie prime che contano davvero. Infatti,
le sue azioni hanno spinto le aziende australiane – dai
produttori di vino ai minatori di carbone agli esportatori di
GNL – a cercare nuovi mercati e ridurre la loro dipendenza
dalla Cina, cosa probabilmente positiva per gli interessi
nazionali a lungo termine dell’Australia”. Forte della lezione
di questo “harakiri”, la Cina ha concordato con gli USA di
Biden una “exit strategy” sulla questione dell’origine del
SARS-CoV-2, in forza della quale il Dragone ammetterà che è
sfuggito accidentalmente dal laboratorio di Wuhan [39].

Conseguenze del “caos” cinese sull’economia dell’Italia: il
possibile “contagio”

Quando in Italia arriveranno nel pieno gli effetti che lo
shock energetico sta provocando in Cina, e se dovesse arrivare
entro qualche mese anche il default del colosso immobiliare
Evergrande, la situazione nel nostro Paese diverrebbe –
verosimilmente – seria. La crescita del Pil e il “miracolo
economico” di cui hanno parlato molti giornali italiani si
manifesterebbero per quello che sono: pura propaganda.
L’inflazione potrebbe raggiungere valori senza precedenti da
quando c’è l’euro (nonostante il mantenimento del quantitative
easing della BCE), mettendo in ulteriore difficoltà
soprattutto le famiglie e le fasce più povere della
popolazione. Dunque, la situazione attuale in Cina è
pericolosa non solo per i cinesi, ma per tutti, specie in
Paesi con un elevatissimo debito pubblico come l’Italia. Il
principale quotidiano economico-finanziario, Il Sole 24 Ore,
ha scritto, in queste settimane: “Se la storiella raccontata
dai banchieri centrali, che raccontano ai giornali finanziari
che l’inflazione è temporanea, fosse solo una favola? Se così
fosse, il boom economico post-Covid potrebbe essere vicino al
capolinea. Di fronte ai problemi della Cina, alle code dei
benzinai in Gran Bretagna, i mercati hanno avuto un brusco
risveglio”. Anche la banca giapponese Nomura ha sottolineato
che “i mercati hanno due problemi combinati: Evergrande e lo
shock energetico”.

Insomma, la realtà è assai meno rosea – per usare un eufemismo
– di quel che ci viene raccontato dalla narrazione ufficiale
(che poi è, né più né meno, quanto succede con il Covid su
temi rilevanti quali vaccini, green pass, terapie domiciliari,
scuole e trasporti, etc.). D’altra parte, è comprensibile che
su certi temi Mario Draghi sia “intoccabile” da parte dei
giornali italiani, e che il green pass abbia funzionato anche
come un’eccezionale “arma di distrazione di massa”. Tuttavia
occorre tornare alla (cruda) realtà. Quanto fin qui illustrato
rischia di contagiare l’economia mondiale. Una delle più note
testate economiche del mondo, Bloomberg, ci dice che “il
rischio è che le filiere degli approvvigionamenti vadano in
pezzi proprio sul finire dell’anno, quando la produzione
raggiunge il picco, in vista delle festività natalizie, degli
ordini da evadere in mezzo mondo. In Cina, gli imprenditori
sono colpiti dai pesanti tagli alle forniture energetiche. Si
stanno chiudendo porti, scali aerei”. Insomma, come prosegue
l’articolo, “la tempesta perfetta comincia a profilarsi
all’orizzonte. La filiera di prodotti USA di alto contenuto
tecnologico è a rischio: Apple, Tesla, Microsoft, HP, Dell,
etc. Tanto è vero che i fornitori di iPhone e di
microprocessori hanno imboccato la strada del lavoro svolto di
notte”. Nonostante ciò, il sistema potrebbe incepparsi.

