Manager (ma anche tutti noi) dovrebbe leggerlo - Smart ...
←
→
Trascrizione del contenuto della pagina
Se il tuo browser non visualizza correttamente la pagina, ti preghiamo di leggere il contenuto della pagina quaggiù
Fuoriclasse - Storia naturale del successo di Malcolm Gladwell, sgretola il mito del self-made man ed è per questo che ogni manager (ma anche tutti noi) dovrebbe leggerlo Quest’anno vi propongo un libro al mese, forse due, per raccontare chi siamo, da dove veniamo, dove vorremmo andare e come ci vogliamo arrivare. Perché la lettura può essere svago, intrattenimento, ma anche un valido esercizio per imparare a pensare e sviluppare una certa idea del mondo. Un libro al mese, in piccole schede, in poche battute, per decidere se vale la pena comprarlo e soprattutto leggerlo. Perché la lettura, come diceva Woody Allen, è anche un esercizio di legittima difesa. Che cosa è il successo? Forse è quella combinazione rara e abbondante di doti personali che si presenta in alcuni fortunati individui e che fa sì che quegli stessi individui, a dispetto delle proprie condizioni sociali ed economiche, possano eccellere nel campo in cui hanno deciso di operare o a cui dedicarsi? Secondo il giornalista scientifico del Washington Post e collaboratore del New Yorker Malcolm Gladwell, le doti individuali e la dotazione genetica sono importanti, ma a decretare il successo, a creare degli autentici fuoriclasse, sono molto più importanti i fattori sociali ed ambientali. Ce ne parla ampiamente, di questi fattori ambientali, nel suo libro bestseller “Fuoriclasse – Storia naturale del successo”, uscito nel 2008 e tradotto da Mondadori nel 2009, e che, ad ogni ristampa, va velocemente esaurito e che attualmente è reperibile solo nel mercato dell’usato o in formato e- book. Scopri il nuovo numero: “Le 4 Virtù cardinali del Marketing” Pazienza, Perseveranza, Sostenibilità e Gentilezza, sono le 4 virtù cardinali del marketing che vi proponiamo. In un mondo dominato dalla tecnica e dalla velocità, queste virtù ci permettono di non sbagliare la rotta (o magari di ritrovarla se smarrita) e di indirizzare correttamente le nostre azioni. Se, come professionisti del mondo del marketing e della formazione, siete abituati ai classici ed inflazionati, oltre che ripetitivi, manuali di auto aiuto, motivazionali, etc., preparatevi ad avere una cocente, ma allo stesso tempo illuminante, delusione. Malcolm Gladwell sfata uno ad uno tutti i miti che ruotano intorno al successo e “sgretola” ogni nostra convinzione, restituendoci la “vera storia naturale” del successo.
Tutto comincia da un paesino della provincia di Foggia, Roseto Valfortore, che serve all’autore per calarci subito nel clima e nella temperatura del suo saggio; poi è un susseguirsi di scoperte sorprendenti e di prese di coscienza sulla vera natura del successo. Scritto con quel gradevole mix di rigore scientifico e capacità narrative tipico della divulgazione scientifica di matrice anglosassone, il libro scorre agevolmente dalla prima all’ultima delle sue 250 pagine. Fuoriclasse Storia naturale del successo Autore: Malcolm Gladwell Editore: Mondadori Anno: settembre 2009 (prima edizione) Pagine: 250 Isbn: 9788804593782 Prezzo: € 18,50 Ma quali sono le argomentazioni che l’autore utilizza per argomentare la sua tesi? Innanzitutto il libro è diviso in due grandi parti, “opportunità” e “retaggio”, ed ognuna di queste è composta rispettivamente da 5 e 4 agili capitoli che illustrano ognuno un fattore “naturale” del successo. Ogni capitolo parte da fatti concreti o casi celebri per illustrare concetti scientifici perlopiù ignorati da molti, o almeno dalla stragrande maggioranza, di quei professionisti che ogni giorno lavorano nel campo della motivazione e formazione aziendale.
Ed allora scopriremo: la “regola delle 10.000 ore”, con l’esempio di Bill Gates e dei Beatles; il potente effetto Matteo e quello dell’età relativa, attraverso l’esempio dei migliori giocatori di hockey canadese o di quelli del calcio europei; l’importanza delle radici etniche nello studio dei disastri aerei e come mai la stragrande maggioranza dei più prestigiosi e potenti studi legali di New York vede una preminenza di soci fondatori ebrei nati fra il 1930 ed il 1935; ed ancora quanto le origini geografiche, ed i lavori svolti nei paesi d’origine, degli immigrati europei in America abbia influito sulle faide familiari che insanguinarono il vecchio West americano nell’‘800. Perché dovremmo leggere Fuoriclasse – Storia naturale del successo? Il libro di Malcolm Gladwell è una profonda operazione di ecologia mentale, di pulizia delle nostre convinzioni, delle favole che ruotano intorno al successo, della legenda dell’uomo venuto dal nulla, del mito del self-made man. Ma attenzione, questa presa di coscienza non è solo distruttiva e sconfortante, è anche una rivelazione, una vera e propria epifania. Perché scoprire che i motivi del successo della stragrande maggioranza dei capitani d’industria, dei vincenti, dei manager di successo, dei gruppi rock leggendari, etc. getta una nuova luce sul mondo del lavoro e sulle nostre vite, mettendo nella giusta prospettiva tutti quei concetti che una facile e ripetitiva manualistica di auto aiuto continua a proporci da almeno 100 anni, pressoché immutata, nonostante i progressi sociali, tecnologici e scientifici che intanto sono intervenuti. Scoprire che il successo è una faccenda allo stesso tempo molto più prosaica e altrettanto complessa, oltre che naturale, di ciò che pensavamo ci mette nelle condizioni di considerare al meglio le nostre strategie, il nostro impegno ed i nostri risultati e, se è il caso, di aggiustare il tiro su cose di cui ignoravamo, addirittura, l’esistenza. Se volete approfondire i contenuti del libro “Fuoriclasse – Storia naturale del successo”, potete andarvi a vedere la 12° puntata di “Incontri ravvicinati” nella quale abbiamo dialogato, del saggio di Malcolm Gladwell, con lo psicologo e divulgatore scientifico Armando De Vincentiis. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati
Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter Searching, l’originale thriller di Aneesh Chaganty, è un vero carotaggio socioculturale dei nostri tempi, in cui i social sanno più cose su di noi di noi stessi Si apre con una bellissima immagine di colline verdi sotto un cielo azzurro puntellato da bianchissime nuvole la prima scena di “Searching”; non fatichiamo a riconoscere, almeno chi tra noi ha più di 25 anni, la famosa immagine “Bliss” (letteralmente beatitudine, ma conosciuta come colline), che ha fatto da sfondo ai desktop di mezzo mondo, dal 2001 al 2014, quando il sistema operativo Windows XP (ancora oggi il terzo al mondo per diffusione) è stato ufficialmente terminato. Il desktop e le immagini che vediamo scorrere insieme ai titoli di testa ci sintonizzano subito sul qui e quando del film, mostrandoci anche, ma lo capiremo solo mentre il film prosegue, che sarà questa la modalità ed il punto di vista di tutte le inquadrature. G l i a t t o r i J o h n C h o (David) e Michelle La (Margot) in una scena del film.
