Predicazione Domenicana al femminile: S. Caterina da Siena
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Predicazione Domenicana al femminile: S. Caterina da Siena Dinamicità e analogie tra il suo tempo e il nostro Senza voler avere ambizioni esaustive, ci apprestiamo a trattare il nostro tema legato alla Predicazione Domenicana al femminile, in cui spicca la lucentezza di Caterina da Siena, profonda anima da cui attingere conoscenza sempre nuova e sempre stimolante. Il proposito ambito, se possibile, è a esortare l’interesse verso alcuni aspetti del Suo abitare la realtà, quant’anche riuscirne a trarre esempio pratico nell’ordinarietà e quotidianità della vita, evidenziando dinamicità e analogie tra il suo tempo e il nostro. Un breve introduttivo sguardo lo rivolgiamo al periodo storico in cui visse Caterina, da cui emerge maggiormente il valore del suo operato, non solo nelle cose interiori, che di sicuro ne abbellirono l’anima, ma altresì nei rapporti che ebbe con il papato e con la società. Nasce a Siena, il 25 marzo 1347, nel «popolo» di S. Pellegrino della contrada dell’Oca, nei pressi di Fontebranda. Suo padre fu il tintore Iacopo di Benincasa; sua madre Lapa di Puccio di Piagente che diede alla luce 26 figli e Caterina era la 25ª. In quel tempo regnava una condizione sociale, politica e religiosa in preda a grande confusione, malesseri, guerre; le istituzioni “laiche” e “religiose” erano consolidati su beni e privilegi temporali. Noi ignoriamo l’enorme lavoro di quelle generazioni che, liberatesi dal peso del feudalesimo, cercavano nella vita libera dei Comuni forme e reggimenti nuovi. Il Papato, il seggio dell’apostolo Pietro, si trovava trasferito in una piccola città della Provenza, Avignone. Questo fatto venne astutamente procurato da re Filippo di Francia (il Bello) che sminuita la maestà di papa Bonifacio VIII e del mitissimo Benedetto XI, volle timoreggiare la Chiesa e lo fece intromettendosi nella elezione del pontefice successore. Ne esce vincitrice la parte francese e la Chiesa ebbe come pontefice il guascone Bertrando de Goth, Clemente V, che condusse la sedia apostolica in Avignone. Privata l’Italia del suo centro e della sua anima, era fatale la decadenza, il processo di disintegrazione sia interno che esterno, processo accelerato dalle compagnie di ventura e specialmente dalla peste nera, il “flagello”, che seminò migliaia di morti con i suoi ritorni periodici. In questo clima covavano pessimi umori di ribellione in tutta la Toscana e nelle terre del Papa. Insieme con Firenze, entrarono in guerra contro il Papa, Città di Castello e, prima del finire del 1375, Viterbo, Montefiascone, Narni, Perugia, Assisi, Spoleto, Camerino, Urbino, Todi. Ottanta, tra città e castelli mancarono in pochi giorni alla Chiesa. Caterina si adoperò molto per mantenere la pace tra le città e il pontefice, recandosi personalmente presso i governatori e scrivendo copiose lettere. Mantenne fedeli al pontefice Pisa e Lucca, s’impegnò a frenare i ghibellini di Siena. Per insistenze di Caterina il Papa propone di lasciare libere Perugia e Città di Castello, terre della Chiesa, a patto che Firenze desistesse dalla guerra e non incitasse Bologna alla rivolta. Per contro, Firenze non accetta patti di pace e Bologna si ribella al Papa. Cosicché Gregorio XI diede sentenza rigorosa: i fiorentini furono scomunicati e interdetta nei sacri uffici la città. Ma le cose declinavano al peggio e non passava giorno in cui non si avesse notizia che qualche terra della Chiesa si fosse ribellata al papa. Fu poi Urbano VI che, persuaso dalle parole di Caterina, firmò la pace con Firenze. Caterina, inoltre, si adoperò molto per il ritorno del papa da Avignone a Roma, come anche, al fine del superamento del periodo di pesante immoralità in cui versava la Chiesa, si prodigò per la riforma della stessa intendendo, lo vedremo, non certamente il sovvertimento delle sue strutture essenziali, la ribellione ai Pastori, la via libera ai carismi personali, le arbitrarie innovazioni nel culto e nella disciplina. Al contrario Caterina afferma ripetutamente che sarà resa la bellezza alla sposa di Cristo e si dovrà fare la riforma “non con la guerra, ma con pace e quiete; con umili e continue orazioni, sudore e sangue dei servi di Dio”. Si tratta, quindi, di una riforma anzitutto interiore e poi esterna, ma sempre nella comunione e nell’obbedienza filiale verso i legittimi rappresentanti di Cristo.
In questo quadro storico, caratterizzante tutto l’arco di vita, seppur breve ma intenso di Caterina, che morì a Roma all’età di 33 anni, il 29 aprile 1380, e fu sepolta nella chiesa di S. Maria sopra Minerva, certo non le furono risparmiati dolori e dispiaceri, anche da parte di consorelle e frati dell’Ordine domenicano. I contemporanei, infatti, fecero di lei l’oggetto di aspre lotte, persecuzioni e malevolenze, scandalizzati forse dall’eccezionalità della sua vita fuori del normale, dalla sua dottrina e dall’attività politica riguardo ai problemi della sua epoca. Una donna nelle attività pubbliche, sia religiose che sociali, che predicava, che andava in giro, che si permetteva di scrivere sia al sommo pontefice, sia ai grandi; a insegnare, rimproverare, stare sempre tra gli uomini suoi discepoli, era qualcosa di inaudito in quel medioevo corrotto, ribelle, senza pace. Tuttavia, l’amore per la conoscenza si lascia maturare e, in quanto ricercatori di verità, siamo tenuti, ricercando, a fare tesoro delle esperienze formative ed educative dei testimoni di fede. È anelito perenne, un tendere continuo, sollecitudine del pensiero che interpella ed edifica in umanità, aspetto precipuo dell’Ordine Domenicano chiamato ad amare la Verità, a conoscerla, a ricercarla nello studio della Parola e nella sua consistente rivelazione umana. Ci disponiamo, pertanto, a indagare gli aspetti preminenti dell’operare di Caterina, che esamineremo in sequenza, partendo dal dato che principalmente ne ha alimentato e caratterizzato fortezza e coraggioso ingegno produttivo, ovverosia la sua esperienza spirituale, di innesto nella Verità. Esperienza Mistica, Interventismo e Volontà Un aspetto della concezione teoantropologica di Caterina si evince dall’Orazione XXII, 119: “Che natura t’ha dato lo Dio tuo? La natura sua” e, scrive nella L. 146: “Dio è amore”, terminando con la bellissima espressione: correte dunque, correte, correte!, in uno slancio di infuocato e amorevole incitamento alla divulgazione e sua conoscenza. Dio coltiva nella creatura il desiderio di Sé, la disponibilità a crescere a Sua immagine. Quando la creatura si lascia prendere dall’amore del Padre, ama come Egli ama, di un amore che previene, prende iniziativa, elabora nella propria vita l’inquietudine dell’altro, cerca di risolverla calandosi nella condizione umana, diventa afflitta e impaziente