San Bonaventura informa - Pontificia Facoltà Teologica "San Bonaventura"

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San Bonaventura informa - Pontificia Facoltà Teologica "San Bonaventura"
San Bonaventura
                ANNO IX - Nº 97
                                                                                             informa

Editoriale                                                             In questo numero
Diritti di religione e libertà di culto

Fin dagli inizi della Chiesa, i cristiani sono stati pre-
senti nella terra di Abramo, una terra che è parte del
patrimonio comune di Ebraismo, Cristianesimo e Islam.
Bisogna sperare che, in futuro, la società irachena sia
caratterizzata da coesistenza pacifica, in sintonia con le
aspirazioni di quanti sono radicati nella fede di Abra-
mo. Sebbene i cristiani siano un’esigua minoranza della
popolazione irachena, possono rendere un contributo
prezioso alla ricostruzione e alla ripresa economica del
Paese attraverso i loro apostolati educativi e sanita-
ri, mentre il loro impegno nei progetti umanitari offre
un’assistenza molto necessaria nell’edificare la società.
[…] La storia ha dimostrato che alcuni degli incentivi
più potenti per superare la divisione derivano dall’e-
sempio di quegli uomini e di quelle donne che, avendo
scelto la via coraggiosa della testimonianza non violen-
ta di valori più elevati, sono morti a causa di atti codardi
di violenza. Quando i problemi attuali saranno ormai
una cosa del passato, i nomi dell’Arcivescovo Paulos            focus: papa francesco e l’iraq - p. 2
Faraj Rahho, Padre Ragheed Ganni e molti altri anco-            l’intervista: il nuovo preside su missione
ra vivranno come esempi luminosi dell’amore che li ha           della facoltà e master “fratelli tutti” - p. 6
condotti a sacrificare la propria vita per gli altri. […]       abitare la casa comune: francesco
È della massima importanza per qualsiasi società sana           d’assisi e la cura dell’ambiente - p. 9
che la dignità umana di ognuno dei suoi cittadini venga         vita francescana: cardinali e vescovi
rispettata sia nel diritto sia nella pratica, in altre parole   che restano frati - p. 13
che i diritti fondamentali di tutti vengano riconosciuti,       il padre nostro: rimetti, come anche noi
tutelati e promossi. Soltanto in questo modo si può ser-        rimettiamo - p. 16
vire veramente il bene comune, ovvero quelle condizio-          santità francescana: jacopone da todi,
                                                                cantore della croce - p. 20
ni sociali che permettono alle persone, sia a gruppi sia
a singoli individui, di prosperare, di raggiungere la loro      tra penultimo e ultimo: pensare sul
                                                                confine - p. 23
piena statura morale e di contribuire al bene degli altri.
Fra i diritti che devono essere pienamente rispettati se        #tuttoèconnesso: come intendere economia
                                                                e progresso - p. 27
il bene comune deve essere effettivamente promosso, i
diritti di religione e di libertà di culto sono fondamentali    con cuore di padre: ecosistema e coraggio
                                                                creativo - p. 30
perché sono quelli che permettono ai cittadini di vive-
                                                                la fraternità dei laici: la scrittrice mary
re in conformità con la loro dignità trascendente, come         elizabeth herbert - p. 33
persone fatte a immagine del loro divino Creatore.
                                                                il tesoro dello scriba: lo strano caso
                                                                del cane ucciso a mezzanotte - p. 36
                                     Benedetto XVI              novità editoriali: consigli di lettura
  Dal discorso a Habbeb Mohammed Hadi Ali Al-Sadr,              p. 38
   ambasciatore Repubblica Iraq presso la Santa Sede            francescanamente parlando: nomine al sacro
                                              (2 luglio 2010)   convento e “in parole francescane” - p. 40
febbraio 2021
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focus

                       LA VISITA DI PAPA FRANCESCO IN IRAQ
               un gesto di vicinanza al popolo e a favore del dialogo