Infatti, quanto può davvero essere temporaneo un shock nella
catena dei rifornimenti che sembra derivare da premesse di
natura decisamente strutturale? Il reperimento di componenti
(ad esempio i chip), materie prime (ad es. il grano) e di
materiali (ad es. l’acciaio) è un grosso problema: c’è
scarsità sul mercato. L’anno scorso molte aziende italiane si
sono fermate per il Covid, mentre ora rischiano di fermare le
produzioni per i materiali che non arrivano o che costano
troppo. Negli ultimi 20 anni abbiamo creato sistemi economici
basati su una supply chain (la catena di produzione e
distribuzione) globale, e abbiamo sviluppato anche un modello
di produzione just in time, dove tutto viene prodotto e
consegnato al cliente in tempi brevi. Tutto ciò rende il
nostro sistema produttivo molto fragile. E che succederà in
futuro ai prezzi, ai ricavi di vendita e ai margini aziendali
se la prima manifattura del pianeta opera 2 giorni a settimana
da qui a marzo, se non oltre? D’altra parte, i prezzi di
materie prime, carburanti, energia e prodotti finiti sono già
di per sé destinati ad andare alle stelle perché, come ho
spiegato nel mio articolo di aprile [32]: (1) una frenata
dell’economia cinese esercita pressioni al ribasso sui prezzi
delle commodities mentre, viceversa, un’impetuosa ripresa come
quella in atto per la sostanziale risoluzione dell’emergenza
pandemia in USA ed Europa, li fa impennare; (2) noi ora siamo
appena nella prima fase di un cosiddetto “superciclo” delle
materie prime, quella in cui i primi investitori cominciano a
investire, esacerbando la salita dei prezzi.

Ho cercato di chiarire le cose nella figura qui sotto.
All’origine di tutto c’è stato un boom della domanda dovuto
alla ripresa post-Covid, prima in Cina e poi negli altri
paesi, ma favorito anche dalle grandi masse di liquidità
immesse in questi anni nel sistema economico da tutte le
principali banche centrali [40]. A questa già di per sé
eccezionale domanda si è sommata, verosimilmente, una
crescente domanda di prodotti cinesi generata dal boom dell’e-
commerce avvenuto durante il lockdown, che ha spostato ormai
gli acquisti (spesso superflui) di moltissime persone sulle
piattaforme online [36], che tendono a far comprare i prodotti
di origine cinese, sui quali hanno maggiori margini di
guadagno. Questo boom della domanda – parallelamente al venir
meno, alla Cina, di importanti fonti energetiche – ha causato
l’aumento dei prezzi delle materie prime e la carenza di
elettricità, con l’interruzione di molte produzioni per
diversi giorni alla settimana (Goldman Sachs ha svelato che il
problema energetico sta creando problemi al 40% delle aziende
cinesi). Questa situazione, a sua volta, sta causando, anche
in Italia numerosi problemi: (1) la scarsità di componenti
essenziali (con la conseguente interruzione delle filiere di
rifornimento); (2) la scarsità di prodotti (con le conseguenti
difficoltà economiche per molti rivenditori finali); (3)
l’aumento dei prezzi (con il conseguente aumento
dell’inflazione e delle difficoltà di arrivare a fine mese per
le famiglie).

Una figura che illustra le varie cause e gli effetti a breve
termine della complessa situazione attuale illustrata nel
testo, che parte dalla Cina e impatta sulla maggior parte dei
Paesi occidentali (e non solo), Italia in primis per la sua
vocazione manifatturiera. (fonte: elaborazione dell’Autore)

L’espressione che ho usato nel titolo di un precedente
paragrafo, “quasi sull’orlo del caos”, potrebbe esservi
apparsa un po’ forte per la situazione attuale (seppur gravida
di pericoli); ma a molti sfugge il fatto che le moderne
società tecnologiche, a differenza di quelle rurali, sono in
realtà estremamente fragili, come del resto già evidenziato
dall’ing. Roberto Vacca nel suo famoso libro Medioevo prossimo
venturo. Pochi ricordano che, nel 2008, quando i prezzi del
petrolio e dei carburanti toccarono il loro record assoluto,
la conseguente serrata degli autotrasportatori in Francia
rischiò di mettere in ginocchio il Paese. Infatti, sono
sufficienti soli tre giorni di mancati approvvigionamenti di
cibo per svuotare i supermercati, e solo qualche giorno di più
senza rifornimenti di cibo e carburanti per passare,
potenzialmente, dalla civiltà al caos. Quello vero. Come ho
scritto in passato, gli impatti della crisi da Covid sono
essenzialmente di tre tipi: sanitari, economici e sociali;
tuttavia, mentre conosciamo piuttosto bene le soglie “di
rottura” del sistema sanitario, poco o nulla sappiamo delle
soglie di rottura dei sistemi economici e sociali in un Paese
avanzato, e quindi non abituato a gestire crisi caratterizzate
da stress molto forti e prolungati di varia natura.