nei confronti dell’ingiustizia che disumanizza. Il contadino sa che il tralcio, per la forza vitale che lo vivifica, a primavera fiorisce, in estate porta frutto; privato di essa, secca. Chi cerca, pensa, promuove il bene di tutti, si radica in una dinamica di condivisione, sofferenza, pazienza. La sollecitudine è nel desiderio di essere innestato in Dio, di amare in Lui per la via che Egli ha donato, Nostro Signore Gesù Cristo. Gesù, Verbo incarnato, e lo Spirito educano le creature a rivestirsi di Dio, a condividerne e alimentarne reciprocamente la vita, in modo da formare una sola famiglia. La partecipazione al fuoco dello Spirito, cresce in contesto di libertà: “Il tuo dono non ha tolto a noi la libertà” (XII, 69- 70). Non si può penetrare l’intimo del desiderio santo se non si prende sul serio la sofferenza e la miseria umana, se la si rimuove per non sentirsene coinvolti, se si trascura di coglierla nella sua gamma molteplice e nel suo radicarsi nella ribellione della creatura, se non ci si lascia invadere da essa, riconoscerla, assumerla, se non ce ne sentiamo solidali e responsabili e se non vogliamo che scompaia. E la miseria umana non scompare quando è ignorata o quando è disattesa, peggio quando è alimentata. Non si elimina per svuotamento o riassorbimento automatico, per morte naturale. Scompare quando è tolta via, cessa quando finisce la ribellione nella volontà e la creatura si lascia innestare nella “Verità” aprendosi all’amore, al riconoscimento della sua condizione. Caterina vive nella Trinità, arde dal desiderio di crescere e veder crescere in essa, di lodarla e saperla lodata contemplarla incessantemente e assecondarne le vie. Ama nella verità della Trinità la creazione, la Chiesa, le creature; brama che diventino quali Dio vuole che siano. La sorgente del desiderio è il fuoco della carità di Dio: “... nel fuoco della carità tua ho cognosciuto che di questo cibo vuoi che l’anima si diletti” (Orazione IV, 9). 2
La grazia, che Caterina ebbe copiosa in dono, già infusa con il battesimo, crea nello spirito un clima favorevole a rafforzare le virtù naturali, quelle virtù che sono i cardini sui quali le porte dello spirito si aprono all’infusione delle virtù teologali, che non soltanto aiutano l’uomo a conseguire il bene come fine naturale di ogni abito virtuoso, ma gli danno la possibilità di raggiungere la beatitudine che è il termine della sua azione al fine ultimo della vita umana. Nella Senese si trovano tutti i caratteri della vita mistica, allargati oltre lo schema teologico e psicologico a tutti gli effetti di una sovrabbondante consistenza di grazia. Aveva appena sei anni quando le apparve il Signore Gesù. Caterina aveva timore, come riferisce Fr. Raimondo da Capua, suo biografo, discepolo e confessore, che le sue visioni venissero piuttosto dal demonio e che lo stesso Cristo dovette insegnarle a distinguere le sue visioni da quelle del nemico. Nella L. 340 comunica: “Poniamo, dunque il nostro fondamento non in cosa imperfetta, ma in cosa perfetta, cioè nel vero conoscimento di noi, in modo che possiamo edificarvi sopra virtù vere. Alcuni lo pongono nelle visioni e rivelazioni, da cui traggono gran diletto quando le ricevono, e non ricevendone provano pena. Questo non è buon principio, perché spesse volte crederanno che esse vengono da Dio e verranno invece dal demonio. Il demonio, infatti, ci piglia con quell’amo a cui ci vede più atti ad attaccarci”. Le sue visioni furono di una tale realistica oggettività da immettere nell’intimo del suo spirito, non tanto simboli o analogie del sovrannaturale, ma le stesse immagini dei divini personaggi come concrete figurazioni, dice Fr. Raimondo: percepite dai sensi esterni del corpo, tanto che udiva effettivamente la voce di Gesù che parlava. La più sorprendente apparizione di tale oggettiva concretezza è, certamente, quella dello sposalizio di Caterina con Gesù. Ella aveva ardentemente pregato la Santa Vergine che le concedesse il Figlio in sposo. Essendo Caterina in età di sette anni, non come fanciulla, ma secondo donna d’età avanzata, fece matura e lunga riflessione sopra un tal voto, pregando continuamente la Reina delle vergini che benignamente aiutandola degnasse impetrarle dal Signore una perfetta direzione del suo spirito. Caterina fu esaudita e l’Unigenito di Dio dicendo di sì, lasciò scorrere nel dito anulare di Caterina un anello d’oro, dicendo: “Ecco: io ti sposo a me nella fede”. La visione disparve, continua Fr. Raimondo, ma l’anello rimase sempre in quel dito e, quantunque gli altri non lo potessero vedere, Caterina lo aveva sempre sotto gli occhi1. Con ancora più cruda evidenza, segue la narrazione di quando Caterina beve direttamente alla ferita del costato, il sangue di Gesù, come anche la rivelazione delle stigmate che le devastarono la carne, prova realistica di un’interazione tra spirito e corpo, in funzione di quell’indissolubile unità sostanziale che del corpo e dello spirito ha fatto il Creatore, creandoci a sua immagine e somiglianza. Sovviene, a questo riguardo, Tommaso d’Aquino che asserisce: sia nell’uomo sia nella donna si trova l’immagine di Dio quanto a ciò in cui principalmente consiste la sostanza dell’immagine, cioè quanto alla natura intellettiva (S. Th., I, q. 93 a. 4). L’immanente sopraelevazione naturale del naturale potere immaginativo, si effettua nella contemplazione ex caritate dall’incontro e della grazia oggettiva, e dello slancio soggettivo che nel telepatico diventa luce dell’intelletto, la cui soprannaturalità si plasma in immagini sensibili, trascese dalla loro stessa realtà intellegibile. Per questo ciò che vede e ciò che sente il contemplativo, non è illusorio o patologico, ma rappresenta la stessa storica figurazione di un’oggettività soprannaturale e teofanica. Si attua allora un realismo psicologico ma compenetrato e trasceso in un realissimo sentire che è suscitato dalla fede, in uno slancio di amore che si oggettiva, nel suo potenziamento infuso dalla grazia, a effetto sovrannaturale. Il ‘Conoscimento di sé’ e di Dio, è fondamento nella dottrina di Caterina, del moto ascensionale dello spirito verso il superamento mistico delle verità intellegibili. È attraverso l’autentico riconoscimento di Dio che noi possiamo riconoscere in Lui la verità di noi stessi e della nostra vocazione, e arrivare all’autentico riconoscimento di Lui e in lui nei fratelli (L. 241). L’uomo non è 1 Raimundus de Capua, La Vita di S. Caterina da Siena – Legenda Major, Volg. da B. Pecci, Roma, 1866, cap. III, pp. 22-23. 3