                    di Nakia Matti Pauls*

Il logo del viaggio apostolico di papa Francesco in Iraq reca, in alto, la dicitura “Voi siete tutti fratelli”
(citazione dal Vangelo di Matteo 23,8), scritta al centro in aramaico, a destra in arabo e a sinistra
in curdo, a forma di sole sorgente sull’Iraq, con i due fiumi, il Tigre e l’Eufrate, e le bandiere del
Vaticano e dell’Iraq con il suo tricolore orizzontale rosso, bianco e nero e al centro la scritta “Dio è
Grande”, sormontate da una colomba che porta nel becco
un ramoscello di ulivo.
Alla base una palma e Sua Santità in atto di benedire questa
terra, martoriata e ferita da aggressioni e violenze.
Papa Francesco intende, con questo viaggio desiderato da
anni e voluto anche dal suo predecessore san Giovanni
Paolo II (che aveva rinnovato senza sosta e con la massima
chiarezza i suoi appelli alla pace nel 2003), portare il
proprio amore paterno verso un popolo da anni sofferente,
e trasmettere il significato della pace e del vivere in armonia
e rispetto fraterno, seppur nelle differenze religiose,
etniche, culturali, ecc..., perché l’amore e la misericordia
di Dio sono più grandi di ogni differenza. Le immagini del
logo simboleggiano per questo la pace, l’amore, l’unità,
l’armonia e il rispetto.
Il logo speciale del viaggio apostolico di papa Francesco in
Iraq (nella pagina seguente) e, in particolare, a Baghdeda
(Qaraqosh), è frutto della creatività del giovane Ragheed Nnwaia e della convinzione che “È un dovere
usare i simboli storici ispirati alla storia di Baghdeda, e questo è ciò che abbiamo fatto”.
L’arco a volta presente nel logo è uno dei più importanti simboli di Baghdeda, denominato “Qantarat
Al-Ina”, o “Arcata della Famiglia di Ina”, ora non più presente, ma che resta scolpito tuttora nella
memoria e nella coscienza di tutti gli abitanti del Paese.
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L’arco a volta fa da cornice all’immagine di papa Francesco, racchiudendola sotto di sè. Tale arco è
stato, in passato e per lunghi secoli, un passaggio di
accesso al centro di uno dei vicoli della città antica,
prima della sua scomparsa, fino a diventare, durante
tutti quei secoli, uno dei simboli identitari della città
e dei suoi abitanti che l’hanno costruita con le proprie
braccia.
Al centro di questo arco vi è il Santo Padre nell’atto
di benedire. L’arco delinea, nella sua forma generale,
anche il profilo della Chiesa cattolica, simboleggiante
la storia del Paese ma anche l’antico disegno delle
porte lignee delle case di Baghdeda, a richiamare come
il Papa entri nelle case di tutti gli abitanti dell’area,
come segno del loro amore per Lui.
Al centro dell’arco a volta è rappresentato il Santo
Padre che porta sulle spalle una stola tradizionale
ricamata a mano tipica di Baghdeda (tuttora indossata
nelle festività), i cui disegni raffigurano la storia di
questo popolo e del Paese, la profondità della sua
civiltà e delle sue radici storiche.
L’anziana donna vestita di nero, nell’angolo inferiore a destra, sta a significare la terra che dona con
generosità, la madre Baghdeda, madre dei martiri di tutti i tempi e, pertanto, indossa un abito nero,
come vuole la tradizione del lutto nel Paese. È rappresentata nell’atto di lavorare all’uncinetto, per
sostentarsi e poter sopravvivere in assenza degli uomini, come madre che deve ricostruire la storia di
Baghdeda, come dovesse “ricamare”, appunto, e ricostruire la storia stessa del Paese.
Si fa riferimento anche al sangue dei martiri come seme di vita: il martirio è un atto normale per i
Baghdedani, in quanto cristiani fin dall’origine. Si ricorda il martirio dei due sacerdoti di Baghdeda per
mano degli Ottomani, la cui commemorazione cade il 29 giugno (festa dei santi Pietro e Paolo). Essi
sono il simbolo di tutti martiri del Paese, compresi quelli della guerra con l’Iran, che ha strappato alla
vita migliaia di giovani e, ultimamente, i martiri uccisi dalle bande terroristiche di Daesh/ISIS.
Viene poi richiamata l’immagine dell’esodo e del ritorno, degli sfollati e degli esuli, fuggiti soprattutto
nella metà del 2014, quando gli abitanti del Paese hanno dovuto lasciare le proprie case, le proprie
Chiese e la propria storia, in una scena di vero e proprio esodo.
Ma quali sono le aspettative del viaggio del Papa? Si tratta di un viaggio molto importante, una tappa
motivata dalla fratellanza universale. “Fratelli tutti” è un messaggio molto forte e profondo, una
prospettiva che fa abbracciare la civiltà antica con il presente massacrato dalla violenza, dalla crudeltà,
dalle guerre e dalle sofferenze. Papa Francesco è il primo pontefice a visitare questa terra e il popolo
iracheno che, provato dopo tanta sofferenza e distruzione, ha bisogno di questa visita con la quale il
Papa porterà la pace, l’amore, la tenerezza di un Padre verso i suoi figli smarriti e sfiniti dagli eventi
vissuti durante tutti questi anni.
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Il viaggio del Santo Padre significa tanto per un popolo che proviene dal diluvio, cosi sofferente e
provato da lunghi anni di guerra, afflizioni, attacchi, aggressioni settarie e terrorismo, ed è un punto
di partenza per intraprendere un dialogo interreligioso, un incontro tra tutte le religioni, rompere la
catena del rancore, gli ostacoli e le barriere che si frappognono, al fine di suscitare il sentimento della
fratellanza, della collaborazione costruttiva tra tutte le comunità del popolo iracheno, sia a livello
religioso che politico, per creare e costruire uno Stato Iracheno moderno e forte, e ridare lo spirito di
speranza a tutti gli iracheni e, soprattutto, ai giovani che attendono un futuro migliore.
Il Papa aprirà per tutto il popolo iracheno una porta sul dialogo e il rispetto reciproco, come era una
volta: un popolo che conviveva in maniera pacifica con tutti, prima che si intromettesero i nemici nel
Paese; prima dell’azione divisiva di alcuni gruppi. Il dialogo e l’intesa tra i cristiani e i musulmani
in Iraq non si erano mai interrotti: il Patriarca cristiano seguiva il Califfo musulmano quando questi
cambiava la propria residenza, per continuare i loro incontri nell’ambito di un dialogo continuo.
La presenza del Santo Padre rafforzerà i rapporti tra tutte le componenti del tessuto sociale iracheno, sia
dal punto di vista religioso, grazie all’incontro tra rappresentanti cristiani, musulmani sunniti e sciiti,
                                                                 ebrei, mandei, yazidi, bahai, ecc ..., sia a
                                                                 livello politico: un evento straordinario,
                                                                 che ridisegnerà gli equilibri interni ed
                                                                 esterni del mondo islamico e cristiano.
                                                                 Questo viaggio sarà un incoraggiamento
                                                                 ad andare avanti e a restare attaccati
                                                                 alla terra dei propri antenati: alla
                                                                 Mesopotamia, terra del primo uomo
                                                                 Adamo, nel giardino di Eden; terra
                                                                 del padre delle genti Noè, e terra della
                                                                 prima rivelazione di Abramo, nato a Ur
                          Foto:Vatican News
                                                                 dei Caldei; terra della prima legge di
Hammurabi, re di Babele; culla dei profeti Ezechiele, Daniele, Naum e Giona (nella cui ricorrenza
i cristiani ancora oggi osservano il digiuno tradizionale locale di tre giorni, chiamato digiuno di
“Ba’uth Ninawa”, ovvero “Rinascita della gente di Ninive”).
La presenza del Papa esorterà i profughi e gli esuli a tornare nella terra dei loro padri, dei loro nonni
e dei loro avi. Il Cristianesimo in Iraq ha messo radici fin dal primo secolo dopo Cristo, per mezzo di
san Tommaso apostolo.
In passato, i cristiani dell’Iraq raggiungevano quasi 1,5 milioni di abitanti, ma dopo la comparsa di
Daesh, si sono ridotti a circa 300-400 mila; nonostante ciò, l’elemento cristiano rimane una presenza
meravigliosa e luminosa.
A Mosul, nella Piana di Nineve, il Papa pregherà per tutte le vittime della guerra, nella Chiesa costruita
dai Padri Domenicani italiani nel 1762, chiamata Chiesa dei Padri Domenicani; successivamente,
vennero i padri domenicani francesi, i quali portarono con sé un grande orologio che fu innalzato
su un torre nella piazza della Chiesa e, da allora, la Chiesa prese il nome di “Chiesa dell’Orologio”.

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A Qaraqosh, il Papa reciterà la preghiera dell’Angelus nella Chiesa dell’Immacolata (Al-Tahira),
costruita nel XIII secolo; sin dall’avvento
del Cristianesimo nel Paese, tale Chiesa
prese il nome di “Chiesa della Madre di
Dio” e, successivamente, “Chiesa della
Vergine” (1129), mentre oggi viene
chiamata “Chiesa dell’Immacolata” ed
è, attualmente, un santuario afferente
all’Ordine del Sacro Cuore di Gesù;
accanto ad essa, venne costruita la nuova
“Chiesa dell’Immacolata”, la cui prima
pietra venne posta nel 1932, per essere,
in seguito, costruita dagli stessi fedeli,
mossi dal proprio zelo e collaborazione                                Fonte: Ansa

