San Bonaventura informa - Seraphicum
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San Bonaventura ANNO VIII - Nº 85 informa Editoriale In questo numero: I frutti della paura e dei pregiudizi Arrivato al crocicchio che divide la strada circa alla metà, e guardando dalle due parti, (Renzo) vide un cit- tadino che veniva appunto verso di lui. “Un cristiano, finalmente!” disse tra sé; e si voltò subito da quella parte, pensando di farsi insegnar la strada da lui. Questo pure aveva visto il forestiero che s’avanza- va; e andava squadrandolo da lontano, con uno sguardo sospettoso; e tanto più, quando s’accorse che, in vece d’andarsene per i fatti suoi, gli veniva incontro. Renzo, quando fu poco distante, si levò il cappello, da quel montanaro rispettoso che era; e tenendolo con la sinistra, mise l’altra mano nel cocuzzolo, e andò più di- rettamente verso lo sconosciuto. Ma questo, stralunando gli occhi affatto, fece un passo addietro, alzò un noderoso bastone, e voltata la punta, ch’era di ferro, alla vita di Renzo, gridò: – via! via! via! – Oh oh! – gridò il giovine anche lui; rimise il cappel- lo in testa, e, avendo tutt’altra voglia, come diceva poi, quando raccontava la cosa, che di metter su lite in quel momento, voltò le spalle a quello stravagante, e con- tinuò la sua strada, o, per meglio dire, quella in cui si trovava avviato. L’altro tirò avanti anche lui per la sua, tutto fremente, e voltandosi, ogni momento, indietro. focus: emergenza coronavirus, intervista a guido bertolaso - p. 2 E arrivato a casa, raccontò che gli s’era accostato un untore, con un’aria umile, mansueta, con un viso d’in- francesco e l’incontro con i lebbrosi fame impostore, con lo scatolino dell’unto, o l’involtino pag. 7 della polvere (non era ben certo qual de’ due) in mano, l’economia di francesco: diseguaglianze nel cocuzzolo del cappello, per fargli il tiro, se lui non sociali e itineranza francescana - p. 11 l’avesse saputo tener lontano. – Se mi s’accostava un l’uomo e il mondo in comunione - p. 15 passo di più, – soggiunse, – l’infilavo addirittura, prima santa sede: “amazzonizzare” la chiesa - p. 19 che avesse tempo d’accomodarmi me, il birbone. La disgrazia fu ch’eravamo in un luogo così solitario, gpii, dottrina e santità: conformazione ché se era in mezzo Milano, chiamavo gente, e mi face- a cristo - p. 22 vo aiutare a acchiapparlo. Sicuro che gli si trovava quel- corpo ed eternità: la risurrezione di la scellerata porcheria nel cappello. Ma lì da solo a solo, gesù nel suo vero corpo - p. 25 mi son dovuto contentare di fargli paura, senza risicare la fraternità dei laici: vita e opere del beato di cercarmi un malanno; perché un po’ di polvere è su- giuseppe tovini - p. 29 bito buttata; e coloro hanno una destrezza particolare; e poi hanno il diavolo dalla loro. il tesoro dello scriba: marta, maria e lazzaro - p. 33 Ora sarà in giro per Milano: chi sa che strage fa! – E fin che visse, che fu per molt’anni, ogni volta che si par- tra le righe: cristo, la chiesa e il mondo - p. 35 lasse d’untori, ripeteva la sua storia, e soggiungeva: – cinema: oscar 2020 - p. 37 quelli che sostengono ancora che non era vero, non lo vengano a dire a me; perché le cose bisogna averle viste. novità editoriali: consigli di lettura - p. 39 appuntamenti: in programma - p. 41 Alessandro Manzoni francescanamente parlando: assemblea I Promessi Sposi missionaria e “in parole francescane” - p. 44 febbraio 2020 1
focus EMERGENZA CORONAVIRUS (ANCHE) IN ITALIA ASPETTI SANITARI E GESTIONALI AL TEMPO DELLA GLOBALIZZAZIONE di Elisabetta Lo Iacono* Il coronavirus, ribattezzato con il nome scientifico COVID-19, da minaccia lontana e percepita con un certo distacco, è divenuta emergenza concreta con i primi contagi e decessi in Italia, dove sono stati presi provvedimenti molto restrittivi ma necessari per cercare di arginarne la diffusione. Ogni Paese sta facendo i conti con questo rischio, adottando azioni di protezione che vanno dalla sospensione dei voli verso le zone maggiormente colpite al rinvio di grandi eventi, dall’interruzione di attività lavorative, scolastiche e culturali, a controlli in aeroporti e raccomandazioni di ordine sanitario e igienico. Un nemico non visibile e che, come tale, incute paura. Ma un conto è una razionale preoccupazione, altra cosa il panico collettivo che viene talvolta amplificato da una gestione delle notizie non sempre scrupolosa da parte di alcune testate giornalistiche e, soprattutto, dalla vorticosa circolazione di fake news, in particolare sui social network, tanto da provocare potenziali e seri problemi anche a carattere sociale. Eppure, proprio una buona informazione e la chiarezza rivestono, nei momenti di crisi, un ruolo rilevante per la creazione di un clima di fiducia verso le istituzioni e per la diffusione di notizie ufficiali, verificate e utili a fotografare la reale situazione. Un passaggio quindi indispensabile per affrontare le emergenze ma anche per creare quella rete di sensibilità e Fonte:roma.repubblica.it solidarietà che potrebbe rappresentare persino una preziosa lezione di umanità. Per fare chiarezza su questa emergenza, che sta mettendo a dura prova il nostro Paese, abbiamo intervistato il dottor Guido Bertolaso (nella foto), dal 2001 al 2010 direttore del Dipartimento nazionale di Protezione civile, commissario straordinario in diverse e impegnative emergenze ma anche medico con esperienze nelle “periferie del mondo”, dove ha combattuto “da buon francescano” a fianco delle popolazioni contro gravi epidemie. febbraio 2020 2