un essere qualsiasi del creato “È la creatura di Dio” (L. 253): Dio ci creò nel dolce legame della carità, realizzando una perfetta unione. La perfezione dell’uomo non può che realizzarsi attraverso il “desiderio di Dio”, secondo il modello del Figlio, il Cristo Crocifisso ‘Via, Verità e Vita’. Egli è il ponte della salvezza. (L. 272 a Fr. Raimondo). E l’uomo, per conoscere, ha a disposizione “tre porte”, le tre potenze dell’anima: la memoria, che è il Padre; l’intelletto contenente il lume della fede, che è il Figlio; l’affetto d’amore, la volontà, che è lo Spirito Santo. “Veruna di queste porte è liberamente in nostra possessione, ma solo la porta della volontà è in nostra libertà; la quale ha per sua guardia il libero arbitrio” (L. 319). Infatti, il Signore dice all’uomo: “Ti fò libero, cosicché non sia soggetto ad alcuna cosa se non a me” (L. 69). E “il peccato sta solo nella volontà” (L. 148): perché “nessuno, né demonio, né altra creatura può costringere l’uomo ad un solo peccato mortale, se egli non vuole” (L. 69). Altresì: l’uomo ha tre vigne da coltivare: la prima è la vigna dell’anima nostra, che deve essere coltivata affinché “essa non si inselvatisca” per “il veleno dell’amor proprio”, con le spine della superbia e dell’avarizia, con i pruni dell’ira e dell’impazienza, ma affinché “nel tempo della ricolta” porti molto frutto; la seconda è la vigna dell’amore del prossimo, “tanto unita insieme con la nostra, che utilità non possiamo fare alla nostra, che non sia fatta anco alla sua”, coltivando in essa “l’arbore della perfettissima carità”; la terza è la vigna della Santa Chiesa nella quale “Dio ci ha posti” e dove è stato posto il ‘lavoratore’, cioè Cristo in terra, che è nostro dovere “sovvenire spiritualmente con l’umile orazione” e temporalmente “con grande sollecitudine, per amore della verità” (L. 321). In Caterina l’esperienza è carattere del suo temperamento realistico; ha trasceso ogni dottrina, e per anni e anni si è nutrita solo di Eucarestia, privandosi del riposo notturno, dormendo una mezz’ora ogni due giorni, sdraiandosi vestita su due tavole congiunte, disciplinandosi con una catena di ferro tre volte il giorno, e ogni volta per un’ora e mezzo, si che il suo corpo si copriva tutto di sangue (Vita di S. Caterina da Siena), e fino a che il suo Sposo non le ingiunse di uscire dalla sua ‘cella’, Caterina vi passava tutto il suo tempo a piangere e a pregare per i suoi, diceva, peccati. Quando, tuttavia, lo Sposo apparve, ordinandole di dedicarsi al bene del prossimo, ella uscì per ubbidirgli. Da bambina aveva sentito in sé quella gratia gratis data e la vita attiva di Caterina va considerata come manifestazione della gratia gratis data. Suggestivo un ricordo narrato da Fr. Raimondo: egli racconta che Nostro Signore apparve un giorno a S. Caterina mentre faceva orazione, e le disse: «Sai tu, figlia mia, chi sei tu e chi sono io? Se sai queste due cose, sarai felice: tu sei quella che non sei, ed io sono Colui che sono». Questo tratto ci dà, credo, la caratteristica del dono che lo Spirito Santo fece a Caterina, il dono dell’intelletto. Vi sono quattro doni intellettuali: la scienza, la sapienza, il consiglio, l’intelletto. I primi prendono in noi la forma del lavoro della mente umana, del ragionamento; ma il dono dell’intelletto si presenta come una semplice intuizione, come una veduta della mente che passa attraverso le apparenze; sotto la lettera, sotto i simboli, penetra il senso nascosto e, da ogni cosa, fa scaturire il pensiero in potenza. Agli uomini, nei quali il rigore del ragionamento è la nota intellettuale dominante, si addicono pertanto i doni che si annettono alla ragione. A una donna, natura più intuitiva, più spontanea, più istintiva, conviene il dono che ha più dell’istinto, del sentimento, perché, se le proposizioni si concludono, i principi si sentono. Il ragionamento non potrebbe misurarne l’infinito, solo l’intuizione penetra i principi e ciò fu proprio di Caterina. La sua era un’arsura di conoscenza viva, travolgente che desiderò condividere con gli altri. In Lei, fermezza, mitigata da dolcezza e autorevolezza, costituiscono esempio di coerenza nella vita. Addentrarsi nell’intensità comunicativa di Caterina, non può che esortare a un desiderio divulgativo di supporto edificante per la società moderna, questa nostra società anelante coraggio, rispetto del senso del sacro, della beltà della vita e dei suoi talenti. Diviene, pertanto, esempio, testimone, portatrice sana di valori, nel tempo senza tempo, vivendo di un’intensità estrema, non estremista, il 4
suo essere persona, il suo essere donna, il suo essere innamorata del Bene e bramarlo per ognuno. Racconta di se Caterina, facendo emergere la consapevolezza dell’essere Persona, che trova rispondente consonanza nella definizione che ne dà Tommaso d’Aquino: “Sostanza individua di natura razionale, dotata di intelletto e volontà”. Nel contempo, Caterina si lascia conoscere nelle Orazioni, nel Dialogo, da lei chiamato semplicemente il «Libro», nelle sue 381 Lettere. Il suo insegnamento è dotato di una ricchezza tale che Paolo VI nel 1970, la dichiarò Dottore della Chiesa, titolo che si aggiunge a quello di Patrona della città di Roma, per volere di Pio IX, di Patrona d’Italia, con S. Francesco d’Assisi, secondo la decisione di Pio XII, quindi di Compatrona d’Europa insieme a S. Brigida di Svezia e S. Teresa Benedetta della Croce, per disposizione di Giovanni Paolo II, il I ottobre 1999. È strenua sostenitrice del talento, Caterina, esemplare l’incitamento a non sotterrarlo (L.121), il che implica anche il desiderio della conoscenza di sé e della conoscenza di sé nell’altro (LL. 69, 60, 226, 295, 333). “ ... come l’uomo non è nulla di per sé e non possiede nulla, così tutto ciò che è lo è in quanto lo può diventare, e lo può diventare realizzando se stesso” (LL. 68, 116, 123, 171). Vola Alto Caterina! Ella è totalmente presa dalla sua profonda convinzione circa il libero arbitrio dell’uomo, al punto da diventare estremamente rigorosa sul piano del giudizio morale, perché non accettando altro che un uomo totalmente libero, poiché così voluto da Dio Creatore, la conseguenza non può che essere quella di addossargli le colpe per tutte le possibili sue deviazioni morali. Per questo Caterina può sembrare integralista, in qualche caso boriosa; in realtà è pervasa da profondissima umiltà e da un grande senso della realtà della condizione umana che vuole a tutti i costi nobilitare. La sua voce insiste sull’impegno: ciascuno deve fare secondo le sue forze; è impegno della creatura umana giovarsi dei propri talenti. Ecco l’aspirazione della volontà; non già la mera intenzione, ma l’intenzione, seguita da un concreto impegno comportamentale, determinato dall’atteggiamento interiore profondo, della mente e del cuore. Non si può non riconoscerle, come peculiarità, la virtù della fortezza che, come dice l’Aquinate, consiste nell’“Operare fermamente”, nel rimuovere ostacoli e nel coraggio con cui affrontare le difficoltà, poiché è, innanzi tutto, una virtù improntata a verità. La virtù della fortezza ci dà subito l’idea