reciproca.
Le Chiese presenti a Qaraqosh, in ordine di antichità storica, sono la Chiesa dell’Immacolata (o Chiesa
Vecchia dell’Immacolata, attualmente santuario dell’Ordine del Sacro Cuore di Gesù), Chiesa di Mar
Zena, Chiesa di Sarkis e Bakos (Chiesa di Sergio e Bacco), Chiesa di Mart Bshmoni, Chiesa di Mar
Korghis (Chiesa di San Giorgio), Chiesa di Mar Yuhana Al Ma’madan (Chiesa di San Giovanni Battista),
Chiesa di Mar Yacob Al Muqatta’ (Chiesa di San Giacomo l’Interciso), Chiesa Nuova dell’Immacolata,
Chiesa dei Martiri Bahnam e Sara (2008), Chiesa della Speranza, di cui è stata posta finora solo la prima
pietra.
Nell’area si trovano anche diversi santuari e conventi: Santuario e cappella della Regina del Rosario
dei Padri Domenicani (Ordine di Mar Abd al-Ahd), Santuario e cappella dell’Ordine di Maria Vergine
Concepita senza peccato, Santuario e Cappella dell’Ordine di Mar Polos (San Paolo), Convento di
Mar Yohanna Al-Daylami o Muqertaya, Convento di Mar Qiryaqos, al cui interno è stato, di recente,
costruito il “Convento della Croce”, Convento di Gesù Redentore, costruito nel 2009, afferente alla
Comunità di Gesù Redentore dei Frati di Gesù Redentore.
è anche interessante ricordare come Qaraqosh è una parola turca che significa “passero nero” e il Paese
ha assunto questo nome durante l’occupazione ottomana; alcune leggende attribuiscono tale nome agli
abiti neri che indossavano gli uomini e le donne del posto. Baghdeda è, invece, una parola persiana che
significa “Casa di Dio”, o“Casa degli Dei”.
È difficile parlare dell’identità e dell’antichità di Baghdeda, perché essa comprende molteplici etnie,
data la sua funzione di ponte che ha visto il passaggio di moltissime generazioni e di diversi popoli.
Si tramanda anche che il borgo di Baghdeda sia di origine aramaica, mentre, secondo altre versioni,
sarebbe di origine araba; la lingua parlata è l’aramaico, nella sua versione dialettale locale.

*Irachena, lavora all’Ambasciata della Repubblica dell’Iraq in Italia

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l’intervista

          formazione FRANCESCANa e servizio alla chiesa
         la missione del seraphicum e IL nuovo master “fratelli tutti”

                   di Elisabetta Lo Iacono*

Il cammino di una realtà accademica non è dato una volta per tutte ma richiede un continuo rinnovamento
in termini di linguaggi, di organizzazione, di interpretazione della realtà, di risposte alle domande del
tempo presente. Un percorso che richiede anche uno sguardo profetico per saper intercettare esigenze,
desideri e sfide, così da garantire proposte formative che sappiano coniugare tradizione e innovazione.
Un passo che la Pontificia Facoltà Teologica “San Bonaventura”, fondata nel 1905 e retta dai Frati Minori
Conventuali, sta cadenzando con ancor più determinazione in questo complesso periodo storico, per
garantire una formazione francescana di alto livello e per offrire un sempre puntuale servizio alla Chiesa.
Con fra Raffaele Di Muro - lo scorso 23 gennaio
nominato Preside dalla Congregazione per l’Educazione
Cattolica della Santa Sede - affrontiamo qualche aspetto
cruciale per la formazione, nelle aule della Facoltà ma
anche al di fuori della stessa, come espressione di quella
Chiesa in uscita raccomandata da papa Francesco.

Fra Raffaele Di Muro, cosa ha significato per lei
questa nomina nella Facoltà che lo ha visto per anni
studente e docente?
La nomina è stata una grande gioia perché per me il
Seraphicum è famiglia, è casa, dato che lo frequento sin
dal 1997: qui ho fatto gli studi di teologia conseguendo
                                                                            Foto:SBi
i vari gradi accademici sino al dottorato. Qui ho iniziato
l’insegnamento, da qui mi sono incamminato verso tante attività accademiche e di apostolato.
Al Seraphicum ho ricoperto diversi incarichi, come economo, direttore della rivista e della casa editrice
Miscellanea Francescana, direttore della Cattedra Kolbiana per citarne alcuni, quindi la nomina a
Preside rappresenta un approdo significativo dopo un impegno di anni che mi ha permesso di conoscere
a fondo questa realtà.

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La lunga frequentazione e un rapporto affettivo molto saldo mi rendono particolarmente felice e grato
per questa nomina che sento di poter svolgere con la necessaria conoscenza e sicuramente con grande
impegno ed entusiasmo.

Una delle sfide, questa volta imposta dalla pandemia, è stata la riorganizzazione didattica
tenendo conto dei lockdown e delle restrizioni che hanno rivoluzionato il tradizionale metodo
dell’insegnamento in presenza. Ma c’è anche da dire che, proprio durante la pandemia, la Facoltà
ha avviato un nuovo e importante progetto, ovvero la Scuola di Grafologia. Quale messaggio si
può cogliere da questo anno tanto travagliato?
Stiamo vivendo un periodo lungo e difficilissimo, per i mesi di blocco alle lezioni in presenza e alle
diverse attività accademiche. Ma tra le tante difficoltà e incertezze è emersa con forza la fame di cultura,
di sapere, di approfondire, di ampliare i propri orizzonti in ambiti già “frequentati” o in altri nuovi.
Credo che tutto ciò sia anche frutto delle
restrizioni che ci hanno lasciati più soli con noi
stessi, spingendoci a utilizzare positivamente
un periodo che presentava e presenta tante
negatività. Si è trattato di una sfida inattesa,
senza precedenti, che abbiamo voluto cogliere
credendo pienamente all’importanza della
cultura, anche e soprattutto come antidoto
all’impoverimento relazionale e motivazionale
causato dal Covid-19. In questo contesto e
forti di questa convinzione ha preso avvio,
proprio nei mesi scorsi, la Scuola di Grafologia
Seraphicum che rappresenta la conferma di
quanto sia importante nei momenti bui offrire
                                                                             Foto:SBi
nuovi orizzonti di formazione e di speranza.

C’è, oggi, una strada maestra per l’insegnamento della teologia? Quale il punto di equilibrio tra
lezioni presenziali e on line? Quali strade intende percorrere la Facoltà nel prossimo futuro?
La consuetudine delle lezioni frontali è insostituibile perché permette non solo la partecipazione diretta
in aula ma anche alla vita quotidiana della Facoltà, attraverso un rapporto costante con i docenti e
gli altri studenti, religiosi e laici, la frequentazione della nostra biblioteca e di tutti gli spazi messi a
disposizione dal Seraphicum. Ciò non toglie che la modalità on line ha dimostrato, in questi mesi, tutta
la sua valenza e potenzialità che intendiamo preservare anche per il futuro. L’incremento dell’on line,
anche quando saremo tornati alla piena normalità, potrà consentire di soddisfare le richieste di quanti ci
seguono a distanza, impossibilitati a seguire i tradizionali corsi in presenza.
La pandemia ci ha obbligati a ricorrere a risorse divenute indispensabili per lo svolgimento delle attività
che potranno, da ora in poi, rappresentare un ulteriore punto di forza per integrare le nostre offerte
formative, lavorando così a una Facoltà in uscita.
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Abbiamo numerosi strumenti di divulgazione - dalle pubblicazioni al sito web sino ai diversi canali
social - sui quali potremo sempre più puntare per una capillare diffusione delle nostre attività, in una
piena condivisione con quanti vorranno seguirci, nei modi preferiti.

