Sulle strade dell'esodo - Missionarie Secolari Scalabriniane

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Sulle strade dell'esodo - Missionarie Secolari Scalabriniane
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    Sulle strade dell’esodo
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Sulle strade dell'esodo - Missionarie Secolari Scalabriniane
SOMMARIO
                                         marzo-
    EDITORIALE
3 Trasformazione in atto                 aprile
    Marina Azzola
                                          2020
    SPECIALE DI:
6   Papa Francesco
                                 edizione italiana
10 Prof. Mauro Magatti           Anno XLV n. 2
                                 marzo-aprile 2020
16 Prof. Massimo Grilli
                                 direzione e spedizione:
21 Prof. Patrizia Cappelletti    Missionarie Secolari Scalabriniane
                                 Neckartalstr. 71, 70376 Stuttgart (D)
24 Papa Francesco                Tel. +49/711/541055
                                 redazione:
34 Papa Francesco                M.G. Luise, L. Deponti, G. Civitelli
                                 M. Guidotti, A. Aprigliano
    CONDIVISIONE                 grafica e realizzazione tecnica:
                                 M. Fuchs, M. Bretzel, L. Deponti,
8   Nessuno si salva da solo     M.G. Luise, L. Bortolamai
    Giulia Civitelli
                                 disegni e fotografie:
18 Destinazione paradiso         Copertina e p. 3-4, 6-7, 11, 13-15, 17, 23-
    Bianca Maisano               25, 28, 33-34: Pixabay; p. 5: ringraziamo
                                 il Centro Astalli per la gentile concessio­
22 Un gioco di reciprocità       ne; p. 8-9, 12, 18-20, 22-23, 26-27, 29-32:
                                 archivio delle Mis­­sionarie Se­colari Sca­
    Nadia Antoniazzi             labriniane.

    EMIGRAZIONE
12 A favore dei più deboli       Per sostenere le
    Béatrice Panaro              spese di stampa e spedizione
                                 contiamo sul vostro
                                 libero contributo annuale a:
    PAROLE E IMMAGINI            Missionarie Secolari Scalabriniane
14 Come il volo di un gabbiano   * c.c.p. n° 23259203 Milano -I-
    Maria Grazia Luise           o conti bancari:
                                 *CH25 8097 6000 0121 7008 9
    GIOVANI                      Raiffeisenbank Solothurn -CH-
                                 Swift-Code: RAIFCH22
25 Il tandem continua            *DE30 6009 0100 0548 4000 08
    Christiane Lubos             Volksbank Stuttgart -D-
                                 BIC: VOBADESS
28 Contagiare di speranza
    Lorella Bortolamai           Le Missionarie Secolari
                                 Scalabriniane, Istituto Secolare
30 Pasqua 2020:                  nella Famiglia Scalabriniana,
                                 sono donne consacrate
   Che cosa significa            chiamate a condividere
   per te il futuro?             l‘esodo dei migranti.
    a cura di Margret Bretzel    Pubblicano questo periodico in
                                 quattro lingue come strumento
                                 di dialogo e di incontro
35 PROSSIMAMENTE
     2                           tra le diversità
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ravamo tornate in Vietnam - dopo una sosta nella nostra comunità in Europa - con le
valigie piene di progetti e prospettive da condividere con tanti amici e persone conosciu-
te: giovani, adulti, studenti, bambini, migranti interni.
Con il diffondersi dell’emergenza Covid 19 di colpo tutto è stato capovolto, ogni proget-
to sospeso. Le misure atte a fermare il diffondersi dell’epidemia, varate dal governo
vietnamita inizialmente per due settimane, sono state via via prolungate: continua il
lockdown di scuole, università, luoghi di incontro, mezzi di trasporto pubblico, chiese…
La ferma direttiva del Ministero della Salute e del Comitato del Popolo di Saigon è
“rimanere a casa”.
Una situazione comune a più di un miliardo di persone nel mondo.
Questo tempo ci fa riflettere.
I virus sono le più piccole strutture biologiche1. A differenza di migranti e merci, non
possono essere fermati alle frontiere, hanno dei pass che sfuggono ad ogni controllo,
itinerari che radar o altri strumenti sofisticati non sono in grado di intercettare. Colpi-
scono in maniera indifferenziata le categorie più diverse di persone. Un’entità biologica
microscopica è in grado di esercitare un’azione così devastante, capace di mettere in
crisi e di interrogare tutte le sfere del vivere individuale e comunitario. Soprattutto ad

1 Hanno dimensioni da 18 a 300 nm. e sono mediamente circa 100 volte più piccoli di una cellula.
Contengono tutte le informazioni necessarie per riprodursi, possono farlo però solo all’interno di
una cellula ospite (v. http://curba.racine.ra.it/_static/materialeStud/virus/index.htm).

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andare in crisi è la pretesa onnipotenza di tanti ambiti: tecnologico, scientifico, politico,
economico, finanziario...
La situazione nuova ci fa cercare, andare alla radice della nostra esistenza e mette in
luce ciò che le dà senso. Ci porta a riscoprire la nostra creaturalità, a riconoscere che
la vera e fondamentale dimensione del vivere è ricevere: la vita, le relazioni dalle quali
veniamo e per le quali viviamo, il respiro, l’amore, il presente, il futuro, la via da percor-
rere, la meta…
Ci stimola ad ampliare gli orizzonti del nostro pensare, del nostro concepire e configu-
rare la convivenza e i rapporti tra persone, collettività, paesi, nazioni e continenti. Ci
sveglia alla corresponsabilità nei confronti di ogni uomo, dell’ambiente, della storia, del
mondo. Non possiamo più illuderci di vivere e sopravvivere da soli. Non siamo gli uni
accanto agli altri, ma gli uni negli altri. Una realtà da capogiro che in questo tempo pos-
siamo riscoprire. Siamo strettamente connessi gli uni agli altri2.
Questa ‘clausura’ obbligata, nella sua drammaticità, può allora assumere i risvolti di
una grande opportunità, inaspettata e insieme scomoda, che ribalta le abitudini, i luoghi
comuni, ciò che ritenevamo scontato. Il venire meno delle attività che eravamo soliti
svolgere, e sulle quali spesso appoggiavamo i nostri giorni, ci fa aprire in modo nuovo
                                      gli occhi sulla realtà. Come all’alba di un giorno
                                      nuovo, si dischiudono spazi che siamo chiamati
                                      a vivere nella creatività dell’amore, a partire dalle
                                      relazioni.
                                             Tutto, infatti, si gioca proprio a partire dalle rela-
                                             zioni interpersonali di ogni giorno che, rimettendo
                                             al centro la persona, possono via via contagiare
                                             tutte le nostre scelte nelle diverse sfere della vita
                                             e della convivenza umana. E a partire, soprat-
                                             tutto, dalla sconvolgente novità che la Pasqua
                                             di Gesù ha portato nella storia del mondo e di
                                             ognuno di noi.
                                             Questo tempo è allora l’occasione favorevole per
                                             andare a scuola di relazioni nuove, alla scuola
                                             dell’amore fino alla fine.
La Pasqua di Gesù, mistero di morte-vita, ci svela il segreto di questo amore che non
si arrende di fronte al tradimento, al rifiuto, che accetta anche l’epilogo inglorioso della
sua missione, che fa sua la nostra colpa per scagionarci, che entra nei nostri abissi di
morte per rigenerarci alla vita per sempre. Questo è lo spessore, fino allora inaudito e
sconosciuto, dell’amore fino alla fine che Gesù ci ha testimoniato e dischiuso.
Come lasciare agire nelle nostre relazioni questo amore fino alla fine? Come lasciare
che il processo di trasformazione si compia in noi e lasci solo il profumo della gratuità
dell’amore? Come “fare festa” all’incontro con Gesù Crocifisso, vero fermento di tra-

