Raffaello Castellano - L'editoriale di Raffaello Castellano,Vaccini ...

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Il Natale che verrà 2021 - L’editoriale di
Raffaello Castellano
Rimango sempre affascinato da come il cinema (ma vale per
l’arte in generale) riesca ad anticipare gli scenari, le
complessità e spesso le inquietudini di un’epoca.

Anzi, probabilmente è questo il suo scopo principale, se dobbiamo credere a ciò che diceva il grande
drammaturgo francese Antonin Artaud quando icasticamente affermava:

               L’arte ha il dovere sociale di dare sfogo alle angosce della propria epoca.

La citazione di Artaud mi è tornata in mente quando sabato scorso, contemporaneamente alla
divulgazione mondiale della notizia della scoperta in Sudafrica della variante “Omicron” del
Covid19, su Rai Storia (Canale 54 del digitale terrestre) è stato trasmesso il film Omicron del 1963
di Ugo Gregoretti con uno spumeggiante e surreale Renato Salvatori.

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Omicron di Ugo Gregoretti, con l’attore Renato Salvatori.

Ora, io non so quanto l’operazione sia stata furba e programmata o fosse dovuta al caso, visto che i
palinsesti, soprattutto quelli dei canali tematici, sono decisi settimane prima, fatto sta che il film
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andato in onda alle 17:00 sembrava per titolo, assonanza, storia narrata perfetto per dare sfogo alle
nostre nuove inquietudini sulla pandemia, che oramai, da più di una anno e 10 mesi, ha fatto la sua
comparsa nelle nostre vite.

Il film di Gregoretti è in realtà un perfetto esempio di cinema militante (siamo negli anni ‘60 del
secolo scorso) mascherato da satira politica e di costume in una veste fantascientifica, ma le
similitudini con il virus e la sua azione sono molte. Infatti Omicron è un viaggiatore interstellare,
mandato sulla Terra dal pianeta Ultra per conoscere gli umani e preparare un’invasione. È un alieno
incorporeo che prende possesso del protagonista, l’operaio Angelo Trabucco (Renato Salvatori),
condizionandone comportamento ed abitudini. Il film scorre allegramente verso un finale che non
voglio svelarvi per non togliervi il gusto di recuperarlo, ma una cosa voglio dirla: sarà la presa di
“coscienza” dell’operaio che alla fine darà filo da torcere all’invasione aliena, ed anche questa mi
pare un’ottima similitudine con l’invasione da Coronavirus.

Anche noi dobbiamo “prendere coscienza”: se vogliamo sconfiggere questa pandemia globale
dobbiamo pensare ed agire globalmente, dobbiamo renderci conto che non serve a nulla vaccinare
con 3 dosi l’Europa e l’occidente, se una nazione come l’India o continenti come l’Africa hanno
bassissimi livelli di vaccinati. Il virus non muterà lì dove troverà la barriera dei vaccino , ma lì dove
gli ultimi della Terra sono dimenticati; muterà lì e poi arriverà da noi attraverso un aereo, magari
trasportato in business class all’interno di un imprenditore, oppure attraversando il Mediterraneo a
bordo di un gommone o valicando le frontiere via terra all’interno di un profugo.

Solo una presa di coscienza collettiva e globale ci consentirà, come nel film di Gregoretti, di
contrastare l’alieno/virus Omicron. Altra strada non c’è, se mai sconfiggeremo questa o le future
pandemie lo faremo come umanità, non come singoli o nazioni.
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Smart Marketing realizzata dall’artista Ajnos (al secolo Sonja Fersini).
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Il Natale che verrà, mai come quest’anno, ci vede davanti ad una scelta ineludibile: dobbiamo non
solo tenere al prossimo, ma se possibile amarlo, sostenerlo e curarlo, perchè solo curando il nostro
prossimo, chiunque esso sia, qualunque colore abbia, da dovunque provenga, solo così, aiutando lui
aiuteremo noi stessi.

Prima di lasciarvi, fatemi tornare per un momento alla funzione catartica dell’arte cui accennavo
all’inizio del mio editoriale, parlando brevemente della bella Copertina d’Artista di questo numero:
l’ha realizzata un’artista straordinaria, Ajnos (al secolo Sonja Fersini), durante la prima fase del
lockdown, e la sua guerriera dai grandi occhi, benché trafitta da una grossa freccia, ha tatuato sul
viso la scritta “I’m Fine Thanks” (Sto bene, grazie), un messaggio che vuole tranquillizzarci, ma
non ci deve deresponsabilizzare, perchè spesso e volentieri è proprio chi non ci chiede aiuto, o pare
non averne bisogno, che necessita del nostro altruismo, della nostra solidarietà, del nostro sostegno.

              Scopri il nuovo numero: “Il Natale che verrà”
   Che Natale sarà? Senza fare giri di parole, sarà un Natale “nuovo”. Nuovo perché, dopo due anni
    di pandemia, siamo noi ad essere persone nuove. Persone con nuovi bisogni, nuovi desideri e
                                            nuovi pensieri.

L’augurio di quest’anno è come quello degli anni scorsi, ma ancora più urgente: aiutate il prossimo,
regalategli un momento di felicità, sarà questo il regalo più grande che farete a voi stessi.

In più quest’anno aggiungo un’ultima raccomandazione, vaccinate voi stessi e i vostri cari e, dopo,
aiutate, come potete, gli altri, gli indecisi, i poveri, gli ultimi, ricordando le parole immortali
dell’imperatore Marco Aurelio:

                    Quello che non è utile allo sciame non è utile nemmeno all’ape.

Buona lettura e Buon Natale a tutti.

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Vaccini: sperimentazione o prevenzione?
Dopo il boom, infondato, dei vaccini che provocano l’autismo ora, in epoca di COVID, altri miti
aleggiano con forza ovunque, soprattutto sui social e, cosa grave,vengono condivisi come delle verità
scontate senza che abbiano il minimo fondamento. Ovviamente ancora una volta al centro
dell’attenzione generale ci sono i vaccini anti COVID.

Tutto ciò che di negativo si possa affermare su questi vaccini è anche utilizzato come baluardo
contro ogni argomentazione orientata a far aderire la popolazione adulta a campagne vaccinali onde
evitare l’infezione o meglio i sintomi più gravi di quest’ultima.

Ed è proprio di questo che discutiamo con la dottoressa Graziella Morace, virologa ed esperta di
vaccini, già Primo ricercatore dell’Istituto Superiore di Sanità, con la quale esaminiamo punto per
punto ogni mito legato alla pericolosità dei vaccini e alla loro utilità.