È senza dubbio con un po’ di ritardo che vi parlo del film “Searching” del talentuoso e giovanissimo regista statunitense di origini indiane Aneesh Chaganty. Il film è uscito nelle sale italiane ad ottobre del 2018, e, benché all’epoca il trailer mi avesse colpito, non riuscii a vederlo al cinema. Recuperato su una piattaforma di streaming a pagamento, e visto in quest’ultima settimana di aprile da Zona Rossa (almeno nella mia Puglia), il film è davvero un thriller ben confezionato, ben recitato e soprattutto un interessante esperimento cinematografico che si colloca al confine fra diversi media. Infatti ciò che rende originale questo thriller vecchio stile, incentrato sulla scomparsa di una adolescente e sugli sforzi che il padre farà per trovarla, è proprio la modalità della narrazione: tutta la storia si svolge interamente sugli schermi di due pc portatili (quello del papà David e poi quello della figlia Margot) e di un paio di smartphone. La scomparsa della giovane Margot (l’attrice Michelle La) è il pretesto narrativo per sbloccare una delle più grandi paure dei genitori di oggi: quello di non sapere niente di ciò che fanno i loro figli online o addirittura di non conoscerli affatto. Ed infatti è quello che succede al padre David (un intenso John Cho), che piano piano discende le scalinate del suo inferno personale, man mano che esplora il laptop di una figlia che credeva di conoscere.
L a l o c a n d i n a d e l f i l m . “Finora nessuno era riuscito a mostrare in maniera adeguata la tecnologia che dagli ultimi dieci anni governa le nostre vite; né al cinema, né in televisione”, ha commentato il giovane regista Aneesh Chaganty, autore insieme all’amico Sev Ohanian anche della sceneggiatura, in un’intervista sul sito The Hot Corn News. Per riuscire nell’impresa gli attori hanno dovuto recitare davanti allo schermo nero di un pc dotato di videocamere Go-pro che potessero simulare la resa qualitativa delle varie webcam e le ottiche dei
vari device impiegati. L’altra protagonista del film, insieme a David, è la detective incaricata del caso di scomparsa, Vick (un’appassionata Debra Messing che tutti ricordiamo per avere impersonato Grace nella longeva sitcom Will&Grace), che, a proposito della difficoltà della recitazione, in un’intervista ha dichiarato: “È stato un film duro da girare e all’inizio ero molto nervosa, ma sentivo di essere in buone mani. […] Non mi era mai capitato di dover recitare di fronte a uno schermo spento, con una Go-pro e il regista che dirigeva di volta in volta il mio sguardo. Tutto ciò che avevo era la voce di John (Cho, il co-protagonista, ndr) che avrebbe recitato in presa diretta insieme a me, di fronte a un altro schermo spento, e a un’altra Go-Pro, in un’altra stanza”. Searching insomma è sì un noir classico, con una storia tesa, quasi sincopata, che avrebbe funzionato anche senza l’espediente del racconto “a schermo”, ma è proprio con questa modalità che ci immerge e trascina ancora di più nel racconto. Come spettatori siamo sia nella fastidiosa posizione di vedere tutto quello che scopre David sul computer della figlia, che in quella di involontari ma eccitati voyeur della vita di Margot e David che, come già detto, conosciamo solo attraverso video di YouTube, chat, servizi di messagistica istantanea, videochiamate e vari servizi dei tg sul web. Eppure io credo, ed in questo concordo con l’analisi di Paola Casella su MyMovies.it, che il film veicoli delle sottotrame parallele: la prima è quella dell’immigrazione, la famiglia protagonista è di origine coreana e vive nell’America di Trump (quando è uscito il film il tycoon era ancora il presidente). Non credo sia stata una scelta casuale, anche perché nel film Margot si smarrisce fisicamente, ma pare aver perduto anche le proprie radici culturali e perciò risulta ancora più vulnerabile alle insidie della nuova terra promessa. Una possibile conferma a questa tesi è il fatto che il regista stesso è un immigrato di seconda generazione ma di origini indiane. Ma è l’altra sottotrama, a mio modo di vedere, quella davvero importante: più che un innovativo thriller girato attraverso gli schermi neri che affollano le nostre vite, prima ancora che un noir vecchia maniera raccontato in maniera originale, prima ancora che una piccola rivoluzione del linguaggio cinematografico, Searching è un dramma familiare, un vero e proprio carotaggio socioculturale dei nostri tempi. Tempi nei quali un social network sa più cose dei nostri figli di quanto ne potremmo mai sapere noi, nei quali dietro ad un nickname può celarsi un grande pericolo, un mondo, quello della rete, dove nulla è come appare e dove persino noi fingiamo, il più delle volte, di essere qualcosa di diverso da ciò che siamo in realtà. Come dei veri black mirror, gli schermi dei device che accompagnano quasi ogni ora delle nostre esistenze riflettono e ci rimandano l’immagine, a volte distorta, di noi stessi, dei nostri cari e delle nostre certezze, costringendoci a guardare – come direbbe Nietzsche – il fondo dell’abisso, consapevoli che anche l’abisso sta guardando dentro di noi.