Come osserva Marco Lupis sull’Huffington Post, “la crisi
energetica cinese è ancora più preoccupante quando si pensi
che arriva proprio quando i produttori e gli spedizionieri
fanno a gara per soddisfare la domanda di ogni cosa,
dall’abbigliamento ai giocattoli all’elettronica, per la
stagione dello shopping natalizio di fine anno, e si sommano
alle problematiche in materia di approvvigionamento già
sconvolte dall’aumento dei costi delle materie prime, dai
lunghi ritardi nei porti e dalla carenza di container” [42].
“La crisi energetica cinese sta iniziando a colpire le persone
nel luogo in cui vivono, ha scritto invece Bloomberg,
“aggiungendo il rischio di instabilità sociale alle potenziali
interruzioni della catena di approvvigionamento globale”. Ma,
al di là dell’impatto sociale – dai contorni al momento
imprevedibili – quello che a mio avviso più preoccupa, specie
in Paesi ad altissimo indebitamento pubblico come l’Italia o
con banche imbottite di derivati (come ad es. la Deutsche Bank
tedesca), è la ricaduta, il “contagio”, di questa “tempesta
perfetta” sia nei confronti del sistema finanziario (quando il
mercato borsistico, ancora drogato dal “monetadone” delle
banche centrali, si concentrerà sui fondamentali, ovvero sul
fatturato e sulla redditività delle società quotate) sia,
soprattutto, del sistema bancario, perché è in caso di default
bancari che la situazione può sfuggire di mano e diventare
potenzialmente irreparabile [32].

Le tensioni geopolitiche fra Cina e USA e la “spada di
Damocle” su Taiwan

Se un eventuale “cigno nero” potrebbe venire da quanto fin qui
illustrato, il fatto di scamparvi non significherebbe comunque
che con la Cina si possano dormire sonni tranquilli sul breve
e medio termine. Infatti, vi è sul tappeto anche la “questione
Taiwan”, che alimenta forti tensioni geopolitiche fra la Cina
da un lato e gli Stati Uniti (ed i suoi alleati nell’area)
dall’altro. Ricordo che Cina e Taiwan (grossa isola a sud-est
della Cina con 23 milioni di abitanti) hanno governi separati
dalla fine della guerra civile cinese nel 1949. Pechino ha
cercato a lungo di limitare le attività internazionali di
Taiwan ed entrambe si contendono l’influenza nella regione del
Pacifico. La tensione è aumentata negli ultimi anni e Pechino
non ha escluso l’uso della forza per riprendersi l’isola, in
quanto – al di là delle dichiarazioni ufficiali che vedremo –
Xi Jinping ha lanciato la politica dell’autosufficienza
cinese, e quest’isola è strategica in tal senso perché lì ha
luogo oltre il 50% della produzione mondiale di semiconduttori
(chip), fondamentali per realizzare computer, auto,
smartphone, etc. Sebbene Taiwan sia ufficialmente riconosciuta
solo da una manciata di nazioni, il suo governo
democraticamente eletto ha forti legami commerciali e
informali con molti paesi. Come la maggior parte delle
nazioni, gli Stati Uniti non hanno relazioni diplomatiche
ufficiali con Taipei (la capitale di Taiwan), ma una legge
statunitense richiede di fornire all’isola i mezzi per
difendersi.