Dottor Bertolaso, partiamo dal piano sanitario, essendo peraltro un medico: dinanzi a che tipo di emergenza ci troviamo, cosa si deve fare e cosa non fare, a livello di istituzioni e di cittadini? Si tratta indubbiamente di una novità assoluta nel campo dello scenario delle emergenze mondiali, di quelle che per le loro caratteristiche e potenzialità possono davvero interessare vasti territori e numerose popolazioni della terra. Sono rare le situazioni del genere, in natura, anche il cataclisma peggiore - come terremoti, alluvioni ed incendi - può mietere migliaia di vittime e provocare danni ingenti ma sempre in un ambito territoriale circoscritto ad una provincia, una regione, una nazione o, alla peggio, in un’area subcontinentale come nel caso del sud est asiatico in occasione del tremendo tsunami del Natale 2005. Solo eruzioni vulcaniche imponenti possono influire sulla situazione climatica della terra per qualche periodo a causa delle emissioni che vengono diffuse nell’atmosfera. Epidemie e incidenti nucleari invece possono davvero, in modo subdolo e silenzioso, interessare rapidamente tutto il mondo; è ancora vivo il ricordo della tragedia di Chernobyl per capire a quale rischio siamo quotidianamente esposti in quel settore dove la trasparenza e l’informazione ancor oggi latitano a causa di ipotetiche esigenze di sicurezza. Virus e batteri, invece, contano oggi su di un nuovo, formidabile, vettore di trasmissione delle loro micidiali cariche mortali che ha demolito quella invisibile barriera di protezione funzionante per millenni: l’aeroplano! Con questo sistema di rapido trasferimento Fonte: corriere.it in ogni dove della terra, una malattia infettiva-trasmissibile può essere trasportata da un ignaro portatore sano in poche ore da una località - dove è iniziata la fase acuta del fenomeno - in qualunque altro posto dove, se le condizioni climatiche e ambientali sono favorevoli, può diffondersi con una rapidità impressionante. Questo genere di fenomeni è destinato ad assumere in futuro un ruolo ed una rilevanza sempre maggiori: più sarà, inevitabilmente, facilitato lo spostamento di masse di genti nel mondo e più sarà difficile controllare e gestire possibili epidemie. Queste possono assumere ruoli e gravità differenti a seconda dell’agente patogeno e della capacità di pronta risposta della scienza medica. La SARS è stata un’esperienza utile nel 2003 perché era una prima assoluta a livello mondiale, fortunatamente contenuta e controllata in tempi brevi ma che ha permesso di entrare in contatto con questo genere di situazioni e di immaginare, quindi, le risposte più efficaci i cui aspetti ed esperienze stanno tornando utili, se non fondamentali, in questa occasione. Allora la gestione delle informazioni e la comunicazione cosiddetta istituzionale funzionarono egregiamente e la vicenda fu gestita in un clima di attenzione ma di grande fiducia con le istituzioni che consentirono di condurre una quotidianità nazionale in modo del tutto sereno. febbraio 2020 3
Non si videro, allora, mascherine per strada ed esaurite nelle farmacie, non vi furono episodi di psicosi collettiva o intolleranza verso cittadini asiatici, né si assistette ad una patetica rincorsa alle telecamere da parte di esponenti di governo impegnati a conquistare un po’ di visibilità con affermazioni che a tutto portano tranne che a fare chiarezza e diffondere sicurezza fra la popolazione. Nel 2003, durante la diffusione della SARS, fu nominato commissario straordinario per la gestione di quell’emergenza. Quali sono, oggi, le similitudini e le differenze rispetto a quel contesto? La Sars fu la prima minaccia epidemica di questo millennio ma, per fortuna, i social ancora erano nel reparto di neonatologia, quindi le informazioni non furono manipolate e distorte come accade oggi. La gestione della fase critica e complessa fu collegiale e coordinata, in Europa l’Italia assunse un ruolo guida nell’indirizzare le politiche di controllo e contenimento e gli screening che furono organizzati negli aeroporti risultarono efficaci nell’impedire il diffondere della malattia nel nostro Paese e nel dimostrare ai cittadini la serietà dell’approccio. Nel suo ruolo di direttore del Dipartimento nazionale di Protezione civile, si è trovato a gestire numerose emergenze dove i pericoli e i danni erano ben visibili e individuabili (pensiamo a terremoti, alluvioni). Quali sono i principali strumenti per far fronte a una emergenza che, non essendo tangibile, può sfociare in una maggiore paura collettiva? Essenziale in questo genere di emergenze invisibili, ma potenzialmente micidiali, è la gestione delle notizie da parte delle istituzioni. L’identificazione di una figura unica che parli in qualità di comunicatore istituzionale e che sia l’unica ad avere rapporti certificati con i media e quindi che sia autorevole, attendibile, chiara e trasparente è assolutamente indispensabile. Non c’è di peggio che cadere nella psicosi dell’incertezza e delle mille informazioni diverse e contrastanti. Occorre che un gruppo di esperti, non solo medici ma anche managers delle situazioni di crisi, affianchino le autorità nazionali nell’indirizzare e guidare verso le misure più efficaci per il contenimento dei casi e per la organizzazione di strutture sanitarie idonee ad accogliere e gestire casi clinici, complessi e delicati. Sarebbe anche utile che i rappresentanti del governo e i politici si astenessero nella rincorsa di informazioni inesatte, incomplete, spesso stupide, evitando paragoni con epidemie che hanno scritto la storia dell’umanità. Fonte:fnopi.it Anche gli scienziati, spesso abituati ai laboratori ma privi di esperienze pratiche sul campo di fenomeni del genere, farebbero bene a riflettere prima di presentarsi davanti agli schermi, ma la vanità, purtroppo, è un virus molto più letale di certi microorganismi! febbraio 2020 4
Il coronavirus è partito dalla Cina, dove si attesta un elevato numero di contagi e di decessi, ma in ogni dove è scattata la “sindrome da untore” che porta a preoccupanti atteggiamenti di intolleranza e di sospetto verso quanti hanno tratti somatici orientali. Dunque l’emergenza culturale appare non meno preoccupante di quella sanitaria? Gli episodi di intolleranza nel nostro Paese sono ormai all’ordine del giorno, di certo non hanno aiutato le polemiche ed i tanti fatti di cronaca legati agli immigrati più o meno legali che in questi ultimi decenni sono arrivati in mille modi nel nostro Paese. Un Paese che, pur avendo tutte le potenzialità e competenze per gestire questo fenomeno nel migliore e più efficace dei modi, si è invece spesso affidato ad improvvisazioni, dilettantismo e incompetenze che hanno solo aggravato una problematica già di per sé complessa da gestire. Di nuovo, una gestione delle informazioni molto carente, sia a livello istituzionale che da parte dei mass media che hanno dipinto questo coronavirus come la nuova peste o il colera, hanno scatenato una assurda caccia all’untore gestita in modo debole e parziale provocando, nella vasta comunità asiatica residente in Italia e totalmente estranea alla vicenda virale, un risentimento e amarezza del tutto comprensibili. Per fortuna il nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella (nella foto), ancora una volta ha saputo sgombrare Fonte:larassegna.it il campo da dubbi, perplessità e illazioni indicando, come è giusto che sia, la strada maestra da seguire e demolendo i molti pregiudizi artefatti. Un altro