U n ’ a l t r a s c e n a d e l f ilm. Cosa altro dire di questo film? Solo di recuperarlo e guardarlo con attenzione, “Searching”, è una profonda riflessione sui nostri tempi, da cui emerge sia la nostra ignoranza sulle potenzialità, anche criminali, del web, che anche, e questo è molto curioso, la dimestichezza che abbiamo nello smanettare sui computer al fine di violare la privacy altrui e recuperare password e codici di accesso vari, alla faccia di chi dice che l’analfabetismo digitale sia uno di principali problemi odierni di chi naviga la rete. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter
Oscar 2021: pochi abbracci e poche emozioni, ma tanti segnali di cambiamento Un’edizione sottotono quella di quest’anno dei Premi Oscar, una cerimonia in sintonia con il periodo che stiamo vivendo. Emozione contenuta, poche risate, pochissimi abbracci e non poteva essere diversamente visto il momento storico. Molti pronostici sono stati disattesi e non c’è stato un vero e proprio fuoriclasse che ha sbaragliato la concorrenza, però sicuramente “Nomadland” è stato il film che ha lasciato più il segno rispetto ad altri, vincendo come Miglior film, Migliore attrice protagonista, premiando l’intensa Frances McDormand, e Miglior regia per la regista cinese Chloe Zhao, un tris di donne che non si vede spesso e che rappresenta un bel segnale di cambiamento. L’Italia torna a casa a mani vuote perché le candidature per Miglior trucco e Migliori costumi per il film “Pinocchio” di Matteo Garrone (qui la mia intervista al costumista candidato Massimo Cantini Parrini) sono state, invece, vinte dal film “Ma Rainey’s Black Bottom” di George C. Wolfe. La cantante Laura Pausini, candidata per la miglior canzone con “Io sì” del film “La vita davanti a sé” è stata battuta dalla bellissima “Fight For You” del film “Judas and the Black Messiah”. Del film girato in Puglia “La vita davanti a sé” e del cortometraggio d’animazione che ha vinto l’Oscar “Se succede qualcosa, vi voglio bene” ne abbiamo parlato alla loro uscita. L a r e g i s t a c i n e s e C h l
o e Zhao, premiata con l’Oscar come Miglior regista per “Nomadland”, film che si aggiudica anche l’Oscar più importante, quello del Miglior Film. Resta il fatto che, anche senza un vero e proprio capolavoro, i vari film candidati per tutti i premi sono interessanti e vale la pena vederli. Qui di seguito i vincitori: Miglior film The Father Judas and the Black Messiah Mank Minari Nomadland Una donna promettente Sound of Metal Il processo ai Chicago 7 Miglior regia Thomas Vinterberg, Un altro giro David Fincher, Mank Lee Isac Chung, Minari Chloe Zhao, Nomadland Emerald Fennel, Una donna promettente Miglior attrice protagonista Viola Davis, Ma Rainey’s Black Bottom Andra Day, The United States vs. Billie Holiday Vanessa Kirby, Pieces of a Woman Frances McDormand, Nomadland Carey Mulligan, Una donna promettente Miglior attore protagonista Riz Ahmed, Sound of Metal Chadwick Boseman, Ma Rainey’s Black Bottom Anthony Hopkins, The Father Gary Oldman, Mank Steven Yeun, Minari
L ’ i n t e n s a F r a n c es McDormand, in una scena del film “Nomadland”, premiata come Migliore attrice protagonista. Migliore attrice non protagonista Maria Bakalova, Borat – Seguito di film cinema Glenn Close, Elegia americana Olivia Colman, The Father Amanda Seyfried, Mank Yuh-Jung Youn, Minari Miglior attore non protagonista Sacha Baron Cohen, Il processo ai Chicago 7 Daniel Kaluuya, Judas and the Black Messiah Leslie Odom, Jr., Quella notte a Miami… Paul Raci, Sound of Metal Lakeith Stanfield, Judas and the Black Messiah Miglior film in lingua non inglese Un altro giro, Danimarca Better Days, Hong Kong Collective, Romania The Man Who Sold His Skin, Tunisia Quo Vadis, Aida?, Bosnia Erzegovina Miglior fotografia Judas and the Black Messiah Mank Notizie dal mondo Nomadland Il processo ai Chicago 7 Miglior sceneggiatura originale
Judas and the Black Messiah Minari Una donna promettente Sound of Metal Il processo ai Chicago 7 A n t h o n y H o p k i n s , in una scena del film The Father, per il quale ha vinto l’Oscar come Miglior Attore protagonista. Miglior sceneggiatura non originale Borat – Seguito di film cinema The Father Nomadland Quella notte a Miami… La tigre bianca Miglior film d’animazione Onward Over the Moon – Il fantastico mondo di Lunaria Shaun, vita da pecora: Farmageddon Soul Wolfwalkers – Il popolo dei lupi Miglior documentario Collective Crip Camp – Disabilità rivoluzionarie The Mole Agent Il mio amico in fondo al mare Time Miglior cortometraggio documentario
Colette A Concerto Is A Conversation Do Not Split Hunger Ward A Love Song for Latasha Miglior cortometraggio d’animazione Burrow Genius Loci Se succede qualcosa, vi voglio bene Opera Yes-People Y o o n Y e o - j e o n g O s c ar 2021 come Miglior Attrice non protagonista, grazie al ruolo dell’anziana nonna Soonja nel film Minari. Miglior cortometraggio Feeling Through The Letter Room The Present Two Distant Strangers White Eye Migliore colonna sonora Da 5 Bloods – Come fratelli Mank Minari Notizie dal mondo Soul
Migliore canzone originale “Fight for You” – Judas and the Black Messiah “Hear My Voice – Il processo ai Chicago 7 “Husavik” – Eurovision Song Contest – La storia dei Fire Saga “Io sì (Seen)” – La vita davanti a sé “Speak Now” – Quella notte a Miami… Migliori effetti visivi Love and Monsters The Midnight Sky Mulan L’unico e insuperabile Ivan Tenet Migliori trucco e acconciature Emma Elegia americana Ma Rainey’s Black Bottom Mank Pinocchio D a n i e l K a l u u y a , O s car Miglior Attore non protagonista per il film Judas and the Black Messiah. Migliore scenografia The Father Ma Rainey’s Black Bottom Mank Notizie dal mondo Tenet
Migliori costumi Emma Ma Rainey’s Black Bottom Mank Mulan Pinocchio Miglior montaggio The Father Nomadland Una donna promettente Sound of Metal Il processo ai Chicago 7 Miglior sonoro Greyhound – Il nemico invisibile Mank Notizie dal mondo Soul Sound of Metal Non ci resta che recuperare questi film e attendere i nostri Oscar italiani, i David di Donatello, in programma per l’11 maggio 2021. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter
I film italiani in uscita a Maggio 2021 Le tanto auspicate riaperture, porteranno a partire dal prossimo mese, ad una rinascita del cinema in sala. Le povere e martoriate sale cinematografiche, chiuse ormai dallo scorso ottobre, sperano che con la bella stagione, si possa ritornare a gustare “in presenza”, la magia incantatrice del Cinema. Il prossimo mese, ovvero Maggio, sarà un banco di prova per tante cose, sarà un banco di prova per la cultura, pronta a ripartire e sarà un banco di prova per capire l’efficacia della campagna di vaccinazione, essenziale, lo ricordiamo, per ritornare “alla vita”. A Maggio, in sala, usciranno ben 12 pellicole italiane, a conferma della “nuova” vitalità del nostro cinema. Molto atteso, in uscita il prossimo 20 maggio, è Il cattivo poeta, nel quale uno strepitoso Sergio Castellitto veste i panni del sommo e discusso poeta Gabriele D’Annunzio. Un film del regista Gianluca Jodice, per una parabola archetipica sul potere e sulla libertà di pensiero, con evidenti riferimenti ai tempi attuali. La settimana dopo (27 maggio) si continua a veleggiare alto, con Valeria Golino, che con Fortuna ci porta all’interno di una favola nera a metà tra cronaca e fantascienza. Una trama molto particolare, che è nello stesso tempo anche una sorta di thriller psicologico in salsa italiana. E’ la storia di una bambina che ha smesso di parlare. Si chiama Nancy, o forse Fortuna. Vive con la madre in un casermone della periferia del napoletano che è un non-luogo metafisico alienato e alienante, pieno di corridoi lungo i quali ci si perde, e dei quali non si vede la fine. La bambina frequenta una psicologa che cerca di capire perché non parli più. Sopra il casermone c’è un terrazzo dove si fanno feste rionali e dove i piccoli condomini giocano: fra questi Anna e Nicola, una bimba fantasiosa e un bambino bullizzato dai ragazzini più grandi. Tutti hanno segreti troppo giganti per essere raccontati. E tutti hanno paura del lupo. Il regista Nicolangelo Gelormini, al suo esordio assoluto nel lungometraggio, è un uomo che conosce il cinema, nonostante la giovane età. A conferma di ciò è cresciuto all’ombra di Paolo Sorrentino, dal quale è riuscito a carpirne, atmosfere, situazioni e stile. Ne sentiremo certamente parlare nei prossimi anni. SI è parlato di Valeria Golino e della propensione del nostro cinema, avvertibile molto chiaramente negli ultimi anni, di affidarsi sovente, alle gesta e al talento delle nostre attrici. Un esempio lampante sarà Il buco in testa, film di Antonio Capuano, tutto declinato al femminile. La protagonista, Maria, impersonata da Teresa Saponangelo è rabbiosa, ribelle, sanguigna, in costante ricerca di risposte, tormentata da un’angoscia senza nome. In tutto questo l’attrice si prende il centro della scena, anzi la domina, confermando il piacere assoluto di vederla finalmente protagonista, in ossequio al suo grande talento finalmente pienamente evidenziato. Il regista si ispira ad una storia vera, un episodio molto noto degli anni di piombo: il giorno in Via De Amicis immortalato dalla foto simbolo dell’epoca in cui l’autonomo Giuseppe Memeo, a gambe divaricate, punta a due mani una pistola contro la polizia. Quel giorno perse la vita il vicebrigadiere Antonio Custra, lasciando vedova la moglie incinta. E Capuano immagina le ricadute di quell’episodio su tutti
coloro che ne sono stati coinvolti: una moglie, una figlia, un killer in cerca di redenzione, una generazione perduta. Un film che ci sentiamo pienamente di consigliare, non solo perché ricostruisce una tragica “storia italiana”, che non merita di essere scordata; ma anche per la precisione sociologica che lo renderà uno dei film in costume più importanti degli ultimi anni. Nello stesso mese usciranno anche altri film, che citiamo in maniera fugace. Ad esempio Maternal, film di Maura Delpero, ancora tutto declinato al femminile, perché è infatti la storia di tre donne a confronto con maternità e religione; e poi Regina di Alessandro Grande; e soprattutto Alida, di Mimmo Verdesca, dedicato alla figura di una delle dive più importanti della storia del cinema italiano, ovvero Alida Valli. Un ritratto inedito della grande attrice, che siamo sicuri, farà emozionare il pubblico in sala. Insomma la ripartenza “in presenza” promette bene, tanti film interessanti già a partire dal prossimo mese, nella speranza che questa ripartenza possa essere quella definitiva, anche e soprattutto per il settore culturale, che, lo ricordiamo, è stato quello più pesantemente condizionato dalla pandemia. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter Giornata mondiale del Libro: AIE conferma la crescita del mercato dei libri anche nel primo trimestre 2021 (+26,6%)
L’editoria italiana nel primo trimestre del 2021 è in forte crescita! Secondo i dati elaborati dall’Associazione Italiana Editori (AIE), dal primo gennaio al 28 marzo 2021 le vendite dei libri a stampa a prezzo di copertina nei canali trade (librerie, online e grande distribuzione organizzata) sono cresciute del 26,6% a valore e del 26,7% a copie vendute rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, consolidando tra l’altro un trend iniziato nella seconda metà del 2020. Sul sito dell’AIE si legge: I dati mostrano cambiamenti di grande rilievo nei canali di vendita e nella struttura del mercato. I canali fisici (librerie e grande distribuzione) passano dal 73% del 2019 al 57% di fine 2020, al 55% a marzo di quest’anno. Le librerie online, che rappresentavano il 27% nel 2019 e il 43% nel 2020, raggiungono il 45% nel primo trimestre dell’anno. Le librerie indipendenti, maggiormente presenti nelle periferie e nei piccoli centri, passano dal 22% di fine 2019 al 18% di fine 2020 e, quindi, al 16% di fine marzo. La 18App, in particolare, ha confermato la propria efficacia anche nell’avvio del nuovo anno: tra gennaio e febbraio i 18enni hanno utilizzato per l’80% questo strumento per acquisti di libri a stampa, pari complessivamente a 75 milioni di euro. Il 91% degli acquisti sono stati effettuati nelle librerie online. La quota dei piccoli e medi editori, trainata dall’online, è cresciuta costantemente nel corso degli anni, passando dal 39,5% del 2011 al 47,5% del 2019, al 50,9% del 2020, fino a toccare il 54,1% tra gennaio e marzo 2021. Il presidente di AIE Ricardo Franco Levi, a proposito di questi ottimi numeri, ha dichiarato: “Siamo di fronte a un incremento importante che si accompagna alla crescita della lettura, come è documentato nel libro bianco del Cepell (nel 2020 sono lettori il 61% degli italiani nella fascia d’età 15-74 anni, contro il 58% dell’anno precedente). Questi dati confermano la bontà delle politiche di sostegno al settore proposte da tutta la filiera del libro unita, l’Associazione Italiana Bibliotecari (AIB), AIE, Associazione Librai Italiani (ALI), e messe in atto nel 2020 da governo e parlamento. Ci riferiamo in particolare al sostegno della domanda tramite la 18App, la Carta Famiglia, il finanziamento degli acquisti delle biblioteche nelle librerie di prossimità, tutte misure che chiediamo siano confermate e stabilizzate”.
