La Copertina d'Artista - Just Working - L'editoriale di ...

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La Copertina d'Artista - Just Working - L'editoriale di ...
La Copertina d’Artista - Just Working
Una ragazza bellissima ci osserva dalla copertina di questo mese. Sembra uscita da una rivista
patinata di moda, il trucco è perfetto, l’espressione intensa, tutto concorre a farci capire che questa
è una modella di esperienza, ma questa è solo una parte della storia, la copertina di questo numero
ha molte più storie da raccontarci.

Innanzitutto la cosa più evidente, metà viso della ragazza è coperto da una vecchia finestra
spalancata da cui è affacciata un’altra donna, questa senza volto. D’un tratto e quasi senza preavviso
l’artista ci trasporta in un mondo etereo e surreale.

E c’è di più, lo sfondo è rarefatto e indefinito e due pesci rossi svolazzano intorno alla testa della
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ragazza.

Non c’è che dire, quest’opera è davvero un colpo basso alle nostre “prime impressioni”, ai nostri
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preconcetti, fors’anche alle nostre più radicate convinzioni in fatto di arte.

Come siamo passati dalla più classica delle immagini da copertina di moda alla Vanity Fair alle
suggestive ed un po’ inquietanti opere alla Magritte o alla De Chirico?

Cosa ci sta “raccontando” l’artista di questo numero?
Perché mai per rappresentare il nostro rapporto con lo “smart working” ha scelto un’immagine
comune, commerciale quasi, e al tempo stesso così surreale che ricorda anche le celebri fotografie
dell’artista tedesca Loretta Lux?
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Proviamo come sempre ad azzardare qualche spiegazione, forse la ragazza senza volto alla finestra
rappresenta la progressiva perdita di identità alla quale il lavoro in remoto ci sta portando.
Lavoriamo, ci incontriamo, facciamo riunioni, addirittura aperitivi filtrati dai pixel di uno schermo, le
nostre facce sono sempre in bassa risoluzione, i nostri dialoghi metallici, le nostre connessioni e
conversazioni piene di interruzioni e ritardi.

                     Scopri il nuovo numero: Just Working
   La pandemia è stato un fortissimo shock che ha interessato tutti gli aspetti della nostra vita e il
  mondo del lavoro è certamente tra questi. Dal telelavoro allo smart working, passando per il south
              working, vedremo come sta velocemente cambiando il concetto di lavoro.

Forse l’artista di questo mese, Grace Green, al secolo Natascia De Nigris, vuole dirci che anche
con tutte le nostre connessioni veloci, la fibra, gli smartphone ultimo modello e i mega schermi HD,
le nostre interazioni sociali stanno diventando sgranate, tremolanti ed a bassa definizione?

Stiamo diventando più efficienti sul lavoro, ci spostiamo meno ed inquiniamo meno, risparmiamo
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soldi e tempo, ma forse stiamo perdendo un po’ di concretezza e con essa un poco di verità?

Forse, spingendo un po’ più in là la nostra interpretazione, potremmo pensare che la finestra
dell’opera richiama quella del più celebre sistema operativo del pianeta, quel Windows,
pubblicizzato da sempre come una finestra sul mondo, ma che oggi, dopo due mesi di lockdown, ed
altri due di Fase 2 e 3, rischia di diventare la nostra unica veduta sulla realtà?

“Non mi riconosco più”, è questo il titolo scelto per quest’opera e dissipa ogni nostro residuo
dubbio sulle intenzioni dell’artista. Grace Green ci dice, senza mezzi termini, che ci siamo persi, non
sappiamo dove andare, né da dove veniamo, viviamo sospesi in un limbo, affacciati alla finestra,
cercando inutilmente un punto di riferimento, un panorama familiare, ma è tutto tempo perso
perché, la verità, è che noi non sappiamo più chi siamo.
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Noi non possiamo che raccogliere il sagace ed irriverente ammonimento dell’artista, sperando di
imparare a dosare vecchio e nuovo, smart working e lavoro tradizionale, virtuale e reale, per non
perdere alcune delle cose che ci rendono autentici esseri umani.