2 “Siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di
trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari,
tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. (…) ci siamo accorti che
non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme” (papa Francesco, omelia
del 27.03.2020).
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sformazione e di novità nell’a-
more?
La testimonianza delle prime
comunità cristiane ci apre la
pista: “Portiamo sempre e do­
vunque nel nostro corpo la
morte di Gesù, perché anche
la vita di Gesù si manifesti nel
nostro corpo. (…) Cosicché in
noi agisce la morte, in voi la
vita” (2 Cor 4,10-12).
Ogni giorno si presenta l’oc-
casione, in tutto ciò che ci fa
male, disturba, ferisce, di un
in­­contro speciale con Gesù
Crocifisso lasciando che, in
uno sguardo d’intesa, “la mor-
te si sviluppi, perché si svilup-
pi la vita”3 . È proprio il morire
a noi stessi che fa spazio a re-
lazioni nuove, all’accoglienza
dell’altro nella sua diversità,
alla vita di comunione, all’e-
sperienza della Pentecoste. Il
funerale al proprio io è possi-
bile anche in questo tempo di
Covid-19.                            M. Rupnik
“Accogliendo Gesù Crocifisso, cioè riconoscendolo presente anche dentro questa gran-
de prova che il mondo sta vivendo, scopriamo che tutto ciò che sta accadendo ci spinge
ad entrare nel mistero di Dio”4, nel mistero del suo amore senza misura e fuori misura.
Possiamo solo chiedere come dono di lasciarci attirare in questo suo amore e di rima-
nervi: “noi in te e tu in noi, come tu sei nel Padre e il Padre è in te” (Gv 17,21), sveglian-
doci alla portata smisurata di questa inabitazione gli uni negli altri.
Questo tempo di pandemia ci invita a un nuovo tipo di contagio: a contagiare di amore
ogni relazione, a contagiare il mondo di speranza. “Un contagio che si trasmette da
cuore a cuore e che ogni cuore umano attende” 5.
								Marina

3 P. Cesare Zanconato cs.
4 Lettera di Regina a tutte le missionarie, 23.03.2020.
5 “È un altro “contagio”, che si trasmette da cuore a cuore – perché ogni cuore umano attende
questa Buona Notizia. È il contagio della speranza: «Cristo, mia speranza, è risorto!». Non si tratta
di una formula magica, che faccia svanire i problemi. No, la risurrezione di Cristo non è questo. È
invece la vittoria dell’amore sulla radice del male, una vittoria che non “scavalca” la sofferenza e
la morte, ma le attraversa aprendo una strada nell’abisso, trasformando il male in bene: marchio
esclusivo del potere di Dio”. Papa Francesco, 12.04.2020.

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gni crisi è un pericolo, ma è anche un’opportunità. Ed è l’opportunità di
    uscire dal pericolo. Oggi credo che dobbiamo rallentare un determinato ritmo
    di consumo e di produzione (Laudato si’, 191) e imparare a comprendere e a
    contemplare la natura e a riconnetterci con il nostro ambiente reale. Questa è
    un’opportunità di conversione”.
    “Sì, vedo segni iniziali di conversione ad un’economia meno liquida, più uma­
    na. Ma non dovremo perdere la memoria una volta passata la situazione pre-
    sente, non dovremo archiviarla e tornare al punto di prima. È il momento di
    fare il passo, di passare dall’uso e dall’abuso della natura alla contemplazione.
    Noi uomini abbiamo perduto la dimensione della contemplazione; è venuto il
    momento di recuperarla”.
                                                  “E a proposito di contemplazione
                                                  vorrei soffermarmi su un punto:
                                                  è il momento di vedere il povero.
                                                  Gesù ci dice che «i poveri li avete
                                                  sempre con voi». Ed è vero. È
                                                  una realtà, non possiamo negar-
                                                  la. Sono nascosti, perché la po-
                                                  vertà si vergogna.
                                                  A Roma, in piena quarantena, un
                                                  poliziotto ha detto ad un uomo:
                                                  «Non può starsene per strada,
                                                  de­ve andare a casa sua». La
                                                  ri­­­sposta è stata: «Non ho una
                                                  casa. Vivo in strada». Scopri­
                                                  re la quantità di persone che si
                                                  emarginano… e siccome la po-
                                                  vertà fa vergognare, non la vedia­
                                                  mo. Sono là, passiamo accanto a

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loro, ma non le vediamo. Fanno parte del paesaggio, sono cose. Santa Teresa
di Calcutta li ha visti e ha deciso di intraprendere un cammino di conversione.
Vedere i poveri significa restituire loro l’umanità. Non sono cose, non sono
scarti, sono persone. Non possiamo fare una politica assistenzialistica come
con gli animali abbandonati. E invece molte volte i poveri vengono trattati
come animali abbandonati. Non possiamo fare una politica assistenzialistica
e parziale”.
“Scendere nel sottosuolo, e passare dalla società ipervirtualizzata, disincar-
nata, alla carne sofferente del povero, è una conversione doverosa. E se non
cominciamo da lì, la conversione non avrà futuro. Penso ai santi della porta
accanto in questo momento difficile. Sono eroi! Medici, volontari, religiose,
sacerdoti, operatori che svolgono i loro doveri affinché questa società funzioni.
Quanti medici e infermieri sono morti! Quanti sacerdoti sono morti! Quante
religiose sono morte! In servizio, servendo”.
“Mi viene in mente una frase ne «I Promessi sposi», quella del sarto, a mio
giudizio un personaggio tra i più semplici e più coerenti. Diceva: «Non ho mai
trovato che il Signore abbia cominciato un miracolo senza finirlo bene». Se
riconosciamo questo miracolo dei santi accanto a noi, di questi uomini e donne
eroici, se sappiamo seguirne le orme, questo miracolo finirà bene, sarà per il
bene di tutti. Dio non lascia le cose a metà strada. Siamo noi che le lasciamo e
ce ne andiamo. Quello che stiamo vivendo è un luogo di metanoia, di conversio­
ne, e ne abbiamo l’opportunità. Quindi facciamocene carico e andiamo avanti”.