F o t o d i D a r i a S h e v t s o v a d a P e x e l s Complice la pandemia da Coronavirus, le limitazioni agli spostamenti personali e la totale chiusura di tutti gli altri comparti culturali (cinema, teatri, concerti e spettacoli dal vivo), il libro diventa non solo il fedele compagno di tante ore passate a casa, ma anche un rifugio, uno sfogo e un’occasione per la crescita culturale personale che riunisce in sé tanti vantaggi: praticità, economicità e grande, se non inesauribile, disponibilità di argomenti. Anche noi di Smart Marketing abbiamo sempre creduto nel valore e potenza del libro e della
lettura, tanto che, oltre alla nostra rubrica dedicata, anche il nostro nuovo format di dirette Facebook “Incontri ravvicinati” è nato e si è sviluppato “principalmente” intorno all’oggetto libro e su quanto possa essere utile per sviluppare le nostre competenze specifiche e soprattutto trasversali. In un annus horribilis per il mondo della cultura, è come se tutti noi avessimo compreso il vero valore delle cose che ci circondano riabilitando un oggetto, il libro e una pratica, la lettura, con i quali noi italiani non avevamo troppa dimestichezza. Vuoi vedere che alla fine qualcosa di buono questa pandemia l’ha fatta? Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter Il podcast che ti fa scoprire l’A.I. - L’intelligenza artificiale in azienda? La si porta così. Con Marina Geymonat Tutti, o quasi, conosciamo la regola mnemonica per il gioco del Poker per ricordare il valore dei semi delle carte. È la famosa “Come Quando Fuori Piove” dove le iniziali delle quattro parole “C – Q – F – P” ci aiutano a ricordare la gerarchia del valore dei singoli semi “Cuori Quadri Fiori Picche”.
Ma anche quando parliamo di Intelligenza Artificiale questa tecnica mnemonica può tornarci utile per comprendere, in particolare, a cosa stare attenti quando decidiamo di adoperare l’I.A. in azienda, soprattutto nella forma più comunemente utilizzata dalle imprese, ossia quella della machine learning. A spiegarci in che maniera il “Come Quando Fuori Piove” possa tornarci utile prima di investire i nostri budget in sistemi di Intelligenza Artificiale è Marina Geymonat, una grande esperta del mondo aziendale (infatti è Responsabile Piattaforme di Intelligenza Artificiale per TIM) che, insieme al giornalista di Radio IT Igor Principe, ci guiderà in questo interessantissimo 11° episodio del podcast “Alla scoperta dell’Intelligenza Artificiale”, ideato e promosso dall’Associazione Italiana per l’Intelligenza Artificiale (AIxIA) e Radio IT (il primo podcast network italiano sull’information technology). Scopriremo allora che il Come/Cuore serve per comprendere che quando un’impresa decide di investire in sistemi di Intelligenza Artificiale bisogna tenere lo sviluppo di queste tecnologie il più possibile vicino al cuore dell’azienda. Perché solo chi lavora dentro le aziende può “guidare” gli esperti tecnologi e informatici, reclutati in università o centri di ricerca esterni, verso la creazione di un sistema di I.A. che risolva davvero i problemi posti in essere dall’impresa. Le intelligenze artificiali che funzionano meglio sono proprio quelle sviluppate ad hoc o quantomeno personalizzate all’interno delle società che poi li andranno ad utilizzare. Il mezzo migliore per permettere che la nuova tecnologia di I.A. sia sviluppata vicino al cuore dell’azienda è la formazione del personale interno; la formazione non deve essere iper- specialistica, ma preparatoria, e si può attuare attraverso un piccolo master, nell’ordine della decina di ore; il personale così formato comprenderà passo passo e “parteciperà” allo sviluppo e all’applicazione di questa nuova tecnologia. Il Quando/Quadri rappresenta invece i tempi e i soldi che l’azienda decide di investire in tecnologie di I.A.. Il problema principale quando un’azienda decide di investire negli algoritmi dell’Intelligenza artificiale è che ha fretta di vedere i risultati “mirabolanti” di cui tanto si sente parlare in giro; ed allora succede che dopo la creazione e lo sviluppo del sistema di I.A. personalizzato (che, come abbiamo detto, nel campo aziendale sono soprattutto sistemi di machine learning) il management abbia fretta di risultati e spesso decida di abbandonare la nuova tecnologia, prima che le sia stato permesso di apprendere ed elaborare i dati raccolti nel mondo reale. La fase più importante per gli algoritmi di I.A., usciti dal laboratorio e messi al lavoro nella vita vera, sul campo, è proprio questa fase di “addestramento”, perché più dati l’I.A. raccoglie, più evolve e più
precise e performati saranno i suoi risultati. L a p r o t a g o n i s t a d e l 1 1 ° p o d c a s t , M a r i n a G eymonat, responsabile Piattaforme di Intelligenza Artificiale per TIM. C’è poi il Fuori/Fiori, due parole perfette secondo Marina Geymonat per spiegare, attraverso l’esempio di un “fiore trilobato” (con tre lobi/petali), quali sono gli attori necessari di cui bisogna tener conto quanto si decide di sviluppare ed adottare in azienda delle nuove tecnologie di I.A.. Il primo lobo del Fiore sono gli utilizzatori finali, che quelle tecnologie e quegli algoritmi
dovranno poi utilizzare. L’errore più comune delle aziende è quello di far calare dall’alto le nuove tecnologie di I.A. che spesso dopo tanto tempo e denaro spesi per il loro sviluppo finiscono per non essere adoperate sul campo, diventando degli investimenti fallimentari. Far partecipare “gli utilizzatori finali” ai vari processi di trasformazione tecnologica, anche attraverso una formazione propedeutica, è la migliore assicurazione che poi quelle stesse tecnologie vengano effettivamente utilizzate. Il secondo lobo del Fiore sono gli esperti di I.A., interni ed esterni all’azienda, che si sono reclutati per sviluppare la nuova tecnologia, far dialogare i vari esperti tra loro, con il management dell’azienda e con gli utilizzatori finali; esso permetterà di sviluppare, testare e far funzionare al meglio le nuove tecnologie che si andranno ad adottare. Terzo ed ultimo lobo del Fiore è rappresentato da tutto il comparto aziendale dell’information technology: sembra paradossale, parlando di soluzioni informatiche, ma spesso gli esperti di I.A. e gli esperti di I.T. già presenti in azienda non dialogano tra loro, decretando il fallimento della nuova tecnologia che si va sviluppando. Questo succede perché le tecnologie dell’intelligenza artificiale sono ritenute cosi innovative da venire isolate, o da isolarsi, dai settori dell’I.T., che invece sono non solo fondamentali al loro sviluppo, ma saranno anche i principali fruitori dei risultati e delle soluzioni di I.A. che si adotteranno in azienda. Infine, l’ultimo seme, il Piove/Picche, è perfetto per spiegare tutto quello che non bisogna fare quando si decide di sviluppare ed adottare in azienda una nuova tecnologia di Intelligenza Artificiale. Secondo Marina Geymonat innanzitutto bisogna non rimanere ancorati alle abitudini ad al modo di lavorare del passato, bisogna passare da una modalità lavorativa per requisiti ad una modalità per dati ed obiettivi, poi bisognerebbe abbandonare le modalità di lavoro a “silos”, a compartimenti stagni, che nelle aziende del passato era un metodo vantaggioso che funzionava; nelle aziende moderne, ancor di più se decidono di adottare tecnologie dell’I.A., avere un vocabolario comune e far lavorare i vari comparti in modalità end-to-end è fondamentale. Il lavoro nelle aziende deve svilupparsi in ampiezza, coinvolgendo tutti quei settori che, a priori, sembrano avere poco o nulla a che fare con l’adozione di una nuova tecnologia di I.A., perché per addestrare al meglio le intelligenze di silicio prima bisogna formare, far dialogare ed interagire le intelligenze degli esseri umani che lavorano fra loro e che lavoreranno con le nuove tecnologie dell’Intelligenza Artificiale. Se volete scoprire come utilizzare al meglio la tecnica mnemonica del “Come Quando Fuori Piove” per capire quali sono i passi fondamentali da intraprendere in azienda prima, dopo e durante l’acquisizione di nuove tecnologie dell’I.A., non vi resta che infilare le cuffie ed ascoltarvi questo interessatissimo 11° episodio del podcast di “Alla scoperta dell’Intelligenza Artificiale”, che ci propone una vera roadmap per orientarci in questi nuovi e spettacolari territori. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre.
Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter Non voglio cambiare pianeta: Riflessioni per la 51° Giornata Mondiale della Terra All’indomani di missioni esplorative su Marte, il verso “non voglio cambiare pianeta”, tratto dalla poesia “El Perezoso (Il Pigro)” di Pablo Neruda, suona quasi come una profezia. Se non ce ne fossimo accorti, però, un pianeta di ricambio non l’abbiamo ancora, forse è per questo, per salvaguardare quello in cui viviamo, che da oltre cinquant’anni si festeggia l’Earth Day (La Giornata Mondiale della Terra). Una giornata dedicata al nostro pianeta per porre l’attenzione e sensibilizzare i suoi abitanti su tutti quegli squilibri ambientali e sociali che lo riguardano, concentrandosi su inquinamento, clima, biodiversità e sviluppo sostenibile. Nell’ultimo anno, più che in altri momenti, ci siamo resi conto di quanto gli equilibri ambientali siano labili e quanto ci riguardino da vicino; forse ci voleva una pandemia per farci capire che se si ammala il pianeta ci ammaliamo anche noi, che non siamo estranei al luogo in cui viviamo, ma siamo parte di esso. Per celebrare l’Earth Day, abbiamo deciso di tornare indietro di oltre un anno e concederci un
viaggio, seppur virtuale, tra Argentina e Cile in compagnia di Lorenzo Cherubini. Il docu-film (o docu-trip, come Lorenzo ama chiamarlo) “Non voglio cambiare pianeta”, è un racconto appassionato ed innamorato di paesaggi mozzafiato, incontri fortuiti e rispetto per la natura.
Un viaggio lungo circa 4000 Km, quasi interamente in solitaria, in sella ad una bicicletta; una sfida contro i propri limiti fisici, che Jovanotti fa alla scoperta di territori incontaminati ed alla ricerca di sé stesso, ispirato dalla natura e dalle sue bellezze, lasciandosi accompagnare dalla musica e dalla poesia, ma anche perdendosi nelle tante contraddizioni di città grandi e popolose, concedendosi pure di sbagliare strada. Un viaggio che possiamo fare anche noi spettatori, lasciandoci trasportare da quella stessa musica e dai versi, da racconti quotidiani ed aneddoti, gratitudine per la bellezza del mondo in cui viviamo ed un mantra su tutti: “Non voglio cambiare pianeta”. In 16 puntate, ancora visibili su RaiPlay, girate da Jovanotti tra gennaio e febbraio 2020, Lorenzo ci esorta a non stare fermi, ad adoperarci per salvaguardare il pianeta, ma anche a fare un viaggio dentro di noi, il più tortuoso e difficile alla ricerca dell’equilibrio interiore. Un viaggio nel viaggio, un percorso solitario verso pace interiore e serenità dopo un periodo di caos (Lorenzo era reduce dai Jova Bach Party e dal bagno di folla che ne derivava), la riscoperta del silenzio e della meditazione come cura di sé stessi e ristoro dell’anima. Lentezza e solitudine in un periodo in cui nessuno dei due era contemplato nella società moderna, dove tutto era velocità ed i rapporti umani consumati con voracità, tutto era moltitudine e socialità. “Non voglio cambiare pianeta” è stato lanciato il 24 aprile 2020 su RaiPlay, era appena iniziata la pandemia e nessuno avrebbe mai immaginato che si sarebbe protratta tanto a lungo. Guardando le 16 puntate in quei pomeriggi di lockdown, chissà quanti di noi, ispirati da quei racconti, si sono detti: “lo voglio fare anch’io, voglio prendere la bici e viaggiare”, “voglio perdermi nel centro di Cordoba o di Buenos Aires”, questo perché tutti credevano che il lockdown fosse solo una parentesi, che presto sarebbe finita. Solitudine ed isolamento, invece, a distanza di un anno, sono la condizione normale e quel racconto appassionato sembra lontano anni luce, quasi appartenesse ad un’altra epoca, un altro mondo di cui non ci ricordiamo più. Ecco perché riguardare il docu-film a distanza di un anno apre ad altre riflessioni, più intime, più interiori: è come ascoltare il racconto di un’altra storia, guardare un altro film dove la natura prende il sopravvento e si rivela ancora più potente in tutta la sua bellezza, ma anche le riflessioni di Lorenzo hanno un sapore diverso, persino i gesti, come abbracci e strette di mano, sembrano alieni, come i volti che possiamo ammirare in tutta la loro umanità senza le mascherine a nascondere le espressioni. Lorenzo ci fa capire che, in fondo, la solitudine non è solo una condizione negativa ma allo stesso tempo ci fa compagnia, ci porta in viaggio con lui, così che la sua e la nostra solitudine siano più
lievi, così come ci esorta a meravigliarsi ogni giorno ed a ringraziare per quello che si ha. A detta sua, siamo stati fortunati a nascere in questo pianeta, ecco perché mai e poi mai dovremmo abbandonarlo a sé stesso e ne dobbiamo avere cura più di ogni altra cosa. In fondo, basterebbe trattarlo con la stessa cura con cui trattiamo la nostra casa o come qualcosa di prezioso e raro, basterebbe che ognuno facesse la sua parte con piccoli gesti quotidiani ma che non