Venendo nello specifico alla caratterizzazione della Facoltà, come realtà accademica dell’Ordine
dei francescani conventuali, qual è l’apporto che può fornire al mondo francescano e alla Chiesa?
Credo che l’apporto della Facoltà possa essere notevole, soprattutto se lavoriamo per coltivare il nostro
passato non come qualcosa di nostalgico e cristallizzato ma facendone tesoro, per affrontare le odierne
sfide della formazione culturale e dell’evangelizzazione. La nostra realtà accademica nasce oltre cento
anni fa e basta sfogliare le cronache in archivio per comprenderne la ricchezza spirituale e culturale. Una
nostra vocazione caratterizzante è di approfondire le tematiche che la Chiesa ha affrontato in ogni tempo.
                                                       Oggi, quindi, vedo come un nostro impegno e
                                                       responsabilità il trasmettere quanto papa Francesco
                                                       sta offrendo a tutta la Chiesa e all’umanità. Abbiamo
                                                       un papa che porta il nome del Santo di Assisi, che dà
                                                       nomi francescani alle sue encicliche, che ha da subito
                                                       riservato una grande attenzione ad Assisi, creando
                                                       cardinale il custode del Sacro Convento (fra Mauro
                                                       Gambetti, ndr), di recente nominato Vicario generale
                                                       di Sua Santità per la Città del Vaticano, Arciprete
                                                       della Basilica Papale di San Pietro e Presidente della
                                                       Fabbrica di San Pietro. Ciò significa che esiste un
                   Fonte: San Francesco                legame molto forte con san Francesco, con il carisma
e il mondo francescano, per questo credo che la Facoltà abbia oggi questa vocazione ancora più marcata
di trasmettere il messaggio di un magistero attualissimo, molto concreto e attento a quanto sta accadendo.

In che modo, quindi, la Facoltà può contribuire a questa “ventata francescana” portata da papa
Bergoglio?
Credo che sia importante lavorare sempre più a un approfondimento del magistero di papa Francesco,
attraverso specifiche iniziative accademiche. Attività che siano capaci di trasmettere questo ricco
pontificato attraverso una modalità che rispecchi il suo stile molto diretto, finalizzato a cogliere sempre
l’essenziale. A questo proposito, abbiamo un’importante novità: a ottobre sarà attivato il master “Fratelli
tutti” i cui dettagli verranno resi noti tra qualche settimana. E sarebbe bello inaugurare queste attività
con una visita di papa Francesco alla Facoltà. Nella nostra storia abbiamo avuto la grazia di ricevere
la visita di san Paolo VI nel 1974 e di san Giovanni Paolo II nel 1986. Potrebbe essere il momento
propizio per accogliere di nuovo il “signor papa” come diceva Francesco d’Assisi, aggiungendo un
altro importante anello di congiunzione tra il passato e il presente del Seraphicum.

*Giornalista, docente di Mass media
     @eliloiacono

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San Bonaventura informa - Pontificia Facoltà Teologica "San Bonaventura"
abitare la casa comune

                      Francesco e la cura dell’ambiente
            “Le sue viscere di misericordia” per le creature più deboli

                      di Pietro Maranesi*

Il Cantico delle creature di Francesco di Assisi è conosciuto non solo per la sua bellezza letteraria ma
anche per l’opportunità che offre di conoscere l’animo ecologico del Santo, il quale, di fronte al mondo
creato, assume un atteggiamento di lode dell’“Altissimo e onnipotente bon Signore” di cui tutte le
creature “portano significazione”. Tuttavia il testo non ci permette di sapere quali effettive conseguenze
questo sentimento di lode abbia prodotto nel modo di agire concreto di Francesco.
Per essere aiutati in questo secondo versante della questione ecologica, cioè per gettare luce sul rapporto
fattivo di Francesco con l’ambiente, possiamo appoggiarci alle narrazioni agiografiche. Tralasciando
la problematicità di queste fonti, mi limiterò
a un doppio episodio narrato con dovizia di
particolari da Tommaso da Celano nella sua
Vita del beato Francesco (opera conosciuta
anche come Vita prima). In essa, ai numeri
77-79, l’agiografo, riprendendo in qualche
modo quanto già detto sull’amore di
Francesco verso le creature, ai numeri 58-61
e anticipando quanto riproporrà ai numeri
80-81, narra due episodi molto simili,
avvenuti quando Francesco, accompagnato
dal provinciale frate Paolo, era nella Marca
di Ancona, dove intervenne in favore prima                             Fonte: Archivio SBi

di una pecorella minacciata da altri caproni (77-78) e poi di due agnellini che venivano portati al
mercato (79).
Per avere la chiave di lettura delle due vicende occorre riascoltare innanzitutto la premessa con la quale
Tommaso apre i racconti: “Ridondava di spirito di carità, assumendo viscere di misericordia non solo
verso gli uomini provati dal bisogno, ma anche verso gli animali bruti senza favella, i rettili, gli uccelli
e tutte le creature sensibili e insensibili” (1Cel 77: FF 455).

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San Bonaventura informa - Pontificia Facoltà Teologica "San Bonaventura"
Insomma, la premessa è chiara: la cura con cui intervenne a favore della pecorella e dei due agnellini
era il frutto diretto delle “viscere di misericordia” che muoveva il Santo nei confronti dei più deboli e
indifesi; e tra di essi gli agnelli occupavano una posizione speciale perché “nella Scrittura Gesù Cristo,
per la sua umiltà, è paragonato spesso e a ragione all’agnello” (ivi).
I due episodi, oltre a mostrare quanto concreto fosse in Francesco lo sguardo ecologico, evidenziano
a mio avviso tre atteggiamenti essenziali che dovrebbe possedere ognuno animato da una seria
responsabilità ecologica.
Senza poter effettuare un’accura analisi dei racconti, ci limitiamo a sottolineare i tre aspetti della “cura
e salvaguardia del creato” sentita e vissuta da Francesco come “fratello maggiore” a vantaggio dei suoi
“fratelli minori”.
Il presupposto di partenza delle due storie tocca la sensibilità umana di Francesco che “si accorge” delle
                                                                 situazioni a rischio che stavano correndo
                                                                 sia la pecorella, sola in mezzo ad un
                                                                 gregge di montoni, sia i due agnelli che,
                                                                 penzolanti da un palo, venivano portati al
                                                                 macello dal loro padrone.
                                                                 Le sue “viscere di misericordia” gli
                                                                 donavano occhi capaci di “vedere” le
                                                                 difficili situazioni ambientali vissute
                                                                 da quelle creature e “fermarsi” per
                                                                 prendersene cura. Nell’episodio della
                          Fonte: San Francesco                   pecorella l’agiografo racconta che
“appena la vide, il beato Francesco si fermò” (1Cel 77: FF 456).
Altrettanto avvenne per i due agnellini: “all’udire quei belati, il beato Francesco, vivamente commosso
si accostò accarezzandoli come suol fare una madre con i figlioletti” (1Cel 79: FF 457).
Senza questa attenzione e compassione non sarebbero avvenute le due storie: le viscere di misericordia
hanno dato a Francesco un cuore capace di lodare e cantare la bellezza del mondo ma anche di accorgersi
e coinvolgersi con la sofferenza e l’ingiustizia che a volte è presente in esso.
È interessante il fatto poi che, nel caso della pecorella posta tra i caproni, Francesco aiuta fra Paolo, il
suo accompagnatore, ad entrare nella stessa coscienza ecologica, facendogli notare come essa si trovasse
nella stessa situazione di Gesù tra i sacerdoti del tempio. Francesco divenne in questo modo educatore
ecologico: infatti alle parole “di pietà” del Santo anche fra Paolo “cominciò a sentire commozione” (1Cel
78: FF 456). Se però questo sentimento di solidarietà non fosse diventato anche decisione operativa, si
sarebbe trasformato in puro pietismo sentimentale. Il centro del racconto è occupato proprio da questo
secondo aspetto della coscienza ecologica di Francesco, che interviene concretamente per riscattare
quegli animali.
Non può non colpire il fatto che quell’uomo che aveva scelto la povertà assoluta, non abbia avuto
difficoltà a “maneggiare” denaro pur di salvare quelle creature in difficoltà. Per la pecorella, non avendo
nulla da dare al proprietario, Francesco ebbe l’aiuto di un ricco mercante che “offrì loro il prezzo
considerato” (1Cel 78: FF 456).
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Nel caso dei due agnellini, che venivano portati dal contadino “penzolanti e legati sulla spalla”, cede
invece al proprietario il suo mantello che “l’aveva ricevuto in prestito da un uomo proprio quel giorno
per ripararsi dal freddo” (1Cel 79: FF 457).
Insomma la compassione non basta se non è accompagnata da un impegno fattivo e “costoso”, con il
quale intervenire nella situazione, coinvolgendosi in prima persona e pagando di tasca propria.
La liberazione degli animali non avvenne cioè grazie ad una predica fatta da Francesco, con la quale
convincere i proprietari ad avere sentimenti di compassione nei confronti di quegli animali indifesi, ma
attraverso un’operazione economica costosa e impegnativa, con la quale di fatto il Santo verificò quanto
le sue “viscere di misericordia” fossero ben più che un sentimentalismo o un buonismo ecologico, ma
una convinta e determinata disponibilità ad intervenire e cambiare la situazione.
Il terzo elemento delle due narrazioni da mettere in evidenza è la loro conclusione, nella quale gli
animali vennero consegnati alla cura di qualcuno: nel primo caso alle donne religiose che vivevano
a Colpersito, un luogo accanto alla
città di San Severino, e nel secondo
allo stesso contadino.
Partiamo da quanto narrato in questo
secondo episodio.
Le parole con cui Francesco affida
allo stesso proprietario i due
agnellini riscattati dalla loro sorte
di morte, possono essere assunte
come programma ecologista di cura
amorosa per il creato: “Di mantenerli,
nutrirli e custodirli con amore” (1Cel
79: FF 457).
La conclusione dell’altra storia,
                                                                   Fonte: corriere.it
quella della pecorella, pur essendo
simile nell’affidamento finale, contiene qualcosa di ulteriore, relativamente ai frutti che sgorgano da
quella consegna, accolta da qualcuno con amore e attenzione; infatti le sorelle, dopo aver ricevuto la
pecorella come dono di Dio

