Prof.ssa Anna Iuso Antropologia Culturale I A/ Etnologia Europea I - 6 Cfu a.a. 2019/2020 - Facoltà di ...
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Prof.ssa Anna Iuso Antropologia Culturale I A/ Etnologia Europea I 6 Cfu a.a. 2019/2020 materiali didattici
Antropologia Culturale I A/ Etnologia Europea I a.a. 2019/2020 Manuale: Dei, F., Cultura popolare in Italia. Da Gramsci all’Unesco, il Mulino, Bologna 2018 (Capitoli III, VIII-IX, pp. 73- 94, 211-249). Monografia: Dei F., Meloni P., Antropologia della cultura materiale, Carocci editore, Roma 2015 (Capitoli 3-4, pp. 55-107) Dispensa Lezioni: Giovedì 9.00 - 13.00 (Aula A, II p., storia med.e paleografia) Venerdì' 9.00 - 11.00 (Aula A, II p., storia med.e paleografia) Inizio lezioni: Giovedì 16 aprile 2020. Nota bene: i testi contenuti nella dispensa verranno presentati durante il corso.
Dispensa per il modulo di Antropologia Culturale I A/ Etnologia Europea I della professoressa Anna Iuso Iuso, A., La svolta autobiografica. Infanzia e memoria dell'Ottocento italiano, CISU, Roma, pp. 59-100; Dei, F., Usi del passato e democratizzazione della memoria: il caso delle rievocazioni storiche, in Iuso, A. (a cura di), Il senso della storia. Saperi diffusi e patrimonializzazione del passato, CISU, Roma, pp. 15-36. Clemente, P., La postura del ricordante. Memorie, generazioni, storie della vita e un antropologo che si racconta, in Clemente, P., Le parole degli altri gli antropologi e le storie di vita, Pacini editore, Pisa, pp. 217-248.
Il CISU collabora con l’ANVUR per la valutazione del sistema universitario e della Ricerca Tutti i diritti sono riservati. Questo volume non può essere riprodotto, archiviato o trasmesso, intero o in parte, in qualunque modo (digitale, elettronico, ottico, meccanico o registrato). Le fotocopie per uso personale del lettore sono consentite nei limiti del 15% di ciascun volume solo dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, comma 4 della legge 22 aprile 1941 n. 633 e in base all’accordo stipu- lato tra SIAE, AIE, SNS e CNA, Confartigianato, CASA, CLAAI, Confcom- mercio, Confesercenti il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni per uso differente da quello personale, per un numero di pagine non superiore al 15% del presente volume, necessitano dell’autorizza- zione scritta dell’Editore. ISBN 978-88-7975-659-4 2018 © CISU Centro d’Informazione e Stampa Universitaria di Colamartini Enzo s.a.s. Viale Ippocrate, 97 – 00161 Roma Tel. 06491474 – Fax 064450613 E-mail: info@cisu.it Internet: www.cisu.it
PARTE II L’intimità per iscritto Considerati il volume e il carattere diffuso e continuo della produ- zione autobiografica, si pone il problema del contesto nel quale situare questo fenomeno. Gli specialisti dell’autobiografia la iscrivono genericamente in un movimento culturale che fa dell’io il soggetto per eccellenza della let- teratura, sia essa lirica, narrativa o meditativa: l’autobiografia moder- na non sarebbe che una trasformazione o una tappa della soggettività letteraria, di cui vengono reperiti i primi tratti già nel Medioevo (Zink, 1985). Ma questa spiegazione non rende conto della realtà e dell’am- piezza dell’autobiografia in quanto fenomeno storico. L’ipostasi dell’individuo non è certo un’invenzione della fine del secolo XVIII, e quando gli studiosi del XIX tentarono di comprende- re quali fossero le radici della loro modernità, ne scoprirono fasi ante- riori, e ambienti già contrassegnati da un’effervescenza individualista. Così fa Jacob Burckhardt fin dal 1860, in La civiltà del Rinascimento in Italia. Tutta la sua interpretazione della grande fioritura rinasci- mentale italiana riposa su una “causa principale” che egli formula in questo modo: “L’uomo si trasforma nell’individuo spirituale, e come tale si afferma” (Burckhardt, 1996). Ma di che uomo si tratta? Per rispondere a questa domanda Burckhardt è costretto a restringere il suo contesto di riferimento; il primo individuo è il despota: “In primo luogo la tirannia sviluppa, come vedremo, in altissimo grado l’individualità dei tiranni e condottieri, e poi a poco e a poco degli uo- mini d’ingegno da loro protetti […] (Burckhardt, 1996, p. 126-127). A causa dell’instabilità del sistema politico, nei detentori del potere o della gloria “[…] anche il godimento della vita esteriore attraver- so la spiritualità si rende più raffinato e raccolto per circondare del maggior prestigio possibile un periodo forse assai breve di potenza e d’influenza” (Burckhardt, 1996, p. 127). I loro protetti, d’altronde, non erano del tutto estranei al movimento che coinvolgeva i signori. In quest’analisi Burckhardt scopre un individualismo precario e, so- prattutto, interamente determinato dall’impeto di una dominazione,
60 Anna Iuso di una potenza provvisoria. Il trionfo dell’individuo è allo stesso tem- po pubblico e gerarchico. Questi autobiografi presentano delle esperienze completamente inverse. L’intimità di una vita privata ed un implicito ideale egualitario sono dati, il più delle volte, come le condizioni necessarie per la rea- lizzazione del loro individuo. La gloria non aggiunge molto alla loro individualizzazione; non scrivono memorie, ma dei ricordi che a priori rinviano solo alla loro anonima persona, e non hanno nessun altro sco- po che il riconoscimento della loro semplice, ma insostituibile unicità. La scrittura personale appare come il mezzo di questo riconoscimento, un mezzo che è ormai, lungo il secolo XIX, a disposizione di tutti.