(Stralci dall’intervista di Austen Ivereigh a Papa Francesco, Il Papa
confinato, pubblicata in italiano da La Civiltà Cattolica, 8 aprile 2020)

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on è questo il tempo dell’indifferenza, perché tutto il mondo sta soffrendo e deve
    ritrovarsi unito nell’affrontare la pandemia. Gesù risorto doni speranza a tutti i po-
    veri, a quanti vivono nelle periferie, ai profughi e ai senza tetto. Non siano lasciati
    soli questi fratelli e sorelle più deboli, che popolano le città e le periferie di ogni
    parte del mondo. Non facciamo loro mancare i beni di prima necessità, più difficili
    da reperire ora che molte attività sono chiuse, come pure le medicine e, soprattut-
    to, la possibilità di adeguata assistenza sanitaria.” (Papa Francesco, Benedizione
    Urbi et Orbi, Pasqua 2020)

    Da quando l’infezione da coronavirus ha iniziato a diffondersi in Ita-
    lia, come tutte le attività anche quelle del Terzo Settore hanno subito
    delle modifiche importanti. A Roma per tutti i servizi della Caritas
    Diocesana, e in particolare per l’Area Sanitaria, è stato necessario
    operare scelte e farlo in tempi rapidi, quasi simultaneamente all’evo-
    luzione della situazione generale.
    Per lo staff del Poliambulatorio, rivolto a stranieri senza permesso di
    soggiorno, persone senza dimora e in situazioni di fragilità sociale,
    non è stato semplice né scontato scegliere di proseguire l’attività di
    assistenza. Molti volontari medici, infermieri, farmacisti, personale di
    accoglienza, hanno dovuto a malincuore interrompere il loro servizio
    (alcuni per scelta personale, altri dietro invito dell’equipe, alcuni per-
    ché più a rischio per età o per altre condizioni, altri per proteggere,
    più che sé stessi, i propri familiari). Ogni decisione è stata compresa
    e appoggiata e i pochi volontari rimasti (soprattutto i più giovani) non
    si sono mai sentiti soli né abbandonati, perché sostenuti da tutti con
    preghiere, messaggi, parole. L’équipe del Poliambulatorio è stata
    anche supportata dai tre ragazzi in servizio civile che, pur avendo la
    possibilità di interrompere temporaneamente la loro esperienza su
    indicazione ministeriale, hanno chiesto di poter continuare per dare
    una mano. L’ambulatorio è rimasto aperto, con le dovute attenzio-

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ni, con l’attivazione di una procedura specifica per l’accesso (a scaglioni), l’acco-
glienza, l’individuazione e la gestione degli eventuali ‘casi sospetti’ attraverso uno
specifico triage svolto nel cortile antistante l’ambulatorio, e con un forte ridimen-
sionamento delle attività (visite mediche e medicazioni indifferibili, dispensazione
di farmaci, soprattutto per pazienti con terapie croniche).
Si sta riuscendo così, anche in questo periodo nel quale le strade della città sono
semideserte e diventano ancora più evidenti i poveri che le abitano, ad assicurare
vicinanza e cure a chi è invisibile alle istituzioni, senza casa, per strada. Proprio
per loro, per chi si trova in situazioni più critiche a livello sanitario, sociale e rela-
zionale, si è scelto di continuare ad esserci, ad accogliere, ascoltare, condividere,
curare. Toccando con mano le particolari fragilità di alcune persone ai margini del-
la società nel potersi difendere, al pari del resto della popolazione, dai rischi colle-
gati al contagio da coronavirus, ci si è resi conto della debolezza di risposta delle
istituzioni pubbliche ed è stato iniziato, in rete con altre associazioni, un lavoro di
advocacy perché la società tutta si possa far carico di chi, pur volendo, non può ri-
manere a casa semplicemente perché una casa non ce l’ha1. Per questo la Caritas
di Roma ha lanciato una campagna di solidarietà dal titolo #vorrei…ma non posso.
Così l’équipe del Poliambulatorio ha scritto in una lettera rivolta a tutti i volonta-
ri, nella quale venivano descritte e spiegate le scelte fatte fino a quel momento:
“A confermare la nostra determinazione a lasciare aperto (almeno finora) il Po-
liambulatorio concorrono sia gli aspetti deontologici chiamati in causa da questa
situazione (in particolare quelli previsti dai rispettivi Codici di Deontologia medica
e infermieristica ), sia una specifica modalità di vedere e interpretare il ruolo del
                         Terzo Settore in una contingenza come quella che stiamo
                         vivendo. Siamo infatti convinti che, tra le tante implicazioni
                         gravi e drammatiche indotte da questa emergenza, siamo
                         tutti messi davanti alla necessità di operare scelte, spesso
                         combattute, ‘drammatiche’ e non automatiche, come citta-
                         dini, come operatori della salute, come cristiani, per soste-
                         nere un’idea di comunità realmente capace di farsi carico di
                         chi è più fragile, isolato ed esposto alle conseguenze sfavo-
                         revoli di una situazione di rischio ulteriore”.
                        Come missionaria secolare scalabriniana, come medico,
                        sono grata e onorata di poter condividere questo momento
                        storico con l’equipe, i volontari e, in particolare, con i mi-
                        granti più poveri e le persone più svantaggiate che bussano
                        alla porta del Poliambulatorio. Davvero, come ci ha ricorda-
                        to Papa Francesco durante il momento straordinario di pre-
                        ghiera presieduto il 27 marzo, “nessuno si salva da solo”.

                                                                      Giulia

                        1 Vedi post sul blog saluteinternazionale.info “Vorrei restare
                        a casa” disponibile al link: https://www.saluteinternazionale.
                        info/2020/04/vorreirestareacasa/

                                                                                             9
Sulle strade dell'esodo - Missionarie Secolari Scalabriniane
li storici dicono che le grandi epidemie – insieme alle guerre e alle
     carestie – hanno la forza di scuotere intere civiltà provocandone la rige-
     nerazione morale e spirituale. La rottura della quotidianità, l’esposizione
     alla morte, la sospensione delle regole sono i fattori che concorrono a
     questo risultato.
     In effetti, sappiamo che la parola di origine medica ‘crisi’ indica il mo-
     mento in cui un certo modo di vivere – rivelandosi improvvisamente in-
     sostenibile – va sostituito con un altro.
     Ecco perché crisi significa ‘separare’, ‘decidere’. Sempre in medicina,
     il momento ‘critico’ è quello in cui si deve scegliere tra la vita – come
     riapertura del futuro – e la morte – come ripiegamento sugli elementi
     distruttivi che stanno all’origine della crisi. Noi oggi ci troviamo esatta-
     mente qui: sospesi tra la vita e la morte. Tra un passato a cui non si
     può tornare, un presente terribile e un futuro che non sappiamo immagi-
     nare. E che potrà essere molto peggiore o molto migliore. Per andare
     nella seconda direzione occorre discernere nella situazione che stiamo
     vivendo gli aspetti di speranza da quelli mortiferi. In quella battaglia a
     cui assistiamo ogni giorno in cui vita e morte si confrontano a viso aper-
     to. La politica è più che mai in campo. Semplicemente perché nessuno
     può affrontare il virus da solo. Per sventare il pericolo abbiamo bisogno
     delle istituzioni collettive, peraltro messe a durissima prova. Coesione,
     capacità di decisione e di azione, disponibilità di risorse. A tutti i livelli la
     politica è potentemente chiamata in causa.

10
Ma deve scegliere: prendere la strada dell’autoritarismo che cancella la
libertà o scommettere sulla responsabilità di tutti in un quadro coordi-
nato e coeso? (…)
Nel momento in cui le nostre certezze si rivelano fasulle, le religioni
hanno il compito di restituire spessore antropologico a quella condi-
zione di precarietà che è la condizione costitutiva dell’essere umano.
Nella consapevolezza che ‘preghiera’ – dal latino prece – ha la stessa
etimologia di ‘precario’. E per questa via riscoprire che, più che la si-
curezza – per definizione sempre vulnerabile – l’uomo è sempre alla
ricerca della salvezza: come realizzazione della propria vocazione che,
senza escluderla, non permette che sia la morte ad avere l’ultima parola
sulla vita.
Ecco dunque il dilemma: le religioni saranno capaci di sostenere l’espe-
rienza dell’affidamento a un senso che pure, in questi giorni drammatici,
non riusciamo a cogliere? Saranno cioè capaci di morire per rinascere,
così da permettere all’uomo contemporaneo di non sprofondare nell’an-
goscia da cui rischia di essere travolto?
Non sappiamo quanto questa crisi durerà. Né dove ci porterà. Sappia-
mo, però, che non saremo più gli stessi di prima. Vita e morte si stanno
scontrando. In qualunque ambito della vita sociale ci troviamo a essere,
occorre decidere da che parte stare.