smettesse mai di abbassare la guardia e chiedere rispetto per il pianeta e per chi lo abita. Come Lorenzo ci suggerisce in una delle sue tante riflessioni di questo viaggio, il problema non è il pianeta e le sue tante contraddizioni, il problema siamo noi e sta a noi dover cambiare per vivere in armonia con la natura. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter Il caso dell’operaio tarantino licenziato per aver condiviso un post su Facebook dimostra innanzitutto, ed ancora una volta, il nostro analfabetismo digitale Una delle notizie che sta tenendo banco in questi giorni è quella relativa all’impiegato Riccardo Cristello, 45 anni, sposato, con due figli, che è stato licenziato per “giusta causa” da ArcelorMittal perché nei giorni scorsi aveva postato su Facebook uno screenshot, ritenuto denigratorio dall’azienda, che invitava alla visione della fiction Mediaset “Svegliati amore mio”, incentrata sulla storia di un’acciaieria e delle conseguenze sulla salute che causava alla città dove operava. Sarebbero tante le cose da dire su questa faccenda, a cominciare dalla messa in discussione della libertà di pensiero sancita dalla nostra Carta Costituzionale che, all’Articolo 21, nel primo comma, afferma chiaramente che: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio
pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. I l p o s t s u F a c e b o o k di Riccardo Cristello Poi potremmo continuare con le implicazioni in materia di privacy che, anche se in questo caso paiono strettine, visto che parliamo di social, comunque ci sono: il profilo dell’operaio tarantino rimane un profilo privato che, “ipoteticamente” ed in linea di principio, può raggiungere solo un definito numero di contatti. Poi ci sarebbero le sempre presenti e, ahimè, mai sufficientemente approfondite questioni etiche e morali. Infine, le “opinioni personali” sugli aspetti comunicativi della faccenda: su quanto sia stato avventato o meno il post di Riccardo Cristello e su quanto sia stata esagerata o meno e, probabilmente, alla fine controproducente la reazione di ArcelorMittal, che forse poteva fermarsi all’ammonimento ed alla sospensione, senza arrivare al licenziamento. Ma quello che secondo il mio parere è forse il punto vero della situazione, e parlo da direttore responsabile di un magazine online che si occupa di comunicazione e social media oltre che di marketing, è un altro. Quello che emerge con forza dal post di Riccardo Cristello è l’illusione, forse l’ingenuità, che la nostra vita online e la nostra vita vera siano in qualche modo separate, due compartimenti stagni che rispondono a regole e leggi differenti. Questa idea degli universi paralleli la vediamo all’opera con forza in tanti ambiti dalla contrapposizione fra bullismo/cyberbullismo, fra odio dal vivo/odio in rete, fra le affermazioni pubbliche/sui post, siamo, almeno molti di noi e soprattutto in determinate fasce di età, convinti, fermamente convinti, che le leggi e le regole sociali e di buon senso NON si applichino alle nostre vite ed esperienze online.
R i c c a r d o C r i s t e l l o Beh, mi dispiace dirvelo, ma non è così. E, se ancora dopo più di 20 anni dalla rivoluzione digitale siamo ancora qui ad interrogarci con la domanda: “vabbè, ma in fondo era solo un post, mica ha rilasciato un’intervista”, vuol dire che non abbiamo capito nulla del mondo in cui viviamo e delle “convenzioni” che lo regolano. Quello che, a mio avviso, emerge da questa triste faccenda è, ancora una volta, la generale incompetenza digitale di noi Italiani, un analfabetismo digitale che alle volte, come questa storia dimostra, può costarci molto caro. Dovremmo studiare internet, il web e i social (e questi termini non sono sinonimi!) a scuola fin dalle elementari, per sviluppare una sensibilità, una coscienza, una maturità quanto mai necessarie per utilizzare al meglio e per il nostro progresso gli strumenti della rivoluzione digitale che, mi preme ridirlo in chiusura, ha ormai più di 20 anni. Si tratta di una rivoluzione “adulta” a tutti gli effetti, mentre noi, la maggior parte almeno, siamo ancora adolescenti. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome
Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter 12 aprile 1961: il primo passo dell'uomo verso la conquista dell'ultima frontiera, lo spazio Quell’aprile si incendiò Al cielo mi donai Gagarin figlio dell’umanità E la terra restò giù Più piccola che mai Io la guardai non me lo perdonò E l’azzurro si squarciò Le stelle trovai lentiggini di Dio Col mio viso sull’oblò Io forse sognai E ancora adesso io volo… Sono queste le prime strofe della canzone “Gagarin” di Claudio Baglioni, pubblicata nell’album “Solo” del 1977. Il cantautore disse in un’intervista che si era ispirato all’articolo di un quotidiano che riportava alcune dichiarazioni del cosmonauta russo. Il 12 aprile del 1961, 60 anni fa, in piena Guerra fredda, l’Unione Sovietica riesce nell’impresa di portare in orbita il primo uomo, Jurij Gagarin.