CAPITOLO IV L’universo della scrittura I cavalli di Troia Quadro suggestivo, quello disegnato da Marchesini (Marchesini, 1992): nella seconda metà del Settecento le città italiane, come in una sorta di incanto regolatore, vedono uscire la scrittura dalle strette mura delle chiese e delle corti per apparire sui mercati, sulle insegne, sui muri delle strade per dar loro nomi nuovi, sui bandi e gli editti affissi sem- pre più spesso nelle zone centrali. Pian piano, con l’introduzione della toponomastica, l’istituzione di catasti e anagrafi, la diffusione del siste- ma metrico decimale e della carta bollata il singolo cittadino si ritrova, quotidianamente, a frequentare la scrittura. Lo stato civile archivia la memoria socialmente rilevante di ognuno, precedentemente istituita e conservata solo attraverso forme di ritualità pubblica. Anche se ci si sposa ancora di fronte alla propria comunità, il nuovo matrimonio non ha alcun valore giuridico se non è comprovato da un documento scrit- to in calce al quale, col passare degli anni, è sempre più indispensabile saper firmare apponendo non una semplice croce, ma una firma che, unica e inconfondibile, segni una corrispondenza precisa ed inequivo- cabile fra l’atto e l’individuo che l’ha compiuto. È così che, a partire dalla fine del secolo XVIII, in tutte le società occidentali si mette in atto un processo di diffusione della scrittura che, da tecnica riservata a poche classi dirigenti diventa, sul finire del secolo XIX, pratica che informa le strutture della vita individuale e collettiva. Conseguenza necessaria di questo “disciplinamento” della società è un nuovo e più diretto rapporto di ogni singolo individuo con lo stato, basato per l’appunto sulla scrittura, e l’obbligo di un’istruzione elementare che permetta ad ogni cittadino di far fronte alle nuove for- me del vivere civile. La scrittura assume funzioni diverse: già indispen- sabile per un corretto rapporto con le istituzioni, diventa nel corso del secolo XIX anche lo strumento che sopperisce alla progressiva corro- sione dei rapporti della socialità tradizionale, e che mantiene i legami
62 Anna Iuso fra coloro che partono – per la guerra, per il servizio di leva o per le prime grandi emigrazioni – e coloro che restano a casa. È la scrittura vicina, costituita da una serie di nozioni apprese e sperimentate in continuità col precedente sistema di azioni, di creden- ze e di valori, la fase viva del mutamento culturale in cui, fra sbalzi e pause, il nuovo entra nel tessuto sociale tradizionale costituendo, in maniera più o meno conflittuale, nuove reti di rapporti e di signifi- cazioni. Perché leggere, scrivere e far di conto è una triade che si è formata solo progressivamente: chi sapeva decifrare le prime insegne delle osterie o delle poste, o riconosceva i prezzi delle merci al mercato non sapeva probabilmente leggere altro; per molti, e molto a lungo, la capacità scrittoria si limitava alla propria firma, e così via. In altri termini, l’avvento della scrittura nelle società occidentali, o perlomeno in Italia, si è fatta grazie a questi elementi scrittori che, come cavalli di troia, sono entrati in una cultura essenzialmente orale per forgiare quella che gli specialisti chiamano literacy, cioè una cultura alfabeta, una cultura in cui, anche per coloro che non padroneggiano la famosa triade, la scrittura è tuttavia un elemento presente, che forgia ed ordina, cognitivamente, il reale. Come ci ricorda Roggero (Roggero, 1999), si poteva saper leggere solamente, scrivere solamente o contare solamente, ovvero questi tre sa- peri erano inizialmente parziali, distinti, funzionali. Come parziale era la loro trasmissione: ancor prima che il progetto pedagogico globale por- tato dalla scuola si imponesse, nel corso del secolo XIX, sul territorio nazionale, era la famiglia il luogo di trasmissione del sapere: sorelle che imparano a scrivere seguendo i compiti dei fratelli, nonni che insegnano a contare, il catechista che costringe a decifrare qualche preghiera. Do- centi non deputati che col carattere informale del proprio insegnamento riuscirono ad introdurre, “nottetempo”, la scrittura nel quotidiano.1 Figure di transizione fra i cavalli di Troia e l’istituzione scolastica propriamente detta furono anche i maestri “informali”, gli “stagionali della scrittura”: […] la nostra permanenza presso lo zio Giovanni Biagi si prolungava soltanto nella stagione estiva, e fu appunto in considerazione di questi 1 Fondamentale, nella sua capacità di cogliere il mutamento culturale dell’alfabetiz- zazione nei suoi nessi con attività e sistemi tradizionali è il lavoro di Verdier, 1979, dove analizza da vicino il nesso fra le attività di ricamo e l’accesso alla scrittura femminile.
L’universo della scrittura 63 lunghi periodi che egli, uomo preciso in tutto e per tutto, scrupoloso nel volere l’adempimento dei doveri famigliari […] provvide a che andassi a scuola tutti i giorni, meno il giovedì, soltanto nelle ore antimeridiane, a imparare i primi elementi della lettura da un certo Enrico Ciampi, che io credo fosse l’unico precettore o maestro di scuola maschile del paese. Il Ciampi, alla commendevole qualità di maestro di scuola, accoppiava an- che l’altra apprezzatissima di valente e rinomato rilegatore di libri e tene- va la sua scuola e al tempo stesso laboratorio, presso la Piazza dei Fossi. Riflettendo all’insegnamento che si impartiva in tale scuola, mi vien fatto di giudicare che quella fosse per grado didattico uguale a molte altre che fiorivano in quei tempi, e che si annunziavano al pubblico con cartelli sulla porta della loro sede, in cui su per giù si vedeva scritto – Scuola di babini e babine, e vendita di uova sode […]. La cosa non deve meravigliare, essendo risaputo che nei piccoli paesi, quando per l’agricoltura si negligevano le arti e i mestieri, era facile incontrarsi in chi esercitava due mestieri in una volta; e l’esem- pio classico era dato dal sarto-barbiere. […] (Conti, 1908, p.12-15). A volte accadeva l’inverso: al mestiere di maestro se ne aggiungeva un altro, per sbarcare il lunario. Ancora un autobiografo del mio cor- pus, Emilio Bandelloni,2 per l’appunto figlio di un maestro: Essendo mio Padre guardia doganale del Governo toscano, veni- va trasferito ora qua, ora là, ai passi di confine dello Stato, ed avven- ne che si trovasse alla Dogana di Sorano quando vennero soppresse le Dogane per l’unione della Toscana al Regno d’ Italia; ed avendo il mio Genitore contratto matrimonio con mia Madre il 4 Febbraio 1864, in Sorano, volle nel paesello stesso stabilirsi, benché egli fosse stato pensionato dal Governo con una sola Lira al giorno, sperando di ricavar buon guadagno dall’insegnamento scolastico, che egli dava agli abitanti di Sorano, che erano tutti analfabeti” (Bandelloni, 1935). Nessuna formazione specifica quindi. Basta saper leggere e scrive- re per insegnare in un paese di analfabeti. Ma nonostante l’urgenza di maestri, le cose non vanno bene: 2 Ciofro, Cesare Emilio Bandelloni, nacque il 17 dicembre 1868 a Sorano, in To- scana, e visse il resto della sua vita a Firenze. Scrittore utopico, la sua riflessione si col- loca tra i filoni utopico-socialisti dell’universo culturale religioso. Si credette interprete della parola di Cristo, annunciatore di una nuova società guidata spiritualmente dalla Chiesa cattolica, ed economicamente rinnovata grazie all’abolizione della proprietà privata, la trasformazione del capitale da privato a collettivo e l’organizzazione dell’u- manità in corporazioni di arti e mestieri.