di qualche cosa che apre gli orizzonti della grandezza d’animo e della generosità, del vigore del carattere nel compimento del proprio dovere, quindi, anche del superamento delle iniquità e delle debolezze. L’esempio dell’armonico femminile, nella sua azione educatrice, è testimonianza esplicita: amando il sapere che trasmette, è capace di innestare il seme fecondo e favorirne lungimiranza intellettuale e umana, non temendo confronti, proponendo e mai imponendo, lasciando ciascuno libero, nella propria crescita e formazione, di volere o meno scegliere e discernere il bene dal male, persuasa che il nostro meglio è sempre nell’esercizio della volontà che segue l’intelligenza e mai viceversa. Parla, pertanto, di libertà come “tesoro che Dio ha dato nell’anima”, anima che è libera nelle sue scelte. Caterina è convinta dell’assoluta libertà personale e morale dell’uomo; è un’innamorata del tema della responsabilità, del suo rendiconto esistenziale, dei suoi meriti come dei suoi demeriti e, più volte nelle sue Lettere, emerge in qual misura la dignità personale dell’uomo sia il fondamento, l’affidabilità e la qualità della sua abilità sociale e politica. La Chiesa e l’Ordine Era una mantellata Caterina, come venivano chiamate le Terziarie Domenicane al suo tempo, e che comprendevano donne sposate, vedove, singole, ma sempre laiche, fedeli alla spiritualità del carisma domenicano. Vivevano nelle loro case, dedite alle occupazioni quotidiane, s’impegnavano in opere di carità; si riunivano per i momenti di preghiera e di formazione, normalmente all’interno di una chiesa. Nel ‘300, non vi erano ancora le suore, tuttavia in Italia e in Europa erano numerosi i monasteri. Nella sua breve ma intensa vita, Caterina non ha avuto paura di nulla pur di testimoniare l’amore per la verità e la giustizia, né di essere una donna così diversa dalle donne del suo tempo, né di parlare con chi riteneva importante parlare, né di dire ciò che era riservato ai teologi e ai dotti, 5
lei, donna, illetterata, giovane popolana. Caterina con il suo modo di vivere e di parlare suscitava ‘scandalo’, e per le sue sorelle laiche mantellate, che spesso la osteggiarono, e per i frati dell’Ordine, che la convocarono a dare spiegazione del suo operare e della sua dottrina nel Capitolo generale di Firenze, ed era una laica, senza quindi regole di convento o obbedienze alle superiore. L’unica sua guida, l’unica regola, l’unico riferimento di Caterina fu Gesù, nel cui cuore s’immerse e ne rimase profondamente innamorata. Dio si servì della nostra Mantellata Domenicana: il grande avvenimento che fa epoca nella storia della Chiesa è il ritorno del Pontefice a Roma dalla cattività avignonese e, in questo avvenimento si saldano divinamente l’amore di Caterina all’Italia e alla Chiesa: il Pontefice, che Caterina definisce dolce Cristo in terra, sostiene le veci di Gesù. Per Caterina, i sacerdoti devono essere fedeli alla loro missione, rassomigliare a Gesù Cristo: devono avere fame e sete delle anime, convertire i peccatori. I pastori devono governare il gregge senza amore sensitivo, con grande energia e carità, perché l’eresia non uccida la fede salvatrice e il vizio impuro non corrompa il regno di Dio nei cuori. I costumi, allora, come ahimè oggi, sono in ribasso, il clero non si fa onore, molti sono schiavi dell’interesse, del disordine, del ricatto: Caterina chiede la riformazione della santa Chiesa. La sua parola si fa rovente quando entra in questo argomento. Caterina è una pacificatrice, vuole sostituire il regno dei vizi capitali con quello dei doni dello Spirito Santo. Non pone differenza tra la sua azione, che noi diciamo politica ma che è essenzialmente religiosa, e quell’attività che definiamo mistica, perché nei colloqui con Dio chiedeva la salvezza dei fratelli e, nella missione benefica al suo popolo, ubbidiva a quell’amore di Dio che le bruciava l’anima. È il carattere necessariamente sociale della carità divina, che molti hanno dimenticato, e che tanti osteggiano con l’equivoco del cattolicismo politico. Nei moderni contrasti del mondo che fanno assomigliare la nostra epoca a quella di Caterina, e nei patimenti della Chiesa, la Senese è modernissima come pensiero, come esempio di combattimento. Caterina è anima ardente che sente e vive dell’umanità divina nel conflitto degli uomini e nei segreti della Provvidenza; nelle lotte quotidiane che nel regno di Dio si scontrano tra il male e il bene, tra le tenebre e la luce: sembra che la salvezza della sua anima sia fortemente congiunta al trionfo e alla santità della Chiesa militante, e la sua parola diviene fuoco come il suo amore e sue lacrime. Il tormento di Caterina è la riforma della Chiesa. Non è lo zelo torbido del rivoluzionario che nasconde i suoi smarrimenti dottrinali blaterando contro i ministri di Dio, ma la carità di Dio e del mondo che vuole nella Chiesa la lode perenne al Signore e il ministero della salvezza, la salus animarum. Prima di parlare dei difetti dei prelati, esalta la dignità dei sacerdoti. Nessuno ha diritto di farsi giudice del clero, dice Caterina: per virtù e dignità del Sacramento li dobbiamo amare, e odiare soltanto i loro difetti. Il valore del Sacramento non diminuisce con l’indegnità del ministero (Dial. CXXVIII). Di fronte a Caterina vi era un’Europa divisa politicamente, ma unita dalla cultura umana e cristiana, che i secoli precedenti avevano elaborato, ed Ella seppe, in un secolo molto difficile e denso di vicende che lacerarono dall’interno anche la compagine ecclesiastica, indicare le vie per la conciliazione e l’ordine. Il nostro tempo è di progresso innovatore, super tecnologico, eppure profonda è tra gli uomini la confusione, l’incertezza. Si scopre un’inquietudine esistenziale che giunge a pregiudicare l’unità dell’essere nell’individuo e nella collettività, una perdita d’identità. Caterina parla a tutti quelli che cercano risposte, indica strade nei valori universali che sono di ognuno, sacerdote, laico, credente, agnostico, ai più dotti, ai più semplici, fa bene all’anima la conoscenza, ne è persuasa, è l’ignoranza il male peggiore. Fu, infatti, protagonista di un’intensa attività di consiglio spirituale nei confronti di ogni categoria di persone: nobili e uomini politici, artisti e gente del popolo, persone consacrate, ecclesiastici, compreso Papa Gregorio XI che in quel periodo risiedeva ad Avignone, che Caterina esortò energicamente ed efficacemente a fare ritorno a Roma, come anche Papa Urbano VI. È il periodo che vide sede del papato in Avignone dal 1309 al 1377. Solo con Martino V, Colonna, eletto Papa della Chiesa cattolica nel 1417 lo Stato della Chiesa si avvierà definitivamente a diventare un’entità territoriale concreta entro la compagine degli Stati d’Italia. 6