(Stralci dall’articolo pubblicato da Avvenire, 18 marzo 2020)

                                                                            11
éatrice, che lavora nell’accompagnamento dei richiedenti asilo presso
l’Ufficio di servizio sociale della chiesa cattolica della regione di Berna
(FASA), ci dà uno sguardo sulla situazione di queste persone nei momen-
ti difficili della pandemia. L’impegno di Béatrice è rivolto alla categoria
più vulnerabile: cioè coloro la cui richiesta di asilo è stata respinta dalle
autorità svizzere e che quindi non hanno un permesso di soggiorno.

Grazie a delle video chiamate rimaniamo vicini ai rifugiati soli, in situazione di
precarietà. In maggioranza sono giovani. Il loro quotidiano in tempi normali è
già segnato dalla paura, perché sono stati respinti. In questo periodo di pan-
demia, la paura si è raddoppiata, perché qualche loro vicino di stanza si è am-
malato. Sono in quarantena e non possono uscire. Dicono che la loro attività
principale è la preghiera. Tramite facebook o skype, quelli che condividono
la stessa stanza sono collegati con la loro comunità religiosa: musulmani,
hindu, buddisti, cristiani. Ciascun gruppo prega per tutto il mondo. Sentono la
vicinanza di Dio: “Penso che Lui è sempre con noi” mi ha detto Henok.
Arbha ringrazia: “Grazie per la vicinanza della Chiesa, per tutto quello che sta
facendo per noi. È come una madre, sempre al mio fianco, mi sostiene e mi
incoraggia”.
Presso il servizio FASA, non ci limitiamo al contatto personale. Piu che mai è impor-
tante essere in rete. Appoggiamo e diffondiamo gli appelli di organismi umanitari rivol-
ti al governo federale, come ad esempio la richiesta di sospendere temporaneamente
le procedure d’asilo. Infatti “la sicurezza delle persone coinvolte non è pienamente
assicurata, in molti casi non è più possibile garantire con la necessaria precisione

12
il mandato della protezione giuridica e delle decisioni di alta qualità riguardo alle ri-
chieste d’asilo”. A causa della diffusione del COVID-19 la disponibilità del personale
medico si è molto ridotta: per questo non si possono più stilare in maniera completa
i rapporti sullo stato di salute dei richiedenti asilo che molto spesso sono necessari
per stabilire se una persona può essere accolta per ragioni umanitarie in Svizzera.
Inoltre, gli uffici di assistenza legale gratuita per i richiedenti asilo hanno dovuto dimi-
nuire le loro attività. Per cui non c’è più la garanzia che i richiedenti asilo possano fare
ricorso in caso di una risposta negativa.
Diversi richiedenti asilo che conosciamo hanno dei parenti in Grecia. Sono molto
preoccupati per loro. Decine di migliaia di profughi vivono nelle isole dell’Egeo in
condizioni disumane, rinchiusi in campi isolati dal mondo esterno e in cui mancano le
infrastrutture igieniche di base. Per questo la pandemia del coronavirus rappresenta
una minaccia devastante per la vita di queste persone.
In un appello al Consiglio federale, le tre principali Chiese cristiane del paese chie-
dono che il gruppo individuato sull’isola Lesbo composto da profughi minorenni non
accompagnati che hanno dei parenti in Svizzera sia evacuato rapidamente verso la
Confederazione.
“In una prospettiva cristiana, il messaggio pasquale dona speranza e fiducia in que-
sta difficile situazione: la morte non ha l’ultima parola e la Pasqua infonde una nuova
dinamica di vita”, dichiara il vescovo Felix Gmür, presidente della Conferenza dei
                                         vescovi svizzeri (CVS). In questo senso e con
                                         questo spirito, le Chiese forniscono il proprio
                                         aiuto sia con la raccolta di fondi sia tramite le
                                         loro organizzazioni umanitarie. Il fatto che l’Eu-
                                         ropa non abbia ancora trovato una risposta
                                         unitaria alla catastrofe dei profughi non solleva
                                         i politici svizzeri dalle loro responsabilità. “Un
                                         atto di umanità da parte della Svizzera non co-
                                         stituisce uno sforzo solitario nella politica eu-
                                         ropea dei rifugiati”, sottolinea Gottfried Locher,
                                         presidente della Chiesa evangelica riformata in
                                         Svizzera (CERS). “La Svizzera può essere un
                                         modello per l’Europa in questo periodo di Pa-
                                         squa – in termini di umanità e atteggiamento”.
                                      Finora sono stati identificati solo una ventina
                                      di minorenni non accompagnati con un legame
                                      familiare in Svizzera. Tuttavia, il numero reale
                                      è molto più elevato. In tanti luoghi della Svizze-
                                      ra, le città e i comuni, le comunità parrocchiali,
                                      le organizzazioni di aiuto, ecclesiastiche e non,
                                      sono in grado di accogliere e assistere queste
persone. Anche le Chiese sono pronte e auspicano che il Consiglio federale voglia
sostenere e fare proprio un gesto di generosità a favore dei più deboli. “La vita – e
non la morte – dovrebbe avere l’ultima parola, perché il messaggio di speranza della
Pasqua è universale e valido per tutti”, conclude Harald Rein, vescovo della Chiesa
cattolica cristiana della Svizzera.
                                                                  Béatrice
                                                                                        13
a fede non nasce dal nostro pensare o dal proprio volere,
      è un raggio di luce che ci raggiunge e sorprende nel buio
         nella valle dove abbiamo toccato la nostra miseria.
          Un colpo d’ala fa percepire la fragilità della vita
                      in balia di un cieco vagare.

         Nelle tenebre fitte, nel silenzio del mondo stupisce,
          vicina al confine con la mezzanotte, quell’aurora
                   che ci svela creature connesse.

         La sorpresa ci fa ritrovare la nostra sorgente divina
             col Suo soffio di vita che non può mai finire,
                  mentre noi coltiviamo oltre il tempo
                      il sogno di vivere sempre.

     Dio creatore, principio di tutto, che ha dato al fango la vita
              ci porta a sondare profondità e ad entrare
            nel mistero pasquale: porto affidabile di amore
                     nel Cristo crocifisso e risorto.

È un amore sublime ed insieme vicino che non ci ha mai lasciato,
    anche se da noi trascurato, è sempre tornato a bussare
     perché, risalendo la china, lasciassimo le inutili rive,
             le nostre misure cui siamo aggrappati.

14
Affidati alla fede, al Suo volo, ci possiamo slegare dai lacci fallaci
        che il maligno ha inventato per ridurci a individui mortali.
         Nel trovarci così solidali, ci sorprende la vera vittoria
                 dell’amore di Dio che ci ha liberato le ali
                    col dono in Gesù di una vita filiale.

                 Come vola un gabbiano nei cieli e sui mari
                     librandosi lieve stendendo le ali,
   così ci lasciamo elevare dallo Spirito Santo nei cieli infiniti di Dio:
     nell’abbraccio di misericordia del Padre che ci salva e ci apre
                  a una vita immortale di gioia e di pace.