Ciò che aleggia con forza sui social è la questione del cosiddetto siero sperimentale, ossia
sono così definiti i vaccini che oggi si stanno utilizzando per la prevenzione della COVID.
Perché vengono definiti tali e cosa c’è di scorretto in questo?

Per prima cosa vorrei chiarire che siero e vaccino non sono sinonimi, ma sono due cose diverse. Il
siero è la componente liquida del sangue e come tale può contenere anticorpi e può essere usato per
trasferire passivamente l’immunità verso un dato microrganismo da una persona immune ad una non
immune. Somministrando un vaccino, invece, il sistema immunitario del ricevente è sollecitato a
produrre autonomamente una risposta.

Per tornare alla domanda, i vaccini anti COVID attualmente utilizzati non sono vaccini sperimentali,
ma prima di essere messi in commercio sono stati testati secondo i protocolli internazionali stabiliti
per ogni vaccino per uso umano.

Tra i tanti timori di cui si discute c’è che i vaccini anti COVID siano stati elaborati troppo
in fretta rispetto agli altri vaccini esistenti e questo li rende meno sicuri. Come stanno
davvero le cose?

Effettivamente lo sviluppo dei vaccini antiCovid è stato molto veloce, tuttavia non è stata saltata
alcuna tappa nel controllo della loro sicurezza e non è stato fatto nessuno “sconto” da parte delle
Autorità regolatorie.Come per tutti i vaccini, le prove sull’uomo sono state precedute da studi in
vitro e sugli animali, poi i candidati vaccini sono stati testati per la sicurezza e l’immunogenicità su
volontari in diverse tappe, partendo da poche decine di persone per arrivare a decine di migliaia.
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L’accelerazione è stata possibile grazie ad anni di ricerche su virus simili e sullo sviluppo di metodi
più rapidi per produrre vaccini; sono stati inoltre stanziati enormi finanziamenti che hanno
consentito alle aziende di acquistare le strumentazioni più all’avanguardia e di arruolare gli
scienziati più validi; inoltre data l’elevata circolazione del virus, la disponibilità continua di persone
esposte all’infezione ha permesso di avere rapidamente risultati sull’efficacia dei vaccini e non è
stato necessario aspettare molto tempo, come avviene invece di solito. Infine, le Autorità regolatorie
sono intervenute più rapidamente, analizzando i dati man mano che venivano prodotti, risparmiando
così ulteriore tempo.

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, protagonista dell’intervista di Armando De Vincentiis.

Siamo davvero ancora sotto sperimentazione? Sui social circola l’idea che la fase di
sperimentazione dei vaccini non sia finita e che la popolazione stia facendo da cavia allo
scopo di completare questa fase. in che modo rassicurare la gente che le cose, in realtà,
non stanno così?

Per ogni farmaco e vaccino dopo la commercializzazione viene svolta un’attività di controllo
permanente, chiamata farmacovigilanza che permette, in particolare, di identificare potenziali eventi
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avversi rarissimi, che si possono verificare in pochissimi casi su milioni di vaccinati. Purtroppo nel
caso dei vaccini antiCovid la parola farmacovigilanza ha alimentato in molti l’idea che questa attività
sia una fase di sperimentazione in cui la popolazione viene coinvolta e utilizzata come cavia.
Naturalmente non è così, perché si tratta di una attività di routine che viene svolta costantemente,
anche per vaccini ormai in circolazione da anni come,ad esempio, quello antimorbillo e quello
antiparotite.

Modifiche al DNA ed effetti incontrollabili a lungo termine sono altre argomentazioni di
chi teme di sottoporsi alla campagna di prevenzione della Covid. Da dove nascono questi
timori e perché non prenderli in considerazione?

Alcuni temono che i vaccini ad mRNA contro la Covid siano “una terapia genica sperimentale”. In
realtà una terapia genica è un processo con cui del materiale genetico (DNA o RNA) viene inserito
all’interno delle cellule per consentire di curare una malattia senza intervenire con farmaci o
interventi chirurgici. I vaccini contro la Covid-19, invece, non modificano il DNA delle persone,
perché l’mRNA dei vaccini rimane per brevissimo tempo nel citoplasma della cellula e non entra nel
nucleo cellulare, perciò non interagisce con il DNA.

Tutte le prove disponibili sono a favore della sicurezza dei vaccini antiCOVID, anche a lungo
termine. Al contrario, si stanno accumulando sempre più prove che mostrano come la Covid sia una
patologia multiorgano che può lasciare effetti a lungo termine, la cosiddetta Long Covid. Numerose
persone, anche tra quelle che hanno avuto la malattia in forma lieve, presentano problemi a livello
fisico (dolori muscolari e articolari e affaticamento), neurologico (difficoltà di concentrazione e
attenzione, perdita di memoria, mal di testa, insonnia) e psichiatrico (sindrome da stress
traumatico),per oltre 6-8 mesi dalla negativizzazione.

Da quando si parla di varianti sui media è nata l’idea che sia proprio la campagna vaccinale
a favorirne la nascita, come una sorta di tentativo del virus di sopravvivere ai vaccini.
Funziona davvero così?

Il concetto che i vaccini inducano il sorgere di varianti virali nella popolazione di SARS-CoV-2 è privo
di fondamento. In realtà, invece, le varianti virali capaci di sfuggire alla risposta immunitaria sono
selezionate proprio dalla pressione del sistema immunitario sul virus. Infatti quando il virus della
Covid si replica all’interno di una cellula, ogni volta che viene generata una nuova copia del suo RNA
c’è la possibilità che si verifichi casualmente un errore, ovvero una mutazione. Le mutazioni casuali
che danno alla variante virale maggiori probabilità di resistere all’attacco del sistema immunitario
prendono il sopravvento sulle altre.

Non c’è differenza tra l’immunità indotta da un vaccino e quella successiva all’infezione, quindi
anche se non vaccinassimo emergerebbero comunque nuove varianti.La grande differenza è invece
che, lasciando il virus libero di circolare, la comparsa di ogni nuova variante avrebbe come
conseguenza un numero elevato di malati gravi e morti.
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ozes da Pixabay.

Si afferma che molti vaccinati stiano risultando positivi al COVID e che questo renda inutili
i vaccini. Facciamo chiarezza tra infezione e gravità dei sintomi della malattia e l’azione
dei vaccini su quest’ultima?

Nonostante nei Paesi dove i vaccini anti Covid sono stati somministrati su larga scala il numero di
ospedalizzazioni e decessi sia drasticamente calato, quello che fa notizia sono le infezioni tra i
vaccinati e questo ha purtroppo il risultato di aumentare l’indecisione nelle persone.

Intanto, per cominciare, bisogna chiarire che si definisce “completamente vaccinata” una persona
che abbia ricevuto la seconda dose di vaccino (o l’unica, per Johnson & Johnson) da almeno due
settimane. Se il contagio avviene prima di questi termini, non si può parlare di “infezioni nei
vaccinati”.