problema, come ha sopra sottolineato, è quello della disinformazione e delle fake news che passano in gran parte attraverso il rapido tam-tam dei social network, tanto che il Ministero della Salute ha stipulato accordi con piattaforme social come Twitter e Facebook allo scopo di contrastare le false informazioni e indirizzare verso i canali ufficiali e istituzionali. Si tratta indubbiamente di un nuovo e delicato capitolo di cui tener sempre più conto nella gestione delle situazioni di crisi. Tra notizie incontrollate e non veritiere, qual è la situazione del nostro Paese? Conservo ancora vivissimo il disgusto per la reazione mondiale all’emergenza ebola che devastò tre Paesi africani fra i più poveri del mondo! Scapparono tutti i bianchi in preda al terrore proprio nel momento in cui c’era bisogno delle loro competenze, delle loro conoscenze, delle loro capacità economiche e scientifiche. Una vergognosa fuga tuttavia giustificata almeno dal fatto che quella era una vera epidemia, severa e mortale, che ha mietuto decine di migliaia di vittime che si infettarono anche solo per aver partecipato ai funerali di parenti deceduti per quella causa. Solo i missionari e i volontari cattolici non abbandonarono quei Paesi curando i malati e aiutando le istituzioni locali a superare una situazione drammatica nella quale le istituzioni internazionali dimostrarono tutta la loro miserabile incapacità. febbraio 2020 5
Anche in questo caso si è rischiato di abbandonare il prossimo con la non piccola differenza che la Cina non è l’Africa e può benissimo cavarsela da sola. Personalmente sono totalmente “francescano” in casi del genere, ed infatti mi recai subito in Sierra Leone durante l’epidemia di ebola per collaborare con i medici cattolici del Cuamm (organizzazione non governativa sanitaria italiana, impegnata per la promozione e la tutela della salute delle popolazioni africane, ndr) per organizzare servizi sanitari per quei malati. Purtoppo, per una serie di cause e di fattori ancora da definire e comprendere in modo scientifico, il nostro Paese sta conoscendo una delle più serie e gravi conseguenze di questa epidemia che Fonte:bdtorino.eu ha colto impreparate le istituzioni e in particolare il nostro pur valido sistema sanitario nazionale. Sorprendente è la contaminazione che ha colpito il nostro personale sanitario, evidentemente privo delle più elementari misure di protezione individuale. è molto raro, tranne che in prima linea, che i sanitari siano infettati se la patologia è conosciuta e se sono state adottatte le misure per controllarla e contenerla. Il fatto che portatori sani o malati non esposti abbiano potuto circolare liberamente nel Paese per giorni o settimane, ci pone oggi in una situazione simile a quella cinese con conseguenze al momento poco prevedibili ma con la consapevolezza che si tratta di un fenomeno transitorio e temporaneo, per fortuna anche poco letale se paragonato ad altre malattie trasmissibili. Occorre però grande capacità di gestione del problema e di organizzazione di tutti i servizi abbinata a misure di quarantena inevitabili laddove esista la certezza di possibili ulteriori diffusioni del virus. Sono convinto che la conoscenza, l’esperienza e un valore profondo come può solo essere la solidarietà verso il prossimo in difficoltà, siano le armi migliori per abbattere pregiudizi e mettere sotto controllo i virus sia biologici che sociali. *Giornalista, docente di mass media @ eliloiacono #COVID19 - Informati attraverso i canali ufficiali! Ministero della Salute: www.salute.gov.it/nuovocoronavirus Numero di emergenza: 112 / Numero di pubblica utilità: 1500 Consulta, sul sito del Ministero, i numeri verdi attivati dalle Regioni febbraio 2020 6
Francesco e l’incontro CON I lebbrosi COME far proprio il principio francescano di alterità di Orlando Todisco* L’espressione più significativa della “metanoia” di Francesco è l’incontro dei lebbrosi. Egli si spoglia di qualunque rivestimento egolatrico e va nudo incontro a questi “maledetti della terra”. Non è l’essere come vero, ma l’essere come dono che comincia a farsi largo, prevalendo sulla soggettività orgogliosa e autocelebrativa. Anche se non tradotto in specifiche enunciazioni dottrinali, l’essere come dono si impone come la sua stella polare. Siamo a un nuovo modo di guardare la realtà, non più nella logica di quell’oggettività che è propria del principio di identità, grazie al quale mi rapporto all’altro come cosa determinata - malato pericoloso per la salute pubblica, da tener lontano. Quella di Francesco s’annuncia come la strada dell’abbandono di sé all’altro, in totale gratuità. Contro il primato del pensare oggettivante Francesco sognava un futuro di inesplorata nobiltà. «Poiché era avido di gloria (gloriae cupidus erat) - scrive il Celano - nel sogno Dio lo conquise con il miraggio di una gloria più alta (gloriae fastigio eum allicit et exaltat)». Non soddisfatto della fama del mercante e svanito il sogno di diventare cavaliere, egli si ritrova alla fine avvolto da un’onda di vita nuova, ove gloria e umiliazione, nobiltà e servizio stanno insieme. Se non è quella degli oratores, dei mercatores, dei bellatores, di quale vita si tratta? Egli non va alla ricerca dell’altezza spirituale dei monaci, né aspira alla rilevanza sociale dei mercanti, o alla nobiltà aristocratica dei cavalieri. È la qualità della vita che lo assilla. Lo scenario degli stili di vita, sia civile che religiosa, gli appare ben povero. Nel Testamento Francesco ci mette a parte di come cominci a prender forma questo nuovo orizzonte, allorché accenna Fonte: SBi a come abbia cominciato a cambiare prospettiva (incipere faciendi paenitentiam), e cioè il “Signore mi condusse tra i lebbrosi” (Dominus conduxit me inter illos - leprosos), la cui visibilità sociale era concordemente interdetta. febbraio 2020 7
