Prof.ssa Anna Iuso Antropologia Culturale I A/ Etnologia Europea I - 6 Cfu a.a. 2019/2020 - Facoltà di ...

Pagina creata da Giada Righi
 
CONTINUA A LEGGERE
Prof.ssa Anna Iuso Antropologia Culturale I A/ Etnologia Europea I - 6 Cfu a.a. 2019/2020 - Facoltà di ...
Prof.ssa Anna Iuso
Antropologia Culturale I A/ Etnologia Europea I
                    6 Cfu
                a.a. 2019/2020
              materiali didattici
Prof.ssa Anna Iuso Antropologia Culturale I A/ Etnologia Europea I - 6 Cfu a.a. 2019/2020 - Facoltà di ...
Antropologia Culturale I A/ Etnologia Europea I

                                                     a.a. 2019/2020

Manuale:
Dei, F., Cultura popolare in Italia. Da Gramsci all’Unesco, il Mulino, Bologna 2018 (Capitoli III, VIII-IX, pp. 73-
94, 211-249).

Monografia:
Dei F., Meloni P., Antropologia della cultura materiale, Carocci editore, Roma 2015 (Capitoli 3-4, pp. 55-107)

Dispensa

Lezioni:
Giovedì 9.00 - 13.00 (Aula A, II p., storia med.e paleografia)
Venerdì' 9.00 - 11.00 (Aula A, II p., storia med.e paleografia)

Inizio lezioni:

Giovedì 16 aprile 2020.

Nota bene: i testi contenuti nella dispensa verranno presentati durante il corso.
Prof.ssa Anna Iuso Antropologia Culturale I A/ Etnologia Europea I - 6 Cfu a.a. 2019/2020 - Facoltà di ...
Dispensa per il modulo di Antropologia Culturale I A/ Etnologia Europea I
della professoressa Anna Iuso

      Iuso, A., La svolta autobiografica. Infanzia e memoria dell'Ottocento italiano, CISU, Roma,
       pp. 59-100;
      Dei, F., Usi del passato e democratizzazione della memoria: il caso delle rievocazioni
       storiche, in Iuso, A. (a cura di), Il senso della storia. Saperi diffusi e patrimonializzazione del
       passato, CISU, Roma, pp. 15-36.
      Clemente, P., La postura del ricordante. Memorie, generazioni, storie della vita e un
       antropologo che si racconta, in Clemente, P., Le parole degli altri gli antropologi e le storie
       di vita, Pacini editore, Pisa, pp. 217-248.
Prof.ssa Anna Iuso Antropologia Culturale I A/ Etnologia Europea I - 6 Cfu a.a. 2019/2020 - Facoltà di ...
ANNA IUSO

   LA SVOLTA
AUTOBIOGRAFICA
    INFANZIA E MEMORIA
 NELL’OTTOCENTO ITALIANO
Prof.ssa Anna Iuso Antropologia Culturale I A/ Etnologia Europea I - 6 Cfu a.a. 2019/2020 - Facoltà di ...
Il CISU collabora con l’ANVUR
           per la valutazione del sistema universitario e della Ricerca

                        Tutti i diritti sono riservati.
Questo volume non può essere riprodotto, archiviato o trasmesso, intero o in
parte, in qualunque modo (digitale, elettronico, ottico, meccanico o registrato).

     Le fotocopie per uso personale del lettore sono consentite nei limiti del
15% di ciascun volume solo dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto
dall’art. 68, comma 4 della legge 22 aprile 1941 n. 633 e in base all’accordo stipu-
lato tra SIAE, AIE, SNS e CNA, Confartigianato, CASA, CLAAI, Confcom-
mercio, Confesercenti il 18 dicembre 2000.
     Le riproduzioni per uso differente da quello personale, per un numero di
pagine non superiore al 15% del presente volume, necessitano dell’autorizza-
zione scritta dell’Editore.

ISBN 978-88-7975-659-4

2018 ©    CISU Centro d’Informazione e Stampa Universitaria
          di Colamartini Enzo s.a.s.

          Viale Ippocrate, 97 – 00161 Roma
          Tel. 06491474 – Fax 064450613
          E-mail: info@cisu.it
          Internet: www.cisu.it
Prof.ssa Anna Iuso Antropologia Culturale I A/ Etnologia Europea I - 6 Cfu a.a. 2019/2020 - Facoltà di ...
PARTE II
                         L’intimità per iscritto

    Considerati il volume e il carattere diffuso e continuo della produ-
zione autobiografica, si pone il problema del contesto nel quale situare
questo fenomeno.
    Gli specialisti dell’autobiografia la iscrivono genericamente in un
movimento culturale che fa dell’io il soggetto per eccellenza della let-
teratura, sia essa lirica, narrativa o meditativa: l’autobiografia moder-
na non sarebbe che una trasformazione o una tappa della soggettività
letteraria, di cui vengono reperiti i primi tratti già nel Medioevo (Zink,
1985). Ma questa spiegazione non rende conto della realtà e dell’am-
piezza dell’autobiografia in quanto fenomeno storico.
    L’ipostasi dell’individuo non è certo un’invenzione della fine del
secolo XVIII, e quando gli studiosi del XIX tentarono di comprende-
re quali fossero le radici della loro modernità, ne scoprirono fasi ante-
riori, e ambienti già contrassegnati da un’effervescenza individualista.
Così fa Jacob Burckhardt fin dal 1860, in La civiltà del Rinascimento
in Italia. Tutta la sua interpretazione della grande fioritura rinasci-
mentale italiana riposa su una “causa principale” che egli formula in
questo modo: “L’uomo si trasforma nell’individuo spirituale, e come
tale si afferma” (Burckhardt, 1996). Ma di che uomo si tratta? Per
rispondere a questa domanda Burckhardt è costretto a restringere
il suo contesto di riferimento; il primo individuo è il despota: “In
primo luogo la tirannia sviluppa, come vedremo, in altissimo grado
l’individualità dei tiranni e condottieri, e poi a poco e a poco degli uo-
mini d’ingegno da loro protetti […] (Burckhardt, 1996, p. 126-127).
A causa dell’instabilità del sistema politico, nei detentori del potere
o della gloria “[…] anche il godimento della vita esteriore attraver-
so la spiritualità si rende più raffinato e raccolto per circondare del
maggior prestigio possibile un periodo forse assai breve di potenza
e d’influenza” (Burckhardt, 1996, p. 127). I loro protetti, d’altronde,
non erano del tutto estranei al movimento che coinvolgeva i signori.
In quest’analisi Burckhardt scopre un individualismo precario e, so-
prattutto, interamente determinato dall’impeto di una dominazione,
Prof.ssa Anna Iuso Antropologia Culturale I A/ Etnologia Europea I - 6 Cfu a.a. 2019/2020 - Facoltà di ...
60                              Anna Iuso

di una potenza provvisoria. Il trionfo dell’individuo è allo stesso tem-
po pubblico e gerarchico.
    Questi autobiografi presentano delle esperienze completamente
inverse. L’intimità di una vita privata ed un implicito ideale egualitario
sono dati, il più delle volte, come le condizioni necessarie per la rea-
lizzazione del loro individuo. La gloria non aggiunge molto alla loro
individualizzazione; non scrivono memorie, ma dei ricordi che a priori
rinviano solo alla loro anonima persona, e non hanno nessun altro sco-
po che il riconoscimento della loro semplice, ma insostituibile unicità.
La scrittura personale appare come il mezzo di questo riconoscimento,
un mezzo che è ormai, lungo il secolo XIX, a disposizione di tutti.
CAPITOLO IV
                       L’universo della scrittura