  ne ebbero amorosa cura per lungo tempo, e poi con la sua lana tesserono una tonaca che mandarono
  al beato padre Francesco mentre teneva un capitolo alla Porziuncola. Il santo l’accolse con devozione
  e festosamente si stringeva la tonaca al cuore e la baciava, invitando tutti ad allietarsi con lui (1Cel
  78: FF 458).

La cura del creato, in particolare delle parti più fragili e vulnerabili, non deve essere mossa solo da un
principio di rispetto e di giustizia da riconoscere al mondo creato, ma anche da un’altra consapevolezza:
l’ecologia avvantaggia sia la qualità della vita di tutti che la quantità del prodotto economico. E così una
scelta ecologista, pur chiedendo un impegno a volte gravoso, ripaga in qualità e quantità.

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Per concludere questa breve lettura dei due episodi, mi sembra possibile porre in parallelo le loro
dinamiche narrative con i tre momenti che caratterizzarono la storia del buon samaritano, quando
                                                         dopo essersi fermato per compassione presso
                                                         il malcapitato, si coinvolge in prima persona
                                                         pagando per soccorrere il povero, fino ad
                                                         affidarlo alle cure dell’altro.
                                                         Il malcapitato che giaceva ai margini della
                                                         strada potrebbe essere identificato con la
                                                         creazione e in particolare con gli animali,
                                                         bastonati e derubati dalla cupidigia dei nostri
                                                         interessi economici: noi, come dei ladroni,
                                                         stiamo rubando e consumando ogni risorsa
                                                         della natura, lasciandola abbandonata e mezza
                                                         morta.
                                                         Non si può andare oltre senza accorgerci della
                                                         sua grave condizione, perché in questo caso si
                                                         parteciperebbe a quell’atto di violenza anche
                                                         se non ne siamo i diretti colpevoli. Occorre
                                                         fermarsi e coinvolgersi in quel recupero,
                                                         ognuno secondo le proprie possibilità e pagando
                                                         di persona con scelte non solo di generosità
                         Fonte: web                      ma anche di giustizia nei confronti del creato
e degli animali; oltre tutto con la cura che avremo per sorella natura potremmo non solo guarire la sua
condizione malata, ma anche rendere fraterno il rapporto con il mondo, facendone uno spazio di vita
con una qualità più sostenibile e umana, e dunque con vantaggi duraturi per tutti.
Ad ognuno di noi viene chiesto di avere “viscere di misericordia” per il nostro ambiente, diventando per
esso non solo il samaritano che si accorge, si ferma e se ne prende carico, ma anche l’albergatore a cui
fu detto: “prenditi cura di lui fino al mio ritorno”.
Perché quando Lui ritornerà, ci chiederà conto di come abbiamo trattato le nostre sorelle creature: se
cioè con viscere di misericordia o con un cuore predatorio attento solo al proprio guadagno.

*OFMCap, docente di Teologia e Studi francescani

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vita francescana

                  Cardinali e Vescovi che restano frati
                           i religiosi al servizio della chiesa

                    di Maurizio Di Paolo*

L’ultimo concistoro, celebrato sobriamente lo scorso 29 novembre, ha visto l’elevazione di tre
religiosi francescani e uno scalabriniano alla porpora cardinalizia. L’immagine che ha maggiormente
suggestionato, è stata quella dell’abito cappuccino di p. Raniero Cantalamessa, coronato dal Santo
Padre con la berretta cardinalizia nella tipica seta moiré color cremisi.
Tuttavia non deve stupire che un frate cardinale indossi l’abito religioso proprio. Già il 7 gennaio
1566 il frate domenicano Antonio Ghisleri di Bosco Marengo (Alessandria), eletto al Soglio pontifico
con il nome di Pio V, volle mantenere
il suo abito bianco di domenicano,
introducendo così la tradizione della
veste bianca per i papi. Ancora oggi
molti vescovi francescani indossano con
piacere il proprio saio, soprattutto nelle
visite ai conventi o chiese dell’Ordine, o
nella vita quotidiana, quando la praticità
dell’abito religioso è preferibile rispetto
alla rigidità della talare clericale.
Ciò è raffigurato anche nello stemma
episcopale, nel cui scudo i vescovi                                  Fonte:Wikipedia

francescani, generalmente nella sommità, raffigurano lo stemma serafico delle due braccia di Cristo e
di Francesco, unite dalla croce di colore rosso.
Dunque un frate elevato alla porpora cardinalizia o all’episcopato, è ancora frate? Certamente si! Lo
afferma inequivocabilmente il Codice di Diritto Canonico al can. 705.
La storia recentissima dei nostri confratelli dimostra come la Santa Sede ha chiamato le singole
persone proprio in quanto membri dell’Ordine. L’esperienza maturata da fra Mauro Gambetti, quale
responsabile della Basilica Papale di San Francesco in Assisi, è un patrimonio che il Santo Padre ha
messo a disposizione della Basilica di San Pietro.