      Attraverso la croce di tanto dolore, che oggi tutti ci affligge
                l’esperienza pasquale di un eterno amore
                    ci apre le mani e il cuore all’aiuto
                    e ci fa appartenenti specialmente
                        a chi soffre, a chi muore.

  E lo Spirito Santo abbatte i confini di ciò che era chiuso e impedito,
     per portarci a scoprire e a seguire la vita di un amore infinito,
             la vita più vera per tutti che rimane per sempre:
                             il rinascere in Dio.

Questo dono gratuito di amore ci invita a servire nel mondo il suo regno,
      e ci apre da ora ai Suoi Cieli: regalandoci un nuovo respiro
              per tutte le genti, trasformandoci insieme
                in un abbraccio fraterno, accogliente.

                                                        Maria Grazia

                                                                        15
a prima parola, spontanea, che mi viene sulle labbra in questa tragica cir-
     costanza è “fragilità”. Poche volte, come oggi, anche il nostro occidente, di
     fronte a un nemico invisibile, prende coscienza della sua caducità. Dico “an-
     che il nostro occidente” perché, in tante altre regioni del mondo, la coscienza
     che il limite contrassegni la sorte dell’uomo è pane quotidiano.
     Riscoprire la caducità è principio di saggezza, perché la prima regola per
     venire alla luce è di non mentire di fronte ai fatti. In un momento così delicato,
     riconciliarci con la nostra fragilità è la condizione senza la quale nulla può
     ricominciare.
     La speranza è che tutti possiamo recuperare almeno la saggezza del giorno
     dopo, dato che quella del giorno prima non ci appartiene. Dobbiamo far sì che
     le nostre relazioni non siano più regolate dall’arroganza e dalla presunzione,
     ma dalla consapevolezza di condividere una condizione di base: siamo argilla
     fragile. È un dato costitutivo del nostro essere e niente è possibile senza que­
     sta verità. (…)
     Siamo in un momento in cui abbiamo coscienza che le utopie della modernità
     non ci hanno portato oltre la solitudine e la morte… Ma proprio per questo
     – proprio perché la situazione si è fatta desolata, assurda e disperata – ci
     chiediamo: “perché?”. Abbiamo bisogno di una Presenza. Si sente bisogno di
     un amico nei giorni dell’impotenza più che in quelli dell’onnipotenza. Siamo
     forse chiamati a ripensare e interrogarci sull’immagine che abbiamo di Dio e
     dell’uomo. (…)
     Non siamo chiamati in questo momento a riscoprire “la Parola” e ad avere
     “nostalgia” dell’Eucarestia, una fede autentica, lontana dagli orpelli, dai fron-

16
zoli di cui l’abbiamo rivestita? Non siamo chiamati a incontrare Dio nell’unico
santuario degno di questo nome: l’uomo e, anzitutto, l’uomo crocifisso?
Non esiste un mondo sacro e un mondo profano: ciò che è di Dio esiste solo
nelle cose profane. Non a caso, nel momento in cui Gesù muore, il velo del
tempio si squarcia e un pagano “vedendolo morire così” proclama Gesù “figlio
di Dio”. Non è più il tempio il luogo di accesso a Dio (né quello di Gerusalem-
me, né quello dei tanti Garizim sparsi nel mondo) ma il Crocifisso, e i croci-
fissi: “avevo fame e mi avete dato da mangiare, ero infermo e siete venuti a
visitarmi, ero nudo e mi avete vestito…”.
Con l’immagine di Dio è necessario ripensare anche l’immagine dell’uomo e
delle creature tutte.(…)
È alle porte la settimana della passione-morte-risurrezione del Figlio dell’uo-
mo, Colui che per noi cristiani incarna l’immagine autentica di Dio e l’immagi-
ne autentica dell’uomo. Gli eventi della croce ci dicono che la sconfitta, la
solitudine e persino il peccato dell’uomo (sì, anche il peccato) appartengono
ormai a Dio e vengono assunti nel mistero di salvezza. (…)

Sì, Dio non ci abbandona neanche quando noi disperiamo della sua Presenza.
È stato detto che ci sono bestemmie di uomini disperati che sono più accette
a Dio di tante lodi di uomini benpensanti. Chi muore, in questi giorni, non ha
probabilmente né la forza per maledire, né la coscienza e l’energia necessaria
per pregare. È semplicemente solo. Questa solitudine però è abitata da Dio.
Forse, è proprio a partire da questa solidarietà che potremo trovare la forza di
nascere a vita nuova.

(Stralci dalla “Lettera agli studenti”, Pasqua 2020)
                                                                                   17
ianca, dal Vietnam, ci parla dell’amicizia con Phuoc
                           e con altri pazienti, nell’hospice per malati terminali
                           dove è presente come medico volontario a Ho Chi
                           Minh City.

                           Il mio amico Phuoc è partito due giorni fa. Destinazione
                           Paradiso. Oggi trovo il suo letto vuoto, o meglio occupa-
                           to dal prossimo “in partenza”, Tuan.
                           Accanto al letto di Tuan c’è H. che si prende cura di lui
     con un amore che continua a sconcertarmi. Gratuito e gioioso.
     H. è un paziente con la maglietta verde. Sta bene ormai, e con altre “magliette
     verdi” fa parte della squadra dei “caregivers”, una “task force” di tutto fare
                                                    che svolge ogni tipo di servizio
                                                    si renda necessario per gli altri
                                                    pazienti.
                                                    Qui è l’unico posto che io cono-
                                                    sca dove, di questi tempi, non
                                                    si parli di Corona Virus, ormai
                                                    sinonimo di paura, di morte.
                                                    Forse perché qui la morte è già
                                                    sorella, ospite attesa: per in-
                                                    contrarla ci si prepara ogni gior-
                                                    no con gesti concreti di amore
                                                    che creano famiglia.
                                                    Il panico che ci ha preso per
                                                    essere improvvisamente chiusi
                                                    in casa senza la possibilità di
                                                    programmare nemmeno il gior-
                                                    no dopo, qui non esiste proprio.
                                                    La vita è già chiusa qui dentro
                                                    dalla paura degli altri, dallo stig-
                                                    ma che la sola parola tuberco-
                                                    losi o HIV/AIDS suscita nella
                                                    società, negli amici, nei fami-

18
liari, nei vicini di casa. Uno stigma ancora molto contagioso e diffuso se la
diagnosi di queste due malattie attualmente curabili, equivale a una sentenza
di morte: non tanto fisica ma sociale, relazionale. Tutto si rompe, si spezza
e improvvisamente non esisti più per gli altri, neppure per i tuoi cari. Da solo
devi ricominciare a coltivare invisibili germi di speranza sepolti nel profondo
della terra del tuo cuore. Per vivere.
Secondo un rapporto recente dell’Organizzazione mondiale della sanità
(OMS), il Vietnam è ancora un paese con un elevato tasso di tubercolosi,
al sedicesimo posto tra i 30 paesi con il più alto numero di pazienti affetti da
questa malattia a livello globale.
Per quanto riguarda l’HIV/AIDS, spesso associata a tubercolosi, si registrano
circa 8.000 nuovi casi ogni anno; ma il dato è sottostimato rispetto alla diffu-
sione di questa malattia poiché i pazienti tendono a nascondere la loro pato-
logia per timore di essere esclusi. L’HIV di fatto è una delle principali cause di
morte in Vietnam (3000-4000 morti ogni anno).
Avere un luogo dove altri come te lottano per esistere si rivela immediata-
mente come una medicina. E lì dentro tanti uomini e donne soli scoprono di
esistere per qualcuno. Si creano vincoli, nella vicinanza, attraverso semplici
sguardi. E giorno dopo giorno si diventa fratelli e sorelle, figli. Una famiglia
nuova.
Qualche giorno fa Phuoc è stato battezzato (o ribattezzato) e contempora-
neamente unto con l’olio santo: segnale che doveva raccogliere le forze per
l’ultima salita. Stringendogli la mano ho avvertito che lo stavo salutando. Sono