I cavalli di Troia

    Quadro suggestivo, quello disegnato da Marchesini (Marchesini,
1992): nella seconda metà del Settecento le città italiane, come in una
sorta di incanto regolatore, vedono uscire la scrittura dalle strette mura
delle chiese e delle corti per apparire sui mercati, sulle insegne, sui muri
delle strade per dar loro nomi nuovi, sui bandi e gli editti affissi sem-
pre più spesso nelle zone centrali. Pian piano, con l’introduzione della
toponomastica, l’istituzione di catasti e anagrafi, la diffusione del siste-
ma metrico decimale e della carta bollata il singolo cittadino si ritrova,
quotidianamente, a frequentare la scrittura. Lo stato civile archivia la
memoria socialmente rilevante di ognuno, precedentemente istituita e
conservata solo attraverso forme di ritualità pubblica. Anche se ci si
sposa ancora di fronte alla propria comunità, il nuovo matrimonio non
ha alcun valore giuridico se non è comprovato da un documento scrit-
to in calce al quale, col passare degli anni, è sempre più indispensabile
saper firmare apponendo non una semplice croce, ma una firma che,
unica e inconfondibile, segni una corrispondenza precisa ed inequivo-
cabile fra l’atto e l’individuo che l’ha compiuto. È così che, a partire
dalla fine del secolo XVIII, in tutte le società occidentali si mette in
atto un processo di diffusione della scrittura che, da tecnica riservata
a poche classi dirigenti diventa, sul finire del secolo XIX, pratica che
informa le strutture della vita individuale e collettiva.
    Conseguenza necessaria di questo “disciplinamento” della società
è un nuovo e più diretto rapporto di ogni singolo individuo con lo
stato, basato per l’appunto sulla scrittura, e l’obbligo di un’istruzione
elementare che permetta ad ogni cittadino di far fronte alle nuove for-
me del vivere civile. La scrittura assume funzioni diverse: già indispen-
sabile per un corretto rapporto con le istituzioni, diventa nel corso del
secolo XIX anche lo strumento che sopperisce alla progressiva corro-
sione dei rapporti della socialità tradizionale, e che mantiene i legami
62                                      Anna Iuso

fra coloro che partono – per la guerra, per il servizio di leva o per le
prime grandi emigrazioni – e coloro che restano a casa.
    È la scrittura vicina, costituita da una serie di nozioni apprese e
sperimentate in continuità col precedente sistema di azioni, di creden-
ze e di valori, la fase viva del mutamento culturale in cui, fra sbalzi e
pause, il nuovo entra nel tessuto sociale tradizionale costituendo, in
maniera più o meno conflittuale, nuove reti di rapporti e di signifi-
cazioni. Perché leggere, scrivere e far di conto è una triade che si è
formata solo progressivamente: chi sapeva decifrare le prime insegne
delle osterie o delle poste, o riconosceva i prezzi delle merci al mercato
non sapeva probabilmente leggere altro; per molti, e molto a lungo,
la capacità scrittoria si limitava alla propria firma, e così via. In altri
termini, l’avvento della scrittura nelle società occidentali, o perlomeno
in Italia, si è fatta grazie a questi elementi scrittori che, come cavalli
di troia, sono entrati in una cultura essenzialmente orale per forgiare
quella che gli specialisti chiamano literacy, cioè una cultura alfabeta,
una cultura in cui, anche per coloro che non padroneggiano la famosa
triade, la scrittura è tuttavia un elemento presente, che forgia ed ordina,
cognitivamente, il reale.
    Come ci ricorda Roggero (Roggero, 1999), si poteva saper leggere
solamente, scrivere solamente o contare solamente, ovvero questi tre sa-
peri erano inizialmente parziali, distinti, funzionali. Come parziale era la
loro trasmissione: ancor prima che il progetto pedagogico globale por-
tato dalla scuola si imponesse, nel corso del secolo XIX, sul territorio
nazionale, era la famiglia il luogo di trasmissione del sapere: sorelle che
imparano a scrivere seguendo i compiti dei fratelli, nonni che insegnano
a contare, il catechista che costringe a decifrare qualche preghiera. Do-
centi non deputati che col carattere informale del proprio insegnamento
riuscirono ad introdurre, “nottetempo”, la scrittura nel quotidiano.1
    Figure di transizione fra i cavalli di Troia e l’istituzione scolastica
propriamente detta furono anche i maestri “informali”, gli “stagionali
della scrittura”:
     […] la nostra permanenza presso lo zio Giovanni Biagi si prolungava
     soltanto nella stagione estiva, e fu appunto in considerazione di questi

     1 Fondamentale, nella sua capacità di cogliere il mutamento culturale dell’alfabetiz-

zazione nei suoi nessi con attività e sistemi tradizionali è il lavoro di Verdier, 1979, dove
analizza da vicino il nesso fra le attività di ricamo e l’accesso alla scrittura femminile.
L’universo della scrittura                                63
     lunghi periodi che egli, uomo preciso in tutto e per tutto, scrupoloso nel
     volere l’adempimento dei doveri famigliari […] provvide a che andassi a
     scuola tutti i giorni, meno il giovedì, soltanto nelle ore antimeridiane, a
     imparare i primi elementi della lettura da un certo Enrico Ciampi, che io
     credo fosse l’unico precettore o maestro di scuola maschile del paese. Il
     Ciampi, alla commendevole qualità di maestro di scuola, accoppiava an-
     che l’altra apprezzatissima di valente e rinomato rilegatore di libri e tene-
     va la sua scuola e al tempo stesso laboratorio, presso la Piazza dei Fossi.
    Riflettendo all’insegnamento che si impartiva in tale scuola, mi vien
fatto di giudicare che quella fosse per grado didattico uguale a molte
altre che fiorivano in quei tempi, e che si annunziavano al pubblico con
cartelli sulla porta della loro sede, in cui su per giù si vedeva scritto –
Scuola di babini e babine, e vendita di uova sode […].
          La cosa non deve meravigliare, essendo risaputo che nei piccoli
     paesi, quando per l’agricoltura si negligevano le arti e i mestieri, era
     facile incontrarsi in chi esercitava due mestieri in una volta; e l’esem-
     pio classico era dato dal sarto-barbiere. […] (Conti, 1908, p.12-15).
   A volte accadeva l’inverso: al mestiere di maestro se ne aggiungeva
un altro, per sbarcare il lunario. Ancora un autobiografo del mio cor-
pus, Emilio Bandelloni,2 per l’appunto figlio di un maestro:
          Essendo mio Padre guardia doganale del Governo toscano, veni-
     va trasferito ora qua, ora là, ai passi di confine dello Stato, ed avven-
     ne che si trovasse alla Dogana di Sorano quando vennero soppresse
     le Dogane per l’unione della Toscana al Regno d’ Italia; ed avendo
     il mio Genitore contratto matrimonio con mia Madre il 4 Febbraio
     1864, in Sorano, volle nel paesello stesso stabilirsi, benché egli fosse
     stato pensionato dal Governo con una sola Lira al giorno, sperando
     di ricavar buon guadagno dall’insegnamento scolastico, che egli dava
     agli abitanti di Sorano, che erano tutti analfabeti” (Bandelloni, 1935).
    Nessuna formazione specifica quindi. Basta saper leggere e scrive-
re per insegnare in un paese di analfabeti. Ma nonostante l’urgenza di
maestri, le cose non vanno bene:
     2 Ciofro, Cesare Emilio Bandelloni, nacque il 17 dicembre 1868 a Sorano, in To-

scana, e visse il resto della sua vita a Firenze. Scrittore utopico, la sua riflessione si col-
loca tra i filoni utopico-socialisti dell’universo culturale religioso. Si credette interprete
della parola di Cristo, annunciatore di una nuova società guidata spiritualmente dalla
Chiesa cattolica, ed economicamente rinnovata grazie all’abolizione della proprietà
privata, la trasformazione del capitale da privato a collettivo e l’organizzazione dell’u-
manità in corporazioni di arti e mestieri.
64                                    Anna Iuso