64 Anna Iuso Più tardi fu rimproverato al Babbo di non essersi fermato e stabi- lito a Firenze, e di non aver cercato di ottenere un impiego dello Stato, essendo egli sufficientemente istruito da far lo scritturale o segretario in qualche ufficio comunale o giudiziario, dove altri suoi colleghi eb- bero posto ed avvenire. Invece mio Padre tornò a Sorano e quivi in- traprese l’insegnamento elementare libero ai paesani, venendo da essi retribuito più in genere che in danaro; e talvolta suppliva il Maestro Minutelli nella Scuola Comunale: ma ben presto vennero a mancare i guadagni e cominciarono gli stenti di una vita miserabile, penosa (Bandelloni, 1935). A volte questo sapere era però reimpiegato altrove: “Se in Paese ne- cessitava di rappresentare una parte intellettuale, si ricorreva al Babbo. Un anno che fra i ricchi di Sorano si volle aprire un teatro alla Fortezza, e rap- presentarvi commedie e drammi, si ricorse alla guida del Babbo, e ricordo che egli suggeriva in una rappresentazione di “I due Sergenti’” (Bandello- ni, 1935).3 Complesse figure di transizione, questi maestri informali, che condensavano in sé la pratica di diverse scritture più o meno quotidiane, poligrafi “minori” che, in contesti ancora essenzialmente analfabeti, incar- navano la scrittura nelle sue diverse potenzialità, dalla funzionalità delle lettere amministrative all’autoreferenzialità del testo teatrale. L’odiosamata Non è la Francia di Alfieri, ma la scuola ottocentesca: odiata per i ritmi e i luoghi dell’apprendimento, per il suo carattere coercitivo ed estraneo ai ritmi tradizionali, via via sempre più amata per la sua forza democratizzatrice. Quando il grosso dispositivo della scuola fu messo in atto global- mente, la sua efficacia e il suo statuto erano lungi dall’essere equilibrati. I dati sull’alfabetizzazione raccontano una storia della scrittura otto- centesca che seguì una diffusione discendente fra città e campagna, fra nord e sud, fra i diversi ceti sociali.4 Nel complesso, tutti concordano 3 Siamo attorno al 1875, Ciofro è nato nel 1868, e Sorano è nella provincia di Grosseto. 4 I primi dati certi sulla diffusione dell’alfabetismo in Italia risalgono alla metà del secolo scorso, e si basano essenzialmente su statistiche concernenti la capacità di firmare dedotta da documenti come i certificati di matrimonio, i moduli per il servizio
L’universo della scrittura 65 nel considerare l’Ottocento il secolo dell’alfabetizzazione, sia in Italia che negli altri stati europei; fenomeni come l’inurbamento, le nuove strutture dell’occupazione e i diversi livelli di reddito favorirono, an- che se non in maniera costante ed univoca, lo sviluppo dell’istruzio- ne in tutta la nazione. Ma sarebbe errato interpretare questo processo come un graduale ed uniforme ingresso degli italiani nella cultura al- fabetica: dalla quasi generalizzata incapacità di leggere e scrivere con cui si è aperto il secolo, al discreto tasso di alfabetizzazione con cui si è chiuso, intercorrono avanzamenti e retrocessioni nelle diverse regio- ni, nelle diverse epoche, nei singoli individui.5 Sostanzialmente, a fine Ottocento solo la metà della popolazione italiana era “istruita”, ovvero sapeva leggere ed eventualmente scrivere. Sempre più capillarmente diffusa, fortemente sostenuta dal nuovo stato italiano, che ben presto ne sancisce l’obbligo per tutti i bambini, la scuola è però il vettore di un nuovo sapere che è lungi dall’essere immediatamente fruibile per buona parte dei suoi iniziati. Scuole trop- po spesso povere, anguste per il numero di alunni che dovevano ospi- tare, buie e quasi insalubri: questa è l’immagine che ci rimandano gli ispettori scolastici dell’epoca. Le scuole cittadine erano spesso migliori, mentre quelle rurali furono per tutto il secolo fonte di scandalo per i visitatori. Allo stesso modo, il maestro cittadino aveva sorte migliore di leva, quelli delle prigioni, e sui censimenti degli istituti d’istruzione elementare (Ci- polla, 1971; Vigo, 1971). 5 Grosso modo, si può affermare che la diffusione dell’alfabetizzazione ha avuto punte cronologicamente e quantitativamente più avanzate nel nord, per decrescere co- stantemente scendendo verso le regioni meridionali. Il periodo di maggior progresso è quello compreso fra il 1861 e il 1881, alla fine del quale il quadro dell’istruzione in Ita- lia era radicalmente cambiato. È poi seguita un’evoluzione più lenta, durante la quale la distanza tra il nord e il sud, straordinariamente ridotta in quel ventennio, ricominciò ad aumentare. Per il periodo precedente l’unificazione si possono proporre solo alcuni dati parziali. Nel 1858, ad esempio, il tasso d’analfabetismo era del 61% in Piemonte e Liguria e del 92% in Sardegna. Per le prime medie nazionali bisogna attendere il 1871, quando il censimento registra i tassi d’analfabetismo in tutta la penisola: il 69% della popolazione “adulta” (dai sei anni in su) era analfabeta, ma questa media copriva delle discrepanze regionali enormi: si registrava un minimo in Piemonte col 42% e un mas- simo in Basilicata con l’88%. Nel 1911, periodo in cui scrivevano gli “ultimi” di questi autobiografi, il Piemonte guidava ancora la classifica con l’11%, mentre la Basilicata si ritrovava in penultima posizione (65%) seguita solo dalla Calabria col 70%. Allo stesso modo, l’analfabetismo femminile è sempre superiore a quello maschile anche se, sul finire del secolo, il tasso di scolarità femminile era pari a quello maschile.
66 Anna Iuso rispetto al suo collega paesano. Per buona parte del secolo, il maestro è stato “privato”, cioè pagato integralmente, poi parzialmente, dai geni- tori degli allievi. Ma quale poteva essere il suo salario quando le attività stagionali spingevano i bambini verso i campi, decimando le classi? La situazione delle scuole superiori (perlomeno quelle pubbliche) era di poco migliore. All’indomani dell’unità d’Italia, laddove si tenta- va di costruire i nuovi ceti medi attraverso un insegnamento che uscisse dai modelli ecclesiastici, l’incompetenza e il clientelismo erano ancora all’ordine del giorno, e la scuola era ancora, nelle zone più remote del nuovo regno, un’istituzione estranea. Quando il nuovo stato unitario cominciò a inviare i giovani e colti insegnanti del centro-nord a presta- re servizio nelle umili scuole del sud, il divario così sinteticamente rap- presentato dalle statistiche si concretizzò in numerosi e violenti impatti culturali di cui abbiamo, grazie ad un piccolo testo autobiografico, una preziosa testimonianza. Nell’anno scolastico 1870-1871 Placido Cerri,6 neo-laureato tori- nese, viene trasferito per un anno a Bivona, piccolo centro dell’entro- terra agrigentano, all’epoca una delle zone più arretrate d’Italia. Dopo diversi giorni di viaggio, è costretto ad abbandonare il suo baule e a fare l’ultimo tratto del percorso sul dorso di una mula. Scaraventato in un paese che non ha né un albergo né una trattoria, si imbatte in colleghi dalla professionalità inattendibile. Cerri scrive le sue brevi memorie perché “Forse venendo a conoscere a qual pena si condannino certi in- felici col mandarli in luoghi tutt’altro che civili, non si sciuperà l’avve- nire di qualche giovane di belle speranze, disgustandolo e disaniman- dolo sì da fargli perdere ogni amore allo studio. Questo, e non altro, è il fine: tale, e non altro, è il compenso che cerco e desidero a questo mio scritto”. Incontra, poco dopo l’arrivo, i suoi nuovi colleghi, nessuno dei quali ha una preparazione pur lontanamente comparabile alla sua: 6 Placido Cerri (Dogliani, 1843 – Dogliani, 1874) è stato un insegnante. Studiò a Torino, presso la facoltà di Lettere e Filosofia. Dopo la laurea trascorse un anno a Lipsia per perfezionare gli studi di sanscrito, traducendo in versi un episodio del Mahabhara- ta, uno dei più importanti poemi epici indiani. Intraprese la carriera dell’insegnamento subito dopo l’unità nazionale, presso il ginnasio di Bivona, in provincia di Agrigento, nell’anno scolastico 1870-71. Qui Cerri scrisse una memoria sulla sua esperienza d’inse- gnamento, indirizzata al suo maestro, il filologo Alessandro D’Ancona. Malato terminò l’esperienza di insegnamento a Bivona e morì poco tempo dopo, nella natia Dogliani. Il D’Ancona pubblicherà, postuma, la memoria del Cerri per inserirla nel dibattito, allora vivissimo, sul futuro della scuola italiana.