Inoltre già sappiamo che la vaccinazione antiCOVID, come accade per tutte le vaccinazioni, non
protegge il 100% degli individui vaccinati. Se si effettua il ciclo vaccinale completo, protegge all’88%
dall’infezione, al 94% dal ricovero in ospedale, al 97% dal ricovero in terapia intensiva e al 96% da
un esito fatale della malattia.

Comunque la maggior parte delle infezioni tra i vaccinati è asintomatica e la carica virale (cioè,
semplificando, la quantità di virus presente nell’organismo) è molto inferiore rispetto ai non
vaccinati e quindi la probabilità di contagiare gli altri molto bassa. Le infezioni con sintomi dopo il
ciclo vaccinale completo sono molto rare.

Come sostegno alle argomentazioni antivaccino viene spesso riportata l’opinione di
qualche autorevole medico che sconsiglia il vaccino sostenendo le argomentazioni che
abbiamo discusso qui. Perché accade questo? A quali fonti fanno riferimento questi
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medici? Eccesso di precauzione? Opinione personale o studi in merito?

La diffusione di teorie complottiste da parte dei medici ha un effetto doppiamente negativo rispetto a
quelle di un complottista qualunque, perché un’affermazione fatta da persone che sono ritenute
esperte nel campo ha un peso non indifferente sull’opinione pubblica.

Perché vi siano alcuni medici che diffondono false informazioni sul virus e sul vaccino è una
domanda a cui non è facile rispondere.

Immagino che in alcuni casi si tratti semplicemente di presunzione (grave, perché mette a rischio la
salute pubblica) o di mania di protagonismo: per il solo fatto di essere un medico, si pensa di poter di
padroneggiare tutte le branche della medicina e della biologia, non considerando che la virologia e
l’immunologia sono due campi in continua evoluzione e non basta un’infarinatura per poterne
discutere con competenza. Anche l’epidemiologia è una materia che non viene generalmente molto
approfondita nel curriculum di studi di un medico.

In altri casi potrebbe darsi che un medico che non sa abbastanza di virologia e immunologia provi
ansia verso i vaccini come qualsiasi altra persona e per questo motivo tenda a sconsigliarli ai
pazienti, per eccesso di precauzione.

Purtroppo esistono anche alcuni casi vergognosi di medici che sconsigliano i vaccini allo scopo di
guadagnare, proponendo cure e trattamenti alternativi, non curandosi di mettere in pericolo la
salute di coloro che seguono i loro suggerimenti.

  Graziella Morce è laureata in scienze biologiche e specializzata in virologia. Ha svolto la
  sua attività lavorativa come Primo ricercatore dell’Istituto Superiore di Sanità studiando
  la biologia molecolare dei virus. Inoltre, per più di dieci anni si è occupata della
  valutazione della qualità e sicurezza dei vaccini per uso umano. È socio attivo del
  Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze (CICAP), per il
  quale svolge attività di divulgazione.
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L’Italia di nuovo in lockdown: l’inferno
vero è la ripetizione, l’eterno ritorno
dell’eguale
E rieccoci qua, proprio da dove eravamo partiti, dopo un anno dal primo lockdown cominciato il 9
marzo 2020, rieccoci in un gigantesco loop temporale, tornati al punto di partenza. Come ho scritto
nel mio ultimo editoriale, quello di febbraio 2021, mi sento come Bill Murray nel film “Ricomincio
da capo” (Groundhog Day) del 1993, diretto da Harold Ramis, o, se preferite il cinema italiano,
come Antonio Albanese nel remake del film di Ramis, “È già ieri” del 2004, diretto da Giulio
Manfredonia. Sarà che in entrambi i film il protagonista è un giornalista, il mio processo di
identificazione è ancora più marcato.

Da lunedì 15 marzo gran parte dell’Italia, compresa la mia regione, la Puglia, saranno “Zona
Rossa”, con pesanti limitazioni alla circolazione e alle libertà personali. Dopo 1 anno e 6 giorni,
nulla è cambiato, se non il fatto che sono arrivati i vaccini, ben 4, contando l’approvazione da
parte dell’EMA per il vaccino monodose della Johnson & Johnson.

Cosa faremo in questo nuovo lockdown?
Canteremo dai balconi?

Disegneremo cartelloni con le scritte: Tutto andrà bene?

Faremo lunghi applausi a medici ed infermieri?

No, non credo che questa volta lo faremo.
Quando l’Italia decise di adottare per prima a livello europeo le stringenti misure del lockdown,
fummo lodati a livello internazionale, in primis dall’OMS, anche se recenti studi scientifici, inchieste
e processi nella gestione dell’emergenza sanitaria, soprattutto in Lombardia, stanno rivelando che
forse le misure dovevano essere adottate già da fine febbraio 2020; comunque sia, sembrava che
l’Italia a guida Conte, ma soprattutto noi Italiani, stessimo facendo i passi giusti e nella giusta
direzione.
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A guidarci, a farci rispettare le regole fu soprattutto la paura, che in caso di epidemie è sicuramente
un’ottima consigliera.

Ma poi il primo lockdown è finito e con l’Inizio della cosiddetta “Fase 2” si è aperto tutto, e dal 4
maggio abbiamo assistito al “liberi tutti”: gli assembramenti sono diventati la regola. Eppure la
stragrande maggioranza dei medici, virologhi ed epidemiologhi ci aveva avvertito che il virus
circolava ancora, che le regole di distanziamento sociale, igiene, prevenzione e precauzione
vigevano ancora e che avremmo dovuto affrontare una primavera inoltrata e, soprattutto, un’estate
con senso di responsabilità.

Ma noi abbiamo preferito ascoltare quei due, tre medici al massimo, che invece dicevano il
contrario, che ormai il virus era sconfitto o, come ha fatto Zangrillo, che il virus era “clinicamente
morto”.

Già, “clinicamente morto”, come se questa affermazione fosse rivolta ad una platea di medici e
addetti ai lavori e non, come invece è stato, ad un pubblico indistinto, per cultura ed istruzione, che
ovviamente ha pensato – semplicemente – che il pericolo fosse scampato. Il tutto ovviamente in
barba alle più elementari regole della comunicazione, che, come ci ricordano Paul Watzlawick e la
Scuola di Palo Alto, agisce sempre su due piani: un piano del contenuto, ossia “ciò che diciamo”,
ed un piano della relazione (la maniera, il modo, il tempo e le modalità), ossia il “come lo
diciamo”, e che nella comunicazione umana il piano della relazione è non solo prevalente, ma
condiziona pesantemente anche la maniera in cui “comprendiamo” il piano del contenuto. Zangrillo
e gli altri sparuti medici del liberi tutti – ignorando la dinamica della comunicazione umana – hanno
fornito una scusa a tutti quegli Italiani, la maggior parte, che non vedeva l’ora di uscire da due mesi
di isolamento per poter godere nuovamente della propria libertà.