Come riportato dalle cronache internazionali [4] – piuttosto
trascurate dalla maggior parte dei media italiani – a gennaio
Taiwan ha segnalato per due giorni consecutivi una “grande
incursione” di aerei da guerra cinesi, una dimostrazione di
forza che ha coinciso con i primi giorni del mandato del
presidente degli Stati Uniti Joe Biden, ed a cui ha fatto
seguito un’esercitazione simile che ha portato a un
avvertimento da parte di Washington. Il ministero della Difesa
di Taiwan ha detto che otto bombardieri cinesi in grado di
trasportare armi nucleari, quattro caccia e         un aereo
antisommergibile sono entrati nella sua             zona di
identificazione     della   difesa    aerea   sudoccidentale
autodichiarata. Come spiegava la corrispondente della BBC [4],
“la Cina vede la Taiwan democratica come una provincia
separatista, ma Taiwan si considera uno stato sovrano. Gli
analisti affermano che la Cina ha voluto così testare il
livello di sostegno di Biden a Taiwan. Le esercitazioni,
infatti, sono arrivate giorni dopo l’insediamento del nuovo
presidente americano, che dovrebbe mantenere la pressione
sulla Cina su un’ampia gamma di questioni tra cui diritti
umani, controversie commerciali e la questione di Hong Kong e
Taiwan, che è stata una delle principali spine nel
deterioramento delle relazioni tra i due poteri. E, da quando
Biden è salito al potere, il Dipartimento di Stato degli Stati
Uniti ha riaffermato il suo ‘solido impegno’ per aiutare
Taiwan a difendersi”.

La corrispondente della BBC dava poi altre informazioni utili
per capire la situazione: “L’amministrazione Trump aveva
stabilito legami più stretti con Taipei, aumentando le vendite
di armi e inviando alti funzionari nel territorio nonostante i
feroci avvertimenti della Cina. Giorni prima di lasciare
l’incarico, il segretario di Stato Mike Pompeo ha però
revocato le restrizioni di vecchia data sui contatti tra
funzionari americani e taiwanesi. Il portavoce del ministero
degli Esteri cinese Zhao Lijian ha affermato a gennaio che le
attività militari statunitensi nella regione non sono buone
per la pace: ‘Gli Stati Uniti inviano frequentemente aerei e
navi nel Mar Cinese Meridionale per mostrare i muscoli. Questo
non favorisce la pace e la stabilità nella regione’. Ha poi
condannato un gruppo di portaerei statunitensi che all’epoca
navigava nel Mar Cinese Meridionale come ‘una dimostrazione di
forza’. Gli Stati Uniti affermano che si tratta di un
esercizio di ‘libertà di navigazione’. La sostanza delle
politiche della nuova amministrazione statunitense su Cina e
Taiwan resta da vedere ma, in risposta, il portavoce del
Dipartimento di Stato Ned Price ha affermato che gli Stati
Uniti continueranno ad approfondire i propri legami con
l’isola”.

Si noti che, per anni, la Cina si era astenuta dal volare
nella zona di identificazione della difesa aerea sud-
occidentale di Taiwan, anche se ne aveva il diritto: tali
zone, infatti, non sono riconosciute dal diritto
internazionale. Quindi il governo taiwanese chiama
“incursioni” i sorvoli della Cina, ma tecnicamente non lo
sono. Gli analisti ritengono che la Cina abbia voluto mostrare
insoddisfazione nei confronti di come l’ex presidente degli
Stati Uniti Donald Trump e il presidente taiwanese Tsai Ing-
wen abbiano cambiato lo status quo negli ultimi quattro anni
[4]. Solo perché c’è stato un cambiamento nel presidente degli
Stati Uniti, non significa che Pechino smetta di affermare
quello che ha visto a lungo come suo diritto di volare nel
proprio cortile. Ha voluto anche mettere in guardia il
presidente Tsai dal compiere ulteriori passi verso
l’indipendenza formale. Verosimilmente – e cosa ancora più
importante – Pechino ha voluto inviare un messaggio forte
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