                                                                                     19
rimasta con lui in silenzio per fargli semplicemen-
                                te compagnia. Gli occhi ogni tanto sembravano
                                riaccendersi ma il respiro era affannato. Eppure,
                                il Battesimo, come un alito di vita nuova, gli stava
                                dando forza, forse anche serenità.
                                I miei dialoghi con Phuoc in questi mesi sono sem-
                                pre stati speciali. Ed anche in questo momento mi
                                sembra di cogliere la sua richiesta di vicinanza.
                                Siamo parte di uno stesso Corpo, proprio grazie
                                al Battesimo. Ed è certamente lo Spirito che ci ac-
                                compagna in questi difficili tratti di strada della vita
                                regalandoci un orizzonte. E se c’è un Orizzonte è
                                più facile procedere, nonostante la fatica della sali-
                                ta. È nell’ora della prova che questa realtà esprime
                                tutta la sua travolgente potenza.
                                Avrei voluto sapere di più della sua storia di in-
                                segnante di inglese. Amava i Beatles e certamen-
                                te da bambino aveva visto la guerra negli occhi.
                                Suonava la chitarra e gli piaceva cantare. Con lui
                                ho scoperto, qualche mese fa, la musico-terapia
                                proprio quando stava mollando “in salita”.
                                “Vorrei suonare di nuovo la chitarra per te”.
     Vivere per qualcuno, cantare per qualcuno. Senza accorgermi la mia pre-
     senza ed anche l’assenza e l’attesa di rivedersi, diventavano motivazioni per
                                vivere. Spendere le proprie forze, anche poche,
                                per gli altri. Questo è il segreto, la “terapia” che
                                mi insegnano questi pazienti.
                                  Provare loro la pressione è la scusa per dire a
                                  ciascuno “Ci sei”, “Il tuo cuore batte più forte sta-
                                  mattina”. Oggi mi sono commossa perché hanno
                                  dato anche a me la maglietta verde, mi sentono
                                  parte di questa speciale famiglia.
                                  Chi è veramente il medico? Non lo so. A volte
                                  penso che in questo tempo di paura questi amici
                                  sarebbero i migliori terapisti. Insegnano a vince-
                                  re lo sconforto, la solitudine con l’amore recipro-
                                  co, il servizio, la fiducia. Sono medicine efficaci
                                  che non sconfiggono la morte ma aiutano ad
                                  accogliere fragilità e paura e ad attraversare an-
                                  che la morte quando ci verrà incontro certi della
                                  risurrezione.
                                  E il paradiso allora, è già qui! Arrivederci Phuoc!

                                                                     Bianca

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ono giorni di preoccupazione. Un’angoscia diffusa ci accorcia il respiro,
perché ci scopriamo tutti esposti ad un futuro a bassa ossigenazione. Ma pro-
prio questo senso di caducità può produrre qualcosa di buono: “la coscien­za,
sempre più lucida di ciò che non passa, di ciò che è eterno” (racconta Roma-
no Guardini). Una nuova “saggezza”.
Questo momento ci costringe a passare un guado, ad attraversare i canyon
dell’esistenza, della verità del nostro esserci, poiché è quando ci manca l’aria,
che ci accorgiamo di quanto essa sia preziosa. Allo stesso modo, questo ri­
sco­prirci precari ci spinge a fare i conti – mai in pareggio – della vita stessa.
Anzi, è proprio questa impossibilità di pareggiarli, i conti, quando l’idea di una
“fine” rientra nei nostri orizzonti, che spinge a puntare alto, ad alzare la posta,
ad affrontare la grande domanda: cosa vale la mia vita?
Sembrerebbe strano, persi nell’orizzonte di domande così sconvolgenti, vol-
gere lo sguardo al nostro ben più piccolo fare. O forse no. Perché “Cercare di
fare bene quello che stiamo facendo” potrebbe significare oggi riconsiderare,
per ridarvi senso e valore, a cosa ci stavamo dedicando “prima”, a cosa
prendeva il nostro tempo e le nostre migliori energie. Era davvero importante?
Era qualcosa “che resta”? (…)
Ci sono due tipi di attività, racconta ancora Guardini, quella della dynamis
im­me­diata – la forza che ci porta a fare, organizzare, produrre – e quella del
senso delle cose, del bene. Nell’uomo adulto esse trovano un certo equilibrio
che va verso la saggezza.
Nell’essere oggi a faccia a faccia con la nostra caducità ci è offerta la possibi-
lità di diventare una società più adulta recuperando, per riconoscerlo nuova-
mente, un “fare bene” che nell’impoverirsi ci ha reso tutti più poveri. (…)
È forse il tempo di una nuova maturità che passa anche dal rimettere al posto
giusto le cose, soprattutto quelle che durano.

(Stralci da “Il tempo dell’esemplarità”, pubblicato in generativita.it,
23 marzo 2020)
                                                                                      21
adia, missionaria ad Agrigento, insegna reli-
gione in un Istituto comprensivo del centro cit-
tadino e, in particolare, quest’anno le sono sta-
te affidate le sezioni della scuola dell’infanzia.
Persino per questo grado di scuola si è dovuto
attivare la didattica a distanza e anche quest’e-
sperienza si è rivelata un’occasione per curare
e fare emergere quei semina verbi che abitano gli ambienti di lavoro e che
possono far germogliare attenzioni e relazioni che vanno ben oltre la didattica.

In Italia la chiusura delle scuole su tutto il territorio nazionale è stata decretata gio-
vedì 5 marzo e già lunedì 9 marzo a tutti gli insegnanti, persino a noi che abbiamo
alunni tra i tre e i cinque anni, è stato chiesto di attivare la didattica a distanza.
All’inizio mi sono spaventata: cosa posso fare in videoconferenza con bambini così
piccoli che inoltre hanno bisogno di avere accanto i genitori? E poi ho dieci sezioni!
Chiedendo spiegazioni alla vice preside ho capito che ogni insegnante titolare della
sezione avrebbe creato uno spazio virtuale. Io, come insegnante di religione, avrei
dovuto limitarmi a chiedere l’accesso per caricare il materiale riguardante la mia
materia.
In quel giorno qualche collega, che già sapeva usare gli strumenti informatici, ha
preparato la sua pagina di classe virtuale e mi ha mandato l’invito per accedere e
mettere a disposizione dei bambini le mie schede. Ma ben presto, chiedendo l’ac-
cesso alle altre sezioni virtuali, mi sono accorta che, come me, diversi colleghi non
avevano dimestichezza con questi mezzi ed erano un po’ preoccupati e scoraggiati.
È vero, non si era partiti insieme dando istruzioni a chi non sapeva come muoversi.
Ma quando si è in tanti insegnanti, c’è la fretta di iniziare, si ha paura del nuovo - e in
questo tempo si ha paura di tutto - e ci si può dimenticare di qualche dettaglio, che
poi dettaglio non è. Sono cose che nell’ambiente di lavoro capitano.
Che cosa fare? La mia parte, in fondo, era facile: dovevo solo aspettare che gli altri
insegnanti preparassero le loro classi virtuali. Ma quando capisci che si tratta di una
situazione nuova per tutti, sai che per affrontarla ci vuole il contributo di ciascuno,
che può mettere a disposizione quello che ha, quello che sa, fosse anche solo il far
sentire la propria vicinanza.
Anch’io, come i colleghi, mi sentivo inesperta, ma capivo che alcuni di loro non erano
per niente abituati ad usare il computer e non sapevano da che parte cominciare.
Allora con l’aiuto di un’altra missionaria ho provato a creare la classe virtuale per una
collega. Avendo imparato, ho pensato che la cosa più normale fosse tentare tutto
perché anche gli altri che si trovavano in difficoltà potessero riuscire.
Il tempo passato al telefono a spiegare tutti i passaggi ad ognuno è stato molto,
ma alla fine mi faceva gioire il fatto che nella pagina, come autore, apparisse il