          Più tardi fu rimproverato al Babbo di non essersi fermato e stabi-
     lito a Firenze, e di non aver cercato di ottenere un impiego dello Stato,
     essendo egli sufficientemente istruito da far lo scritturale o segretario
     in qualche ufficio comunale o giudiziario, dove altri suoi colleghi eb-
     bero posto ed avvenire. Invece mio Padre tornò a Sorano e quivi in-
     traprese l’insegnamento elementare libero ai paesani, venendo da essi
     retribuito più in genere che in danaro; e talvolta suppliva il Maestro
     Minutelli nella Scuola Comunale: ma ben presto vennero a mancare
     i guadagni e cominciarono gli stenti di una vita miserabile, penosa
     (Bandelloni, 1935).
     A volte questo sapere era però reimpiegato altrove: “Se in Paese ne-
cessitava di rappresentare una parte intellettuale, si ricorreva al Babbo. Un
anno che fra i ricchi di Sorano si volle aprire un teatro alla Fortezza, e rap-
presentarvi commedie e drammi, si ricorse alla guida del Babbo, e ricordo
che egli suggeriva in una rappresentazione di “I due Sergenti’” (Bandello-
ni, 1935).3 Complesse figure di transizione, questi maestri informali, che
condensavano in sé la pratica di diverse scritture più o meno quotidiane,
poligrafi “minori” che, in contesti ancora essenzialmente analfabeti, incar-
navano la scrittura nelle sue diverse potenzialità, dalla funzionalità delle
lettere amministrative all’autoreferenzialità del testo teatrale.

L’odiosamata

    Non è la Francia di Alfieri, ma la scuola ottocentesca: odiata per i
ritmi e i luoghi dell’apprendimento, per il suo carattere coercitivo ed
estraneo ai ritmi tradizionali, via via sempre più amata per la sua forza
democratizzatrice.
    Quando il grosso dispositivo della scuola fu messo in atto global-
mente, la sua efficacia e il suo statuto erano lungi dall’essere equilibrati.
I dati sull’alfabetizzazione raccontano una storia della scrittura otto-
centesca che seguì una diffusione discendente fra città e campagna, fra
nord e sud, fra i diversi ceti sociali.4 Nel complesso, tutti concordano

     3
       Siamo attorno al 1875, Ciofro è nato nel 1868, e Sorano è nella provincia di
Grosseto.
     4 I primi dati certi sulla diffusione dell’alfabetismo in Italia risalgono alla metà

del secolo scorso, e si basano essenzialmente su statistiche concernenti la capacità di
firmare dedotta da documenti come i certificati di matrimonio, i moduli per il servizio
L’universo della scrittura                              65

nel considerare l’Ottocento il secolo dell’alfabetizzazione, sia in Italia
che negli altri stati europei; fenomeni come l’inurbamento, le nuove
strutture dell’occupazione e i diversi livelli di reddito favorirono, an-
che se non in maniera costante ed univoca, lo sviluppo dell’istruzio-
ne in tutta la nazione. Ma sarebbe errato interpretare questo processo
come un graduale ed uniforme ingresso degli italiani nella cultura al-
fabetica: dalla quasi generalizzata incapacità di leggere e scrivere con
cui si è aperto il secolo, al discreto tasso di alfabetizzazione con cui si
è chiuso, intercorrono avanzamenti e retrocessioni nelle diverse regio-
ni, nelle diverse epoche, nei singoli individui.5 Sostanzialmente, a fine
Ottocento solo la metà della popolazione italiana era “istruita”, ovvero
sapeva leggere ed eventualmente scrivere.
    Sempre più capillarmente diffusa, fortemente sostenuta dal nuovo
stato italiano, che ben presto ne sancisce l’obbligo per tutti i bambini,
la scuola è però il vettore di un nuovo sapere che è lungi dall’essere
immediatamente fruibile per buona parte dei suoi iniziati. Scuole trop-
po spesso povere, anguste per il numero di alunni che dovevano ospi-
tare, buie e quasi insalubri: questa è l’immagine che ci rimandano gli
ispettori scolastici dell’epoca. Le scuole cittadine erano spesso migliori,
mentre quelle rurali furono per tutto il secolo fonte di scandalo per i
visitatori. Allo stesso modo, il maestro cittadino aveva sorte migliore

di leva, quelli delle prigioni, e sui censimenti degli istituti d’istruzione elementare (Ci-
polla, 1971; Vigo, 1971).
      5 Grosso modo, si può affermare che la diffusione dell’alfabetizzazione ha avuto

punte cronologicamente e quantitativamente più avanzate nel nord, per decrescere co-
stantemente scendendo verso le regioni meridionali. Il periodo di maggior progresso è
quello compreso fra il 1861 e il 1881, alla fine del quale il quadro dell’istruzione in Ita-
lia era radicalmente cambiato. È poi seguita un’evoluzione più lenta, durante la quale
la distanza tra il nord e il sud, straordinariamente ridotta in quel ventennio, ricominciò
ad aumentare. Per il periodo precedente l’unificazione si possono proporre solo alcuni
dati parziali. Nel 1858, ad esempio, il tasso d’analfabetismo era del 61% in Piemonte e
Liguria e del 92% in Sardegna. Per le prime medie nazionali bisogna attendere il 1871,
quando il censimento registra i tassi d’analfabetismo in tutta la penisola: il 69% della
popolazione “adulta” (dai sei anni in su) era analfabeta, ma questa media copriva delle
discrepanze regionali enormi: si registrava un minimo in Piemonte col 42% e un mas-
simo in Basilicata con l’88%. Nel 1911, periodo in cui scrivevano gli “ultimi” di questi
autobiografi, il Piemonte guidava ancora la classifica con l’11%, mentre la Basilicata
si ritrovava in penultima posizione (65%) seguita solo dalla Calabria col 70%. Allo
stesso modo, l’analfabetismo femminile è sempre superiore a quello maschile anche se,
sul finire del secolo, il tasso di scolarità femminile era pari a quello maschile.
66                                     Anna Iuso