All’inizio, complice la bella stagione e il fatto che all’aperto il virus, effettivamente, circolasse meno,
sembrava davvero che tutto fosse passato, che il Coronavirus fosse ormai sconfitto, ma i contagi non
si sono mai fermati, il virus ha continuato a circolare e ad evolversi, e con l’arrivo del primo freddo
abbiamo assistito alla cosiddetta “2° ondata” che, in realtà e con il senno di poi, era molto più
probabilmente il riacuirsi della 1°.

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E tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre la nostra vita è diventata a colori come l’Italia, con zone
rosse, arancioni e gialle che abbiamo cominciato a subire, ma non a capire del tutto, e le nostre vite,
benché l’Italia fosse tutta a colori, è diventata grigia ed in qualche caso nera. La seconda ondata è
stata peggiore della prima, e in molti si sono ammalati, tutta l’Europa è diventata uno dei punti più
caldi della pandemia.

La cosa peggiore è che il virus durante l’estate non solo ha continuato a diffondersi, ma, come
abbiamo scoperto, si è evoluto, è mutato, imparando a sfruttare tutte le debolezze dell’uomo. La
variante inglese del Coronavirus, identificata da uno studio dell’Università di Bologna, già ad
ottobre dell’anno scorso, ha, secondo l’ISS, una trasmissibilità superiore del 37% rispetto al ceppo
originario, ma alcuni studi, meno ottimistici, dicono anche del 70%.

Il nostro Natale è stato quantomeno anomalo, blindato nelle nostre abitazioni, abbiamo riscoperto
una festività, anzi la festività per antonomasia, circondati dal calore familiare, e questo è stata una
cosa buona. Certo il commercio ne ha risentito, per non parlare dei settori della ristorazione ed
alberghiero, che continuano a soffrire come pochi altri in Italia.

Ridendo e scherzando dopo l’Epifania, siamo tornati tutti gialli per una manciata di giorni e poi di
nuovo nelle fasce colorate che i nostri indici di contagio, ricovero e morte ci consentivano. L’arrivo
dei vaccini, dal 27 dicembre, ha rappresentato il vero regalo della scienza a tutti noi. Ma intanto
alla paura si sono sostituite altre emozioni, per prima ha fatto capolino la rassegnazione, che come
un subdolo alfiere ha aperto la strada alla negazione ed al menefreghismo, che sono diventati i
veri e migliori vettori del virus.

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In tutta questa confusione, non ci siamo fatti mancare niente, neanche una crisi di governo, ed allora
l’incertezza e lo spaesamento si sono andati ad aggiungere a negazione e menefreghismo, e
tutti insieme, al pari dei quattro cavalieri dell’Apocalisse, hanno portato morte e devastazione
un po’ ovunque nel nostro Paese, anche in quelle zone, come il sud Italia, che erano state in parte
risparmiate dalla prima ondata.

Ed eccoci qui, mentre scrivo questo articolo, in questa domenica 14 marzo, alla vigilia di un
nuovo lockdown, con molti rimpianti, tante speranze di miglioramento disilluse, di nuovo alle prese
con una forte limitazione delle nostre libertà personali e con la consapevolezza che “tutto è andato
male”, che a migliorare, cambiare ed evolvere è stato solo il Coronavirus e che noi, tutti noi, non solo
i nostri politici, i medici negazionisti, i novax, i complottisti, tutti noi siamo regrediti ed involuti, e
che se adesso andiamo alla ricerca di un colpevole, non resta che guardarci allo specchio. Perché il
coronavirus aveva bisogno del nostro aiuto per diffondersi in questa maniera e noi, chi più chi meno,
glielo abbiamo dato e con un inconsapevole entusiasmo.

Dopo un anno di restrizioni, tornare al punto di partenza è la dimostrazione lampante del fallimento
come singoli, come comunità e come Paese. Avremmo dovuto “capitalizzare” il vantaggio che
avevamo accumulato dopo il primo lockdown, invece in poco più di quattro mesi lo abbiamo
totalmente dissipato, ci siamo comportati come quei giovani sprovveduti rampolli che, avendo
ricevuto in dote una grossa eredità, la spendono senza ritegno e da un giorno all’altro si ritrovano
più poveri di prima, se non addirittura con i debiti.

Personalmente ho cercato – non sempre riuscendoci – di rispettare le regole, ho cercato di fare del
mio meglio per essere parte della soluzione e non parte del problema, ma non è servito a nulla,
perché dopo un anno rieccomi qua come un criceto sulla sua ruota, in questo loop infernale, con due
sole consapevolezze: la prima è quella di aver compreso finalmente il re del brivido Stephen King
quando scrisse: “Una versione dell’inferno è quella in cui sei condannato a fare sempre la
stessa cosa. […] Esiste anche l’idea che l’inferno siano gli altri. La mia è che l’inferno
potrebbe essere ripetizione”.

La seconda consapevolezza è che, nonostante tutti i miei sforzi, anche questo 4 aprile passerò il mio
48° compleanno, il secondo dopo quello dell’anno scorso, da solo in casa, lontano dagli affetti, dalla
famiglia, e senza la possibilità di offrire da bere né ad amici né a parenti.
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lm Donnie Darko, con Jake Gyllenhaal, Jena Malone ed il coniglio Frank

Il tutto con l’aggravante che quest’anno il mio compleanno, coincidendo con la Pasqua, mi sembra
ancora più beffardo, il coniglietto pasquale quest’anno mi pare avere le fattezze inquietanti del
coniglio antropomorfo Frank, che tormentava le allucinazioni di Donnie Darko (alias Jake
Gyllenhaal) nell’omonimo film del 2001 diretto da Richard Kelly. E se non vi ricordate la pellicola
o il coniglio Frank, cliccate su questo link e recuperate assolutamente il film, che merita più di una
visione.

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Clean – Tabula Rasa di Glenn Cooper
racconta la storia di un’umanità allo
sbando a causa di un virus; sembra
fantascienza, ma in realtà è cronaca
  Voglio cominciare quest’anno con un libro al mese, forse due, per raccontare chi siamo, da dove
  veniamo, dove vorremmo andare e come ci vogliamo arrivare. Perché la lettura può essere svago,
  intrattenimento, ma anche un valido esercizio per imparare a pensare e sviluppare una certa idea
  del mondo.