Si annuncia un altro mondo, non accattivante; un’altra esperienza, quella dell’emarginazione; un altro versante, quello interiore. La situazione del lebbroso è la più umiliante, da sempre, aggravata dalle dicerie circa il suo insorgere, come quella che riteneva fosse provocata dal disfrenamento della libido e dunque accompagnata dalla condanna anche di Dio. Francesco lo confessa quando dice che “mi era troppo amaro vedere i lebbrosi”; e aggiunge: “Usai con loro misericordia, e allora quello che era amaro mi si trasformò in dolcezza di animo e di corpo”. Quale la gemma che Francesco crede di aver intravvisto nel corpo disfatto del lebbroso? Egli, infatti, sottolinea Fonte: assisiofm.it che “stetti poco e lasciai il mondo” (parum steti et exivi de saeculo), e cioè, uscì dal modo consueto di giudicare. Quale? Egli percepisce che il modo diffuso di giudicare l’altro consiste nella sua “oggettivazione” e cioè nella sua visibilità sociale. E questo stile non è innocuo, anzi carico di implicazioni di carattere sia teorico che esistenziale. È ovvio che, sotto il profilo oggettuale, il lebbroso è ripugnante, mentre altri, benestanti o nobili, risultano fonte di invidia e di imitazione. Ma in questo modo non si chiudono forse gli occhi su quella ricchezza interiore che, come tale, non solo è pari a ogni altra, ma è da privilegiare, dal momento che è avvolta dal velo umiliante del disprezzo e dell’abbandono da parte dei più? Il pensare oggettivante è il tratto proprio del pensare occidentale, che Francesco mette in discussione come primaria fonte di valutazione, perché parziale e deviante. La scelta francescana Francesco non si lascia guidare dalla verità oggettiva. Si è al di qua della strada che l’Occidente ama percorrere, lasciando fuori il mondo delle qualità e il regno delle soggettività dei soggetti. Pur consapevole dell’indole inestimabile di tale sapere, il francescano, non ritenendolo fontale e originario, ma derivato e funzionale, invita ad aprire un altro percorso, a fare un’altra scelta, a vedere le cose in altro modo. È la volontà lo spartiacque, ciò che ci distingue da tutti gli altri esseri e ci qualifica. L’intelletto rientra nel novero della “natura”, in quanto non può agire che come agisce, dicendo il vero se vero, il falso se falso. La ragione è una facoltà “determinata ad unum”. Anzi, di per sé la ragione non può dirsi una potenza propriamente attiva, perché vien messa in moto dalla volontà, qualificata da un’indeterminazione attiva, che allude al fondo abissale delle nostre potenzialità e ai molti percorsi che è possibile intraprendere. Siamo alla scelta originale del pensare francescano, irrazionalizzabile non perché irrazionale ma perché trascendente la ragione. L’incontro dei lebbrosi è voluto. È l’opera della volontà, non della ragione o della verità oggettuale, non però di una volontà cieca o puramente compassionevole. febbraio 2020 8
La strada aperta da Francesco comporta una riconsiderazione di tutta l’avventura occidentale come anche dei suoi risultati, mettendone in discussione la gerarchia. La forza del gesto di Francesco sta nella capacità di intercettare l’altro sulla scena dell’essere con il cumulo dei suoi bisogni, di varia indole, rispondendo alla sua richiesta d’aiuto senza condizioni. Dove la fecondità di questo percorso? Oltre l’identità oggettivata, verso la soggettività del soggetto Ognuno conosce e si dà a conoscere in base a ciò che fa e dice. Cosa sappiamo dell’altro? Di cos’altro ci riteniamo testimoni? Per una qualunque valutazione non disponiamo che della storia oggettuale. E allora la domanda di fondo è: quando il soggetto progettando e operando si rivela come soggetto, non oggettivato né oggettivabile, e si rapporta all’altro come soggetto? O anche, in cosa effettivamente consiste la soggettività, non riconducibile all’oggettività del dato, propria del pensiero calcolante? In effetti, in quanto voluto, l’altro non può risolversi in ciò che è, ma è avvolto da quell’alone di senso e dotato di quel carico di virtualità che rinviano alla volontà di colui che non vuole ciò che è, di cui non c’è Traccia perché non è. Il principio della differenza pone in luce l’inoggettivabile come anima dell’oggettivabile e dunque mette a tema quello scenario di sentimenti, di allusioni, di speranza o di disperazione che segna la nostra personalità. Ecco il passaggio essenziale. Non è la razionalità a caratterizzare la soggettività del soggetto, ma quell’abisso o profondità, che si fatica a definire ma che accompagna e qualifica ciò che si è, confermandosi respiro dell’essere, in quanto essenzialmente apertura, proteso verso ciò che non è ma è possibile che sia - il lebbroso che Francesco avvicina, oltre ad essere ciò che è - un essere malato - evoca la volontà affranta dal peso del dolore; chiama in causa la società che l’emargina e insieme il volto di Cristo in croce, che lo accoglie. Fonte:messaggerocappuccino.it E non è forse “questo qualcos’altro” a imporsi col suo grido di dolore e a rendere sensata la sua soggettività? L’altro cifra dell’“aperto” nel gioco relazionale del dono E allora, come raggiungere l’altro come altro, non l’altro come autorispecchiamento, ma l’altro come riconoscimento? Quale la logica che deve presiedere a tutte le logiche in maniera che l’altro sia raggiunto come altro, nella consapevolezza che lo scambio ha luogo sul piano della soggettività? A quale logica affidare il nostro esercizio dell’essere? febbraio 2020 9
La risposta è: la logica della libertà creativa di segno oblativo che, attraverso l’identità oggettuale, porta verso altri mondi, fa intravvedere ricchezze che altrimenti resterebbero nell’ombra. Se nel primo momento - quello oggettuale o anonimo - il lebbroso suscita ripugnanza, che Francesco sente fortissima, nel secondo - quando lo si scopre nella sua soggettività come “resto” della società e insieme figlio di Dio e immagine di Cristo in croce - si impone il ripensamento e il servizio e dunque la creatività, nel contesto della sua incancellabile dignità. Ecco la soggettività che è a cuore a Francesco, da raggiungere e tematizzare trascendendo il principio di identità, Fonte: sanfrancescopatronoditalia.it grazie al principio di alterità che fa spazio a quel fondo che ognuno vive a suo modo, spesso deturpandolo o solo abbandonandolo nell’oscurità dell’incoscienza. Il che è possibile impedendo che lo stile oggettivante prevalga su ogni altro. L’oggettivazione è preziosa perché ci costringe a non eludere la realtà, da funzionalizzare però a quella soggettività che in quell’oggettivazione si spegne nel silenzio di un dolore senza voce. Francesco mostra come sia possibile recuperare la dignità di questa schiera negletta di esseri umani, accogliendoli entro il circuito della propria soggettività, salvaguardata nel mentre salvaguarda la soggettività dell’altro, non giudicandola ma servendola. Via, questa, stretta e difficile, e tuttavia, unica per restituire all’altro la coscienza della sua dignità. È la scelta di Francesco, e cioè sciogliere quel grumo egocentrico, che porta al disinteresse o al disprezzo dell’altro, che la razionalità oggettivante non pone in discussione ma talvolta consolida. La vita - come ogni altro valore - va vissuta attraversando lo spazio oggettuale, per illuminarla di quella gratuità, che porta a trascendere tutte le forme sociali, con le quali per lo più si tende a identificarla. Occorre uscire dal primato del principio di identità oggettuale, proprio del pensare occidentale, e far proprio il principio francescano di alterità o di differenza, scendendo nel cuore dell’altro, al di là del ruolo, del potere, della professione. *OFMConv, docente di Filosofia francescana febbraio 2020 10