L’universo della scrittura 67 In seguito seppi come erano stati scelti questi miei colleghi. Il Di- rettore era il Vicecurato della parrocchia, o Vicario, come lo chiamano in quei luoghi. […] Il professore di terza ginnasiale era l’Esattore del luogo; quello di seconda, il figlio dell’ispettore di Circondario per le scuole elementari, e quello di prima, un vecchio scritturale della Sotto-Prefettura, che avendo compiuto i suoi anni di servizio, aveva chiesto al Ministero dell’interno il suo riposo e a quello dell’Istruzio- ne pubblica l’impiego che ottenne. Costui era inoltre appaltatore del Dazio-consumo, e trovava anche tempo per fare l’avvocato patroci- nante presso la R. Pretura. Ultimo veniva l’incaricato d’aritmetica, che era stato preso da un corpo di guardie, che credo fossero guardie campestri, o qualche cosa di simile (Cerri, 1988, p. 80). L’impatto con la scuola stessa non è migliore: I locali della scuola erano a pianterreno […]. Qualche anno ad- dietro quando venivano piogge continuate il pavimento ne restava allagato per l’altezza di alcuni centimetri. Ma si era riparato a questo inconveniente non già col levare l’acqua, ma con un tavolato di legno alquanto alto dal suolo per cui, almeno, i giovani non erano costretti a tenere i piedi nell’acqua. La scuola assegnata a me era, come le altre, una cameretta sì an- gusta, che bastavano ad ingombrarla da tutte le parti, pochi banchi per i giovani, e un altro mobile per me, che chiamavano cattedra, ma che io non saprei come denominare. Era tanto stretto che io vi stavo come ingabbiato, e senza potermi volgere più dall’una che dall’altra parte. La disgrazia più grave era che trovavasi lì proprio rasente l’u- scio, dimodoché quando la pioggia veniva spinta dal vento in quella direzione, io ne avevo sempre la spalla sinistra tutta bagnata. […] Riguardo poi al chiudere la porta era un affare serio. Dissi già che in tutto il Ginnasio non v’era una sedia; ora aggiungerò che non v’era un vetro. La mia scuola aveva bensì una finestra, ma chiusa da un’imposta, nella quale erano due fori coperti di sudicia tela; e la luce che veniva, bastava appunto perché non si desse del naso contro i muri, non già per leggere un libro. Dunque, per non restare al buio, era necessario lasciare la porta aperta, e bagnarsi in tempo di pioggia (Cerri, 1988, p. 85-86). Per molto tempo le scuole non ebbero luoghi realmente deputati all’insegnamento, ma furono collocate là dove il comune trovava spa- zio, inclusa la casa del maestro. Gli spazi e i tempi della scuola non conoscevano le norme basilari della pedagogia, perché a lungo essa fu un’istituzione estranea, sostanzialmente inutile, fondamentalmen-
68 Anna Iuso te incompresa. Solo lentamente divenne un luogo davvero chiuso, in cui poter tenere sotto controllo il bambino, modellare il suo spirito ed insieme educare il suo corpo; solo progressivamente il maestro diven- ne insegnante a tempo pieno, e non qualcuno che alternasse l’insegna- mento con altre attività. Cerri proveniva da luoghi in cui la scuola era già perfettamente accettata come istituzione che ritaglia spazi e tempi per la formazione fisica e intellettuale del ragazzo, ma si ritrovò in un angolo della penisola in cui essa era ancora ad uno stato ibrido, a metà strada fra l’iniziazione a discipline incomprensibili e i ritmi quotidiani della vita di paese. Lo scandalo dunque non finisce qui: Fino dai primi giorni la scuola ebbe visitatori strani. Erano questi talvolta cani, ma per lo più maiali, che entravano, facevano un giro e poi se ne uscivano. Notai che per questo fatto la scolaresca non di- sturbavasi quanto era da aspettarsi, e ne conchiusi che doveva ripeter- si spesso. Tuttavia mi parve cosa da doversi impedire, e ne parlai col direttore. Egli stette un poco sopra pensiero, poi rispose: […] È per non chiudere loro questo cortile, povere bestie! I padroni le cacciano fuori al mattino senza più curarsene, ed esse sono obbligate a mangia- re quello che trovano. […] Per tal modo vinse la pietà verso le bestie, ed i maiali furono autorizzati a frequentare la scuola, liberamente e senz’obbligo di tassa (Cerri, 1988, p. 86-87). Pare che quella pioggia sulla spalla sinistra ebbe un ruolo importante in una malattia che colpì il Cerri, portandolo alla morte di lì a tre anni. La promozione della scuola I pochi autobiografi che descrivono la loro scuola secondaria come luogo di reale apprendimento sono coloro che avevano la fortuna di poter frequentare scuole private, o le migliori scuole pubbliche delle grandi città del nord, luoghi in cui gli allievi erano seguiti da personag- gi di calibro, spesso autori di libri di testo o protagonisti della cultura italiana dell’epoca. Ma si tratta di un’infima minoranza.7 Per il resto, regnava l’approssimazione. Nel gruppo degli autobiografi qui presi in esame, c’è un sottoin- sieme particolarmente nutrito: coloro che, nati in più o meno umili 7 Vedi, a titolo d’esempio, l’istruzione secondaria d’élite nella Torino dell’unità lungamente descritta in De Gubernatis, 1900.