  Un libro al mese, in piccole schede, in poche battute, per decidere se vale la pena comprarlo e
  soprattutto leggerlo. Perché la lettura, come diceva Woody Allen, è anche un esercizio di legittima
  difesa.

È un libro disturbante l’ultimo thriller dello scrittore americano Glenn Cooper, sia per la storia che
racconta, che, uscita in pieno periodo di pandemia da Coronavirus, ha un impatto ancora più
profondo su di noi, sia anche e soprattutto perché l’essere umano che egli tratteggia è davvero
spaventoso: meschino, fanatico, spietato e orribile come solo la realtà, quando viene trasfigurata
dalla letteratura, può essere.

Tutto in questo romanzo muove contro la nostra volontà di leggerlo, lo fa la trama che, parlando di
un virus e di una pandemia, ci tocca nel vivo e ci sembra ancora più verosimile di quanto non sia, lo
fanno i personaggi, soprattutto i cattivi che, sebbene vengano descritti con i “caratteri” tipici dei
fanatici fondamentalisti di una certa America, ci nauseano e fanno inorridire per la loro totale
mancanza di empatia, umanità e misericordia, risaltando per la loro spregevole somiglianza con i
gerarchi nazisti di ben altra storia ed autentico orrore.
Clean – Tabula Rasa

  Autore: Glenn Cooper

  Editore: Nord

  Anno: 9 luglio 2020

  Pagine:544

  Isbn: 9788842929154

  Prezzo: € 20,00

Ma la cosa che più di tutte rema contro la nostra voglia di leggere il libro, ed insieme fa sì che non
riusciamo a posarlo, divorando letteralmente le sue pagine, è che in quella oscurità che tutto avvolge
e opprime lo scrittore dissemina uno sparuto gruppetto di personaggi, di uomini, ma soprattutto
donne, forti e determinati a non perdere la loro umanità ed a lottare non solo per la salute e la
sopravvivenza delle loro famiglie, ma dell’intero genere umano. Piccole candele che brillano nell’ora
più buia dell’umanità.

Leggiamo il libro con avidità, quasi frenesia, alla ricerca disperata di un happy end, che assolva la
pessima umanità che Glenn Cooper racconta e forse anche noi lettori, che più di una volta non
possiamo fare a meno di riconoscerci in essa. Per il resto è il classico libro di Cooper, scritto, si vede,
dopo una lunga ed approfondita ricerca e condito dalla cultura enciclopedica di questo autore che,
ricordiamolo, è stato sceneggiatore, produttore cinematografico, dirigente d’azienda e anche
medico. È soprattutto il medico Glenn Cooper che emerge dalle dettagliate descrizioni dei processi
virologici e genetici raccontate nel romanzo. Un’esperienza ricchissima che risalta in ogni riga di
questo libro che, a dispetto delle 540 pagine, si legge tutto d’un fiato.

Perché dovremmo leggere Clean – Tabula Rasa di Glenn Cooper?

Perché la letteratura che, alle volte, ci sembra inverosimile e lontana dai fatti reali della vita, spesso
e volentieri si dimostra non solo profetica, ma anche, e questo è davvero sorprendente, meno
sconvolgente della realtà. Glenn Cooper ci parla di un’America infetta ed allo sbando, dove regna la
legge del più forte, dove gli uomini hanno scordato chi sono e danno sfogo ai loro più bassi e biechi
istinti. Sembra l’America di un ipotetico futuro dispotico, ma accidenti se assomiglia all’America
razzista, all’America di Trump, all’America di oggi. Sembra fantascienza ma, a ben vedere, è solo
cronaca.

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Turista per Covid - L’editoriale di Raffaello
Castellano
Mentre sto scrivendo questo editoriale, 29 agosto, il bollettino
dei contagi ci dice che in Italia ci sono 1444 nuovi contagi a
fronte di una cifra record di tamponi effettuati, quasi 100 mila,
99.108 per la precisione. Molti di questi casi sono riconducibili
a persone che rientrano da zone a rischio come la Spagna, la
Francia, ma pure la Sardegna, dimostrando ancora una volta
che il virus continua a circolare sia dentro che fuori le nostre
mura.

Questa strana estate italiana, spaccata in due sia dal meteo che dai contagi, si appresta a finire, fra
oggi e domani ci saranno la maggior parte dei rientri dalle vacanze e questo weekend di fine agosto
sarà l’ultimo da bollino rosso.

Ma che estate è stata, o sarà per chi andrà in vacanza a settembre???
Difficile dirlo, come al solito la politica italiana si è distinta per la confusione normativa, complicata
dal rischio per la salute da una parte e dalle esigenze economiche dall’altra, gettando gran parte
degli Italiani nell’incertezza più totale sulle norme da rispettare.

Stato centrale, Regioni e Comuni hanno litigato quasi su tutto, cercando con le elezioni regionali ed
il referendum alle porte di “accontentare” tutti, ma, come sappiamo bene, questo non è possibile,
men che meno in un regime di emergenza come quello in cui viviamo.

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Insomma, Covid-19 a parte, potremmo dire che è la solita Italia???
Beh, forse no, questa per me è stata un’estate di lavoro “atipica”, e voglio dirvi perché: con
l’associazione di cui faccio parte abbiamo vinto un bando comunale per la gestione ed
organizzazione dei campi scuola estivi, per bambini e ragazzi dai 3 ai 14 anni. La qual cosa mi ha
costretto, oltre che a lavorare tutta l’estate, ad analisi preliminari, test sierologici, triage sanitario
quotidiano e al rispetto delle norme anti-contagio più restrittive. Eppure, nonostante tutte queste
limitazioni, il campo scuola è stato un successo, innanzitutto per i bambini che vi hanno partecipato,
costretti a mesi di internamento forzato durante il lockdown, e desiderosi di divertimento ed attività,
ma lo è stato anche per i genitori, anch’essi reduci da mesi di confinamento obbligato e stress
dovuto alla mole di lavoro che la presenza dei bambini, sempre a casa, richiedevano, fra lezioni,
compiti, cure e attenzioni continue.

Il campo scuola a cui ho partecipato e che finirà entro metà settembre è stata l’occasione di vedere
in azione quella che sarà la nuova normalità di cui tutti parlano, quella capacità di convivere e
sopravvivere con il virus onde evitare altri lockdown, che sarebbero devastanti per la nostra
economia. La mia particolare esperienza, con soggetti delicati e a rischio per definizione, mi insegna
che è sempre possibile mutare rotta, imparare nuove abitudini, acquisire nuove competenze, in una
parola “cambiare”.