rispetto al suo collega paesano. Per buona parte del secolo, il maestro è
stato “privato”, cioè pagato integralmente, poi parzialmente, dai geni-
tori degli allievi. Ma quale poteva essere il suo salario quando le attività
stagionali spingevano i bambini verso i campi, decimando le classi?
     La situazione delle scuole superiori (perlomeno quelle pubbliche)
era di poco migliore. All’indomani dell’unità d’Italia, laddove si tenta-
va di costruire i nuovi ceti medi attraverso un insegnamento che uscisse
dai modelli ecclesiastici, l’incompetenza e il clientelismo erano ancora
all’ordine del giorno, e la scuola era ancora, nelle zone più remote del
nuovo regno, un’istituzione estranea. Quando il nuovo stato unitario
cominciò a inviare i giovani e colti insegnanti del centro-nord a presta-
re servizio nelle umili scuole del sud, il divario così sinteticamente rap-
presentato dalle statistiche si concretizzò in numerosi e violenti impatti
culturali di cui abbiamo, grazie ad un piccolo testo autobiografico, una
preziosa testimonianza.
     Nell’anno scolastico 1870-1871 Placido Cerri,6 neo-laureato tori-
nese, viene trasferito per un anno a Bivona, piccolo centro dell’entro-
terra agrigentano, all’epoca una delle zone più arretrate d’Italia. Dopo
diversi giorni di viaggio, è costretto ad abbandonare il suo baule e a fare
l’ultimo tratto del percorso sul dorso di una mula. Scaraventato in un
paese che non ha né un albergo né una trattoria, si imbatte in colleghi
dalla professionalità inattendibile. Cerri scrive le sue brevi memorie
perché “Forse venendo a conoscere a qual pena si condannino certi in-
felici col mandarli in luoghi tutt’altro che civili, non si sciuperà l’avve-
nire di qualche giovane di belle speranze, disgustandolo e disaniman-
dolo sì da fargli perdere ogni amore allo studio. Questo, e non altro, è
il fine: tale, e non altro, è il compenso che cerco e desidero a questo mio
scritto”. Incontra, poco dopo l’arrivo, i suoi nuovi colleghi, nessuno
dei quali ha una preparazione pur lontanamente comparabile alla sua:
     6 Placido Cerri (Dogliani, 1843 – Dogliani, 1874) è stato un insegnante. Studiò a
Torino, presso la facoltà di Lettere e Filosofia. Dopo la laurea trascorse un anno a Lipsia
per perfezionare gli studi di sanscrito, traducendo in versi un episodio del Mahabhara-
ta, uno dei più importanti poemi epici indiani. Intraprese la carriera dell’insegnamento
subito dopo l’unità nazionale, presso il ginnasio di Bivona, in provincia di Agrigento,
nell’anno scolastico 1870-71. Qui Cerri scrisse una memoria sulla sua esperienza d’inse-
gnamento, indirizzata al suo maestro, il filologo Alessandro D’Ancona. Malato terminò
l’esperienza di insegnamento a Bivona e morì poco tempo dopo, nella natia Dogliani. Il
D’Ancona pubblicherà, postuma, la memoria del Cerri per inserirla nel dibattito, allora
vivissimo, sul futuro della scuola italiana.
L’universo della scrittura                           67
        In seguito seppi come erano stati scelti questi miei colleghi. Il Di-
   rettore era il Vicecurato della parrocchia, o Vicario, come lo chiamano
   in quei luoghi. […] Il professore di terza ginnasiale era l’Esattore del
   luogo; quello di seconda, il figlio dell’ispettore di Circondario per
   le scuole elementari, e quello di prima, un vecchio scritturale della
   Sotto-Prefettura, che avendo compiuto i suoi anni di servizio, aveva
   chiesto al Ministero dell’interno il suo riposo e a quello dell’Istruzio-
   ne pubblica l’impiego che ottenne. Costui era inoltre appaltatore del
   Dazio-consumo, e trovava anche tempo per fare l’avvocato patroci-
   nante presso la R. Pretura. Ultimo veniva l’incaricato d’aritmetica,
   che era stato preso da un corpo di guardie, che credo fossero guardie
   campestri, o qualche cosa di simile (Cerri, 1988, p. 80).
   L’impatto con la scuola stessa non è migliore:
        I locali della scuola erano a pianterreno […]. Qualche anno ad-
   dietro quando venivano piogge continuate il pavimento ne restava
   allagato per l’altezza di alcuni centimetri. Ma si era riparato a questo
   inconveniente non già col levare l’acqua, ma con un tavolato di legno
   alquanto alto dal suolo per cui, almeno, i giovani non erano costretti
   a tenere i piedi nell’acqua.
        La scuola assegnata a me era, come le altre, una cameretta sì an-
   gusta, che bastavano ad ingombrarla da tutte le parti, pochi banchi
   per i giovani, e un altro mobile per me, che chiamavano cattedra, ma
   che io non saprei come denominare. Era tanto stretto che io vi stavo
   come ingabbiato, e senza potermi volgere più dall’una che dall’altra
   parte. La disgrazia più grave era che trovavasi lì proprio rasente l’u-
   scio, dimodoché quando la pioggia veniva spinta dal vento in quella
   direzione, io ne avevo sempre la spalla sinistra tutta bagnata. […]
        Riguardo poi al chiudere la porta era un affare serio. Dissi già
   che in tutto il Ginnasio non v’era una sedia; ora aggiungerò che non
   v’era un vetro. La mia scuola aveva bensì una finestra, ma chiusa da
   un’imposta, nella quale erano due fori coperti di sudicia tela; e la luce
   che veniva, bastava appunto perché non si desse del naso contro i
   muri, non già per leggere un libro. Dunque, per non restare al buio,
   era necessario lasciare la porta aperta, e bagnarsi in tempo di pioggia
   (Cerri, 1988, p. 85-86).
     Per molto tempo le scuole non ebbero luoghi realmente deputati
all’insegnamento, ma furono collocate là dove il comune trovava spa-
zio, inclusa la casa del maestro. Gli spazi e i tempi della scuola non
conoscevano le norme basilari della pedagogia, perché a lungo essa
fu un’istituzione estranea, sostanzialmente inutile, fondamentalmen-
68                                   Anna Iuso

te incompresa. Solo lentamente divenne un luogo davvero chiuso, in
cui poter tenere sotto controllo il bambino, modellare il suo spirito ed
insieme educare il suo corpo; solo progressivamente il maestro diven-
ne insegnante a tempo pieno, e non qualcuno che alternasse l’insegna-
mento con altre attività. Cerri proveniva da luoghi in cui la scuola era
già perfettamente accettata come istituzione che ritaglia spazi e tempi
per la formazione fisica e intellettuale del ragazzo, ma si ritrovò in un
angolo della penisola in cui essa era ancora ad uno stato ibrido, a metà
strada fra l’iniziazione a discipline incomprensibili e i ritmi quotidiani
della vita di paese. Lo scandalo dunque non finisce qui:
          Fino dai primi giorni la scuola ebbe visitatori strani. Erano questi
     talvolta cani, ma per lo più maiali, che entravano, facevano un giro e
     poi se ne uscivano. Notai che per questo fatto la scolaresca non di-
     sturbavasi quanto era da aspettarsi, e ne conchiusi che doveva ripeter-
     si spesso. Tuttavia mi parve cosa da doversi impedire, e ne parlai col
     direttore. Egli stette un poco sopra pensiero, poi rispose: […] È per
     non chiudere loro questo cortile, povere bestie! I padroni le cacciano
     fuori al mattino senza più curarsene, ed esse sono obbligate a mangia-
     re quello che trovano. […] Per tal modo vinse la pietà verso le bestie,
     ed i maiali furono autorizzati a frequentare la scuola, liberamente e
     senz’obbligo di tassa (Cerri, 1988, p. 86-87).
    Pare che quella pioggia sulla spalla sinistra ebbe un ruolo importante
in una malattia che colpì il Cerri, portandolo alla morte di lì a tre anni.

La promozione della scuola

     I pochi autobiografi che descrivono la loro scuola secondaria come
luogo di reale apprendimento sono coloro che avevano la fortuna di
poter frequentare scuole private, o le migliori scuole pubbliche delle
grandi città del nord, luoghi in cui gli allievi erano seguiti da personag-
gi di calibro, spesso autori di libri di testo o protagonisti della cultura
italiana dell’epoca. Ma si tratta di un’infima minoranza.7 Per il resto,
regnava l’approssimazione.
     Nel gruppo degli autobiografi qui presi in esame, c’è un sottoin-
sieme particolarmente nutrito: coloro che, nati in più o meno umili
     7
     Vedi, a titolo d’esempio, l’istruzione secondaria d’élite nella Torino dell’unità
lungamente descritta in De Gubernatis, 1900.
L’universo della scrittura                            69