Sia quello che sia, Grace Green ci ricorda ancora una volta che l’arte ci costringe a riflettere ad un
grado di profondità maggiore, ci esorta a pensare e in ultima istanza, ed è la cosa più importante, ci
addestra al cambiamento.

  Natascia De Nigris, in arte Grace Green, è una
  visual artist di origini leccesi nata nel 1984.
  Ecclettici e variegati la sua produzione ed i suoi
  interessi, che spaziano dal restyling di mobili
  antichi alla musica (dove si è distinta come
  producer), dalla creazione di una linea di
  accessori alla fotomapilazione, sino ad arrivare ad
  una linea di t-shirt dedicata alla natura, all’amore
  e all’universo. Il suo stile estremamente personale
  è connotato da un surrealismo che mischia
  abilmente antico e moderno, classico e pop, innovazione e tradizione.

  Dal 2017 sino ad oggi ha collaborato con vari artisti di tutto il mondo creando per loro delle cover
  art per cd, vinile e libri, qualche nome: Bonbooze, Cafiero, P.Savant, Aaron b. Able, No Finger
  Nails, Kiriku e molti altri.

  Per contattare l’artista Natascia De Nigris, in arte Grace Green: natashadenigris@gmail.com

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La Copertina d'Artista - Just Working - L'editoriale di ...
Just Working - L'editoriale di Ivan Zorico
Il 21 febbraio di quest’anno abbiamo riportato un forte
shock. Non tutti in quella data lo hanno davvero avvertito,
ma nelle settimane successive tutti ci abbiamo fatto i conti.

Abbiamo scoperto che la normalità era un concetto fragile perché fragili eravamo noi che ne
facevamo parte. Ci siamo scoperti insicuri, impauriti e delicati; in una parola umani. Via le
certezze, via le abitudini, via il rumore. Bloccati come eravamo nelle nostre case, abbiamo avuto
tempo per pensare e per guardare, da spettatori, la nostra vita. C’è stato chi ha vissuto questo
tempo in maniera molto negativa, chi ha reagito prontamente e chi ha iniziato a lavorare su stesso.

Abbiamo cercato di replicare e portare avanti quegli aspetti
centrali della vita di tutti noi: le relazioni e il lavoro.
Come mai prima di allora ci siamo aggrappati alla tecnologia, un po’ per sentirci meno soli e un
po’ per cercare di continuare a fare quello che facevamo prima, ma in modo nuovo. Abbiamo quindi
mantenuto relazioni a distanza e abbiamo continuato a lavorare e a portare avanti progetti
grazie alle varie app di video chat e ai vari software di gestione e condivisione del lavoro. Certo non
tutti i lavori potevano e possono essere eseguiti in questa modalità, ma per quelli che lo
consentivano è stata una sorta di rivoluzione.

Come in tutte le cose, c’è chi è stato fortunato e chi no.
L’abbiamo impropriamente chiamato smart working, più verosimilmente era (ed è) remote
working o telelavoro che dir si voglia, ma la sostanza per certi versi non cambia: molte persone dalla
sera alla mattina si sono trovate a lavorare da casa piuttosto che dalla solita scrivania dell’ufficio.

Non tutte le aziende erano pronte a far fronte a questa nuova sfida: il lavoro in versione
smart/remote non significa meramente spostare un computer dalla scrivania dell’ufficio a quella di
casa, ma significa avere processi, organizzazione aziendale, strumentazioni, persone preparate,
consolidati valori aziendali, capacità manageriali, etc. etc.. Insomma è ben più complicato di quel
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che possa apparire superficialmente.

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   La pandemia è stato un fortissimo shock che ha interessato tutti gli aspetti della nostra vita e il
  mondo del lavoro è certamente tra questi. Dal telelavoro allo smart working, passando per il south
              working, vedremo come sta velocemente cambiando il concetto di lavoro.

Talmente complicato che, dati alla mano, sul finire del 2019 solo il 58% delle grandi aziende aveva
aperto al lavoro a distanza, mentre i numeri riguardanti il mondo della Pubblica Amministrazione e
delle PMI erano ancora più infelici.