L’universo della scrittura 69 condizioni, sono riusciti a cambiare la propria vita grazie all’istruzione, alla scuola. È ad essa che vanno buona parte dei ricordi di molti. Fra questi, Francesco Tarducci,8 nato nel 1842 a Piobbico, nelle vicinanze di Urbino, all’epoca Stato Pontificio, che scrive verso il 1920 (Tarducci, 1935). Nato in condizioni di estrema indigenza, da padre bracciante e madre casalinga, Tarducci racconta con toni spesso toccanti la sua lun- ga parabola. Comincia con la storia del padre, Agostino: A uso di scuola era stata presa in affitto una camera all’ultimo pia- no di una casa privata. Codesta casa aveva solo il davanti, perché ap- poggiata alla montagna, e il proprietario aveva cercato guadagnare in altezza quello che non aveva potuto in profondità. Lassù era la scuola e vi si saliva per una scala di travertino, diritta, lunga, erta, e quando eri all’ultimo gradino ti sentivi mancare il fiato per la fatica fatta. Io lo so bene, perché fanciullo ho frequentato appunto quella scuola. Ago- stino appena entratovi mostrò subito di aver sentito, se non capito, l’importanza del luogo in cui era venuto, e di ciò che si voleva da lui. Ed era tutt’orecchi a seguire la voce del maestro e tutt’occhi a notare quello che faceva. Non capiva niente di quelle parole che il maestro rivolgeva agli scolari più grandicelli, niente di quei segni che lo vedeva fare sulla carta, ma capiva che un giorno avrebbe capito, e questo ba- stava per farlo stare attentissimo. Tutto procedeva a meraviglia, ed il maestro già pronosticava di quel contadinello le più liete cose, quan- do malauguratamente un giorno […] (Tarducci, 1935, p. 9-10). …un giorno il promettente contadinello litigò col prete-maestro, e scappò via di scuola per non farvi più ritorno; i suoi genitori lo mi- sero a lavorare la terra, e continuò a farlo per tutta la vita. Lo stato di arretratezza e povertà in cui versava Piobbico, come molti altri piccoli centri delle nostre campagne, non stupisce il padre, ma scandalizza il figlio qualche anno più tardi: […] la mancanza di strade rendeva nullo il commercio, e poiché d’in- dustrie nel paese non ve n’era ombra, il poco che davano i nostri monti ed i nostri campi, qui rimaneva tutto, qui si smaltiva tutto, tranne un poco di vino che a schiena d’asino o di mulo si mandava a vendere a Cagli o in Urbania, e un discreto numero di maiali che i due o tre be- 8 Francesco Tarducci (Piobbico, 1842 – Piobbico, 1935) è stato uno scrittore italia- no. Nato da una famiglia di contadini, a 11 anni entra nel seminario di Cagli, e conclusi gli studi, a 19 anni lascia l’abito religioso. Insegnò successivamente a Ravenna e fu precettore dei figli del conte Gioacchino Rasponi Murat. Raggiunse la presidenza del regio liceo Virgilio di Mantova.
70 Anna Iuso nestanti del paese mandavano a vendere nell’autunno in Romagna. E però era solo di pochi, e raramente, uscire da questa carcere dei nostri monti, e di quei pochi i più prendevano la via delle maremme nei mesi peggiori dell’anno come ho ricordato più addietro. E così i padri nostri qui nascevano, qui morivano, sempre uguali a se stessi, nei bisogni, nei desideri, nelle abitudini. Il figlio faceva come aveva veduto fare a suo padre; il padre aveva fatto in quel modo, perché in quel modo aveva veduto fare al nonno. E così di generazione in generazione le cose pro- cedevano sempre in un modo, non solo senza desiderio di progresso, ma anche senza idea che vi fosse progresso. E se qualcuno usciva, o per fortuna o per studio trovava luogo nel mondo, colui si dimenticava del suo paesello, o si vergognava di ricordarlo (Tarducci, 1935, p. 25-26). La famiglia Tarducci è un nucleo di cambiamento: il padre si ade- gua alla legge dei padri, la madre ne percepisce l’ingiustizia e tenta di preparare una nuova strada al figlio: […] se un qualche scolaretto mostrava un poco di attitudine agli stu- di, e la famiglia era al caso di farvelo proseguire, appena cominciava a leggicchiare un poco non si aspettava più altro dalla sapienza del maestro di Piobbico; e, levata dall’orticello della sua povera coltura la promettente tenera pianticella, la trapiantavano negli orti più spaziosi dei Seminari di Urbino o di Cagli, secondo era la diocesi delle loro famiglie. E qui compiuta alla meglio l’educazione delle scuole medie, passavano a quelle degli studi superiori, chi di medicina, chi di legge, chi d’altro, i più agli studi della carriera ecclesiastica. Poiché in quella scuola anch’io mostrai un poco d’intelligenza e molta buona volontà, non ci volle altro perché la mia buona mamma rivolgesse tutta l’ener- gia dell’anima sua a cercare e trovare una via da farmi proseguire negli studi. Ma come, ma dove, se ogni giorno portava fatica ed affanno per trovare modo di cavarsi la fame? O mamma adorata! […] Senza di lei sarei rimasto operaio alla giornata come mio padre, a zappare e vangare pei campi, cavar travertino o far carbone per le balze e pei boschi di Monte Nerone. Essa povera, senza istruzione, senza appoggi, ma ricca d’intelligenza, piena il cuore e la mente del pensiero di suo figlio, e ar- dente di fede illimitata nella provvidenza di Dio, ha affrontato, risoluta, la difficoltà enorme che vedeva levarsi davanti, ha lottato instancabile, dalle disfatte ha preso nuova lena e coraggio a pregare e sperare; e ha vinto! Ma per vincere quanto cammino ha dovuto fare, a quante porte battere, quante ripulse soffrire! È andata di paese in paese, di casa in casa, elemosinando a soldo a soldo la somma necessaria a fare aprire a suo figlio le porte del Seminario […] (Tarducci, 1935, p. 27-29).
L’universo della scrittura 71 Consapevole della precarietà della sua situazione, Tarducci percor- re tutto il suo iter scolastico nel terrore di non poter continuare. Già al secondo anno di seminario non ci sono più soldi, ma la passione del ragazzo ottiene un grande premio: il rettore lo accoglie gratis, per fargli finire gli studi. Dipendendo dalla bontà dei superiori, Tarducci dovrà subire, almeno così gli sembra, qualche piccola umiliazione; dovrà fin- gere di avere ancora la vocazione dopo averla persa, vivere momenti di panico ogni qualvolta si profili una punizione: […] entrai in Seminario con la volontà ferma risoluta di farmi prete; ma dopo il terzo anno questa volontà sfumò, e i pensieri della mente e i desideri del cuore si volsero ad altri orizzonti. Mi guardai però bene di gettarne altrui il menomo sospetto, perché era il medesimo di essere messo immediatamente fuori di Seminario. […] Nel ritorno al Semi- nario feci la strada sempre piangendo, e nessuno mi disse mai parola. Entrati nel refettorio per il pranzo, dopo data la solita benedizione alla mensa, il rettore disse secco secco: “Tarducci torni in camera a pane ed acqua. Per il resto penseremo poi”. A queste parole a me parve mi si sciogliessero le ossa. Uscii dal refettorio e le gambe a stento poteva- no reggermi. Non era il “pane ed acqua” che mi avesse agghiacciato il sangue, ma il buio pauroso di quella minaccia: “per il resto penseremo poi”. Ero povero e non avevo finito gli studi: che sarebbe di me se mi avessero cacciato dal Seminario? (Tarducci, 1935, p. 48-49 e 58-59). La paura di Tarducci svanirà solo quando, finiti gli studi, supererà un concorso e comincerà ad insegnare in una scuola di grammatica, av- viandosi pian piano verso un’onorata carriera di storico. La sua storia è simile a quella di buona parte degli autobiografi che incontreremo d’ora in avanti, di coloro cioè che hanno sperimentato la diffusione dell’istruzione e della scuola in quanto strumento efficace di democra- tizzazione, potente mezzo per la promozione della mobilità sociale, struttura, sempre più solida, all’interno della quale poter far riconosce- re i propri meriti individuali. Una parentesi, tuttavia, su un’altra, fondamentale implicazione del- la diffusione della scrittura attraverso la scuola. In un articolo del 1986 Daniel Fabre analizza il passaggio della formazione maschile dall’éco- le buissonnière alla scuola tout court. L’école buissonnière, espressione che si diffonde verso il secolo XVI in concomitanza con l’inizio della scolarizzazione maschile, sta ad indicare le pratiche preadolescenziali di scoperta della natura: fare le battaglie, avventurarsi nei boschi, scalare gli