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Perché è inutile, che ce lo diciamo o meno, l’unica maniera per continuare le nostre vite post-
Covid19 sarà quella di imparare a rispettare le norme anti-contagio, perché questo spillover del
Coronavirus, ci dicono gli esperti, sarà solo il primo di una lunga serie di casi che in futuro potranno
accadere.
Quindi le vacanze appena trascorse, quelle che alcuni faranno a settembre, o la ripartenza del lavoro
e della scuola saranno possibili solo e unicamente se saremo disposti tutti quanti a fare dei sacrifici,
rispettando le regole e imparando giocoforza a convivere con il virus.

Ce lo dice anche un famoso proverbio: “Se non puoi batterli, alleati con loro”, e lo ribadisce, in
un certo senso, una bellissima massima di Nietzsche: “Ciò che non ci uccide ci rende più forti”,
due suggerimenti, o auspici se volete, con cui vi voglio augurare buon rientro, buone vacanze o
buona scuola a seconda dei casi.

                                                                              Raffaello Castellano

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Coronavirus: “clinicamente inesistente” è
solo la comunicazione!
Una affermazione che ha suscitato molti dissensi sulla questione coronavirus è quella del professor
Alberto Zangrillo, Primario anestesista del S. Raffaele di Milano, che ha ribadito in più di una
intervista che il virus, responsabile dell’epidemia attualmente in corso in tutto il mondo, sarebbe
“clinicamente inesistente” ribadendo, tuttavia, che non è scomparso il virus ma la sua
manifestazione clinica.

Questo ci impone alcune riflessioni legate a quanto detto sia sotto l’aspetto comunicativo sia sotto
l’aspetto tecnico. Di questo ne parlo con il professor Francesco Galassi paleopatologo della
Flinders University e autore del saggio “Un mondo senza vaccini, la vera storia”.

https://www.youtube.com/watch?v=WCyTPbQFsd4

Domanda: Per un addetto ai lavori, o meglio chi si occupa di clinica sa perfettamente che esiste una
differenza tra infezione e manifestazione clinica della stessa. Ma affermare ad un vasto pubblico di
non addetti ai lavori che non c’è un rischio oggettivo potrebbe far passare un messaggio
completamente scorretto come pare sia successo. Se la maggior parte delle persone ha compreso
che davvero il virus sia scomparso e non la sua espressione clinica, appare ovvio che c’è stata una
comunicazione non proprio soddisfacente. Lei che ne pensa?

Risposta: Penso che il professore Zangrillo intendesse dire che nella sua casistica e in quella di
colleghi con cui è in contatto le manifestazioni più gravi del morbo siano fortemente diminuite, in
particolare in riferimento agli ingressi in terapia intensiva. La modalità comunicativa forse non è
stata delle più felici, giacché, come lei stesso ha sottolineato, pare che molti abbia compreso che è il
virus ad essere scomparso. Come sottolineato da una moltitudine di studiosi internali, la situazione
attuale non può essere definita come una di “scampato pericolo”. Occorre prestare grande
attenzione e non commettere errori. Ad ogni modo, avendo letto una successiva intervista a mezzo
stampa del succitato prof. Zangrillo, credo che alcune dichiarazioni siano state ricalibrate e che
l’accademico in questione abbia rimarcato l’importanza della prudenza e della cautela. Ormai è
inutile addentrarsi in polemiche e dietrologie, perché finiscono per avvelenare il dibattito fra
colleghi e per ridare fiato ai complottisti più radicali.

Domanda: Al di là della comunicazione, la questione legata alla manifestazione clinica ridotta del
virus sta davvero in questi termini? Ci sono persone che sono ancora ricoverate, oppure anche se
stanno assumendo le cure presso il loro domicilio hanno tuttavia sintomi significativi sovrapponibili
ad una polmonite. Quindi dire allo stato attuale “clinicamente inesistente” ha davvero un senso?

Risposta: Credo che una modificazione nella manifestazione clinica della malattia sia in parte
apprezzabile quale risultato dell’efficacia del lockdown e della migliorata gestione terapeutica dei
pazienti. Ovviamente un conto è affrontare un nemico interamente nuovo, un altro è averne fatta
esperienza. Invito tutti ad una maggiore cautela quando si fanno certe dichiarazioni e mi associo alle
posizioni di quegli scienziati che sottolineano come la dimensione clinica di questa malattia sia
ancora degna della massima attenzione, di certo NON qualcosa di “inesistente”.

                       Scopri il nuovo numero > Upgrade
   Upgrade rappresenta l’ultimo elemento di un racconto che parte a Febbraio 2020. In questi mesi
      abbiamo raccontato cosa stava succedendo (Virale), ci siamo domandati come la pandemia
      avrebbe cambiato noi stessi e l’economia (Tutto andrà bene(?)), e abbiamo offerto soluzioni
   (Reset). Con questo numero abbiamo voluto fare un passo in più: immaginare un domani diverso,
                               anche attraverso esperienze concrete.

Domanda: Sotto l’aspetto storico come si comporta una pandemia come quella che stiamo
attualmente vivendo? Alcuni virologi parlano di possibile mutazione, anche se non abbiamo ancora
prove che ci sia davvero. Lei cosa può dirci in merito?

Risposta: La mutazione in senso di una perdita di aggressività e patogenicità del virus andrà
dimostrata in laboratorio. Al momento non vi è evidenza di una siffatta modificazione, quindi si può
solo ipotizzare un futuro adattamento del virus alla nostra specie in una forma meno pericolosa per
la nostra salute. Si tratta, tuttavia, solo di ipotesi. Non è facile fare paragoni con pandemie del
passato poiché si trattava di malattia causate da agenti diversi e soprattutto manifestantesi in
condizioni sociali, ambientali e mediche troppo diverse dalle nostre. Se un raffronto va proprio fatto,
questo va fatto con malattie affini, cugine di COVID-19, come la SARS e la MERS. Della prima non si
registrano casi a partire dal 2004, anche se non è escluso che il patogeno circoli ancora a livello
animale e possa un giorno ripresentarsi. La seconda, contrariamente a quanto è stato detto da
alcuni, non è mai scomparsa e nel mese di marzo si è presentata in Arabia. Non è semplice fare
previsioni ora su di una possibile scomparsa di COVID-19, a mio avviso speculazioni senza alcun
fondamento.

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Domanda: Si afferma che il virus si adatti e che diventi meno aggressivo per poter continuare a
vivere. Ma questo può davvero accadere nell’arco di così pochi mesi?

Risposta: L’adattamento di un patogeno ad una specie è funzionale alla sua capacità di
moltiplicazione. Si intuisce come un patogeno troppo aggressivo e letale uccida troppo velocemente
il proprio ospite, perdendo quindi l’opportunità di espandersi. Un caso significativo è quello del virus
ebola, così letale ma allo stesso tempo geograficamente limitato. Ripeto, si può ragionare di
adattamenti di quel genere di SARS-CoV-2 su base teorico-speculativa, ma senza la prova molecolare
non si può andare lontano.
Scopri il Sonno della Ragione
      In questa rubrica parleremo, di volta in volta, di un argomento “caldo” della pseudoscienza,
                                 cercando di porre l’accento sui fatti.