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Le competenze, lo stile e le capacità sviluppate da fra Mauro (nella foto) sono garanzia del buon
esito del suo incarico vaticano, nella organizzazione delle funzioni religiose, degli ecclesiastici,
                                                       dei dipendenti e volontari che si alternano nel
                                                       garantire la celebrazione e l’animazione liturgica,
                                                       l’accoglienza ai pellegrini, la sicurezza, la pulizia
                                                       e la manutenzione dell’edificio. La semplicità e
                                                       la trasparenza richieste nell’Ordine francescano,
                                                       saranno presupposti essenziali nella gestione del
                                                       personale e soprattutto degli appalti per le opere
                                                       di straordinaria manutenzione che interessano la
                                                       Basilica vaticana.
                                                       Anche la vicenda di fra Martin Kmetech, arcivescovo
                                                       di Smirne, è espressione dell’impegno che l’Ordine
                                                       ha profuso nella presenza di Turchia negli ultimi
                                                       decenni, creando la Custodia di Oriente con frati
                                                       provenienti da tutta Europa.
                                                       Ancora più significativa la nomina di Fra Dominique
                                                       Mathieu (in foto nella pagina seguente), quale
                                                       arcivescovo in Iran, che partirà come vero e proprio
                                                       missionario, per curare i pochi fedeli cattolici che
                                                       risiedono nella nazione islamica.
                                                       La sua esperienza “orientale”, iniziata in Libano anni
                       Fonte:SBi                       orsono, continua nel complesso oriente islamico.
La scelta, caduta su questi due confratelli, è frutto della stima che la Santa Sede ha per la nostra presenza
francescana nella Custodia di Oriente, dove Francesco ha compiuto ottocento anni fa, il suo viaggio
profetico. In tal senso è significativo quanto il cardinale Pietro Parolin ha affermato confidenzialmente,
commentando la nomina dei Vescovi, rilevando che è un segno di buona salute dell’Ordine.
Concretamente, come i presuli restano legati all’Ordine? Interroghiamo il Diritto.
Il Codice si esprime anzitutto sul voto di obbedienza (can. 601): il frate elevato all’episcopato è soggetto
solamente al Romano Pontefice (can. 705). Una antica distinzione definiva i superiori interni, ossia il
ministro generale, provinciale e locale (can. 620), e i superiori esterni, ossia il Romano Pontefice e i
suoi vicari. In questo senso il voto di obbedienza professato rimane valido, ma orientato esclusivamente
al Papa, mentre verso i superiori dell’Ordine resta un vincolo di carità e collaborazione.
Questo comporta che non eserciti nell’Ordine voce attiva e passiva, ossia la possibilità di partecipare
con voto ai Capitoli, secondo quanto dichiarato nella Risposta della Pontificia commissione per
l’interpretazione autentica del Codice del 29 aprile 1986, a poco più di tre anni dalla promulgazione del
Codice. Non è solo una incompatibilità di uffici, ma un divieto che permane anche quando il religioso
cessa dalle sue funzioni episcopali, e raggiunta la pensione e diventato emerito, sceglie di ritirarsi in
convento. Il vescovo religioso è tenuto ad osservare il voto di povertà (can. 600) per cui ha effettivamente
rinunciato ad avere la titolarità di beni (can. 668 §4)?
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Certamente sì, infatti il can. 706 spiega che il vescovo religioso ha l’uso, l’usufrutto e l’amministrazione
dei beni, ma ne intesta la proprietà alla Diocesi in cui esercita il ministero o al suo Ordine.
Cosa avviene quando un vescovo cessa dal suo ufficio? Arrivato all’età della pensione, il vescovo
emerito può scegliere dove abitare, “anche fuori dalle case del proprio istituto” (can. 707 §1).
Ciò suggerisce che il frate ritorni nel convento dove meglio si sente accolto, o dove ha vissuto gli anni
più intensi della sua attività. Non meraviglia che diversi vescovi francescani abbiano fatto ritorno in
convento, come attualmente è per p. Agostino Gardin a Padova e p. Paolo Atzei a Oristano.
Il Codice stabilisce circa il sostentamento, che sia la Diocesi o la Santa Sede ad occuparsene in modo
                                            “conveniente e degno”, a meno che non se ne voglia occupare
                                            direttamente l’Ordine (can. 707 §2). Queste norme non sono
                                            superflue: venendo a cessare dal proprio ufficio episcopale,
                                            il frate è felice di tornare tra i suoi confratelli se con essi ha
                                            coltivato buone relazioni, nella generosità e nella discrezione:
                                            generosità di chi sa di poter dare ancora il suo contributo
                                            concreto all’Ordine, e discrezione di chi comprende che la
                                            sua autorevolezza potrebbe condizionare i suoi confratelli
                                            ed essere percepita come una interferenza più che come un
                                            parere o un consiglio. Nella vita quotidiana poi è chiaro che
                                            il vescovo che torna a vivere da frate dovrà trovare un nuovo
                                            equilibrio, non solo negli ambienti, ma anche nella semplicità
                                            dei rapporti umani che caratterizzano i nostri conventi.
                                            In ultima analisi, un frate elevato all’episcopato sa di dover
                                            attribuire non solo a se stesso, ma in buona parte all’Ordine,
                                            la sua formazione, le numerose opportunità di crescita e
                                            maturazione umana, professionale e soprattutto spirituale.
                                            Il frate sa anche che, chi lo chiama all’episcopato, si aspetta
               Fonte:Curia OFMConv          da lui un servizio, uno stile e una spiritualità propri del suo
carisma, sperimentato e vissuto in una fraternità, e capace di creare fraternità.
Nessuno pensi che un frate diventato vescovo è “uno di meno”, anzi, è un frutto sano di un Ordine
generoso, che sa obbedire alla Chiesa donando al suo servizio gli uomini migliori, sapendo che saranno
utili alla edificazione del Regno di Dio, e sperando che continuino ad essere di giovamento all’Ordine,
come esempi e come stimolo per nuove vocazioni e per il rinnovo della nostra vocazione.

*OFMConv, Procuratore Generale dell’Ordine

       procurator@ofmconv.net

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il Padre nostro, dalla fine al principio

               R i m etti , co m e anc h e noi ri m ettia m o
                       rispondere al comandamento dell’amore