22
loro nome. Se qualche volta però per
dei problemi tecnici, appariva il mio, i
colleghi, entrati in una logica di aiuto
scambievole, mi rassicuravano: “Non
ti preoccupare, va bene così, l’impor-
tante è che riusciamo a far arrivare il
materiale ai bambini. Stiamo facen-
do tutto insieme!”. Quando desideri il
bene dell’altro, che l’altro riesca, allora
sei contenta anche tu. È una catena:
tu ti preoccupi dell’altro, lui di un altro
ancora e così via… E alla fine: chi ha
aiutato chi?
Infatti, in mezzo a tutte queste telefonate, i dialoghi si sono arricchiti di piccoli fatti e
riflessioni ed è emersa una consapevolezza: noi prepariamo tutte queste cose, ma
alcuni dei nostri bambini non hanno tante possibilità, chissà se possono collegarsi
a internet, se stanno seguendo il programma! Così, mentre cercavo la maestra di
una bambina bengalese arrivata in Italia da poco, la professoressa di suo fratello,
che frequenta la scuola secondaria, ha chiamato per sapere se avevo notizie della
famiglia e se lui aveva i mezzi per seguire la didattica online. E dopo il primo contat-
to con il papà, i colleghi sono intervenuti e gli hanno messo a disposizione uno dei
tablet della scuola.
E a poco a poco lo sguardo sull’altro si è andato allargando: “Va bene, stiamo tutti
impazzendo per la didattica a distanza, ma io mi domando se queste bambine man-
giano”, mi ha detto una collega, pensando alle due sorelline pakistane nostre alunne.
“Per favore, contatti tu la famiglia e, se hanno bisogno di qualcosa, porti loro un po’
di spesa da parte mia? Io abito in un altro comune e non posso venire ad Agrigento”.
E portando a casa la spesa, si approfitta per un saluto a distanza alla mamma, in
attesa del terzo figlio, e si scopre che, sebbene al sesto mese di gravidanza, non è
                        mai andata al consultorio familiare. E allora si interviene con
                        nuovi contatti con gli operatori sanitari, per aiutare la signora a
                        superare gli ostacoli e ad accedere più facilmente all’assisten-
                        za in questo tempo in cui tutto è più difficile.
                        Una volta fissato l’appuntamento e trovato un vicino che po-
                        tesse accompagnarla per permettere al papà di restare a casa
                        con le figlie ed intervenire telefonicamente come mediatore
                        linguistico per la moglie, chiediamo se hanno i guanti e la ma-
                        scherina per andare alla visita medica. Quando gli offriamo la
                        mascherina che tante volontarie stanno cucendo per la Cari-
                        tas, la signora ci dice che lei a casa ha una piccola macchina
                        da cucire e che potrebbe aiutare la Caritas.
                       Certo, ognuno può mettere quello che ha nel grande gioco
                       dell’appartenenza reciproca.
                       Il papà bengalese, dopo aver ricevuto appoggio perché i fi-
                       gli potessero partecipare alla didattica a distanza e la famiglia
                       potesse ottenere dei buoni spesa dal Comune, in questi ultimi
                       tempi non chiama più per chiedere aiuto, ma telefona spesso
                       per essere sicuro che vada tutto bene: “Sai, questo virus è
                       pericoloso. Volevo solo sapere se state bene”.
                                                                       Nadia
                                                                                          23
nziani isolati. Solitudine e distanza. […] E ciò nonostante gli anziani continuano ad
essere le radici. E devono parlare con i giovani. Questa tensione tra vecchi e giovani
deve sempre risolversi nell’incontro. Perché il giovane è germoglio, fogliame, ma ha
bisogno della radice; altrimenti non può dare frutto. L’anziano è come la radice. Agli
anziani di oggi voglio dire: so che sentite la morte vicina e avete paura, ma volgete lo
sguardo dall’altra parte, ricordate i nipoti e non smettete di sognare. È questo che Dio
vi chiede: di sognare (Gioele 3,1).
Che ho da dire ai giovani? Abbiate il coraggio di guardare più avanti e siate profeti. Al
sogno degli anziani faccia riscontro la vostra profezia. Anche questo è in Gioele 3,1”.
“Le persone rese povere dalla crisi sono i defraudati di oggi che si aggiungono a tanti
spogliati di sempre, uomini e donne che portano «spogliato» come stato civile. Hanno
perduto tutto o stanno per perdere tutto.
Che senso ha per me, oggi, questo perdere tutto alla luce del Vangelo? Entrare nel
mondo degli «spogliati», capire che chi prima aveva, adesso non ha più. Quello che
chiedo alla gente è di farsi carico degli anziani e dei giovani. Di farsi carico della storia.
Di farsi carico di questi defraudati”.

(Stralci dall’intervista di Austen Ivereigh a Papa Francesco, Il Papa con-
finato, pubblicata in italiano da La Civiltà Cattolica, 8 aprile 2020)
 24
l semestre era appena cominciato e d’improvviso abbiamo dovuto in-
terromperlo. Anche in Svizzera dalla metà di marzo le lezioni sono con-
tinuate a distanza con i mezzi digitali”: Christiane, che lavora presso la
Facoltà di Pedagogia della Svizzera Nord-Occidentale, ci racconta come,
nella fase del distanziamento sociale, si sia potuto mantenere in vita il
progetto di “tandem” tra studenti dell’università e giovani richiedenti
asilo e rifugiati.