Domanda: Ci sono evidenze che il virus stia rallentando la sua corsa, ma secondo lei questo è
dovuto ad un fattore intrinseco al virus che sta da solo perdendo potenza o è davvero il fattore
umano (contenimento, distanza sociale) che sta facendo sì che ci si infetti di meno?

Risposta: Penso la seconda opzione sia la più realistica. Si è irrisa la quarantena per la sua antichità
(già ideata nel 1377 a Ragusa in Dalmazia) e la si è definita qualcosa di inutile o grottesco. La si
sarebbe dovuta applicare invece ancora prima. Per quanto “dolorosa”, questa forma di prevenzione
non farmacologica è fondamentale perché impedisce la circolazione dei patogeni abolendo il
contatto interumano. Il fatto che qualcosa sia vetusto non implica necessariamente che sia da
buttare.

Domanda: In quale fase potremmo dire di essere davvero fuori? Può farci qualche esempio storico
significativo per meglio comprendere come funziona una epidemia e come questa si arresti?

Risposta: Saremo fuori dall’incubo quando il numero di nuovi casi sarà “trascurabile” e la diffusione
del patogeno sarà limitata e sotto controllo. Più che dichiarazioni televisive ad effetto occorrerà uno
statement ufficiale dell’OMS, supportato da evidenze inoppugnabili. Il problema COVID-19
caratterizzerà il 2020, mentre l’auspicio è quello di esserne liberati per il 2021, anche se la gestione
del problema è diversa da nazione a nazione e la mobilità dei giorni nostri potrebbe portare a nuove
diffusioni del virus. In passato le epidemie venivano dichiarate concluse o per scelta politica o
dinanzi ad una diminuzione macroscopicamente apprezzabile dei contagi e dei decessi. La fine
dell’epidemia politica non coincide però sempre con quella dell’epidemia reale e alcune scelte sono
giustificate da un calcolo del rischio e dalla necessità di evitare disastri economici e rivolte popolari.
Ne usciremo, dobbiamo essere fiduciosi, ma alle volte la fretta può essere cattiva consigliera.

Grazie professor Galassi.
Francesco Maria Galassi, medico e paleopatologo,
  originario di Santarcangelo (Rimini).

  Nel 2017 è stato inserito dalla rivista americana Forbes nella lista dei 30 scienziati under 30 più
  influenti in Europa.

  Autore di oltre 100 pubblicazioni scientifiche a 31 anni è inoltre un divulgatore scientifico e socio
  fondatore del Patto Trasversale per la Scienza.

  E’ professore associato presso la Flinders University (Australia) e direttore del FAPAB Research
  Center di Avola, in provincia di Siracusa.

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#iosuonodacasa: la musica ai tempi del
Coronavirus
La musica ai tempi del Coronavirus, è l’Inno di Mameli cantato stonando dai balconi delle abitazioni
di tutta Italia, zona protetta; la musica ai tempi del Coronavirus, è un flash mob grande quanto tutta
la nazione; la musica al tempo del Coronavirus, sono gli applausi scroscianti per fare rumore, per
farsi sentire, per affermare che ci siamo anche se le nostre strade sono deserte, i negozi chiusi e i
pochi che si arrischiano ad uscire, lo fanno con timore, certificazione, guanti e mascherine al
seguito, ormai il trend del 2020; la musica al tempo del Coronavirus, è #iosuonodacasa, hashtag
che identifica le iniziative spontanee dei tanti musicisti che in questi giorni di isolamento, hanno
deciso di intrattenere i loro fan con dei brevi concerti casalinghi mandati in diretta via social dalle
proprie case.
L’idea semplice quanto geniale, viene al direttore della testata di informazione musicale Rockol,
Franco Zanetti e poi viene raccolta e rilanciata da moltissimi siti che si occupano di musica e non
solo da quelli.

Il progetto è pensato per dare la massima visibilità a tutte le iniziative che ormai stanno sostituendo
i classici concerti dal vivo, bloccati a causa delle ordinanze varate per cercare di rallentare
l’avanzata del Covid-19, riunendole sotto l’hashtag #iosuonodacasa ma, ha anche lo scopo
benefico di raccogliere fondi da destinare alla terapia intensiva dell’Ospedale Niguarda di
Milano, in sofferenza a causa dell’aumento dei contagi.

https://www.youtube.com/watch?v=_tAaNCrKNj0

Così, i social, Facebook e Instagram, su tutti, tanto bistrattati e spesso additati come la rovina del
mondo e la disfatta dei rapporti sociali, diventano il mezzo migliore per gli artisti per interagire con i
propri fan e con quanti, ogni giorno, si collegano ai loro canali, instaurando una comunicazione che
in altre epoche non sarebbe stata possibile e che avrebbe condannato tutti all’isolamento
comunicativo, oltre che fisico.

È molto bello e fa capire molto della loro musica, vedere questi grandi artisti approcciarsi alle
dirette streaming ed ognuno lo fa con la propria cifra stilistica, mostrandosi semplicemente per
quello che è, rivelando, a volte, anche i propri timori e le proprie frustrazioni, ma sempre lanciando
un messaggio positivo e di comunanza rispetto a quello che sta accadendo a tutti indistintamente e
che, in qualche modo, sta accorciando le distanze tra le varie classi sociali, come a dire, che siamo
tutti sulla stessa barca e ognuno deve fare la propria parte con i mezzi che ha.

                    Scopri il nuovo numero > Virale
Lo sa bene Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, che si è inventato un format tutto suo, dalla sua
casa di Cortona, per intrattenere quanti seguono il suo profilo Instagram, con l’incursione di ospiti
ed amici, collegati anch’essi in streaming o telefonicamente.
Tre o quattro ore di dirette pomeridiane, a ruota libera, senza guardare l’orologio, senza
preoccuparsi del tempo, ma anche senza un argomento prefissato, è così il Jova House Party che
regala musica, intrattenimento, interviste spontanee, ma anche spaccati di vita quotidiana.

Così, può capitare che Lorenzo incontri virtualmente il suo caro amico Fiorello, sempre pronto a
donare un po’ di brio a tutti, oppure che conversi di hardware con Rovazzi, faccia i complimenti ai
Coma Cose per la loro musica, suoni a distanza insieme a Federico Zampaglione, chiacchieri al
telefono con Ornella Vanoni come se fosse la sua più cara amica, ma anche che si preoccupi di
collegarsi con la figlia, in America per ragioni di studio, e perfino che dia la ricetta di quello che
amorevolmente sta preparando la sua compagna, insomma, ci sembra di essere a casa sua, anche se
lontanissimi, e lui, come un ospite premuroso, accoglie tutti, ascolta tutti e la parola “distanza”, è
proprio l’ultima a venirci in mente.