Caterina viaggiò e si prodigò molto per sollecitare la riforma interiore della Chiesa e per favorire la pace tra gli Stati. La Chiesa ha bisogno di rinnovarsi spiritualmente sempre, in ogni tempo: Ecclesia semper est reformanda. La riforma della Chiesa riguarda i suoi membri, non il suo contenuto divino: Caterina non direbbe mai che la Chiesa è il “corpo del peccato”, piuttosto quello della penitenza. Il fulcro della vita della Chiesa è la Croce, la legge fondamentale è la salus animarum, la cura delle anime, la salvezza delle stesse. Il presupposto della riforma è che ci siano buoni e scrupolosi pastori: la realtà della seconda metà del ‘300 è dolorosa; la Chiesa, Caterina lamenta, “è rimasta sola” (L. 373). I suoi capi sono in preda a una specie di frenesia degli onori, dei piaceri, delle ricchezze. “La Chiesa di Cristo è impallidita e non ha più il suo calore, perché le è stato succhiato il sangue di dosso ...” (L. 16); “la vigna nostra è tutta inselvatichita” (L. 313). I mali che Caterina denuncia con franchezza sono: l’amor proprio dominante; l’arroganza, l’insensibilità della coscienza; la lussuria, l’avarizia, l’invidia, la superbia, da cui nasce odio reciproco, la cura d’interessi materiali, l’usura: i cattivi pastori “assomigliano alle mosche che si posano indifferentemente in cose monde e immonde” (L. 272). Ancora: amori, ozio, e anche, Caterina non esita a parlarne e a provarne ribrezzo, il “maledetto peccato contro natura” (Dial. 124). E, altresì, l’abuso dei sacramenti, anche dell’Eucarestia, per raggiungere scopi malvagi (Dial. 121-128). Questi vizi producono nei cattivi pastori uno stato di rovina spirituale, poiché non percepiscono più il senso profondo e illuminante della Sacra Scrittura. Il risveglio spirituale degli Ordini religiosi è pure essenziale perché si abbia una reale riforma della Chiesa: Caterina denuncia la vita scandalosa di molti religiosi che non sono più “fiori odoriferi nella Chiesa, ma puzzolenti” (L. 67), per le loro mancanze contro i voti e la ricerca dei loro “diletti e piaceri”. Una delle cause della decadenza, secondo Caterina, è la corruzione e insipienza di molti superiori, i quali non correggono “i più forti che sono maggiormente in difetto, ma i più piccoli e deboli, per timore di trovare impedimento e conservare il loro stato e il loro modo di vivere” (Dial. 122). Anzi fanno preferenze ai loro simili e alleati nella vita indegna. Chiudono gli occhi dinanzi al lupo che rapisce le pecore, “non splende in loro la margarita della giustizia” (Dial. 125). Auspica, Caterina, il risveglio degli Ordini, e lo auspica soprattutto per il suo Ordine Domenicano, del quale conosce molto bene le ragioni dell’origine e la missione nella Chiesa: “Non è tempo di dormire”, si augura la Senese, come leggiamo nelle pagine del Dialogo dedicate a San Domenico e al suo Ordine, e anche alle altre famiglie religiose (Dial. 158). La riforma è urgente per guarire la piaga più grave della Chiesa: lo scisma. Si può dire che, in varietà di modi, l’unità della Chiesa è minacciata nella Chiesa di ogni tempo. Sono due quindi i punti di riforma importanti per Caterina: il ritorno del Papa a Roma e l’iniziativa del papa nell’operarla. Successivamente: liberare la Chiesa dallo scisma e dall’eresia (LL. 293, 306, 312, 334, 347, 367); liberare la chiesa dai cattivi pastori e dare a essa santi pastori, “fiori odoriferi” nel giardino della chiesa (L. 206); adoperarsi per portare la pace tra gli stati cristiani: missione sociale e politica della Chiesa (L. 209); portare la luce della fede agli infedeli mediante la “santa crociata”: la crociata servirà a promuovere la riforma all’interno della Chiesa, per metterla in grado di compiere la sua opera missionaria all’estero e a ottenere la pace fra i cristiani, la conversione dei ‘saraceni’. Lo sguardo di Caterina era rivolto all’avvenire: “La mia anima nel dolore gode ed esulta, perché tra le spine sente l’odore della rosa che sta per aprirsi” (L. 137). L’ambiente che inquadra l’ultimo biennio dell’attività di Caterina è in tutto circoscritto da un problema ecumenico in senso ampio, interno alla Chiesa di occidente, provocato dallo scisma omonimo che faceva capo all’elezione del papa Clemente VII, contrapposto a Urbano VI. Nell’epistolario di Caterina i qualificativi di eretico e scismatico si equivalgono (L. 305). La Senese ignora l’Oriente cristiano, quello che dipendeva spiritualmente dalla Chiesa di Costantinopoli, separata da Roma in forma definitiva nel 1054. Nella geografia politico religiosa del suo epistolario il vicino Oriente coincide con i luoghi santi della Palestina, da liberare con la crociata, in quest’ottica la prospettiva alla conversione degli infedeli, i musulmani, che occupavano la patria di 7
Cristo (LL. 206, 219). Proiettato nella luce del Concilio Vaticano II, l’ecumenismo di Caterina da Siena, appare anzitutto spirituale, rientrando in quel movimento che suppone alla radice la conversione del cuore, la santità della vita e la preghiera per l’unione dei cristiani. Questo impegno di essere e di agire “va considerato come l’anima di tutto il movimento ecumenico e può essere giustamente definito un ecumenismo spirituale” (Decr. Unitatis redintegratio, n. 8). L’impegno di Caterina nel ricomporre l’unità della Chiesa d’occidente trae vigore dalla costituzione divina del Papato “principio e fondamento perpetuo e visibile dell’unità di fede e di comunione” (Decr. Lumen gentium, n. 18); e, per concomitanza di problemi, si allinea con la restaurazione dei rapporti interrotti dalla “disciolta comunione ecclesiastica tra i Patriarchi orientali e la Sede Romana” (Decr. Unitatis redintegratio, n. 13). Nella lettera 317, alla regina Giovanna di Napoli, Caterina esprime la dimensione completa del sentire e dell’agire per l’unità dei cristiani sintonizzata con il loro capo visibile. La prassi di Caterina per ricondurre l’Europa alla fedeltà a un solo Papa, il vero, era animata da certezze valide in ordine ai fratelli delle diverse confessioni cristiane da ricomporre nell’unità. Il vescovo di Roma ha per tutta la Chiesa un carisma di paternità e autorità piena e suprema: “padre santissimo di tutti i fedeli cristiani” (L. 364), “capo e principio della nostra fede” (L. 370), “padre e signore dell’universale corpo della religione cristiana” (L. 302), per la quale “la Chiesa di Roma è il principio della fede nostra” (LL. 347, 362). Chi si separa da Cristo in terra è un tralcio staccato dalla vite e non porta frutto (L. 171). Impatto Educativo e Famiglia Da sempre fecondo in Caterina fu un profondo senso di generosità, di dedizione al prossimo, soprattutto nell’amore. Non è facile cercare di precisare le tappe e i modi del suo procedere verso l’ambito scopo della vestizione dell’abito delle mantellate. Fu la prima vergine, Caterina, che entrasse a farne parte. I suoi biografi ci dicono delle difficoltà che