Poi, come detto, c’è stato questo forte shock – il lockdown – che ha velocizzato un processo di
rinnovamento che, seppur in atto, faticava a prendere davvero piede.

La rivoluzione del lavoro.
Tra le caratteristiche più spiccate che possono essere riconosciute alla tecnologia c’è quella di
amplificare le risorse, di creare nuove opportunità e, soprattutto, di rimodellare il mondo in cui
viviamo.

In questi anni tutti i settori sono stati intercorsi da cambiamenti sostanziali e trasversali. E
poteva il mondo del lavoro restarne fuori? Sicuramente no. E non si tratta solo del modo di lavorare
o di un singolo software. Si tratta di molto di più.

Quando si parla di rivoluzione digitale si usa il termine disruptive e lo si usa in quanto certe
innovazioni segnano nettamente un solco tra il prima e il dopo. Per natura siamo abituati a
concepire il cambiamento come qualcosa di lento e progressivo. Ma, appunto, quando ci si trova di
fronte ad un certo tipo di trasformazioni, la linea del cambiamento si impenna esponenzialmente. E
quando accade è impossibile tornare indietro.

In questi mesi abbiamo scoperto che si può lavorare proficuamente anche non recandoci in
ufficio. Le persone hanno riscoperto il valore del tempo e ripensato interamente alle proprie vite.
Sarà difficile, come qualcuno anche con una certa miopia afferma, far tornare indietro le lancette
dell’orologio a prima del 21 febbraio.

Il processo di rinnovamento è in atto e difficilmente lo si
potrà fermare. Magari si potrà tamponarlo per qualche
tempo, ma quando la marea sale non c’è diga che tenga.
D’altronde si parla solo di lavoro, su quello si viene misurati. Non si è lavoratori più produttivi
se si usa una scrivania in un luogo piuttosto che in un altro. Non si diventa professionisti migliori se
si lavora in una specifica città piuttosto che in un’altra. Quello che importa sono i risultati e le
connessioni e, come abbiamo visto, si possono raggiungere e mantenere anche online.

Chi non lo comprende oggi, sarà comunque superato dai tempi domani.
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Ti è piaciuto? Hai qualche considerazione in merito? Fammelo sapere nei
commenti. Rispondo sempre.
Se vuoi rimanere in contatto con me questo è il link
giusto: www.linkedin.com/in/ivanzorico

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Just Working - L’editoriale di Raffaello
Castellano
Non so se vi ricordate un episodio dei Simpson della 7
stagione, “Maxi Homer”, andato in onda in Italia per la prima
volta il 4 maggio 1996.

Ebbene, nell’episodio in questione Homer è stanco di andare a lavorare alla Centrale Nucleare a
causa degli esercizi ginnici che il il sig. Burns ha deciso di far fare ai suoi dipendenti ogni mattina;
allora con l’aiuto di suo figlio Bart decide di ingrassare fino a 130 chili per poter essere
dichiarato invalido e poter lavorare da casa in modalità remota con un video terminale.
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A rivederlo oggi, questo episodio non dimostra affatto di avere 25 anni suonati, sembra anzi
attualismo e pensato e disegnato non più di 2 anni fa. Ma l’attualità dei Simpson, più volte rimarcata
da insigni studiosi e critici, è, se possibile, in questo caso ancora più significativa, visto che lo smart
working è, dall’inizio della pandemia di Coronavirus, a febbraio di quest’anno, uno degli argomenti
più caldi e dibattuti non solo dal circo mediatico e politico, ma anche dai comuni cittadini.

La domanda ineludibile è: “Lavorare da casa è solo un vantaggio, oppure
nasconde anche delle insidie?”
Come sapete, mi piace essere controcorrente e su questo tema ho già ampiamente discusso con
l’amico Ivan, che invece è pienamente a favore dello smart working; io voglio invitare voi lettori ad
una riflessione più ampia ed articolata.