l’economia di francesco Diseguaglianze sociali e itineranza francescana La proposta dell’Assisiate per un nuovo governo economico del mondo di Vincenzo Rosito* La complessità del mondo economico e sociale contemporaneo è strettamente connessa al ruolo delle diseguaglianze, vocabolo usato sempre più spesso al plurale per identificare lo spettro crescente delle forme e delle variabili della disparità. La diseguaglianza economica non può essere ancora considerata solo come una specifica declinazione dell’ineguaglianza. Pensare che con essa si debba convivere significa diffondere nel mondo un tragico e arrendevole senso d’ineffabilità. La razionalità sistemica con cui siamo portati ad analizzare i luoghi della nostra interazione deve essere applicata anche al ventaglio delle diseguaglianze. Non esiste soltanto un “sistema” dei diritti, dei trasporti, delle comunicazioni e così via. Da tempo la logica sistemica è penetrata nel mondo delle diseguaglianze, organizzandone gli orizzonti e le connessioni interne. Non ci troviamo dinanzi a un fenomeno multifattoriale, ma all’insorgenza di una realtà complessa. Sembra essere entrato in crisi il più incisivo e macroscopico tra gli schemi analitici della diseguaglianza: la netta separazione tra un “nord” ricco e sviluppato del pianeta e un “sud globale” povero e arretrato. Questo modello ha rappresentato per decenni la mappa delle disparità planetarie iniettando nell’immaginario globale una colpevole tendenza alla semplificazione. L’opposizione nord/sud è sempre più inefficace non perché interi popoli hanno elevato il loro status economico e sociale, ma perché le diseguaglianze economiche e sociali sono oramai ovunque (Cf. M. ECKHOLT, «Imparare a vivere l’ospitalità. Fondamenti teologici dell’annuncio di fede nel pluralismo delle grandi città», in Concilium 1/2019, 49-60). I “popoli dell’opulenza” e i “popoli Fonte:alertaeconomica.com/ della fame” sono sempre più contigui all’interno delle metropoli globali sia nel sud che nel nord del mondo. febbraio 2020 11
I “Popoli” lontani e diseguali, comodamente identificati dai confini di una nazione o di un continente, diventano oggi “popolazioni” della stessa città, abitanti del medesimo ritaglio urbano e amministrativo. Nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium, papa Francesco dedica alcuni importanti capitoli alle sfide delle culture urbane (71-75). In questo modo egli riconosce nell’urbanizzazione non solo un processo di trasformazione globale, ma il campo pratico e sociale in cui le diseguaglianze si evolvono drammaticamente e contribuiscono a creare un nuovo sistema della disparità. «La città produce una sorta di permanente ambivalenza, perché, mentre offre ai suoi cittadini infinite possibilità, appaiono Foto: Evandro Inetti anche numerose difficoltà per il pieno sviluppo della vita di molti. Questa contraddizione provoca sofferenze laceranti. In molte parti del mondo, le città sono scenari di proteste di massa dove migliaia di abitanti reclamano libertà, partecipazione, giustizia e varie rivendicazioni che, se non vengono adeguatamente interpretate, non si potranno mettere a tacere con la forza» (Evangelii gaudium, 74). Aumentando il numero della popolazione mondiale urbanizzata, crescono anche le forme di segmentazione e di frammentazione dei contesti socio-culturali che costituivano, un tempo, il continuum urbano. Quartieri residenziali, abitati quasi esclusivamente da una fascia benestante della popolazione urbana, sono culturalmente ma non geograficamente lontani da quartieri stigmatizzati o marcati come socialmente pericolosi. Si può parlare oggi di una vera e propria globalizzazione dello stigma per quei quartieri «di miseria radicata che si sono fatti la “fama” di deposito di tutti i mali urbani dell’epoca, luoghi da evitare, temuti e deprecati. Poco importa se i discorsi di demonizzazione moltiplicati su di essi spesso hanno solo un tenue collegamento con la realtà della vita di tutti i giorni. Un pervasivo stigma territoriale è saldamente apposto ai residenti di tali zone di esilio socio-economico e simbolico, che aggiunge il proprio peso ad un discredito della povertà e ad un riemergente pregiudizio contro le minoranze etno-razziali e gli immigrati» (L. WACQUANT, I reietti della città. Ghetto, periferia, stato, ETS, Pisa 2016, 297). La segmentazione urbana diventa il nuovo retroterra civile e sociale delle diseguaglianze. Il campo delle disparità globali sembra essersi ritratto ma in realtà sta letteralmente entrando in casa, sta diventando più fluido e diffuso, facendo di ogni individuo un attore non più inconsapevole nella creazione di nuove diseguaglianze sociali. Si pensi a come i discorsi che comunemente facciamo intorno ai quartieri delle città che abitiamo contribuiscano a determinare la fama di alcune zone e il prestigio di altre. febbraio 2020 12
Ognuno esercita un potere linguistico di catalogazione e di identificazione in virtù del quale si decide il credito o il discredito di un quartiere e della popolazione che lo abita. In questo modo le città hanno sempre più la forma di forbici divaricate: i poli del benessere e del malessere economico-sociale si allontanano drammaticamente, i linguaggi settoriali e parcellizzati costruiscono un insolito mosaico urbano in cui le tessere sono sempre più distanti e sconnesse. La città diventa un arcipelago composto da isole sottoculturali che faticano a comunicare o a percepirsi come parte di un tutto organico e coeso. Per usare un’efficace espressione di Ivan Illich (nella foto), non è più scontato rinvenire nelle nostre città un fecondo “assortimento degli uguali”. L’urbano nasce e prospera in quanto costruzione collettiva di un contesto sociale e civile mai totalmente uniforme e omogeneo. Più di una volta papa Francesco ha messo in evidenza il rapporto esistente tra l’incremento delle diseguaglianze e le trasformazioni degli ambienti urbani. La città, ovvero «quello che potrebbe essere un prezioso spazio