Gagarin era nato il 9 marzo 1934 nel villaggio russo di Klušino, nella provincia di Smolensk. Era un pilota dell’aviazione russa, con un curriculum ideale per le richieste dei responsabili del programma russo. Il padre era un falegname, e la mamma era contadina. Il primo cosmonauta della storia era sposato con una infermiera, Valentina, ed all’epoca del suo storico primo volo orbitale Jurij era padre di due figlie. Fu questo l’ultimo schiaffo in faccia agli USA nella corsa allo spazio: la Russia aveva stravinto inanellando una serie di vittorie scientifiche, ma soprattutto politiche, che la propaganda seppe utilizzare al meglio per dimostrare la supremazia politica, sociale, economica e tecnologica del Comunismo sul Capitalismo occidentale e, in particolare, sugli Stati Uniti d’America. L’URSS aveva infatti mandato nello spazio nell’ordine: 4 ottobre 1957 lo Sputnik 1, il primo satellite artificiale mandato in orbita intorno alla Terra; 3 novembre 1957 lo Sputnik 2, con a bordo il primo essere vivente lanciato nello spazio: si tratta della cagnolina Laika; 12 aprile del 1961, il Vostok 1 (in russo: “Oriente”), con a bordo, Jurij Gagarin, il primo uomo ed il primo essere umano nello spazio; 16 giugno 1963, il Vostok 6, con Valentina Tereškova, la prima donna nello spazio; 18 marzo 1965 il Voschod 2 (in russo “Alba”), con a bordo il cosmonauta Aleksej Archipovič Leonov, il primo essere umano a fare una passeggiata spaziale. Insomma, la corsa allo spazio sembrava pressoché vinta dall’URSS, e fu allora che il presidente degli Stati Uniti John Kennedy e il vice presidente Johnson diedero una impressionante accelerata – anche di fondi – ad un progetto che potesse catturare l’immaginazione collettiva, il Programma Apollo (concepito, come la NASA, dall’amministrazione guidata da Dwight Eisenhower) che, come dichiarò il presidente John Kennedy, durante una storica sessione congiunta al Congresso avvenuta il 25 maggio 1961, aveva l’obbiettivo di far “atterrare un uomo sulla Luna entro la fine del decennio”. Ma la corsa allo spazio ed in particolare alla Luna furono soprattutto una prova di forza politica dei due blocchi contrapposti. A dimostrazione di questo, basti pensare che, nelle 17 missioni del Progetto Apollo (anche se ufficialmente furono 33), anche se quest’ultimo programma stimolò progressi in molti settori delle scienze e delle tecnologie, tra cui avionica, informatica e telecomunicazioni, solo uno scienziato riuscì a mettere piede sulla Luna, il geologo Harrison Schmitt della missione Apollo 17, lanciata il 7 dicembre 1972 ed allunata il 11 dicembre e che chiuse, definitivamente, il Programma Apollo e l’interesse degli USA per la corsa al nostro satellite.
I l c o s m o n a u t a r u s s o J u r ij Gagarin, primo uomo nello spazio il 12 aprile 1961. Oggi assistiamo all’interesse per Marte, sia da parte delle nazioni che dei privati, e lo spazio, e l’ignoto e l’avventura che rappresenta, stanno stimolando il progresso tecnologico e scientifico come poche altre sfide mai intraprese. La scienza, e quindi la conseguente cooperazione internazionale, sembra farla da padrone, anche se per adesso a dettare legge è ancora il cinema con tutta una serie di film che cercano di anticipare i sogni, le ansie, le problematiche e le possibili implicazioni filosofiche, psicologiche ed etiche di una colonizzazione spaziale che parta proprio dal pianeta rosso. Ti è piaciuto? Cosa ne pensi? Faccelo sapere nei commenti. Rispondiamo sempre. Resta aggiornato sulle nostre pubblicazioni e sulle ultime novità dal mondo del marketing e della comunicazione. Nome Cognome Email * Consenso Consentici di usare i tuoi dati
Qui, se vuoi, puoi consultare la nostra Privacy Policy Iscriviti alla newsletter LOL: Chi ride è fuori. Il successo strepitoso del format Amazon che intercetta il nostro bisogno di disimpegno e fancazzismo Lo scorso 8 aprile, con la pubblicazione sulla piattaforma Amazon Prime Video delle ultime 2 puntate, si è concluso il trionfale, e per molti aspetti inatteso, successo della prima stagione del nuovo format “LOL: Chi ride è fuori”. Semplicissima, quasi banale, la regola del programma, che prevedeva di riunire in un teatro video sorvegliato da un’infinità di telecamere (in realtà un set perfettamente ricostruito negli studi di Cinecittà) 10 comici e farli interagire per 6 ore, al fine di farli ridere; ma chi ride per due volte consecutive viene eliminato, finché non rimane un solo concorrente che vince, con l’impegno di devolvere in beneficenza la bella somma di 100mila euro. Insomma, in pratica, si tratta del gioco, praticato da tutti noi alle elementari e medie, di fissarsi negli occhi e vedere chi scoppia a ridere per primo. Infatti il successo strepitoso di questo format non è certo nella scrittura, praticamente assente, ma proprio nella formula di questo gioco infantile che, però, tutti quanti noi conosciamo e nel quale in un certo senso ci riconosciamo. Fra le ragioni del successo, sicuramente c’è anche il cast di questa prima serie di 6 puntate, composto in egual misura da comici navigati e nuove leve, che sono: Elio, Frank Matano, Caterina Guzzanti, Katia Follesa, Michela Giraud, Ciro e Fru dei The Jackal, Angelo Pintus, Lillo e Luca Ravenna. E se a molti di noi Michela Giraud non viene subito in mente, e il giovane ma talentoso stand-up comedy man Luca Ravenna non ci dice nulla, per gli altri 8 concorrenti davvero non c’è bisogno di presentazione, rappresentando, nel loro insieme, un bellissimo spaccato del gotha della comicità italiana degli ultimi 20 anni. Sicuramente hanno avuto il loro merito i due presentatori, Fedez e Mara Maionchi, già ampiamente rodati da tante co-conduzioni di talent e programmi di successo. Il programma ha fatto pure vedere quanto talento, studio e metodo si celi nella naturalezza delle improvvisazioni singole e di gruppo dei vari comici, con alcune scene, momenti e gag che, siamo sicuri, entreranno nella storia della programmazione televisiva, oltre a diventare un’infinità di meme
e tormentoni sui vari social. Ma non sono stati i comici, i conduttori, né la formula semplice del gioco a decretare il successo di questo format, quello che credo davvero sia successo (ed in questo sono d’accordo con l’analisi di Stanlio Kubrick su Esquire) è che un programma come “LOL: Chi ride è fuori” intercetti e soddisfi quell’impellente bisogno di leggerezza, disimpegno e “sano” fancazzismo che in questo anno di pandemia ci è tanto mancato. La voglia di stare con gli amici riuniti in un ambiente (chiuso!) a dire cazzate e farsi scherzi è il motore del successo di questo programma, sono convinto che molti fan avrebbero voluto essere lì con i loro idoli comici per passare 6 ore, questa la durata dell’intera performance, a cercare di far scoppiare a ridere tutti gli altri concorrenti. Chi di noi non avrebbe voluto vedere le imitazioni di Pintus? Chi di noi non avrebbe voluto soffrire con il povero Frank Matano, diventato il bersaglio di molti colleghi, fra cui Elio? Chi non avrebbe voluto vedere le strepitose gag di Katia Follesa e Ciro dei The Jackal? Od ancora, chi di noi non avrebbe riso a crepapelle davanti alle performance surreali e geniali di Lillo, vero mattatore del programma, o non avrebbe voluto provare a scardinare la granitica imperturbabilità di Caterina Guzzanti? Insomma, il successo di “LOL. Chi ride è fuori” è imputabile in buona parte al nostro bisogno di normalità, quella normalità semplice e un po’ banale pre-Covid19, in cui si rideva e scherzava al tavolino di un bar con tre o quatto amici e si parlava di cose buffe, leggere, semplici, ma non per
Puoi anche leggere