In seguito alla chiusura delle lezioni presenziali all’università ci siamo chiesti:
cosa possiamo fare per favorire gli incontri personali? Nella Facoltà erano
state programmate delle ore di pratica nelle classi di integrazione per giovani
stranieri e alcuni studenti di pedagogia avrebbero dovuto fare visita ai bambini
e ragazzi rifugiati che vivono in centri di accoglienza.
Dopo un primo momento di paralisi, hanno preso avvio dei tandem virtuali
attraverso il cellulare o il computer: da una parte uno studente o una studen-
tessa di pedagogia e dall’altra un giovane rifugiato. I riscontri dei partecipanti
sorprendono e incoraggiano a continuare. Eccone alcuni:
“Domenica scorsa ho avuto la prima teleconferenza con Dawit. Siccome ha
trovato da poco un posto per il tirocinio, in questo periodo ha ricevuto alcuni
documenti (il contratto, le informazioni dell’associazione di categoria, degli
opuscoli, ecc.). Li abbiamo guardati insieme per chiarire i punti più difficili.
Successivamente ci siamo intrattenuti su altri temi più personali e ci siamo
conosciuti un po’ meglio. In totale siamo rimasti al telefono per circa un’ora e
mezza! Tra noi c’è stata subito una bella intesa e non vedo l’ora di incontrarlo
nelle prossime sessioni”. (Markus)
                                                                                      25
“Ieri ho avuto il colloquio con tre ragazzi iracheni. Mi hanno detto cosa fan-
     no tutto il giorno. Si stancano molto a rimanere in casa. Non possono fare
     nessuna attività: né scuola, né corsi, né sport… In tutto sono in sette, chiusi
     in tre stanze… Hanno raccontato che hanno già visitato un po’ la Svizzera
     e che gli piace molto. Secondo loro qui tutto è molto rego-
     lato, al contrario dell’Iraq, e soprattutto c’è la pace. Capisco
     la loro situazione: deve essere molto noioso per loro questo
     momento. Gli ho fatto coraggio, perché speriamo che presto
     tutto torni normale. I tre ragazzi mi risultano davvero simpati-
     ci”. (Michael)
     “Oggi ho sentito Tedros per telefono. Il colloquio si è svolto
     incredibilmente bene. Sono entusiasta della motivazione che
     spinge questo giovane eritreo. Abbiamo scoperto che entram-
     bi giochiamo a calcio e che probabilmente senza saperlo ci
     siamo già incontrati in campo come avversari. Purtroppo per
                                              me, lui sa tirare sia
                                              con il destro che con
                                              il sinistro e per que-
                                              sto è avvantaggiato
                                              nel gioco.
                                              Ci siamo messi d’ac-
                                              cordo che ci sentire-
                                              mo due volte alla set-
                                              timana. Se per ca­so,
                                              però, avrà dei dubbi
                                              mentre fa i compiti,
                                              mi potrà sem­pre scri-
                                              vere. Secondo la ne-
                                              cessità mi farò vivo
                                              con lui per poterlo
                                              aiu­­tare.
                                              La sua materia pre-
                                              ferita è la matemati-
                                              ca, mentre io prefe-
                                              risco storia e geografia. Non vorrei
                                              che lui si sen­tisse sempre nel ruolo
                                              dell’alunno, per questo abbiamo de-
                                              ciso che la prossima volta, se non ha
                                              delle domande sui compiti, mi potrà
                                              raccontare qualcosa della storia e
                                              della geografia dell’Eritrea. Ovvia-
                                              mente, so­lo se vuole. Con me deve
                                              parlare in tedesco altrimenti non lo
                                              capisco, per cui è un buon esercizio
                                              per lui. Penso che questa nostra col-
     laborazione andrà benissimo. Mi sono reso conto che un gesto così piccolo
     può dare una grande gioia a una persona” (Denis).
     Anche i giovani richiedenti asilo hanno scritto:
     “Ieri ho parlato con una studentessa della Facoltà di Pedagogia. Si chiama
     Sabine e per mezz’ora abbiamo parlato delle varie professioni, dei film sviz-
     zeri e di altre cose. Questo progetto mi piace molto e raccomando a tutti i

26
miei compagni di iscriversi. È molto
istruttivo!” (ragazzo afgano).
“Da tre settimane non esco più di
casa. Condivido l’alloggio con altri
               quat­­tro giovani eri-
               trei. Ho pensato che
               non avrei resistito più
               a lungo… In Svizzera
               sono solo, non cono-
               sco nessuno.
               Adesso mi chiama
               una studentessa du-
               rante la settimana e
               chattiamo. Ci siamo
               rac­contati tante cose
               e abbiamo riso molto.
               Non vedo l’ora di co-
               noscerla di persona,
               quando potremo in-
               contrarci. Sono mol-
               to contento di questo
               con­­tatto. Grazie” (ra-
               gazzo eritreo).
                Anche la con­ver­sa­
                zio­­ne di tedesco, un appuntamento del venerdì sera al Cen-
                tro Internazionale Scalabrini (IBZ) di Solothurn con giovani ed
                adulti, persone del posto e richiedenti asilo e migranti da poco
                arrivati in Svizzera, si svolge adesso in linea.
                Certamente sarebbe più bello riunirsi come sempre intorno ad
                un tavolo, bere un tè, chiacchierare, fare esercizi, ridere tutti
                insieme. Ma anche in questo caso i “tandem” proseguono in
                linea. Una giovane coppia siriana si incontra ora virtualmente
                ogni sera alle 20:00 con una coppia più anziana di svizzeri.
Altri provenienti dalla Russia, dalla Costa Rica e dall’Iraq hanno regolarmente
una chat in tedesco con una famiglia di cinque persone.
Alla fine per entrambe le parti è un arricchimento: per gli uni l’isolamento – au-
mentato ora dalla pandemia – diventa più sopportabile, per gli altri si aprono
nuovi orizzonti.
Anche un amico svizzero, che normalmente non è un grande amante della
tecnica e che all’inizio si mostrava un po’ scettico, si è fatto aiutare dalla figlia
a installare le app necessarie sul computer per poter proseguire con un gio-
vane curdo il dialogo sul tema dell’arte, affinché il ragazzo potesse continuare
a imparare nuove parole.
In questi giorni ci ha raggiunto un suo messaggio: “Grazie a tutto questo si
è aperta nella mia vita una porta attraverso la quale ho potuto conoscere un
mondo di cui finora avevo sentito parlare solo nei mezzi di comunicazione. Il
fatto di conoscere direttamente alcune persone con le loro storie rappresenta
per me un grande arricchimento”.
						Christiane

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uesto tempo di crisi non è facile per nessuno. E sto scoprendo che cosa
significhi per gli studenti internazionali. Qui a Stoccarda in Germania ci trovia-
mo in una situazione di quasi quarantena: bisogna evitare i contatti sociali e
non unirsi con altri in gruppo, le università sono chiuse e improvvisamente ti
ritrovi solo tra le quattro mura della tua stanza.
Gli studenti internazionali hanno la famiglia lontana. E la pandemia si fa sentire an-
che nei loro paesi di provenienza. Sono preoccupati per i loro genitori, fratelli,… e i
genitori sono preoccupati per i loro figli che studiano qua.
Per il mio inserimento nella pastorale universitaria dell’Università di Hohenheim ho
contatti quotidiani con tanti che studiano nella facoltà di agraria e veterinaria. Chi
viene da un altro paese spesso è qui per il master o per il dottorato. Diversi di loro
non hanno una borsa di studio e per mantenersi lavorano (al supermercato, nei ma-
gazzini di grandi ditte, nel laboratorio dell’Università,…). Ora, per la crisi, non pos-
sono continuare. E fanno fatica in questo momento a sostenersi economicamente.
Sentendo loro mi trovo a condividere queste difficoltà.
Carolina, una ragazza messicana, mi diceva: “Sono così preoccupata che non rie­
sco più a trovare la motivazione per studiare e finire la stesura della mia tesi del
master; in questo momento vorrei essere lì vicino alla mia famiglia in Messico…”. E
un altro studente (Akena): “Sono scoraggiato perché questo virus è in tutti i paesi
anche nel mio, nel Sud Sudan… La mia famiglia è là e io sono lontano. Non so come
aiutare…”.
Immaculata della Nigeria vive grazie a una borsa di studio e aiuta la famiglia: “Mia
sorella è malata di cuore e, quindi, mi incarico da qui di pagare le fatture del me-
dico… I miei genitori sono morti da tempo e proprio ora il virus è arrivato anche in
Africa e nel mio paese. Tutti devono stare in casa. I miei fratelli sono ancora molto

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