di incontro e di solidarietà, spesso si trasforma nel luogo della fuga e della sfiducia reciproca. Le case e i quartieri si costruiscono Fonte: ecopolitica.org più per isolare e proteggere che per collegare e integrare. La proclamazione del Vangelo sarà una base per ristabilire la dignità della vita umana in questi contesti, perché Gesù vuole spargere nelle città vita in abbondanza (cfr Gv 10,10)» (Evangelii gaudium, 75). In questo breve ma significativo passaggio Francesco addita chiaramente le tendenze che contribuiscono a disegnare non solo il volto delle grandi città, ma anche l’orizzonte delle nuove diseguaglianze globali: isolare e proteggere da un lato, collegare e integrare dall’altro. Oggi, in base a queste opposte direttrici è possibile costruire roccaforti identitarie o contesti vivibili, comprensori monofunzionali o quartieri culturalmente vivi e autenticamente pluralistici. La creatività dovrebbe portare a integrare i quartieri disagiati all’interno di una città accogliente. «Come sono belle le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!» (Laudato sì’, 119). Da sempre l’equilibrio tra comunanza dei linguaggi e degli stili di vita da un lato e pluralismo culturale dall’altro definisce la dialettica vitale e vivente dell’urbanesimo. Nella sua vita Francesco d’Assisi non si è accontentato di sancire la legittimità di un ordine economico in particolare. Egli ha paradossalmente sovvertito le strutture economiche e sociali del proprio mondo, esercitando un attraversamento umile del mondo. La rivoluzione economica e sociale di Francesco può essere racchiusa nel gesto e nella postura dell’itineranza. febbraio 2020 13
Alla preclusione degli ordini sociali e all’esclusività settoriale delle compagini cittadine che contribuivano a separare gli uomini dalle donne, i ricchi dai poveri, il clero dai mercanti, Francesco risponde immaginando una forma di vita basata sulla fraternità e sull’itineranza. Governo della casa comune e attraversamento del creato diventano in questo modo le direttrici pratiche e dinamiche della nuova “economia di Francesco”. Egli annuncia al mondo che non si può costruire un orizzonte di vita fraterna senza uscire costantemente dal guscio comunitario in cui si è stati generati. Non si possono immaginare relazioni ispirate alla fraternità di Cristo senza sovvertire le rigide segmentazioni dello spazio e della società che allontano i fratelli dalle sorelle o che separano tragicamente i figli dello stesso Padre. Per fare tutto questo Francesco si mette in cammino, attraversa Assisi, l’Italia e il mondo del suo tempo. Il suo muoversi e spostarsi può essere letto come il tentativo di smuovere confini e spostare limiti. Se le diseguaglianze sembrano strutture ossificate o sedimenti di una secolare cultura del privilegio, Francesco, mettendosi in cammino e attraversando diagonalmente le faglie della disparità, propone un nuovo governo economico del mondo. Egli diffonde implicitamente non tanto un’immagine della casa, ma uno stile con cui abitare il comune. L’economia di Francesco è fatta di passi, visite, saluti e soste. È un’economia che scommette sugli equilibri sconvolgenti della socialità, un’economia degli affetti mai edulcorati e mielosi, che punta sugli stati Fonte: comune.noceraumbra.pg.it/ nascenti e promettenti. In questo modo Francesco d’Assisi sembra aver intuito le coordinate di un nuovo modello economico ovvero gli elementi di un dirompente governo della casa comune, quello in cui cordialità popolare, sensibilità ambientale e prossimità fraterna non possono essere disgiunte. *Docente di Filosofia teoretica febbraio 2020 14
L’uomo e il mondo in comunione Una nuova consapevolezza come antidoto all’indifferenza di Tommaso Galeotto* L’uomo e il mondo in comunione Una delle caratteristiche della filosofia è quella di delineare orizzonti narrativi che possano comprendere e raccontare l’uomo, il mondo in cui vive e quale fine abbiano le sue attività all’interno di esso. Questo risulta decisivo per ciò su cui papa Francesco ci invita a riflettere oggi con l’enciclica Laudato si’. Il significato che assumono i concetti di attività economica, di ambiente e di sviluppo sostenibile pongono l’uomo e il suo mondo in comunione. Questi due elementi, infatti, non possono essere concepiti come monadi isolate ed indipendenti l’una dall’altra, bensì vanno inseriti in un orizzonte di narrazione comune per cui il destino dell’uomo dipende anche dal destino dell’ambiente in cui vive. Due grandi filosofi del ‘900, prima Martin Heidegger e poi in maniera ancor più radicale Jan Patočka, ponevano come punto fondamentale della loro filosofia la concezione dell’uomo e delle sue attività (dunque anche quelle economiche) non come esterne e distaccate dal mondo, bensì come profondamente radicate e inevitabilmente legate ad esso. Poiché la nostra esistenza si dispiega all’interno del mondo, tutto ciò che noi facciamo nella nostra vita ordinaria, ogni nostro agire come singolo o come comunità incide su di esso. Non vi sono attività indipendenti dall’ambiente in cui viviamo, questi due livelli si contaminano continuamente. Pertanto, ciò deve interrogarci sull’uso che noi facciamo del mondo e della concezione che quotidianamente ne abbiamo. Guido Chelazzi (nella foto), nel suo affascinante libro L’impronta originale. Storia naturale della colpa ecologica, ci mostra come, lungo tutto il processo evolutivo di Homo Sapiens, le attività tecniche ed economico-sociali che l’uomo ha sviluppato, e che ci hanno portato al mondo di oggi, hanno avuto un forte impatto sull’ecosistema, modificando radicalmente il nostro ruolo all’interno di esso. La Rivoluzione Neolitica, che ha visto la sua prima Fonte:Facebook comparsa nel X millennio a.C. nell’area della Mezzaluna Fertile, ne è una prova, poiché ci ha permesso di sviluppare un sistema abitativo ed economico-sociale stabile e stanziale. febbraio 2020 15