72 Anna Iuso alberi, snidare gli uccelli… Intorno a questi ultimi una complessa serie di interazioni: uccelli snidati, catturati, addomesticati nel loro linguaggio – da loro si impara a fischiare e gli si insegna come fischiare; di fatto, le pratiche sensoriali e i saperi legati all’esperienza degli uccelli uniscono un controllo del mondo naturale e una trasformazione della persona nel periodo della pubertà. Gli uccelli diventano praticamente e metafori- camente strumento di formazione della virilità e di apprendimento del linguaggio amoroso, come dimostra ampiamente la terminologia erotica ed amorosa in generale. Ora, quando la scuola impone ai ragazzi di pas- sare le loro giornate nelle classi piuttosto che per boschi e campi, cioè so- prattutto lungo il secolo XIX, lo scontro fra questo modello formativo e quello scolastico è inevitabile: l’école buissonnière si oppone – col suo apprendistato del mondo fatto attraverso un frammento di natura – alla scuola, che vuole incanalare le energie dei ragazzi per un apprendimento teorico e sconnesso dalla pratica della realtà. E ci riesce, ma al prezzo di una mediazione: la scuola recupera la pratica del mondo degli uccelli, la manipola per integrarla al proprio apparato pedagogico: le penne con cui si scrive sono piume d’uccello, l’inchiostro è fatto con bacche bo- schive, nascono gli abbecedari in cui ogni lettera è un nome d’uccello e, per finire questa breve enumerazione, il maestro diventa colui che inse- gna a distinguere gli uccelli utili da quelli nocivi. Non esistono per il momento etnografie che possano comprovare per l’Italia i dettagli dell’analisi di Daniel Fabre (Fabre, 1986), ma in- negabilmente anche per il nostro Paese durante il secolo XIX si opera il passaggio fra due dispositivi formativi: la natura prima, la scuola e la scrittura poi; questi autobiografi sono coloro che per primi sperimen- tano la forza di questo dispositivo totale che fa gli uomini. D’ora in poi, è negli abbecedari e nei dizionari, nel potere delle parole che i ragazzi cercheranno il padroneggiamento del linguaggio amoroso e il compi- mento della formazione della virilità. E non a caso, ne troveremo delle tracce. Ma prima, resta ancora da delineare quali furono le mutazioni del quotidiano che consentirono alla scrittura di divenire, a livello così diffuso, strumento dell’espressione di sé.
CAPITOLO V Spazi e valori della vita privata Il fatto che l’autobiografia sia una pratica scrittoria che si è genera- lizzata durante il secolo XIX dimostra come essa sia intimamente le- gata all’instaurazione di un modello di vita borghese e alla contestuale formazione di un gusto narrativo forgiato sulla forma romanzesca. È ciò che tenterò di illustrare in questo capitolo, autobiografie alla mano, che diventano “auto-documento”: vedremo al loro interno i dati che mostrano le condizioni socio-culturali necessarie per la loro redazio- ne; un ego-documento che è anche auto-documento, un documento dell’io che è anche documento di se stesso. Il nuovo individuo della modernità Monaldo Leopardi,1 padre di Giacomo, nato a Recanati nel 1776, scrive una bellissima, ma parziale autobiografia nel 1823, all’età di 47 anni (Leopardi, 1883). Spinto dalla voglia di lasciare ai suoi figli un ricordo e dei consigli, racconta la sua vita cominciando dalla più tenera infanzia. Nasce e cresce in un quadro aristocratico: vive in un palaz- zo dotato di giardini e scuderie, e ha una stanza tutta per sé. Tuttavia quest’abbondanza di spazio, questa possibilità di isolamento e di rac- coglimento non è accompagnata dall’intimità familiare: Trovandomi a parlare dei miei congiunti voglio ricordare tutti quelli che componevano la famiglia, quando ne assunsi il regime. Mia 1 Monaldo Leopardi (Recanati, 1776 – Recanati, 1847) è stato filosofo, politi- co e letterato, padre di Giacomo Leopardi. Di famiglia nobile, di parte guelfa. Nel 1797 sposò Adelaide Antici, dal cui matrimonio nacquero Giacomo, Carlo, Paolina, Luigi e Pierfrancesco. Pur ricoprendo saltuariamente ruoli nell’amministrazione lo- cale, condusse una vita principalmente dedita agli studi, costituendo nel tempo una cospicua biblioteca di famiglia. Fu difensore accanito del trono e dell’altare, andando tenacemente contro i suoi tempi. Cultore di critica storica, nemico delle riforme e del progresso scientifico, fu sostenitore delle piccole autonomie municipali e dei diritti storici di Recanati. Oltre che bibliomane, Monaldo Leopardi fu anche scrittore pro- lifico ed eclettico.
74 Anna Iuso madre, il canonico Carlo, mio prozìo, Luigi, Pietro, Ettore, Ernesto, miei zii, fratelli di mio padre, Vito fratello mio, e Ferdinanda mia sorella, già uscita dal Monastero. Di tutti dirò qualche parola a suo luogo. Inoltre stavano in casa e ad una mensa con noi il mio istituto- re D. Giuseppe Torres, il mio buon Ferri, cappellano, D. Vincenzo Diotallevi, pedante, e il canonico Pascal, francese emigrato, che i miei congiunti avevano raccolto per carità. Con tutta questa gente io vissi sempre in pace perfettissima, e non sognai di ascriverlo a merito di quelli o mio, supponendo che in veruna famiglia si potesse vivere di- versamente (Leopardi, 1883, p. 35). Leopardi era costantemente seguito da qualcuno, circondato da ben tre insegnanti: il primo per l’alfabeto, un secondo per la lingua la- tina, un terzo per la scrittura; ad essi si aggiunse poi il precettore. Né si può dimenticare la figura del pedante: quando a diciotto anni Leopardi prende “finalmente” in mano le redini della famiglia, e si sente adulto e indipendente, si scontra ancora con le regole del “buon vivere”: Ottenutosi dunque il Rescritto sovrano, che derogava alla volon- tà di mio padre, io nel giorno quattro di settembre del 1794 assunsi l’amministrazione del patrimonio e il regime assoluto della famiglia, avendo diciotto anni, e diciannove giorni di età. […] rimasi di gelo quando mia madre mi annunziò che con tutto il Rescritto dovevo uscire in compagnia del pedante, non essendo bene che un giovane uscisse solo in tanta poca età. Questa intimazione fu un colpo di ful- mine, perché aspettavo la mia libertà impazientissimamente, e non potevo persuadermi che un capo di casa dovesse andare a spasso col prete (Leopardi, 1883, p. 29). Mancanza di intimità, mancanza di indipendenza, individuazione del soggetto, forte sentimento del sé, come si conviene a qualcuno che è vissuto, fin nelle mura domestiche, nel continuo oscillare dell’inti- mo e del pubblico. Come non pensare a Norbert Elias, alle “pratiche di civilizzazione” che hanno consentito all’individuo occidentale di elaborare nuovi codici di rapporti con se stesso e col mondo?2 In La 2 Il quadro generale delle riflessioni di Elias concerne il “processo di civilizzazione” dei Paesi europei. Passando alla forma dello Stato moderno, questi hanno conosciuto una monopolizzazione dell’esercizio della violenza, dell’economia, del potere, ponendo l’individuo in un più diretto rapporto con lo Stato e in una più complessa interazione con la società. All’interno di questo quadro generale Elias ha individuato il fenomeno della “civilizzazione individuale”, cioè quella serie di pratiche che, nel corso di alcuni secoli, hanno istituito una nuova modalità di concepire il singolo individuo (Elias, 1983).