                       di Emanuele Rimoli*

Cosa affermiamo quando diciamo «rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo a nostri
debitori»? Prim’ancora che scatti la richiesta di perdono, ci riconosciamo tutti debitori, o peccatori se
seguiamo la versione dell’evangelista Luca. Cioè tutti in una situazione di carenza – possiamo anche
dire che ci riconosciamo poveri, giacché «è povero chi non può dare un contraccambio» [Epicoco] o
saldare un debito.
Ora, poiché si tratta della preghiera del Signore, dobbiamo ricordare che chi parla è proprio il Signore
Gesù. Egli, infatti, è il
povero per eccellenza
a cui appartiene il
regno dei cieli (Mt 5,3).
Cosa comporta questa
constatazione?
Sul versante di Dio.
Paolo lo spiega con
parole       potenti      e
disarmanti: «Gesù Cristo
da ricco che era si è fatto
povero per voi, perché
                                                               Fonte:La Stampa
voi diventaste ricchi della
sua povertà» (2Cor 8,9), intuizione che san Francesco scopre nell’Eucaristia: «Perciò è lo spirito del
Signore, che abita nei suoi fedeli, quello che riceve il santissimo corpo e sangue del Signore […].
Ecco, ogni giorno Egli si umilia, come quando dalle sedi regali scese nel grembo della Vergine; ogni
giorno viene a noi in umili apparenze; ogni giorno discende dal seno del Padre sull’altare nelle mani
del sacerdote. E, come ai santi apostoli apparve in vera carne, così ora a noi si mostra nel pane sacro»
[Am I]. ]. In altre parole lo Spirito santo che è in noi, riceve il Figlio nel pane e vino eucaristico, e lo
riceve nel suo movimento di umiliazione, di abbassamento verso l’umanità, nel suo impoverimento
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affinché noi ne possiamo ricavare ricchezza. Perciò si tratta di un dono di vivacità che ci abilita a vivere
come Gesù godendo della sua obbedienza e intimità con il Padre, stando solidali con gli altri in ogni
circostanza. È questa la ricchezza evangelica che
ci viene dalla povertà di Cristo, questo è il regno
dei cieli: relazioni radicate in Cristo, vissute alla
maniera di Cristo e non mortificate.
Questo dono di vivacità corrisponde al dono che
Dio ha fatto di se stesso con l’invio del Figlio,
dono che si manifesta come riconciliazione:
«Perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato
[= lett. “ha fatto grazia di sé”] a voi in Cristo»
(Ef 4,32). Il dono di grazia che è Cristo, ha
rivelato che Dio è così favorevole agli uomini da                             Fonte:Archivio SBi

non trattenere nulla per sé, neppure se stesso. Questo consegnarsi indifeso agli uomini vince le durezze
e le diffidenze dei cuori, tanto da attirarli a sé (cf. Gv 12,32) per riposare in lui e finalmente godere della
dolcezza di quella bontà.
Si spalanca un orizzonte: «Come il Dio inaccessibile si rivela a me attraverso la sua grazia, anche
l’altro inaccessibile può rivelarsi a me, e anche questa è una grazia» [Clement]. Rapportarsi secondo
misericordia, a partire dall’invocazione di essere perdonati, significa accedere a un tempo alla grazia
della rivelazione di Dio a noi e alla grazia della rivelazione degli altri - è l’esperienza goduta della
paternità di Dio nei rapporti di fraternità. In effetti “l’altro lato della medaglia” dell’invocazione del
Padrenostro è l’unico e grande comandamento del vangelo: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto [te
stesso] … e il prossimo tuo come te stesso» (Mt 22,36-40). E “amare il prossimo come se stessi” vuol
dire trattare gli altri secondo quel «rimetti a noi i nostri debiti», e chi non vorrebbe avere il suo debito
condonato, essere perdonato, riscattato dai pesi che lo angustiano? Perciò perdoniamo agli altri perché
venga perdonato a noi, anche da Dio - è la “furbizia” che Gregorio nisseno esprime così: «L’ordine dei
valori in un certo modo viene cambiato: “Quello è il mio debitore, io sono il tuo; l’atteggiamento che
ho avuto con lui mi ottenga presso di te lo stesso favore. Ho sciolto, sciogli; ho rimesso, rimetti; ho
mostrato larga misericordia al mio prossimo, imita la benignità del tuo servo, o Signore!”» [Omelia V
sul PN].
Sul versante dell’uomo. Il verbo “rimettere” è il greco aphíemi, ovvero “annullare, lasciare impagato”.
Che cosa? I debiti o peccati. E perché chiediamo che restino impagati? Perché l’uomo non è in grado
di saldare il proprio debito/peccato con Dio (vd. Mt 18,23-25).
Allora la prima parte dell’invocazione suona come supplica fiduciosa: «Signore, vieni a me non come
giustiziere ma, appunto, come Padre di misericordia; vieni con un verdetto di grazia verso chi ti ha
voltato le spalle; vieni a ricostituirmi come figlio, non imputato» [Bruni].
Ciò che è in gioco è l’idea che abbiamo di Dio, l’immagine che di lui abbiamo ricevuto, coltivato,
scoperto… Tutto si gioca appunto sulla fede, come dice Gregorio nisseno: «Cosa insegna la Parola
di Dio? Anzitutto ad acquistare, attraverso le opere, il coraggio di mostrare la nostra fede e quindi

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a chiedere la remissione delle colpe» [Omelia V sul PN]. Gli farà eco Massimo il confessore nella
                                            conclusione del suo commento al Padrenostro: «Se vogliamo
                                            essere salvati dal maligno e non subire la tentazione, abbiamo
                                            fede in Dio e rimettiamo i debiti ai nostri debitori». Non è forse
                                            vero che ci fidiamo solo di chi non ha vergogna di noi, delle nostre
                                            contraddizioni, degli scheletri nascosti, delle brutture?
                                            Non è forse questo che desideriamo più di ogni altra cosa:
                                            cedere finalmente le armi e consegnarci ad uno sguardo
                                            benevolo? Su questo incontro disarmato poggia la seconda parte
                                            dell’invocazione, «come anche noi li rimettiamo». Sono stato
                                            perdonato, anch’io posso perdonare; ho gustato quella dolcezza,
                                            posso estenderla agli altri; sono entrato in quell’intimità, posso
                                            coinvolgervi altri.
                                            Per quanto però desiderabile constatiamo che non è così immediato
                                            godere di quella benignità coinvolgendo i vicini. Assomigliamo
                                            molto al servo insolvente (Mt 18, 23-25): attendiamo
                                            continuamente qualcosa dagli altri, pretendiamo al punto che
                                            non è tanto l’altro che ci interessa quanto la gratificazione che
                                            ci procura - preferiamo qualcosa invece che qualcuno, il dono
              Fonte:Archivio SBi            piuttosto che il donatore, e questo non può che generare durezza
o perfino violenza. E siccome gli altri costantemente ci deludono poiché non sono in grado di pagare i
loro debiti, è facile rifugiarsi nel risentimento per “fargliela pagare” con raffinate vendette, vivendo di
amarezza e nostalgia.
La portata è tale che è in gioco la sincerità dell’invocazione «rimetti a noi i nostri debiti». Infatti: «Se
presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo
dono davanti all’altare e va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono» (Mt
5,23-24). Non si tratta tanto della capacità di perdonare o del volersi presentare a Dio con la coscienza a
posto (chi può farlo?), ma della sincerità della richiesta di perdono: si può invocare benevolenza per sé
senza farne parte agli altri? Si può trattenere per sé, come cosa propria e privata, l’amore di Dio che in
verità è per tutti indistintamente? Più drammaticamente: si può godere di un amore senza essere disposti
a donare?
La parabola dell’amministratore disonesto (Lc 16,1-13) spiega definitivamente quanto stiamo dicendo.
La scaltrezza lodata non è nell’impossibile tentativo di saldare il debito, ma nel condonare i debiti degli
altri e trovare ancora favore presso il padrone. Appunto «procuratevi amici con la ricchezza disonesta»,
cioè con la misericordia: «La misericordia è il calcolo più intelligente che possiamo fare per noi e per
gli altri. Se tu servirai il tuo Signore onorando il tuo fratello, qualora tu dovessi mancare in qualcosa
rispetto al tuo Signore, l’onore dato al fratello richiamerà il favore del tuo Signore. Non solo, ma se il
tuo fratello mancherà in qualcosa rispetto al suo Signore, l’onore che tu gli avrai portato funzionerà da
intercessore per lui perché quell’onore è computato a merito» [Citterio].