Inoltre, ha radicalmente modificato il rapporto tra l’uomo e l’ambiente, ponendo il primo non più in una posizione passiva di consumo delle risorse, bensì in una posizione attiva di produzione di ciò che serviva ad alimentare la popolazione e il suo sistema economico sociale (agricoltura, allevamento animale…). Il termine “nicchia ecologica” si riferisce proprio al modo in cui una specie utilizza le risorse dell’habitat in cui vive. Questo lento e continuo progredire dei sistemi produttivi ed economico- sociali, che hanno visto con la nascita dell’agricoltura una svolta decisiva per lo stile di vita di Homo Sapiens, ci ha portato ai giorni della Rivoluzione Industriale e al mondo d’oggi, dove l’utilizzo delle risorse attraverso determinati modelli produttivi ha visto una notevole accelerazione. Potremmo addirittura affermare che le prime città sorte nella Mezzaluna Fertile, Fonte: toscanachiantiambiente.it quelle che hanno dato il via a un nuovo modello di vita stanziale e di consumo delle risorse non più passivo, non siano poi così lontane, almeno in linea teorica, dalle grandi metropoli di oggi. Queste ultime, infatti, non sono altro che dei grandi centri abitativi, di lavoro e di consumo di ciò che produciamo all’interno e al di fuori di esse. Tale modello è ciò che nel X millennio a.C. ha preso vita in quelle città del Medio Oriente, seppur in versione arcaica. Ovviamente, questo ha rappresentato per l’uomo una grande conquista attraverso la quale ha potuto sostenere una progressiva crescita demografica nel corso della sua storia e un miglioramento continuo della qualità della propria vita, almeno nelle aree più sviluppate. Tale giusto orgoglio per aver raggiunto uno sviluppo sociale, economico e culturale senza precedenti, non deve però esimerci dal guardare l’altro lato della medaglia, che ci pone di fronte all’evidenza di alcune ferite di cui non possiamo non prenderci cura, e che vede l’ambiente e tutte le sue componenti soffrire particolarmente. Una nuova consapevolezza come antidoto all’indifferenza Come dunque prendersi cura del mondo? Il cambiamento dev’essere innanzitutto umano, ancor prima che tecnico. Tutta l’enciclica di papa Francesco porta con sé un unico invito, che potremmo riassumere nella frase: “un’ecologia integrale è fatta anche di semplici gesti quotidiani nei quali spezziamo la logica della violenza, dello sfruttamento, dell’egoismo” (Laudato Si’, 230). Ripensare il nostro rapporto con l’ambiente non comporta dunque la condanna del progresso tecnico e scientifico così incredibilmente conquistato dall’uomo, bensì la sua rilettura in chiave umana e per il bene dell’uomo stesso. Nelle parole del Papa si esprime una grande fiducia nell’agire umano, così che possa orientare la tecnica a favore del proprio bene e in contrasto alle ingiustizie e all’iniquità. Ciò che è in gioco è un radicale cambiamento antropologico che ci interpella come singoli e come comunità, senza che queste due possano essere slegate. febbraio 2020 16
Una nuova consapevolezza dell’uomo, del proprio essere-nel-mondo e del suo esserne inevitabilmente legato, interpella innanzitutto il cambiamento personale di ognuno di noi. Se ciò non avviene, la cura per il pianeta e per noi stessi rimane solamente una regola imposta, magari efficace nei risultati ma sempre a rischio di rottura in quanto posta come un vincolo incompreso. Raggiungere questa consapevolezza è fondamentale e rappresenta l’antidoto ad una circolarità viziosa per la quale si trovano soluzioni ai problemi di oggi senza però intervenire alla radice di ciò che li ha causati, rischiando dunque di ritrovarsi con le stesse urgenze senza le soluzioni più adeguate. Sarebbe come sottoporre un paziente ad una lavanda gastrica dovuta alla esagerata assunzione di alcool senza spiegargli che essa è stata causata proprio da una cattiva abitudine del bere in maniera esagerata. Quella persona continuerebbe ad abusare di alcool senza realmente rendersi conto di come ciò sia nocivo per la sua salute. Non si tratta di criticare chi si gode un buon bicchiere di vino, bensì chi ne assume una quantità spropositata creando danno a sé e agli altri. Tali evidenze ci pongono di fronte a scelte da prendere e alla necessità di un radicale cambiamento del modo in cui usiamo le risorse e del mondo, e di come lo concepiamo. Come ancora una volta ci ricorda il Papa, la resistenza ad attuare un cambiamento reale nei nostri usi e consumi va “dalla negazione del problema, all’indifferenza, alla rassegnazione comoda, o alla fiducia cieca nelle soluzioni tecniche”. Necessariamente, ad una presa di consapevolezza come quella che abbiamo descritto deve seguire un agire. Hannah Arendt (nella foto), nel suo capolavoro Vita Activa, ci insegna che “agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono, rivelano attivamente l’unicità della loro identità”. Capiamo dunque che per l’uomo la parola e l’azione sono fondativi delle relazioni e del rapporto con l’ambiente in cui si muovono. L’agire come atto rivelativo dell’identità dell’uomo e come espressione della sua libertà dimostra che non vi sono processi irreversibili e che ogni cosa che si comincia può essere ripensata, modificata, riguadagnata. Ciò dev’essere vero anche per le nostre attività economico-produttive, le quali non vanno negate Fonte: information.dk nella loro importanza e irrinunciabilità per la nostra sussistenza, ma vanno ripensate nel loro significato più originario al di fuori delle logiche di egoismo, violenza ed indifferenza. Questo è lo spirito di ciò che troviamo nel rapporto Brundtland del 1987 a cura della Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo, dove lo sviluppo sostenibile viene definito come “lo sviluppo che è in grado di soddisfare i bisogni della generazione presente, senza compromettere la possibilità che le generazioni future riescano a soddisfare i propri”. Qui si mostra evidente un approccio che non vuole attentare alla centralità dell’uomo nella scena mondiale, bensì inserirlo in una dimensione che vada aldilà dell’immediato presente e che sappia essere lungimirante, inclusiva e rispettosa per le generazioni che verranno ma anche per noi che viviamo questo tempo. febbraio 2020 17