Caterina ebbe a superare, a questo proposito, in famiglia, in cui si tentò invano di indurla al matrimonio. Riuscì ad ottenere nella casa paterna una specie di cella domestica, dove passò circa tre anni di vita ascetica e meditativa. Caterina non muovendosi da tutte queste cose si fabbricò nella mente, per ispirazione dello Spirito Santo, una cella segreta. Ed invero, addentro di noi è l’intelletto perspicace, la volontà libera e la tenace memoria: dentro di noi s’infonde l’unzione dello Spirito Santo; dentro di noi, se saremo buoni imitatori e seguaci, abita quell’ospite il quale disse: Confidate ergo vici mundum (Gv 16, 33)2. “Essendo la mente della vergine consolata e confermata insieme, prese incontanente tant’ardire per la fidanza che avea nel Signore, che nel medesimo giorno chiamò a sé il padre, la madre, ed i fratelli, e con grande animosità parlò loro in questo modo: Per lungo tempo si è da voi ragionato e trattato di maritarmi ad un uomo corruttibile e mortale, ma io per la riuerenza che per comandamento di Dio debbo avere al padre ed alla madre, non ho fin ora apertamente parlato. [...] Sappiate dunque che nell’istessa mia infanzia io feci voto di verginità al Salvator del mondo Signor mio Gesù Cristo, ed alla sua gloriosissima Madre, e ciò non feci con animo fanciullesco, ma dopo lunga deliberazione e con gran ragione [...] Sappiate esser ciò talmente stabilito nell’animo mio, che più facilmente potrebbero intenerirsi le pietre, che da questo santo proposito rimuoversi il mio cuore [...] che non mai s’allontanerà dalla sua risoluzione, imperciocché io ho uno sposo cosi ricco e cosi potente, che verun modo non mi lascierà venir meno, ma certamente mi concederà ogni cosa a me necessaria. Dopo qualche dimora, asciugando le lagrime, il padre, che teneramente l’amava, e più ancora temeva Dio, le rispose: Iddio ci guardi, dolcissima figliuola che noi in alcun modo ci vogliamo opporre alla volontà divina, da cui conosciamo procedere il tuo proponimento; pertanto osserva pur liberamente il tuo voto, fa come a te piace e secondo che lo Spirito Santo t’insegnerà; voltandosi poi alla moglie ed ai figliuoli, disse: niuno da ora innanzi sia nojoso e molesto alla mia dolcissima figliuola, niuno ardisca in alcun modo impedirla, lasciate ch’ella serva liberamente al suo sposo. 2 Raimundus de Capua, La Vita…, cit., cap. IV, pp. 27-32. 8
Ringraziò Caterina quanto più poté i suoi genitori, disponendosi con tutto l’animo a servirsi utilmente della licenza da loro concedutale”3. La sua esperienza di vita, improntata, dunque, al dialogo, al rispetto, ci dona una penetrante dottrina teologica, un’avvincente ontologia e, nel contempo, una profetica dottrina sociale, pedagogico- familiare. Pone la nostra attenzione e quella delle personalità del suo tempo, al reale discernimento; ci coinvolge con la sua illuminante antropologia e con la sua attenzione all’uomo, sul suo essere valore, sui suoi doveri e, quindi, sui suoi diritti. Vuole trascinarci, con il suo insegnamento e la sua testimonianza, verso la Verità che nella persona è operatività, in latino la fede è chiamata fides per il fatto che quanto si dice si fa e, dunque, verso la libertà che ne è espressione esplicita. Fine della società, per Caterina, non è l’interesse di alcuni, di una casta, di un gruppo, di un partito, ma il bene universale e comune, che assicura alla vita sociale un ordinato sviluppo. Giunge stimolante l’asserzione di Kant: “Agisci in modo da trattare l’umanità tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre e a un tempo come fine, e mai semplicemente come mezzo”. E, primo indispensabile requisito, che è richiesto ai governanti, è la capacità di governare se stessi. A quest’aspirazione, importanti virtù sono la carità e la giustizia. Caterina fa crollare tutte le convenzioni sociali del suo tempo, come pure le ristrettezze mentali, anche ecclesiastiche, riguardo alla donna, e si pone su tutti i fronti, dove l’uomo combatte in favore della verità, della giustizia, della pace, senza ritrarsi da nulla come impossibile, difficile o inadeguato, alla sua condizione di donna, per di più, analfabeta. Nel nostro vivere del XXI secolo, arroccato a un egoismo concentrico, soggetto ai confini umani oltre che politici, divenuti barriere, è faticoso pensare a un’Europa unita. Siena stessa era una delle tante città-stato di quel tempo, ed era in relazione per i suoi commerci con tutta l’Europa. Il latino era ancora la lingua ufficiale comune, nonostante l’affermarsi delle lingue volgari. La Cultura europea era unitaria, malgrado le divisioni politiche e comunali; ciò nonostante, pur mantenendo ognuno la propria nazionalità, gli uomini del sec. XIV si sentivano europei. Pertanto, di fronte a Caterina vi era un’Europa divisa politicamente, ma unita dalla cultura umana e cristiana, che i politici attuali non riescono ad assicurare. Agli italiani rivolgeva l’esortazione a essere se stessi: «Se sarete quello che dovete essere, metterete fuoco in tutta Italia» (L. 368), come anche nella L. 367: «La margarita della giustizia sempre riluca nei petti vostri, lavandovi da ogni amor proprio, attenendo al bene universale della vostra città e non propriamente al bene particolare di voi medesimi». Si può definire quella di Caterina una filosofia morale, metaetica e politica, di cui oggi, più che mai, vi è bisogno di riscoprirne purezza. Difatti, ella insegna ed esorta a vivere la politica con autenticità d’intenti, con grande forza morale, con un precipuo senso del bene comune. Ciascuno deve fare secondo le sue forze (L. 21). Nella L. 148, a Pietro Marchese del Monte, scrive:«O carissimo figliuolo, noi vediamo che Dio ha armato l’uomo d’un arma ch’è di tanta fortezza, che né dimonio né creatura il può offendere; e questa è la libera volontà dell’uomo». Caterina è sostenitrice del libero arbitrio e, di conseguenza, della meritocrazia. La libertà data da Dio all’uomo si presenta alla mente della Senese come un atto di smisurata bontà e di estrema responsabilizzazione. Caterina puntualizza che nessuno e niente, e neppure soprattutto il demonio, può costringere una creatura al peccato mortale se la creatura non vuole. Attraverso le sue lettere ci indica l’orizzonte di senso nuovo, in cui la dignità personale dell’uomo è fondamento, e ne spiega la natura sostanziale nella società. Nei suoi scritti è frequente l’invito a “salire sopra di sé”, ad assidersi sulla “sedia della coscienza” e “tenersi ragione”, quasi giudice in tribunale. L’uomo è il primo giudice di se stesso perché la luce della ragione, confortata dalla luce della fede, gli fa distinguere il bene e il male. E’ responsabile verso la società perché il suo 3 Raimundus de Capua, La Vita…, cit.; cap. V, pp. 34-36. 9