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La misericordia, non si dà semplicemente in relazione ai peccati nostri o altrui, ma poiché è la maniera
d’agire propria di Dio, essa è la verifica delle nostre relazioni, poiché ne è l’anima, la ragion d’essere,
la logica, l’obiettivo e il compimento, l’intimo segreto.
Di cosa siamo debitori verso Dio? All’uomo Dio non ha dato solo il mondo e le sue cose, ma ha affidato
Se stesso come “tu”. «Dio ha dato se stesso all’uomo e si aspetta che costui lo restituisca a se stesso
[…] come un “Dio amato”» [Guardini]. Verso Dio non siamo debitori di cose, ma della reciprocità nel
rapporto, dimorando in quella intimità accessibile in Gesù e aperta a tutti gli uomini (Eb 6,19-20).
Così, in punta di piedi, ci affacciamo su una questione solo accennata all’inizio: è Gesù che prega per
primo le parole del Padre nostro esprimendo il suo rapporto speciale con il Padre e gli uomini. È Gesù
che dice «Rimetti a noi…come noi rimettiamo» e si mette, ancora una volta - mendicante e povero - a
domandare per noi, con noi e in noi (Gal 2,20; 4,6), perché sia colmata la separazione (Ef 2,14), sia
abbattuta ogni accusa e accessibile il Regno (Ap 12,10).
Di cosa gli altri ci sono debitori? Alias: di cosa siamo debitori gli uni gli altri (e quindi al mondo)?
Siamo debitori proprio di questa conoscenza del
Signore. Fin tanto che tutti non l’avranno conosciuto
come “amore del Padre per il mondo” attraverso uno
stile misericordioso, la nostra stessa conoscenza resterà
limitata, poiché non sapremo come quell’amore saprà
riversarsi su quei fratelli, con che puntuale provvidenza
e creatività.
Così è di Dio, infatti così è dell’amore: se è trattenuto
e non è donato, come potrà svelare le sue molteplici
e intelligenti sfaccettature, la densità delle parole, la
profondità degli sguardi, l’umanità dei gesti, l’intimità dei
silenzi, la benevolenza nell’attesa, la non dimenticanza
dei volti?
Tendere a questa manifestazione rende umili e riverenti
verso tutti, fino ai nemici, e risponde al comandamento
dell’amore (Gv 13,34-35).
È quanto desiderava Francesco per i missionari: «non
                                                                            Fonte:Archivio SBi
facciano liti né dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura
umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani» [RnB XVI].

*OFMConv, docente di Antropologia cristiana
     @fratemanu

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santità francescana

                                   Jacopone da Todi
                            cantore della croce di Cristo

                     di Raffaele Di Muro*

Jacopone nasce da una famiglia aristocratica di Todi, lavora come notaio ed abbraccia la vita
matrimoniale. Gli studi effettuati sul suo conto non permettono una datazione certa circa la sua
nascita. Si ritiene, invece, che nel 1259 risulti già sposato. A quarantasette anni muore sua moglie
e successivamente si dedica alla vita penitenziale. Sembra che decisivo sia l’evento della morte
della consorte sul cui corpo si scopre un cilicio. Ciò che si può
ritenere certo è il fatto che esercita la professione di procuratore
legale e che si dedica alla poesia. Intraprende la vita di penitente,
vestito con l’abito che i bizzoconi portavano in quel tempo.
Entra successivamente tra i frati minori, tra i quali emetterebbe
la professione come fratello religioso, irridendo egli il valore
degli studi e dei gradi accademici nell’ambito della famiglia
francescana. Aderisce, dunque, alla schiera dei cosiddetti spirituali
perché desideroso di un miglioramento nei costumi della fraternità
francescana soprattutto relativamente alla pratica rigorosa
della povertà. Il suo è un carattere fervoroso. Si schiera tra gli
oppositori di Bonifacio VIII, che ritenevano invalida la rinuncia
di Celestino V, e per questo sperimenta il carcere, probabilmente
nel convento di Todi. Questa esperienza lo prova e gli permette
una notevole crescita interiore. Il ritorno tra i confratelli, avvenuto
                                                                                 Fonte: Wikipedia
probabilmente per volontà del nuovo papa Benedetto XI eletto nel
1301, lo riempie di gaudio e in questo contesto compone Le Laude, uno tra gli scritti mistici più
ardenti della tradizione occidentale. Non è certo che abbia scritto il Tractatus utilissimus e i Dicta
a lui spesso attribuiti pur se non si ha certezza assoluta circa la paternità di queste opere. L’amore
verso Dio è il motivo dominante di questo componimento come di tutta la sua esperienza religiosa.
È convinto assertore della contemplazione e della meditazione sui misteri di Cristo che rivelano la
benevolenza divina a favore dell’umanità. Insegna che il cuore dell’uomo è grande solo se in esso
domina l’amore, come lo stesso Francesco d’Assisi insegna.
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Muore nel 1306 nel monastero delle Clarisse di Collazzone in Umbria, probabilmente nel giorno di
Natale.
Nell’itinerario proposto da Jacopone da Todi, l’ascetica e la mistica sono complementari. La
contemplazione trascendente è condanna della carne, alimenta l’ardore e crea utili steccati con le
attrattive del mondo. Si parte dall’annullamento del proprio egoismo e della propria fragilità per
proiettarsi nell’amore di Dio. La penitenza, il disprezzo del mondo, la pratica della virtù e la meditazione
sul mistero della croce vanno intesi in chiave mistica.
Centrale è, nella spiritualità proposta da questo personaggio, la contemplazione dell’umanità di Cristo,
in pieno stile francescano. Ammira con particolare fervore l’andare di Gesù incontro alla passione ed
alla morte per la salvezza dell’uomo.
Tuttavia emerge, contrariamente a quanto si legge negli scritti di Francesco d’Assisi, una sfumatura di
pessimismo sempre velatamente presente in quanto scrive soprattutto in merito al disprezzo della carne
e del mondo. Il suo pensiero è, però, da definirsi autenticamente francescano nel senso che il percorso
di rinuncia proposto da Jacopone ha quale finalità ultima il raggiungimento della comunione con Dio.
Proponiamo un brano tratto dalle Laude nel quale è evidenziato l’amore per la croce del Signore, la
tensione escatologica e la comunione con Dio:

                                          “L’Amore sta appiso,
                                            la Croce l’ha preso
                                          e non lo larga partire;
                                             vocce correndo
                                          e mo mme cci apendo,
                                       ched ei non pòzza esmarrire
                                               ca lo folgire
                                              farìame sparire
                                   ch’eo non forìa scripto enn Amore
                                         O Croce, eo m’appicco
                                           E a tténne m’aficoo
                                      Ch’eo gusti morendo la Vita!
                                            Ca tu n’è adornata
                                            Da morte Melata;
                                      tristo, ch’eo non t’aio sentita!
                                             O alma sì ardita
                                              d’aver so firita
                                    che ‘n more accorata d’Amore!”

                               (JACOPONE DA TODI, Laude, X, 25-40)

febbraio 2021                                                                                            21
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