condizioni, sono riusciti a cambiare la propria vita grazie all’istruzione,
alla scuola. È ad essa che vanno buona parte dei ricordi di molti. Fra
questi, Francesco Tarducci,8 nato nel 1842 a Piobbico, nelle vicinanze
di Urbino, all’epoca Stato Pontificio, che scrive verso il 1920 (Tarducci,
1935). Nato in condizioni di estrema indigenza, da padre bracciante e
madre casalinga, Tarducci racconta con toni spesso toccanti la sua lun-
ga parabola. Comincia con la storia del padre, Agostino:
         A uso di scuola era stata presa in affitto una camera all’ultimo pia-
    no di una casa privata. Codesta casa aveva solo il davanti, perché ap-
    poggiata alla montagna, e il proprietario aveva cercato guadagnare in
    altezza quello che non aveva potuto in profondità. Lassù era la scuola
    e vi si saliva per una scala di travertino, diritta, lunga, erta, e quando
    eri all’ultimo gradino ti sentivi mancare il fiato per la fatica fatta. Io lo
    so bene, perché fanciullo ho frequentato appunto quella scuola. Ago-
    stino appena entratovi mostrò subito di aver sentito, se non capito,
    l’importanza del luogo in cui era venuto, e di ciò che si voleva da lui.
    Ed era tutt’orecchi a seguire la voce del maestro e tutt’occhi a notare
    quello che faceva. Non capiva niente di quelle parole che il maestro
    rivolgeva agli scolari più grandicelli, niente di quei segni che lo vedeva
    fare sulla carta, ma capiva che un giorno avrebbe capito, e questo ba-
    stava per farlo stare attentissimo. Tutto procedeva a meraviglia, ed il
    maestro già pronosticava di quel contadinello le più liete cose, quan-
    do malauguratamente un giorno […] (Tarducci, 1935, p. 9-10).
     …un giorno il promettente contadinello litigò col prete-maestro,
e scappò via di scuola per non farvi più ritorno; i suoi genitori lo mi-
sero a lavorare la terra, e continuò a farlo per tutta la vita. Lo stato di
arretratezza e povertà in cui versava Piobbico, come molti altri piccoli
centri delle nostre campagne, non stupisce il padre, ma scandalizza il
figlio qualche anno più tardi:
    […] la mancanza di strade rendeva nullo il commercio, e poiché d’in-
    dustrie nel paese non ve n’era ombra, il poco che davano i nostri monti
    ed i nostri campi, qui rimaneva tutto, qui si smaltiva tutto, tranne un
    poco di vino che a schiena d’asino o di mulo si mandava a vendere a
    Cagli o in Urbania, e un discreto numero di maiali che i due o tre be-
    8 Francesco Tarducci (Piobbico, 1842 – Piobbico, 1935) è stato uno scrittore italia-

no. Nato da una famiglia di contadini, a 11 anni entra nel seminario di Cagli, e conclusi
gli studi, a 19 anni lascia l’abito religioso. Insegnò successivamente a Ravenna e fu
precettore dei figli del conte Gioacchino Rasponi Murat. Raggiunse la presidenza del
regio liceo Virgilio di Mantova.
70                                   Anna Iuso

     nestanti del paese mandavano a vendere nell’autunno in Romagna. E
     però era solo di pochi, e raramente, uscire da questa carcere dei nostri
     monti, e di quei pochi i più prendevano la via delle maremme nei mesi
     peggiori dell’anno come ho ricordato più addietro. E così i padri nostri
     qui nascevano, qui morivano, sempre uguali a se stessi, nei bisogni, nei
     desideri, nelle abitudini. Il figlio faceva come aveva veduto fare a suo
     padre; il padre aveva fatto in quel modo, perché in quel modo aveva
     veduto fare al nonno. E così di generazione in generazione le cose pro-
     cedevano sempre in un modo, non solo senza desiderio di progresso,
     ma anche senza idea che vi fosse progresso. E se qualcuno usciva, o per
     fortuna o per studio trovava luogo nel mondo, colui si dimenticava del
     suo paesello, o si vergognava di ricordarlo (Tarducci, 1935, p. 25-26).
   La famiglia Tarducci è un nucleo di cambiamento: il padre si ade-
gua alla legge dei padri, la madre ne percepisce l’ingiustizia e tenta di
preparare una nuova strada al figlio:
     […] se un qualche scolaretto mostrava un poco di attitudine agli stu-
     di, e la famiglia era al caso di farvelo proseguire, appena cominciava
     a leggicchiare un poco non si aspettava più altro dalla sapienza del
     maestro di Piobbico; e, levata dall’orticello della sua povera coltura la
     promettente tenera pianticella, la trapiantavano negli orti più spaziosi
     dei Seminari di Urbino o di Cagli, secondo era la diocesi delle loro
     famiglie. E qui compiuta alla meglio l’educazione delle scuole medie,
     passavano a quelle degli studi superiori, chi di medicina, chi di legge,
     chi d’altro, i più agli studi della carriera ecclesiastica. Poiché in quella
     scuola anch’io mostrai un poco d’intelligenza e molta buona volontà,
     non ci volle altro perché la mia buona mamma rivolgesse tutta l’ener-
     gia dell’anima sua a cercare e trovare una via da farmi proseguire negli
     studi. Ma come, ma dove, se ogni giorno portava fatica ed affanno per
     trovare modo di cavarsi la fame? O mamma adorata! […] Senza di lei
     sarei rimasto operaio alla giornata come mio padre, a zappare e vangare
     pei campi, cavar travertino o far carbone per le balze e pei boschi di
     Monte Nerone. Essa povera, senza istruzione, senza appoggi, ma ricca
     d’intelligenza, piena il cuore e la mente del pensiero di suo figlio, e ar-
     dente di fede illimitata nella provvidenza di Dio, ha affrontato, risoluta,
     la difficoltà enorme che vedeva levarsi davanti, ha lottato instancabile,
     dalle disfatte ha preso nuova lena e coraggio a pregare e sperare; e ha
     vinto! Ma per vincere quanto cammino ha dovuto fare, a quante porte
     battere, quante ripulse soffrire! È andata di paese in paese, di casa in
     casa, elemosinando a soldo a soldo la somma necessaria a fare aprire a
     suo figlio le porte del Seminario […] (Tarducci, 1935, p. 27-29).
L’universo della scrittura                           71

     Consapevole della precarietà della sua situazione, Tarducci percor-
re tutto il suo iter scolastico nel terrore di non poter continuare. Già
al secondo anno di seminario non ci sono più soldi, ma la passione del
ragazzo ottiene un grande premio: il rettore lo accoglie gratis, per fargli
finire gli studi. Dipendendo dalla bontà dei superiori, Tarducci dovrà
subire, almeno così gli sembra, qualche piccola umiliazione; dovrà fin-
gere di avere ancora la vocazione dopo averla persa, vivere momenti di
panico ogni qualvolta si profili una punizione:
    […] entrai in Seminario con la volontà ferma risoluta di farmi prete;
    ma dopo il terzo anno questa volontà sfumò, e i pensieri della mente e
    i desideri del cuore si volsero ad altri orizzonti. Mi guardai però bene
    di gettarne altrui il menomo sospetto, perché era il medesimo di essere
    messo immediatamente fuori di Seminario. […] Nel ritorno al Semi-
    nario feci la strada sempre piangendo, e nessuno mi disse mai parola.
    Entrati nel refettorio per il pranzo, dopo data la solita benedizione alla
    mensa, il rettore disse secco secco: “Tarducci torni in camera a pane
    ed acqua. Per il resto penseremo poi”. A queste parole a me parve mi
    si sciogliessero le ossa. Uscii dal refettorio e le gambe a stento poteva-
    no reggermi. Non era il “pane ed acqua” che mi avesse agghiacciato il
    sangue, ma il buio pauroso di quella minaccia: “per il resto penseremo
    poi”. Ero povero e non avevo finito gli studi: che sarebbe di me se mi
    avessero cacciato dal Seminario? (Tarducci, 1935, p. 48-49 e 58-59).
     La paura di Tarducci svanirà solo quando, finiti gli studi, supererà
un concorso e comincerà ad insegnare in una scuola di grammatica, av-
viandosi pian piano verso un’onorata carriera di storico. La sua storia
è simile a quella di buona parte degli autobiografi che incontreremo
d’ora in avanti, di coloro cioè che hanno sperimentato la diffusione
dell’istruzione e della scuola in quanto strumento efficace di democra-
tizzazione, potente mezzo per la promozione della mobilità sociale,
struttura, sempre più solida, all’interno della quale poter far riconosce-
re i propri meriti individuali.
     Una parentesi, tuttavia, su un’altra, fondamentale implicazione del-
la diffusione della scrittura attraverso la scuola. In un articolo del 1986
Daniel Fabre analizza il passaggio della formazione maschile dall’éco-
le buissonnière alla scuola tout court. L’école buissonnière, espressione
che si diffonde verso il secolo XVI in concomitanza con l’inizio della
scolarizzazione maschile, sta ad indicare le pratiche preadolescenziali di
scoperta della natura: fare le battaglie, avventurarsi nei boschi, scalare gli
72                               Anna Iuso