Gianna Nannini, invece, non parla tantissimo, ma lascia che la sua musica parli per lei, ed allora
sono brividi, energia pura che rompe la monotonia di giorni tutti uguali.
Anche chi non è stato mai fin troppo social, si espone per cercare di portare la musica a chi è a casa,
è il caso di Galeffi, giovane cantautore, che confessa di non aver mai utilizzato una diretta
Instagram prima d’ora, ed infatti, inizialmente è imbranato, impacciato e timido davanti alla
webcam, timidezza che scompare quando inizia a cantare i brani che gli piacciono, quelli dei suoi
idoli, come Cesare Cremonini, e “Poetica”, non è solo il titolo della canzone che canta, ma anche la
situazione che crea a metà tra l’artistico ed il puro Karaoke, la giusta atmosfera che abbatte ogni
distacco.

Sorride, sorride sempre, il neovincitore del Festival di Sanremo 2020, Diodato, imbracciando la sua
chitarra per difenderci dalla malinconia, nessuno avrebbe mai immaginato che il suo brano
pluripremiato, “Fai rumore”, sarebbe diventato l’inno di un’Italia silenziosa, ma che nonostante
l’isolamento, si fa sentire.

Confessa che non ama tanto eseguire le sue canzoni, Vasco Brondi, preferisce comunicare
utilizzando la musica dei grandi, scovando dal passato perle di inestimabile bellezza come “Stelle
buone” di Cristina Donà e “Magic Shop” di Franco Battiato, o magari, leggendo versi, rinfranco
per i giorni inquieti e strani che stiamo vivendo.

https://www.youtube.com/watch?v=s7lIrKElhak

Ogni pomeriggio, dal suo studiolo di Ferrara, armato solo di chitarra e libri, Vasco ci regala uno
spazio di pura poesia, meditazione e canzoni che fanno bene allo spirito, ricordandoci che la
condizione di solitudine forzata in cui ci troviamo, può essere il momento giusto per occuparci della
nostra fragile anima.

Alcuni esempi della grande mobilitazione che sta interessando il mondo della musica, consapevole
che un piccolo gesto, può essere importante e di conforto per chi sta affrontando giorni di solitudine
e per sensibilizzare chi non accetta di non dover, o poter, uscire da casa, come giovani e
giovanissimi.

Al di là dell’intrattenimento ed al di là delle costanti raccomandazioni, ho ragione di pensare che la
situazione generale ci debba spingere a fare delle considerazioni sul modo in cui normalmente
stavamo affrontando il vivere comune prima del Covid-19, la sensibilità di questi artisti, ci restituisce
una riflessione collettiva da cui trarre grande insegnamento, apprezzare tutte quelle piccole cose
che nel quotidiano abbiamo sempre dato per scontate e capire che il tempo non è il nemico di giorni
troppi frenetici e pieni, ma l’alleato per affrontare e vincere qualsiasi battaglia, non solo contro un
subdolo virus.

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Il sonno della Ragione: pregiudizio e
coronavirus. Quando l'epidemia viaggia sui
social.
Continuano le nostre indagini nel mondo delle pseudoscienze. Questa volta attingiamo alla cronaca
più attuale, infatti parliamo del “Coronavirus”, soffermandoci sugli effetti della psicosi da virus,
scoppiata insieme all’epidemia, e su come in certi casi viaggi più velocemente del contagio stesso e
sia altrettanto pericolosa.

In questi giorni, infatti, i media ci sommergono di notizie anche bizzarre, come il boicottaggio dei
negozi e dei ristoranti cinesi e la paura verso i cinesi residenti nel nostro Paese, magari da tre
generazioni, che sta portando ad una vera ghettizzazione delle loro comunità.

Anche in questo caso, come in altri, fattori come ansia, angoscia, mancanza di raziocinio e un latente
e mai sopito razzismo, ci portano a identificare l’Altro come destinatario delle nostre paure e se
questo “diverso” è uno straniero, anche morfologicamente differente da noi, tanto meglio.

Ne parlano, nel primo speciale della nostra nuova rubrica video “Il sonno della Ragione” il
Direttore Responsabile Raffaello Castellano e il nostro esperto, lo Psicologo Armando De Vincentiis,
socio emerito del Cicap, direttore della collana “Scientia et Causa” C1Vedizioni, divulgatore
scientifico e debunker.

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Viral marketing: conquistare il web con
condivisioni esponenziali
È stato definito il più efficace e potente strumento di comunicazione al mondo e deve il suo successo
al web, ai social media e alla loro natura partecipativa che punta alla condivisione. E’ il viral
marketing, un nome quasi minaccioso, ma metaforico, che esprime una tecnica di marketing dal
potenziale incredibile.

La viralità è la base del successo di molti casi notissimi sul web: influencer, blogger, youtuber, ma
anche casi aziendali indimenticabili (come Will it blend della Blendetec per citarne uno).

  Il marketing virale è una pratica che rispolvera il vecchio concetto del passaparola, resa possibile,
  facilitata e soprattutto potenziata dalla tecnologia e dai social media.

Il principio del marketing virale si basa sull’originalità di un’idea. Possiamo dire che un post
è virale se, a causa della sua natura o del suo contenuto, riesce ad espandersi molto velocemente,
come un virus. A promuovere questa espansione siamo noi, utenti del web, untori di popolarità,
desiderosi di condividere con amici e follower i contenuti che più ci interessano /divertono/
innervosiscono. Spesso si tratta di contenuti video, che meglio si prestano a questo tipo di diffusione.

Il punto di forza del viral marketing è proprio la credibilità di chi inoltra il messaggio e la sua
volontà di condividerlo con gli altri. Quando in Italia giungevano i primi esempi di marketing virale,
per lo più provenienti dagli USA, lo definivamo “marketing non convenzionale”, perché ancora,
in quel momento, anche i social media erano non convenzionali, e soprattutto lo sharing che oggi
riempie le nostre giornate e le nostre bacheche social non era convenzionale.

Come è nato il viral marketing?
La storia del marketing virale è legata a quella di Hotmail. Lo sapevate? Il marketing virale nasce
ufficialmente nel 1996, quando uno dei finanziatori di Hotmail, Tim Draper, fece inserire in calce ad
ogni messaggio di posta inviato dalle caselle Hotmail un postscriptum, un messaggio che invitava,
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