Credo che per taluni lavori prettamente “impiegatizi” e che prevedano l’uso principale del computer
il lavoro a distanza, il tele lavoro, lo smart working, siano in effetti un grande vantaggio. Pensiamo
alle ore risparmiate per recarsi in ufficio, al traffico, ai mezzi pubblici, al problema del parcheggio,
all’inquinamento ed allo stress derivante dal dover essere sempre di corsa ed affannati.

Detto questo però, pensiamo all’altro lato della medaglia: da sempre il posto di lavoro e la nostra
abitazione sono stati due posti separati, gli antropologi ci hanno spiegato che sono state le battute di
caccia dell’uomo delle caverne ad essersi poi evolute nei vari lavori. Certo, potrete dirmi che questo
vale soprattutto per una società maschilista come la nostra: la donna delle caverne in effetti
rimaneva “a casa” per sistemare giaciglio e focolare, ma questa concezione è ovviamente
ampiamente superata, oggi le donne che lavorano sono tantissime e, benché non abbiano ancora i
diritti e gli stipendi dei colleghi maschi, molto si sta facendo per annullare queste differenze di
genere.

Ma il tema che ci interessa qui è quello del lavoro: per centinaia, migliaia di anni, il posto in cui esso
era svolto e la casa sono stati separati da distanze più o meno ampie, l’ufficio e la casa erano due
luoghi distinti e diversissimi fra loro.
Allora forse dovremmo chiederci: “Quali vantaggi offriva, ed offre, questa
separazione geografica?”
Innanzitutto i vantaggi sono di tipo psicologico e neurologico: il nostro cervello si è evoluto per
campionare ed interpretare una miriade di impulsi, la ripetività di un compito o di uno stimolo, alla
lunga annoia il nostro cervello e di conseguenza la nostra concentrazione. In pratica vedere sempre
lo stesso ambiente impigrisce la nostra attenzione, e cosa c’è di più noioso che lavorare sempre nello
stesso ambiente, che per giunta non ho fatto alcuna fatica a raggiungere?

Se il mio smart working si svolge nello studio o nella cucina di casa mia, e per raggiungerlo ho
dovuto fare solo pochi metri, quanto tempo ci metterà il mio cervello ad annoiarsi?

In secondo luogo, pensiamo alle interazioni che il lavoro in ufficio ci offre, il caffè e le chiacchiere
con i colleghi, le interazioni sociali, gli stimoli visuali, olfattivi ed uditivi sempre nuovi che il posto di
lavoro ci trasmette.

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   La pandemia è stato un fortissimo shock che ha interessato tutti gli aspetti della nostra vita e il
  mondo del lavoro è certamente tra questi. Dal telelavoro allo smart working, passando per il south
              working, vedremo come sta velocemente cambiando il concetto di lavoro.

A tal proposito mi viene in mente un’altra serie tv. Vi ricordate la sitcom Camera Cafè? Il suo
successo fu immediato e strepitoso, non solo perché Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu erano
bravissimi a circondarsi di attori e caratteristi strepitosi, ma perché le vicende che raccontavano,
benché esagerate e grottesche, erano vere o quantomeno verosimili. Camera Cafè metteva in scena
il micro-cosmo dell’ufficio, con le sue gelosie, cattiverie, ipocrisie, scherzi, amori e drammi,
concentrandoli e distillandoli in un piccolo e circoscritto “non luogo”, come appunto la camera che
ospita la macchinetta del caffè, il punto ristoro dell’ufficio.

https://youtu.be/M9TGSjaczF4

Ed ancora, uno dei problemi che anche i fedeli adepti dello smart working ammettono è che
lavorando a casa diviene molto difficile gestire gli orari del lavoro stesso. Molti dei lavoratori che
hanno optato per lo smart working hanno dichiarato, a più riprese, che le ore di attività erano molte
di più di quelle svolte in ufficio. Certo, questo ha aumentato la produttività, e le aziende ne sono più
che soddisfatte, ma la “qualità della vita” degli impiegati è molto peggiorata. Il riposo, lo svago, gli
orari certi e cadenzati del lavoro e del tempo libero sono anche questi molto radicati nel nostro
cervello, cambiare orari è difficile; pensate a quello che vi succede durante i primi giorni di ferie o al
ritorno dalle stesse. Cosa ancora più significativa, il maggior impegno lavorativo era messo in
pratica dagli impiegati stessi, senza imposizioni aziendali e in maniera quasi inconscia, il che
dimostra la necessità di divisione geografica, fisica e temporale che il posto di lavoro e la casa
dovrebbero mantenere.