Mettersi al centro. Ma quale centro? L’epoca che stiamo vivendo è stata definita “antropocene”. È l’epoca in cui l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, viene fortemente condizionato su scala sia locale sia globale dagli effetti dell’azione umana, con particolare riferimento all’aumento delle concentrazioni di CO2 e CH4 nell’atmosfera (Treccani). Possiamo trarre alcune considerazioni antropologiche che, come già accennato prima, interrogano il ruolo che ci siamo guadagnati nella piramide ambientale da circa 11 mila anni fa fino ad oggi. Se i nostri sistemi produttivi e di consumo ci hanno portato ad un punto in cui iniziamo a renderci conto che il confine del limite non può più essere spostato tanto in là, forse conviene ripensare il nostro posizionamento all’interno della scala gerarchica ambientale. Non si tratta di negare la centralità dell’uomo, bensì di riaffermarla in maniera generativa. Ed è in questa svolta che la filosofia può giocare un ruolo di grande utilità nella comprensione della nostra storia, della nostra evoluzione e del rapporto con l’ambiente. Essa ci aiuta a riflettere su questi elementi in una relazione di senso ed a riposizionarci nel mondo in maniera equilibrata. Come fare ciò? Innanzitutto, il cambiamento deve partire da ognuno di noi e, di certo, le parole del Papa e l’evento di Assisi 2020 sono un’occasione di riflessione. Ci guidano in questo percorso di rigenerazione e rinnovamento dei nostri usi e consumi e del nostro concepirci come uomini all’interno di un mondo che ci è stato donato e che abbiamo il dovere di preservare prendendocene cura. Soltanto maturando questa consapevolezza di comunione con l’ambiente in cui viviamo possiamo abbandonare la logica dell’egoismo, dell’indifferenza e del consumo sfrenato, per poterci mettere davvero al centro, non in modo autoritario, Fonte: asianews.it bensì in maniera rispettosa, inclusiva e conveniente soprattutto per noi stessi. Questa è la narrazione che va raccontata e che deve ispirare le nostre azioni a livello sia personale che comunitario. * Studente di Scienze Filosofiche alla Statale di Milano, membro di Connessioni (www.pensarepoliticamente.net) tommaso.galeotto@gmail.com febbraio 2020 18
santa sede “AMAZZONIZZARE” IL MONDO E LA CHIESA L’IMPEGNO MISSIONARIO DEI frati minori CONVENTUALI UNA CHIAVE DI LETTURA DELL’ESORTAZIONE QUERIDA AMAZONIA di Paolo Fiasconaro* “Ascoltare il grido dell’Amazzonia” è la chiave di lettura di questa “lettera d’amore per la cara Amazzonia” di papa Francesco inviata a tutti gli uomini di buona volontà. Una lettura attuale e sapienziale che vede una Chiesa dal volto amazzonico chiamata a riflettere sul suo splendore e la sua bellezza, ma anche sul dramma di quelle popolazioni. Lo sguardo amorevole del Papa su questa terra, che vive profonde contraddizioni, vuole aiutare i credenti e non a entrare nell’ottica di una ecologia umana che tenga conto dei poveri, ne valorizzi le culture e ne salvaguardi la crescita in termini ecclesiali e sociali. Papa Bergoglio, per far comprendere la dimensione variegata e nello stesso tempo difficile di quella porzione del pianeta, usa la categoria dei “sogni” e nelle articolazioni dell’Esortazione Apostolica, divisa in quattro capitoli e 111 articoli, lancia una sfida alla Chiesa e al mondo intero affinché si trovino vie e strategie operative nuove per evangelizzare quella terra con tanti mali e problemi da risolvere. Nei quattro sogni il Papa sente forte il desiderio di un cambiamento radicale e culturale affinché il mondo intero contribuisca a dare risposte concrete a tante popolazioni, con le varie etnie, tribù e culture da promuovere e Fonte: avvenire.it valorizzare nel loro cammino di crescita. Questi i quattro sogni di papa Bergoglio che devono essere anche i sogni di noi Frati Minori Conventuali che operiamo in quelle terre: il sogno sociale, il sogno culturale, il sogno ecologico e il sogno ecclesiale. “Sogno un’Amazzonia che lotti per i diritti dei più poveri, dei popoli originari, degli ultimi, dove la loro voce sia ascoltata e la loro dignità sia promossa. Sogno un’Amazzonia che difenda la ricchezza culturale che la distingue, dove risplende in forme tanto varie la bellezza umana. febbraio 2020 19
Sogno un’Amazzonia che custodisca gelosamente l’irresistibile bellezza naturale che l’adorna, la vita traboccante che riempie i suoi fiumi e le sue foreste. Sogno comunità cristiane capaci di impegnarsi e di incarnarsi in Amazzonia, fino al punto di donare alla Chiesa nuovi volti con tratti amazzonici”. Papa Francesco, che ha voluto indire un Sinodo dei Vescovi per affrontare e cercare di risolvere i grandi mali di quella popolazione, nell’Esortazione elenca i “sogni” come stimolo per tradurre nel vissuto della Chiesa e della società amazzonica le istanze di una terra martoriata e indifesa. La sollecitudine apostolica anche degli ultimi papi certamente sta contribuendo a cambiare il volto della Chiesa in continua tensione missionaria. 100 anni di impegno missionario dei Frati Minori Conventuali Querida Amazonia vuole essere la risposta di noi Frati Minori Conventuali ed è una preziosa occasione per risvegliare la nostra identità missionaria. Il nostro Ordine si pone in direzione di un impegno più concreto per risvegliare maggiormente quella fedeltà al Vangelo e attuare l’invito di san Francesco d’Assisi “Va’ e ripara…” seguendo anche l’invito di papa Francesco che sta cambiando il volto della Chiesa con una missionarietà a 360 gradi. È testimonianza di questo appello il cammino missionario che ha caratterizzato il nostro Ordine privilegiando la “missione” presente nel DNA del nostro carisma. Volendo fare un viaggio nel percorso missionario dell’Ordine, ci riferiamo al primo ventennio del secolo scorso, quando Pio XI (nella foto) invitò gli Ordini religiosi ad aprirsi verso le missioni in terre lontane. Fu il Ministro Generale p. Alfonso Orlini che, nel Capitolo Generale del 1924, invitò i frati a rispondere all’appello del Papa. Era un momento difficile per l’Ordine a causa dell’azzeramento dei conventi e dei frati per la soppressione dei beni ecclesiastici e in quel momento l’unico problema era l’impulso vocazionale. Ma alcuni ministri provinciali italiani (Sardegna, Sicilia e Toscana) accettarono Fonte: lastampa.it la sfida e nel 1925 partirono i primi otto frati per evangelizzare la Cina (leggi qui l’articolo “Pio XI e il rinnovato spirito missionario”, in SBi n.80 - settembre 2019, pag. 18, ndr). Fu il gesto profetico che aprì la missionarietà del nostro Ordine e da quel momento iniziò la fioritura missionaria con la consapevolezza di fare della “missione” il cuore della nostra identità e rinnovando ogni giorno l’entusiasmo e la passione missionaria assieme ai laici. Questo cammino continuò con il polacco san Massimiliano Kolbe nel 1930 in Giappone e con il marchigiano p. Francesco Mazzieri nel 1931 in Zambia. Negli anni ‘70/’80 con l’impulso missionario dei Ministri generali Vitale Bommarco e Lanfranco Serrini si aprì la stagione della presenza dei Frati Minori Conventuali nei cinque continenti. Oggi il seme gettato in quegli anni ha prodotto frutti abbondanti e con la grazia di Dio e la protezione di san Francesco, missionario della prima ora, siamo presenti in quaranta nazioni del mondo con seicento Comunità sparse in diversi luoghi missionari. febbraio 2020 20
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