alberi, snidare gli uccelli… Intorno a questi ultimi una complessa serie
di interazioni: uccelli snidati, catturati, addomesticati nel loro linguaggio
– da loro si impara a fischiare e gli si insegna come fischiare; di fatto, le
pratiche sensoriali e i saperi legati all’esperienza degli uccelli uniscono
un controllo del mondo naturale e una trasformazione della persona nel
periodo della pubertà. Gli uccelli diventano praticamente e metafori-
camente strumento di formazione della virilità e di apprendimento del
linguaggio amoroso, come dimostra ampiamente la terminologia erotica
ed amorosa in generale. Ora, quando la scuola impone ai ragazzi di pas-
sare le loro giornate nelle classi piuttosto che per boschi e campi, cioè so-
prattutto lungo il secolo XIX, lo scontro fra questo modello formativo
e quello scolastico è inevitabile: l’école buissonnière si oppone – col suo
apprendistato del mondo fatto attraverso un frammento di natura – alla
scuola, che vuole incanalare le energie dei ragazzi per un apprendimento
teorico e sconnesso dalla pratica della realtà. E ci riesce, ma al prezzo di
una mediazione: la scuola recupera la pratica del mondo degli uccelli, la
manipola per integrarla al proprio apparato pedagogico: le penne con
cui si scrive sono piume d’uccello, l’inchiostro è fatto con bacche bo-
schive, nascono gli abbecedari in cui ogni lettera è un nome d’uccello e,
per finire questa breve enumerazione, il maestro diventa colui che inse-
gna a distinguere gli uccelli utili da quelli nocivi.
     Non esistono per il momento etnografie che possano comprovare
per l’Italia i dettagli dell’analisi di Daniel Fabre (Fabre, 1986), ma in-
negabilmente anche per il nostro Paese durante il secolo XIX si opera
il passaggio fra due dispositivi formativi: la natura prima, la scuola e la
scrittura poi; questi autobiografi sono coloro che per primi sperimen-
tano la forza di questo dispositivo totale che fa gli uomini. D’ora in poi,
è negli abbecedari e nei dizionari, nel potere delle parole che i ragazzi
cercheranno il padroneggiamento del linguaggio amoroso e il compi-
mento della formazione della virilità. E non a caso, ne troveremo delle
tracce. Ma prima, resta ancora da delineare quali furono le mutazioni
del quotidiano che consentirono alla scrittura di divenire, a livello così
diffuso, strumento dell’espressione di sé.
CAPITOLO V
                       Spazi e valori della vita privata

    Il fatto che l’autobiografia sia una pratica scrittoria che si è genera-
lizzata durante il secolo XIX dimostra come essa sia intimamente le-
gata all’instaurazione di un modello di vita borghese e alla contestuale
formazione di un gusto narrativo forgiato sulla forma romanzesca. È
ciò che tenterò di illustrare in questo capitolo, autobiografie alla mano,
che diventano “auto-documento”: vedremo al loro interno i dati che
mostrano le condizioni socio-culturali necessarie per la loro redazio-
ne; un ego-documento che è anche auto-documento, un documento
dell’io che è anche documento di se stesso.

Il nuovo individuo della modernità

    Monaldo Leopardi,1 padre di Giacomo, nato a Recanati nel 1776,
scrive una bellissima, ma parziale autobiografia nel 1823, all’età di 47
anni (Leopardi, 1883). Spinto dalla voglia di lasciare ai suoi figli un
ricordo e dei consigli, racconta la sua vita cominciando dalla più tenera
infanzia. Nasce e cresce in un quadro aristocratico: vive in un palaz-
zo dotato di giardini e scuderie, e ha una stanza tutta per sé. Tuttavia
quest’abbondanza di spazio, questa possibilità di isolamento e di rac-
coglimento non è accompagnata dall’intimità familiare:
        Trovandomi a parlare dei miei congiunti voglio ricordare tutti
    quelli che componevano la famiglia, quando ne assunsi il regime. Mia
    1  Monaldo Leopardi (Recanati, 1776 – Recanati, 1847) è stato filosofo, politi-
co e letterato, padre di Giacomo Leopardi. Di famiglia nobile, di parte guelfa. Nel
1797 sposò Adelaide Antici, dal cui matrimonio nacquero Giacomo, Carlo, Paolina,
Luigi e Pierfrancesco. Pur ricoprendo saltuariamente ruoli nell’amministrazione lo-
cale, condusse una vita principalmente dedita agli studi, costituendo nel tempo una
cospicua biblioteca di famiglia. Fu difensore accanito del trono e dell’altare, andando
tenacemente contro i suoi tempi. Cultore di critica storica, nemico delle riforme e del
progresso scientifico, fu sostenitore delle piccole autonomie municipali e dei diritti
storici di Recanati. Oltre che bibliomane, Monaldo Leopardi fu anche scrittore pro-
lifico ed eclettico.
74                                      Anna Iuso

     madre, il canonico Carlo, mio prozìo, Luigi, Pietro, Ettore, Ernesto,
     miei zii, fratelli di mio padre, Vito fratello mio, e Ferdinanda mia
     sorella, già uscita dal Monastero. Di tutti dirò qualche parola a suo
     luogo. Inoltre stavano in casa e ad una mensa con noi il mio istituto-
     re D. Giuseppe Torres, il mio buon Ferri, cappellano, D. Vincenzo
     Diotallevi, pedante, e il canonico Pascal, francese emigrato, che i miei
     congiunti avevano raccolto per carità. Con tutta questa gente io vissi
     sempre in pace perfettissima, e non sognai di ascriverlo a merito di
     quelli o mio, supponendo che in veruna famiglia si potesse vivere di-
     versamente (Leopardi, 1883, p. 35).
    Leopardi era costantemente seguito da qualcuno, circondato da
ben tre insegnanti: il primo per l’alfabeto, un secondo per la lingua la-
tina, un terzo per la scrittura; ad essi si aggiunse poi il precettore. Né si
può dimenticare la figura del pedante: quando a diciotto anni Leopardi
prende “finalmente” in mano le redini della famiglia, e si sente adulto e
indipendente, si scontra ancora con le regole del “buon vivere”:
         Ottenutosi dunque il Rescritto sovrano, che derogava alla volon-
     tà di mio padre, io nel giorno quattro di settembre del 1794 assunsi
     l’amministrazione del patrimonio e il regime assoluto della famiglia,
     avendo diciotto anni, e diciannove giorni di età. […] rimasi di gelo
     quando mia madre mi annunziò che con tutto il Rescritto dovevo
     uscire in compagnia del pedante, non essendo bene che un giovane
     uscisse solo in tanta poca età. Questa intimazione fu un colpo di ful-
     mine, perché aspettavo la mia libertà impazientissimamente, e non
     potevo persuadermi che un capo di casa dovesse andare a spasso col
     prete (Leopardi, 1883, p. 29).
    Mancanza di intimità, mancanza di indipendenza, individuazione
del soggetto, forte sentimento del sé, come si conviene a qualcuno che
è vissuto, fin nelle mura domestiche, nel continuo oscillare dell’inti-
mo e del pubblico. Come non pensare a Norbert Elias, alle “pratiche
di civilizzazione” che hanno consentito all’individuo occidentale di
elaborare nuovi codici di rapporti con se stesso e col mondo?2 In La
     2 Il quadro generale delle riflessioni di Elias concerne il “processo di civilizzazione”