Spazi e valori della vita privata 75 civiltà delle buone maniere (Elias, 1982), Elias utilizza i manuali di ci- viltà come fonte etnografica per seguire attentamente le evoluzioni dei codici della convivenza sociale. A partire dal Medio Evo nota un gra- duale irrigidirsi delle regole del vivere civile: col procedere dei secoli, tutto ciò che concerne il corpo – dal sesso all’abbigliamento –, il cibo, il porsi in pubblico – dal conversare al camminare– è sottoposto ad una regolamentazione sempre più severa e radicale, che pone l’individuo come soggetto isolato rispetto ai suoi simili, che non mostra più le sue pulsioni, ma che impara piuttosto a reprimerle e padroneggiarle allo scopo di equilibrare le sue reazioni. Questo controllo di se stessi, del proprio corpo e delle proprie pulsioni diventa, fra il secolo XVIII e il XIX, una “seconda natura” che presso alcuni non esclude una certa consapevolezza. Nel caso di Leopardi, che avverte con chiarezza i cambiamenti in atto fra il secolo XVIII e il XIX, nella grande Storia come nel quoti- diano, i meccanismi dell’etichetta modellano un individuo che sentirà per sempre la necessità di una distinzione, determinata dalle proprie origini, dalla qualità delle proprie azioni, e da fattori apparentemente meno importanti. Un esempio fra i tanti possibili, la “teoria leopardia- na” dell’abbigliamento: […] alla età di diciotto anni mi vestii tutto di nero, e così ho vestito sempre e vesto, sicché chiunque non mi conobbe fanciullo, non mi vide coperto con abiti di altro colore. Portai la spada ogni giorno, come i cavalieri antichi, e fui probabilmente l’ultimo finché nel 1798 sotto il Governo repubblicano questo costume nobile e dignitoso de- cadde affatto. Al mio sarto ho lasciato sempre la cura di tagliarmi gli abiti a suo modo, ordinandogli solo di evitare qualunque ombra di affettazione, e mai ho saputo, come adesso non so, in qual foggia si vestano gli omini di buon gusto. […] Quella foggia di vestire dignito- so che assunsi non so se per orgoglio, per riflessione o per capriccio, mi riuscì utile assai, perché m’impose un contegno conveniente; mi liberò da molte spese, e mi conciliò il rispetto del popolo. […] Per riscuotere un rispetto vero, generale e costante ci vogliono talenti e condotta; ma è incredibile quanto concorra un vestiario dignitoso a conciliare il rispetto di quelli con i quali si tratta. […] Coloro che han- no immaginato di sconvolgere gli ordini delle società e di rovesciarne le istituzioni più utili e rispettate hanno incominciato dall’eguagliare il vestiario di tutti i ceti, raccomandando la causa loro alla moda. Fin- ché i cavalieri portavano la spada al fianco, vestivano abiti recamati e
76 Anna Iuso camminavano col servitore appresso, e finché le dame si mostravano col bel corredo delle regine, la filosofia poteva gridare a sfiatarsi, ma il popolo non s’induceva a credersi eguale a quelli che ammirava per sentimento, rispettava per abitudine e lasciava grandeggiare per ne- cessità. Si sono espulse le spade, i galloni, i broccati, le pettinature, e si sono sostituiti il sans façon, il desabbillié, i cambrich, i pantaloni, i baffi e i grandi scopetti. Questi abiti costano due baiocchi, e tutti han- no due baiocchi, e tutti li due baiocchi sono compagni, sicché tutto il mondo è uguale, e di tutta la carne umana si è fatta una massa sola. Non più distinzioni, non più ranghi, non più ordini di società; ma uguaglianza di tutti in tutto, e promiscuità di tratto, di educazione, di matrimoni, di massime e di viltà che non si vedevano in alcuni ceti, perché divisi dai ceti vili e che gli stessi ceti vili procuravano di evitare, coll’intenzione di emulare i ceti superiori (Leopardi, 1883, p. 36-38). La lucidità di Monaldo Leopardi in merito alla forza democratiz- zatrice dei nuovi codici vestimentarii, l’elaborato discorso sull’essere e sull’apparire in società trova degli equivalenti in chi, negli stessi anni, all’attenzione per l’abbigliamento accosta quella per il corpo. Angelo De Gubernatis,3 nato a Torino nel 1840, figlio di un capo sezione al Ministero delle Finanze (De Gubernatis, 1900). I De Gu- bernatis vivono con i ritmi della buona borghesia: i figli sono messi a balia, poi mandati a scuola. Quando Angelo è ancora piccolo, lasciano Torino per trasferirsi in un paesino, in una piccola casa con giardino, nel quale il padre passa molte ore di riposo solitario. È una famiglia numerosa, piuttosto unita, nella quale i figli parlano delle loro letture, fanno i compiti assieme, hanno a loro disposizione una piccola biblio- teca. Di ritorno a Torino, accorgendosi di un certo pallore nei figli, il padre decide di mandarli in palestra, dove a costo di enormi sforzi i due ragazzi si fanno onore. Ma, in piena fase di crescita adolescenziale, Angelo manifesta una inestetica propensione ad arcuare le gambe: 3 Angelo De Gubernatis, indianista e letterato italiano (Torino 1840 – Roma 1913). Insegnò sanscrito e glottologia a Firenze dal 1863 al 1890, e letteratura italiana e san- scrito a Roma dal 1890 al 1908. Abbondantissima e varia fu la sua produzione in indo- logia e sulla religione vedica; scrisse una Storia dei viaggiatori italiani nelle Indie (1875) e svolse ricerche sui cultori italiani e stranieri degli studi orientali. Si occupò in seguito di mitologia comparata. In letteratura si dedicò soprattutto allo studio di Manzoni, e compose una Storia universale della letteratura (1883-85). Svolse anche ricerche di demologia. Ancora oggi utile il suo Dizionario biografico degli scrittori contemporanei (1879).