Infine, ci sono da considerare il problema degli spazi condivisi, dei figli, delle connessioni e
dell’accesso ai videoterminali, non tutte le case infatti hanno abbastanza stanze, la banda larga o più
di un computer per lavorare; molte famiglie magari hanno uno o più figli che rivendicano spazi ed
attenzione. Lavorare da casa ha, quindi, anche i suoi lati negativi, come diversi analisti e giornalisti
hanno rilevato, tra i quali ci piace l’ironica sintesi di Francesco Specchia che ne parla in un
recente TgPOP (e che noi abbiamo intervistato nello scorso numero sulla comunicazione).

Allora, veniamo alla mia tesi, tra l’altro supportata dagli psicologi del lavoro: siamo sicuri che
rinunciare al micro-cosmo dell’ufficio, con le sue interazioni, anche quelle più frivole, sia dal punto di
vista della nostra “ecologia mentale” conveniente?

Beh, io penso proprio di no!
Ed ancora, lavorando da casa, non corriamo il rischio di aumentare eccessivamente i nostri orari di
lavoro, andando a scapito della nostra qualità della vita?

La risposta non può essere che si!
Ed infine, il lavoro da casa è facilmente realizzabile da tutti e non presenta limitazioni?

La risposta a questa domanda è negativa!
Va bene, qualcuno (e forse anche l’amico Ivan) obbietterà che la mia visione è troppo cupa, che i
vantaggi dello smart working in termini di traffico scongiurato, carburante risparmiato, spostamenti
azzerati, inquinamento evitato e stress contenuto siano molto più importanti e rilevanti dei problemi
che lo stesso comporta.

Allora, vi rispondo con una ricerca scientifica, commissionata dalla nota piattaforma di ricerca del
lavoro DirectlyApply, che ha creato una simulazione grafica dello smart worker del futuro. Lei si
chiama Susan ed è una figura davvero inquietante, che mostra gli effetti a lungo termine del lavoro
telematico da remoto. Ebbene, Susan è obesa, presenta una vistosa gobba, ha gli occhi arrossati per
le troppe ore passate davanti allo schermo del pc, i polsi sono doloranti a causa dell’utilizzo continuo
della tastiera, i capelli sono radi e sfibrati, a causa della mancata esposizione al sole che ha
diminuito l’assorbimento nel corpo della Vitamina D. Secondo gli esperti che hanno creato questa
simulazione computerizzata, se continuiamo a lavorare prettamente in modalità smart working
rispetto ad una modalità normale o mista, entro 25 anni rischiamo di diventare tutti come Susan o,
se vi piace di più, come il “Maxi” Homer Simpson.
L
a
s
i
m
u
l
a
z
i
o
n
e
g
r
a
f
ica “Susan” realizzata dlla piattaforma DirectlyApply per illustrare i rischi dello smart working.

Ma allora che atteggiamento dobbiamo avere nei confronti dello smart working?
Certamente lo smart working presenta molti vantaggi se, ad esempio, ci fa evitare uno spostamento
di quattro ore in macchina o due in aereo per partecipare ad una riunione di un’oretta; in questo
caso le piattaforme tipo Zoom o Stream Yard sono una scelta più pratica, economica, ecologica,
conveniente e soprattutto intelligente (smart, appunto). Senza dubbio anche la formazione, non
tutta, ma quella ordinaria, si può giovare della modalità remota, ma per altre tipologie di formazione
come quelle delle convention, dei seminari aziendali, dei grossi eventi, la modalità smart non può
reggere il confronto con la modalità in presenza; infatti in questi grossi incontri la formazione pura è
solo una parte dell’evento, sono le interazioni sociali, al tavolo da buffet, durante la pausa caffè o a
cena che permettono di instaurare collaborazioni ed offrono nuove, ed autentiche, opportunità di
crescita professionale, e questo lo posso confermare anche io, da esperto di pubbliche relazioni con
20 anni di esperienza.