contributo al bene comune varierà dal negativo al positivo a seconda dell’uso che egli avrà fatto della libertà. Questo principio è dichiarato all’inizio stesso del Dialogo: “L’anima non può fare vera utilità al prossimo, se prima non fa utilità a sé, cioè d’avere e acquistare la virtù in sé”4. Il “levare sé sopra di sé” è la più efficace espressione dell’idea della Senese del cammino dell’uomo verso la sua pienezza, di creatura di amore, intelligente e libera: “Dio ha fatto l’uomo libero e potente sopra di sé” (L. 177). Ancora, Caterina parla di libertà come «Tesoro che Dio ha dato nell’anima» (L. 69). L’anima è libera nelle sue scelte: «L’anima ch’è fatta d’amore e creata per amore alla immagine e similitudine di Dio, non può vivere senza amore; né amerebbe senza il lume. Onde se vuole amare, si conviene che vegga» (L. 113). Tuttavia, come si arriva a discernere? Libertà e grazia nella vita cristiana si compenetrano e costituiscono il momento operante, segreto, dell’incontro dell’uomo con Dio, dopo la frattura del peccato. Libertà e grazia nell’anima del cristiano fluiscono l’una dentro l’altra. Libertà dal peccato è libertà dall’errore, poiché l’errore è la corruzione fondamentale dello spirito: è dall’animo guasto dall’errore, come prima fonte d’ogni atto dell’uomo, che procedono i cattivi desideri, invidia, ira e tutte le turpitudini dei vizi capitali. Perciò Dio ci ha liberati anzitutto dal peccato: “Il Verbo di Dio si è fatto carne e la Verità ha abitato fra noi” (Gv 1, 14). Il fondamento della libertà è l’essere partecipato da Dio, la natura spirituale che l’uomo ha avuto da Dio. L’attuazione della libertà è il ritornare a Dio: “O bontà infinita - dice Caterina -, e unde viene tanta fortezza nella volontà della tua creatura? Da te, somma ed eterna fortezza; unde io veggo che ella partecipa della fortezza della volontà tua, perché della tua volontà ci desti la nostra. Unde noi vediamo che tanto è forte la nostra volontà quanto ella seguita la tua, e tanto è debile quanto se ne parte, perché, come detto è, della tua volontà creasti la nostra, e però stando nella tua è forte” (Orazione IV). Si trova così parallelo nella felice espressione di Kierkegaard: solo una causa onnipotente può creare intorno a sé esseri liberi, poiché solo l’infinito amore tutto dona e nulla perde nel donarsi e quindi non contrae dipendenza alcuna con il finito. La ‘libertà dello spirito’ non ha nulla delle smanie morbose, che proliferano spesso dai recessi inconfessabili della brama di affermazione di orgoglio della miseria umana, e che sembra voglia tornare in auge ai nostri giorni di irrequietezza, di inquietudine. L’esperienza di Caterina, invece, ce la rende tutta immersa in Dio e inebriata dal sangue di Cristo che essa sa di attingere solo nel giardino della Santa Chiesa: verità, libertà, carità, si amalgamano nell’unità dello stesso movimento dell’anima. E’ indubbio che di tutto quello che potesse contribuire a perfezionare lo spirito umano a elevare l’educazione, a ingentilire i costumi sociali, nulla restò indifferente a Caterina o sfuggì al suo influsso. Il suo insegnamento è proporzionato ai diversi stadi dell’esistenza, considera e accetta le varie condizioni di vita quali sono in se stesse, sia che si tratta di una madre di famiglia, di un sacerdote, di un gentiluomo, di un artigiano; richiede soltanto che ognuno sia fedele ai doveri del proprio stato. Di fronte alle tentazioni ci illumina dicendo: “La città dell’anima ha tre porte principali: la memoria, l’intelletto e la volontà. Il nostro creatore permette che queste porte siano assalite e qualche volta aperte di viva forza, una sola eccettuata, cioè la volontà. Spesso l’intelletto non vede che tenebre, la memoria è piena di cose frivole e passeggere, di pensieri confusi e disonesti, i sensi sono in preda ad impressioni sregolate. Ma la porta della volontà è così ferma che né le creature né i demoni possono aprirla, se colui che la custodisce non lo consente. Tenete fermo adunque e l’anima vostra sarà città sempre libera” (L. 313). Il vertice di questa suprema ascesa di Caterina è la conformità attiva di dedizione totale alla volontà di Dio, in profondissima umiltà e con fierissima esigenza di tutto avere e di tutto dare allo Sposo 4 Il Dialogo della Divina Provvidenza, red. aggiornata di P. Angiolo Puccetti, O. P., Ed. Cantagalli, Siena, 1992, Proemio, cap. 1, pp. 25-26. Da ora indicheremo con la sigla Dial. 10
nella fede. La libertà di arbitrio, quella dell’uomo mondano e di certa filosofia contemporanea confusa e impigrita, è di fare quel che pare e non pare, di vivere alla ventura del capriccio. La libertà filosofica è la conformità alla ragione nella coerenza della sfera teoretica e della sfera pratica che Kant, riportando l’antico imperativo morale stoico all’interno della soggettività attiva dell’Io, ha espresso con l’esigenza del dovere. La massima costrizione soggettiva-oggettiva è fondamento e ragione della libertà: se devi, puoi. È il dovere, quindi, che ti distingue nella dignità di spirito e ti rivela il dono e il compito della libertà. Si tratta, tuttavia, in questa filosofia, e in tutto il pensiero moderno, di libertà formale e non reale, di una libertà che collima con la necessità della ragione, come spontaneità attiva dello spirito nell’avventura dell’esistenza storica. La libertà teologica del cristiano è, invece, la fondazione della fragile volontà umana nell’onnipotenza salvifica e vivificante di Dio e nella misericordia della grazia di Cristo. Altresì, la libertà mistica è nell’abbandono totale dell’anima in Dio e, per Caterina, nell’immersione nel sangue di Cristo. L’impeto prepotente e irresistibile del suo “Io” dolente e vittorioso, percosso da tante sciagure della Chiesa e delle anime, non ha alcun riscontro nella storia della spiritualità se non, forse, in qualche raro esempio di donazione totale da parte della femminilità, di cui l’esempio più antico e puro rimane quello di Antigone. Scorrendo il dato della narrazione umana, dai tempi di Caterina a oggi, si evince un rinnovamento del mondo ‘donna’, e nel mondo religioso e in quello civile che, seppure con fatica, perviene a talune conquiste circa i diritti, lo stesso non può dirsi circa i ‘rapporti’, soprattutto legati a processi di equità e legittimità. Elemento arricchente, più consapevole, nella società moderna diviene l’intuizione del patire e non subire, alimentato dal reagire all’ingiusto, che ne ha determinato un’ascesa dolcemente prepotente, Socrate sosteneva che è peggio compiere un’ingiustizia che subirla, e lo stesso ha sempre insegnato la dottrina cristiana; altro elemento valorizzante è il diletto per la poesia, nell’in sé dell’azione pratica dell’essere femminino, e di Caterina in modo particolare, capace di comprendere la profondità delle situazioni umane con lucida partecipazione e di affrontarle con tenera e lungimirante risoluzione. L’ardore di Caterina