Spazi e valori della vita privata 77 Parendogli poi un peccato che quello che pareva allora un bel giovinetto […] crescesse su con due gambette che parevano vo- lersi storcere, pensò, con paterna sollecitudine, di mettermi nelle mani d’un ortopedico. Il primo ortopedico sperimentato fu certo Biondelli di Milano, un bell’uomo simpatico, pieno di umanità; egli mi visitò le gambe che si piegavano facilmente, e propose una sua elegante macchinetta d’acciaio, con guancialetti di cuoio rosso, che s’attaccava ad una scarpa decente, di un peso sopportabile e che si poteva facilmente dissimulare sotto un calzone un po’ largo. Entrai dunque rassegnato in quel primo impedimento. […] Durai, senza lamenti, per cinque mesi […]. Ma, quando mio padre s’accorse che, dopo il quinto mese, la prima cura ortopedica non avea approdato a nulla, anzi che lasciare alla buona natura di fare da sé l’opera sua, […] cercò subito un altro ortopedico, che si diceva più capace, più serio, affinché, ad ogni costo, egli mi rimettesse diritto; e trovò un mostro d’uomo, certo signor Pistono, piccolo, brutto, con gli occhi iniettati di sangue, dalla voce stridula, ed anche molto villano, che mi pose gli occhi addosso quasi sopra una preda […] (De Guberna- tis, 1900. p. 36-37). I tormenti del giovane Angelo continuano, sempre più insoppor- tabili, ancora per un anno a mezzo, fino a quando, visto l’insuccesso totale, viene restituito a ritmi di vita normali che lo porteranno alla completa “guarigione”. In questo corpo da educare, contenitore di pensieri e sentimenti sempre più padroneggiabili, si percepiscono gli atteggiamenti segnalati da Elias: lo studio dell’ambiente circostante, la riflessione retrospettiva e prospettiva sulle cause e le possibili conse- guenze delle proprie scelte, lungi dall’essere comportamenti spontanei, sono invece i risultati di una nuova concezione della vita, in cui l’uomo non è più schiavo delle proprie pulsioni, ma si contiene per ottenere, con il proprio operato, il massimo profitto sociale, anche sulla lunga durata. Calcolare l’opportunità di un sacrificio che possa dare frutti molto tempo dopo, ad esempio, è un atteggiamento che si impone solo gradualmente, e che si diffonde nella società a partire dalle corti rina- scimentali per diventare, nell’arco di pochi secoli, appannaggio della borghesia. Controllo dapprima forzato, nel corso del secolo XIX questo mec- canismo di censura non dipende più da una costrizione esterna, ma di- venta parte integrante e fondamentale della struttura della personalità e richiede, per la sua instaurazione, una complessa strategia pedagogica.
78 Anna Iuso Valgano, per tutti, alcuni brani dell’autobiografia di Gabriele Ro- sa.4 Nato nel 1812 in uno sperduto paesino situato fra Lecco e Brivio, è uno dei tanti autobiografi di questa generazione che sembra incarnare i nuovi atteggiamenti e le nuove mentalità (Rosa, 1963). Di famiglia molto modesta, è educato da una madre che, agli occhi del Rosa scri- vente, sembra dotata di una sensibilità eccezionale per la sua estrazione sociale: “Mia madre fu martire pe’ suoi figli, ed avea mente e pensieri più elevati della sua condizione per la loro educazione […]”. Malgrado sia una semplice sarta, sa leggere e possiede una modestissima bibliote- ca, di cui Rosa ricorda un solo titolo: l’estratto di geografia del Buffier, col quale tenterà di invogliare il figlio allo studio. Qualche anno dopo, quando Rosa ha sette anni, le condizioni economiche della famiglia migliorano, lasciando intravedere un futuro più agiato: In breve le virtù de’ miei genitori fecero aumentare i loro beni per modo che ad onta della benignità di mio padre a prestare ed a soc- correre amici, e di mia madre a fare elemosine a’ bisognosi, poterono vivere più largamente. Perciò si confortarono in mia madre i divisa- menti di comunicare al suo primogenito quella coltura intellettuale di cui ella stessa sentìa bisogno, ed attuare nel figlio quanto in sé non potea (Rosa, 1963, p. 12). Il ragazzo viene mandato a Bergamo per frequentare le scuole nor- mali, ma l’improvvisa morte della madre lo costringe a tornare a casa. Da questo momento un elemento fondamentale sembra caratterizzare la vita di Gabriele: la ricerca di se stesso. Dal punto di vista cronolo- gico, è la prima autobiografia di questo corpus nella quale un ragazzo non nobile, né ricco, ottiene il permesso di fare lunghe escursioni, nelle quali si scorgono nuove pratiche: la riflessione solitaria, il viaggio come esperienza di formazione iniziatica e individuale, il libro come com- pagno silenzioso, prezioso, inesauribile nelle possibilità di dare vita a un dialogo con se stessi. Gabriele si avvicina a questa pratica per gradi. 4 Gabriele Rosa, patriota e scrittore (Iseo, 1812 – Iseo, 1897). Di poverissima fami- glia, dovette interrompere gli studi intrapresi a Bergamo. Affiliatosi alla Giovine Italia, nel settembre del 1833 fu arrestato. Dopo aver scontato la pena, tornato a Iseo, entrò come scrivano presso lo studio di un avvocato. Costretto dalle vessazioni della polizia a rifugiarsi in Piemonte, tornò in Lombardia dopo le Cinque Giornate e collaborò al XXII marzo e all’Unione. Liberata la Lombardia, fu nominato provveditore agli studi di Bergamo.
Spazi e valori della vita privata 79 Dapprima si avventura con amici più grandi e più colti di lui per met- tere alla prova il corpo e lo spirito: Strinsi amicizia con Andrea Guerini due anni innanzi più di me, con Giulio Bargnani che mi avvantaggiava di quattro anni, ambi colti, studiosi, d’ingegno svegliato, ed il secondo audace ed arrischiato in ogni prova ginnastica ed avventurosa. E per libri e consigli appiccai relazione pure con tre medici colti del mio paese […]. Ogni giorno impreteribilmente salivo il monte e costeggiavo il lago o col Bargnani, o solo, e mi esercitavo alla corsa, ai salti, a salire le piante, lanciare sassi, nuotare, sempre colla scorta di qualche libro. Avevamo scelto stazioni di lettura per l’estate lungo il torrente Curtelo e nella caverna del Quaglio, nel verno al margine del lago ai Frati, al porto Gaura o sugli olivi della Rocca (Rosa, 1963, p. 23-24). Più tardi si aggiunge, nelle escursioni solitarie, un nuovo compa- gno cui comunicare i pensieri più intimi e più eletti, in qualsiasi luogo e qualsiasi circostanza: Chiamai giornale da viaggio un quadernetto che portava meco nelle brevi escursioni a piedi onde annotarvi la sera od in qualche luogo di sosta, le cose che mi parevano più meritevoli di ricordanza ed i pensieri più spiccati che mi frullavano pel capo. Perché si vuol sapere che dall’ot- timo padre mio avea ottenuto permesso di fare due viaggetti all’anno di cinque, sei, o sette giorni, uno alla primavera uno all’autunno, co’ miei piccoli risparmi, o con lievi sussidi di lui. Portava meco un ombrello ed una bisaccia ad armacollo con entro qualche libriccino, ordinariamente il Viaggio Sentimentale di Yorick, calze, camicie, limoni, zuccaro, formag- gio, ed altre piccole bagatelle. Così massima mia spesa in tutto riducevasi a due lire italiane al giorno. Risparmiava strettamente anche per avere di che acquistare poi qualche libro necessario a’ miei studi. Mia prima escursione fu a Milano, e toccava i sedici anni. Ivi non conoscevo nessu- no, né mi curai d’indirizzo ad alcuno (Rosa, 1963, p. 31-32). Giovane, di origini modeste, Gabriele Rosa interroga se stesso e le proprie forze nella speranza di costruirsi un futuro, una vita diversa dalla condizione in cui era nato, per la quale anche sua madre aveva lavorato. La sua ricerca si fa attraverso modelli nuovi: il viaggio, la so- litudine iniziatica cui accede passando attraverso la compagnia di amici più esperti, la ricerca di se stesso attuata attraverso il libro e la scrittura personale. Ricordi giovanili dell’autobiografo che traducono processi sociali convergenti verso una complessa propedeutica alla costruzione di un individuo nuovo.
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