dei Paesi europei. Passando alla forma dello Stato moderno, questi hanno conosciuto
una monopolizzazione dell’esercizio della violenza, dell’economia, del potere, ponendo
l’individuo in un più diretto rapporto con lo Stato e in una più complessa interazione
con la società. All’interno di questo quadro generale Elias ha individuato il fenomeno
della “civilizzazione individuale”, cioè quella serie di pratiche che, nel corso di alcuni
secoli, hanno istituito una nuova modalità di concepire il singolo individuo (Elias, 1983).
Spazi e valori della vita privata                       75

civiltà delle buone maniere (Elias, 1982), Elias utilizza i manuali di ci-
viltà come fonte etnografica per seguire attentamente le evoluzioni dei
codici della convivenza sociale. A partire dal Medio Evo nota un gra-
duale irrigidirsi delle regole del vivere civile: col procedere dei secoli,
tutto ciò che concerne il corpo – dal sesso all’abbigliamento –, il cibo,
il porsi in pubblico – dal conversare al camminare– è sottoposto ad una
regolamentazione sempre più severa e radicale, che pone l’individuo
come soggetto isolato rispetto ai suoi simili, che non mostra più le sue
pulsioni, ma che impara piuttosto a reprimerle e padroneggiarle allo
scopo di equilibrare le sue reazioni. Questo controllo di se stessi, del
proprio corpo e delle proprie pulsioni diventa, fra il secolo XVIII e il
XIX, una “seconda natura” che presso alcuni non esclude una certa
consapevolezza.
    Nel caso di Leopardi, che avverte con chiarezza i cambiamenti in
atto fra il secolo XVIII e il XIX, nella grande Storia come nel quoti-
diano, i meccanismi dell’etichetta modellano un individuo che sentirà
per sempre la necessità di una distinzione, determinata dalle proprie
origini, dalla qualità delle proprie azioni, e da fattori apparentemente
meno importanti. Un esempio fra i tanti possibili, la “teoria leopardia-
na” dell’abbigliamento:
    […] alla età di diciotto anni mi vestii tutto di nero, e così ho vestito
    sempre e vesto, sicché chiunque non mi conobbe fanciullo, non mi
    vide coperto con abiti di altro colore. Portai la spada ogni giorno,
    come i cavalieri antichi, e fui probabilmente l’ultimo finché nel 1798
    sotto il Governo repubblicano questo costume nobile e dignitoso de-
    cadde affatto. Al mio sarto ho lasciato sempre la cura di tagliarmi gli
    abiti a suo modo, ordinandogli solo di evitare qualunque ombra di
    affettazione, e mai ho saputo, come adesso non so, in qual foggia si
    vestano gli omini di buon gusto. […] Quella foggia di vestire dignito-
    so che assunsi non so se per orgoglio, per riflessione o per capriccio,
    mi riuscì utile assai, perché m’impose un contegno conveniente; mi
    liberò da molte spese, e mi conciliò il rispetto del popolo. […] Per
    riscuotere un rispetto vero, generale e costante ci vogliono talenti e
    condotta; ma è incredibile quanto concorra un vestiario dignitoso a
    conciliare il rispetto di quelli con i quali si tratta. […] Coloro che han-
    no immaginato di sconvolgere gli ordini delle società e di rovesciarne
    le istituzioni più utili e rispettate hanno incominciato dall’eguagliare
    il vestiario di tutti i ceti, raccomandando la causa loro alla moda. Fin-
    ché i cavalieri portavano la spada al fianco, vestivano abiti recamati e
76                                       Anna Iuso

     camminavano col servitore appresso, e finché le dame si mostravano
     col bel corredo delle regine, la filosofia poteva gridare a sfiatarsi, ma
     il popolo non s’induceva a credersi eguale a quelli che ammirava per
     sentimento, rispettava per abitudine e lasciava grandeggiare per ne-
     cessità. Si sono espulse le spade, i galloni, i broccati, le pettinature, e
     si sono sostituiti il sans façon, il desabbillié, i cambrich, i pantaloni, i
     baffi e i grandi scopetti. Questi abiti costano due baiocchi, e tutti han-
     no due baiocchi, e tutti li due baiocchi sono compagni, sicché tutto
     il mondo è uguale, e di tutta la carne umana si è fatta una massa sola.
     Non più distinzioni, non più ranghi, non più ordini di società; ma
     uguaglianza di tutti in tutto, e promiscuità di tratto, di educazione,
     di matrimoni, di massime e di viltà che non si vedevano in alcuni ceti,
     perché divisi dai ceti vili e che gli stessi ceti vili procuravano di evitare,
     coll’intenzione di emulare i ceti superiori (Leopardi, 1883, p. 36-38).
     La lucidità di Monaldo Leopardi in merito alla forza democratiz-
zatrice dei nuovi codici vestimentarii, l’elaborato discorso sull’essere e
sull’apparire in società trova degli equivalenti in chi, negli stessi anni,
all’attenzione per l’abbigliamento accosta quella per il corpo.
     Angelo De Gubernatis,3 nato a Torino nel 1840, figlio di un capo
sezione al Ministero delle Finanze (De Gubernatis, 1900). I De Gu-
bernatis vivono con i ritmi della buona borghesia: i figli sono messi a
balia, poi mandati a scuola. Quando Angelo è ancora piccolo, lasciano
Torino per trasferirsi in un paesino, in una piccola casa con giardino,
nel quale il padre passa molte ore di riposo solitario. È una famiglia
numerosa, piuttosto unita, nella quale i figli parlano delle loro letture,
fanno i compiti assieme, hanno a loro disposizione una piccola biblio-
teca. Di ritorno a Torino, accorgendosi di un certo pallore nei figli, il
padre decide di mandarli in palestra, dove a costo di enormi sforzi i
due ragazzi si fanno onore. Ma, in piena fase di crescita adolescenziale,
Angelo manifesta una inestetica propensione ad arcuare le gambe:

     3 Angelo De Gubernatis, indianista e letterato italiano (Torino 1840 – Roma 1913).

Insegnò sanscrito e glottologia a Firenze dal 1863 al 1890, e letteratura italiana e san-
scrito a Roma dal 1890 al 1908. Abbondantissima e varia fu la sua produzione in indo-
logia e sulla religione vedica; scrisse una Storia dei viaggiatori italiani nelle Indie (1875)
e svolse ricerche sui cultori italiani e stranieri degli studi orientali. Si occupò in seguito
di mitologia comparata. In letteratura si dedicò soprattutto allo studio di Manzoni,
e compose una Storia universale della letteratura (1883-85). Svolse anche ricerche di
demologia. Ancora oggi utile il suo Dizionario biografico degli scrittori contemporanei
(1879).
Spazi e valori della vita privata                     77
        Parendogli poi un peccato che quello che pareva allora un bel
   giovinetto […] crescesse su con due gambette che parevano vo-
   lersi storcere, pensò, con paterna sollecitudine, di mettermi nelle
   mani d’un ortopedico. Il primo ortopedico sperimentato fu certo
   Biondelli di Milano, un bell’uomo simpatico, pieno di umanità; egli
   mi visitò le gambe che si piegavano facilmente, e propose una sua
   elegante macchinetta d’acciaio, con guancialetti di cuoio rosso, che
   s’attaccava ad una scarpa decente, di un peso sopportabile e che si
   poteva facilmente dissimulare sotto un calzone un po’ largo. Entrai
   dunque rassegnato in quel primo impedimento. […] Durai, senza
   lamenti, per cinque mesi […]. Ma, quando mio padre s’accorse che,
   dopo il quinto mese, la prima cura ortopedica non avea approdato
   a nulla, anzi che lasciare alla buona natura di fare da sé l’opera sua,
   […] cercò subito un altro ortopedico, che si diceva più capace, più
   serio, affinché, ad ogni costo, egli mi rimettesse diritto; e trovò un
   mostro d’uomo, certo signor Pistono, piccolo, brutto, con gli occhi
   iniettati di sangue, dalla voce stridula, ed anche molto villano, che
   mi pose gli occhi addosso quasi sopra una preda […] (De Guberna-
   tis, 1900. p. 36-37).
     I tormenti del giovane Angelo continuano, sempre più insoppor-
tabili, ancora per un anno a mezzo, fino a quando, visto l’insuccesso
totale, viene restituito a ritmi di vita normali che lo porteranno alla
completa “guarigione”. In questo corpo da educare, contenitore di
pensieri e sentimenti sempre più padroneggiabili, si percepiscono gli
atteggiamenti segnalati da Elias: lo studio dell’ambiente circostante, la
riflessione retrospettiva e prospettiva sulle cause e le possibili conse-
guenze delle proprie scelte, lungi dall’essere comportamenti spontanei,
sono invece i risultati di una nuova concezione della vita, in cui l’uomo
non è più schiavo delle proprie pulsioni, ma si contiene per ottenere,
con il proprio operato, il massimo profitto sociale, anche sulla lunga
durata. Calcolare l’opportunità di un sacrificio che possa dare frutti
molto tempo dopo, ad esempio, è un atteggiamento che si impone solo
gradualmente, e che si diffonde nella società a partire dalle corti rina-
scimentali per diventare, nell’arco di pochi secoli, appannaggio della
borghesia.
     Controllo dapprima forzato, nel corso del secolo XIX questo mec-
canismo di censura non dipende più da una costrizione esterna, ma di-
venta parte integrante e fondamentale della struttura della personalità e
richiede, per la sua instaurazione, una complessa strategia pedagogica.
78                                     Anna Iuso

     Valgano, per tutti, alcuni brani dell’autobiografia di Gabriele Ro-
sa.4 Nato nel 1812 in uno sperduto paesino situato fra Lecco e Brivio, è
uno dei tanti autobiografi di questa generazione che sembra incarnare
i nuovi atteggiamenti e le nuove mentalità (Rosa, 1963). Di famiglia
molto modesta, è educato da una madre che, agli occhi del Rosa scri-
vente, sembra dotata di una sensibilità eccezionale per la sua estrazione
sociale: “Mia madre fu martire pe’ suoi figli, ed avea mente e pensieri
più elevati della sua condizione per la loro educazione […]”. Malgrado
sia una semplice sarta, sa leggere e possiede una modestissima bibliote-
ca, di cui Rosa ricorda un solo titolo: l’estratto di geografia del Buffier,
col quale tenterà di invogliare il figlio allo studio. Qualche anno dopo,
quando Rosa ha sette anni, le condizioni economiche della famiglia
migliorano, lasciando intravedere un futuro più agiato:
         In breve le virtù de’ miei genitori fecero aumentare i loro beni per
     modo che ad onta della benignità di mio padre a prestare ed a soc-
     correre amici, e di mia madre a fare elemosine a’ bisognosi, poterono
     vivere più largamente. Perciò si confortarono in mia madre i divisa-
     menti di comunicare al suo primogenito quella coltura intellettuale
     di cui ella stessa sentìa bisogno, ed attuare nel figlio quanto in sé non
     potea (Rosa, 1963, p. 12).
    Il ragazzo viene mandato a Bergamo per frequentare le scuole nor-
mali, ma l’improvvisa morte della madre lo costringe a tornare a casa.
Da questo momento un elemento fondamentale sembra caratterizzare
la vita di Gabriele: la ricerca di se stesso. Dal punto di vista cronolo-
gico, è la prima autobiografia di questo corpus nella quale un ragazzo
non nobile, né ricco, ottiene il permesso di fare lunghe escursioni, nelle
quali si scorgono nuove pratiche: la riflessione solitaria, il viaggio come
esperienza di formazione iniziatica e individuale, il libro come com-
pagno silenzioso, prezioso, inesauribile nelle possibilità di dare vita a
un dialogo con se stessi. Gabriele si avvicina a questa pratica per gradi.

      4 Gabriele Rosa, patriota e scrittore (Iseo, 1812 – Iseo, 1897). Di poverissima fami-

glia, dovette interrompere gli studi intrapresi a Bergamo. Affiliatosi alla Giovine Italia,
nel settembre del 1833 fu arrestato. Dopo aver scontato la pena, tornato a Iseo, entrò
come scrivano presso lo studio di un avvocato. Costretto dalle vessazioni della polizia
a rifugiarsi in Piemonte, tornò in Lombardia dopo le Cinque Giornate e collaborò al
XXII marzo e all’Unione. Liberata la Lombardia, fu nominato provveditore agli studi
di Bergamo.
Spazi e valori della vita privata                       79

Dapprima si avventura con amici più grandi e più colti di lui per met-
tere alla prova il corpo e lo spirito:
         Strinsi amicizia con Andrea Guerini due anni innanzi più di me,
    con Giulio Bargnani che mi avvantaggiava di quattro anni, ambi colti,
    studiosi, d’ingegno svegliato, ed il secondo audace ed arrischiato in
    ogni prova ginnastica ed avventurosa. E per libri e consigli appiccai
    relazione pure con tre medici colti del mio paese […]. Ogni giorno
    impreteribilmente salivo il monte e costeggiavo il lago o col Bargnani,
    o solo, e mi esercitavo alla corsa, ai salti, a salire le piante, lanciare
    sassi, nuotare, sempre colla scorta di qualche libro. Avevamo scelto
    stazioni di lettura per l’estate lungo il torrente Curtelo e nella caverna
    del Quaglio, nel verno al margine del lago ai Frati, al porto Gaura o
    sugli olivi della Rocca (Rosa, 1963, p. 23-24).
    Più tardi si aggiunge, nelle escursioni solitarie, un nuovo compa-
gno cui comunicare i pensieri più intimi e più eletti, in qualsiasi luogo
e qualsiasi circostanza:
         Chiamai giornale da viaggio un quadernetto che portava meco nelle
    brevi escursioni a piedi onde annotarvi la sera od in qualche luogo di
    sosta, le cose che mi parevano più meritevoli di ricordanza ed i pensieri
    più spiccati che mi frullavano pel capo. Perché si vuol sapere che dall’ot-
    timo padre mio avea ottenuto permesso di fare due viaggetti all’anno di
    cinque, sei, o sette giorni, uno alla primavera uno all’autunno, co’ miei
    piccoli risparmi, o con lievi sussidi di lui. Portava meco un ombrello ed
    una bisaccia ad armacollo con entro qualche libriccino, ordinariamente il
    Viaggio Sentimentale di Yorick, calze, camicie, limoni, zuccaro, formag-
    gio, ed altre piccole bagatelle. Così massima mia spesa in tutto riducevasi
    a due lire italiane al giorno. Risparmiava strettamente anche per avere
    di che acquistare poi qualche libro necessario a’ miei studi. Mia prima
    escursione fu a Milano, e toccava i sedici anni. Ivi non conoscevo nessu-
    no, né mi curai d’indirizzo ad alcuno (Rosa, 1963, p. 31-32).
    Giovane, di origini modeste, Gabriele Rosa interroga se stesso e
le proprie forze nella speranza di costruirsi un futuro, una vita diversa
dalla condizione in cui era nato, per la quale anche sua madre aveva
lavorato. La sua ricerca si fa attraverso modelli nuovi: il viaggio, la so-
litudine iniziatica cui accede passando attraverso la compagnia di amici
più esperti, la ricerca di se stesso attuata attraverso il libro e la scrittura
personale. Ricordi giovanili dell’autobiografo che traducono processi
sociali convergenti verso una complessa propedeutica alla costruzione
di un individuo nuovo.
Puoi anche leggere