era tutto proteso nella direzione della verità e della responsabilità che da essa deriva, nella difesa della dignità, della giustizia, della libertà, poiché persuasa del fatto che la società civile deve essere in funzione e al servizio dell’uomo e, perciò, non può avere altra finalità che quella di favorire e di rendere possibile il completo sviluppo delle persone umane. La Giustizia Ancora oggi, la vergine senese insegna che è la giustizia che assicura il bene individuale e il bene comune. È accorta però a che la giustizia del singolo sia coordinata con la giustizia generale, devono camminare insieme, poiché se subisce ingiustizia un singolo, non significa che se la deve vedere da solo, ma la patisce tutta la società, per non dire poi di quando il bene comune copre un interesse personale del detentore del potere, il quale così si sottrae al dovere di servizio e privatizza la funzione che la società gli attribuisce, invece, nell’interesse collettivo: «Vi sono altri che tengono il capo alto per il potere di signoreggiare, e in questo potere portano le insigne dell’ingiustizia, commettendo ingiustizia verso Dio, verso il prossimo, e verso se stessi»5. Tutta l’attività pubblica di Caterina è finalizzata a richiamare gli uomini a una trasformazione radicale, che deve partire dall’intimo, nelle menti e nei cuori. La giustizia come virtù è un dato interiore, da attuare nell’anima come ordine interno di tutto l’uomo, prima che all’esterno. Dall’indole sociale dell’uomo appare evidente come il perfezionamento della persona umana e lo sviluppo della stessa, sono tra loro interdipendenti (GS 25). Il rispetto della persona, della salus animarum, non è solamente un portato del Vangelo, ma anche un portato della virtù cardinale della giustizia. Come modo di relazione intersoggettiva, il diritto si struttura come specifica risposta alle esigenze della coesistenza. Ci ricorda l’Aquinate: “La verità si connette con la giustizia, ed è anzi 5 Dial., cap. 34, p. 84. 11
una “pars iustitiae” (S. Th., II-II, q. 109, a. 3). Ognuno ha verso gli altri l’obbligo di essere veritiero, e ciò anche perché senza il reciproco credito, la reciproca fiducia, sarebbe tolta la possibilità della convivenza imposta all’uomo dalla sua natura sociale. Tutta la vita in comune è cooperazione per cui, sostiene Tommaso: “Tra gli uomini non potrebbe mantenersi la società, se uno non aiutasse l’altro” (S.C.G., Liber III, c. 131). È impegno della creatura umana approfittare dei propri talenti, ci insegna Caterina che, sublimando tutto, sublima l’azione come proiezione attiva della volontà. Ciascuno, possiede i talenti che riceve e di quelli risponde, e non d’altro, con la conseguenza che non vi è un metro di perfezione uguale per tutti, anzi, ciascuno ha il proprio ‘tutto’ massimo raggiungibile nel concreto della condizione umana specifica in cui si trova. L’isolamento egocentrico, il non prendere responsabilmente posizione, non è solo un attentato verso gli altri, nella società, ma un attentato verso se stessi: l’inerzia del giusto comporta nocumento di amore a se stesso e al prossimo. L’individuo realizza il suo passaggio alla vita personale soltanto incontrandosi con gli altri in una comunità libera in cui all'io si sostituisce il noi, che non nega i singoli, ma tutti li arricchisce e, per così dire, li costituisce nel contatto con gli altri, poiché l’uomo è naturaliter socialis, e domanda di unirsi agli altri nella comunicazione spirituale dell’intelligenza e dell’amore. Non vi può essere così vera carità senza giustizia, la vera carità presuppone la giustizia, perché la prima carità, la prima prova d’amore verso il prossimo è proprio quella di usargli giustizia, altrimenti sarebbe una menzogna, un’ipocrisia, una maschera o mistificazione della giustizia. Bisogna, quindi, dare prima a ciascuno ciò che gli spetta, cioè il suo, se si vuole arrivare a dare più del suo, cioè, il nostro e, se necessario, anche noi stessi. La vera carità è oltre non al di sotto della giustizia: essa comincia là dove la giustizia finisce. Né vi può essere vera giustizia senza carità, la vera giustizia presuppone la carità, in quanto la giustizia è, a suo modo, una forma di amore, orientata com’è al servizio dell’uomo, ed è l’amore che spinge a una conoscenza sempre più adeguata e profonda dei diritti del prossimo. C’è qualcosa di più che nasce dal profondo dell’essere umano che, in qualche angolo celato del cuore, fa fatica a volte ad affiorare. Ciò richiama all’assunto dottrinale “... l’intelligenza scopre...” (S. Th., I-II, q. 94, a. 2): se l’uomo è segno altissimo dell’immagine divina, se questo segno è dato dalla sua libertà, soprattutto, ecco allora che la società degli uomini non può avere altro tessuto connettivo che quello della carità, una carità ovviamente che va ben oltre una solidarietà esistenzialmente necessitata, e che urge di azioni di responsabilità, di coraggio, di giustizia. L’amore di sé, l’arroccato egoismo, attesta l’insegnamento di Caterina da Siena, è radice dell’ingiustizia (L. 268): una critica condotta fino in fondo, fino alle esigenze della verità, è la base della giustizia, e la chiave del bene comune, arduo compito, a volte doloroso, ma è l’unico modo per perseguire in sana conoscenza l’Amore cui siamo stati chiamati, e comprenderne verità. Secondo Caterina, infatti, “Conviensi che l’uomo che ha a signoreggiare altrui e governare, signoreggi e governi prima sé. Come potrebbe il cieco vedere e guidare altrui?” (L. 121). Individua nella giustizia la matrice del bene comune: «Io Caterina ...scrivo a voi...con desiderio di vedere che sempre riluca ne’ petti vostri la margarita della santa giustizia, levandovi da ogni amor proprio, attendendo al bene universale della vostra città e non propriamente al bene particolare di voi medesimi» (L. 367). Caterina predica l’unità, la capacità di superamento delle divisioni. La si può figurare come un personaggio forte, autorevole, che ricorda ai governanti un dato essenziale: il potere, non è dato a loro per loro stessi; è invece dato loro “in prestito” perché ne facciano buon governo, in pratica esercitino correttamente il potere, per il servizio in favore dei governati. Non quindi, la politica, un fatto arricchente, ma un fatto responsabilizzante. Caterina, inoltre, non ha mai smesso di parlare agli ecclesiastici, le sue raccomandazioni parlavano ieri e parlano oggi in efficacia e osservanza del senso del sacro a volte dissacrato; parla ai politici e amministratori di sempre, dialogando fermamente su come recuperare la direzione e il senso del buon operare, che non può essere scollegato dalla virtù della giustizia; parla agli educatori tutti, a volte distratti nel trasmettere contenuti edificanti ed esemplari; soprattutto parla ai giovani che 12
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