Inoltre, non andrebbero dimenticati i rischi per la salute di un ricorso massiccio allo smart working,
come gli esempi di Susan e Homer Simpson dimostrano.

Insomma, il mio parere è che una “modalità mista” fra lavoro tradizionale e smart working sia la
vera strada da percorrere, perché se è vero che il progresso non si può arrestare, è pur vero che le
esperienze positive e “funzionali” del passato non vanno semplicemente buttate alle ortiche.

Come sempre la parola magica è “equilibrio”: imparare a gestire modernità e tradizione, virtuale e
reale, lavoro in presenza e in remoto, formazione online e convention aziendale, spostamenti inutili e
spostamenti necessari, interazioni sociali dal vero e interazioni sociali virtuali, tutto questo
rappresenta la “competenza trasversale” che contraddistingue il vero manager da quello che si
atteggia solamente.
Perché “smart” nel suo significato più autentico e vero significa intelligente, e l’intelligenza, fra le
altre cose, è la capacità di un organismo di adattarsi ad una nuova condizione facendo leva, e tesoro,
sulle sue esperienze pregresse.

In parole povere essere intelligenti, smart, non vuol dire avere una sfilza di idee e/o essere solo
super creativi o iper-adattabili, ma significa pure imparare dai propri errori (leggi esperienze) a
superare le nuove sfide con quel mix esplosivo di tradizione ed innovazione che contraddistingue i
veri vincenti dai semplici fortunati.

Buona lettura e buon lavoro, di qualunque tipo esso sia, a tutti voi.

                                                                                 Raffaello Castellano

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Smart working e impiego flessibile delle
risorse umane: il decalogo PageGroup
PageGroup, leader mondiale nella ricerca e selezione del personale e affermata società di recruiting
propone un decalogo per ottimizzare lo Smart Working. Si tratta di un’iniziativa resa ancora più
interessante in questo 2020, in cui la pandemia di Covid-19 ha reso molte aziende smart e portato
agli occhi di tutti il tema dello smart working.

Worklife Balance: un asset per trattenere i talenti in azienda

L’idea di stilare un decalogo dello smart working nasce dall’idea del worklife balance come asset
imprescindibile per attirare e trattenere i talenti in azienda. Il decalogo prende vita all’interno
della Settimana del Lavoro Agile, istituita nel 2017 e contiene i consigli per ottimizzare l’impiego
flessibile delle risorse umane nelle aziende italiane.

Chi cerca talenti cerca persone veloci, flessibili e innovatrici e lo smart working è il modo migliore
per attirarli e trattenerli. Uscire dalla routine, inoltre, permette di trovare soluzioni innovative utili
al business. Rendere la flessibilità smart significa ripensare l’organizzazione e i modelli del lavoro
e proprio PageGroup già nel 2017 aveva ideato il programma Flexibility&Page.

Ecco, allora, i 10 consigli per aziende e dipendenti che
vogliono applicare al meglio il modello dello smart working.
1. Management in presenza VS Management per risultati

Lavorare in modo smart significa dare e richiedere obiettivi e risultati chiari, strutturando la
timeline in modo organizzato tra azienda e lavoratore. App, email e Intenet permettono di passare da
un management basato sulla presenza ad un management basato sui risultati.

2. Comunicazione multicanale

La difficoltà principale dello smart working è mantenere costante il flusso di comunicazioni con i
lavoratori. Per le informazioni di routine sono perfetti email e chat, per il brainstorming le video
conferenze, capaci di aumentare la condivisione dei contenuti e l’approccio personale.

3. Strumenti adeguati per aziende smart

Lo smart working funziona solo se il lavoratore ha a disposizione strumenti adeguati per comunicare
con clienti e colleghi. Accanto a smartphone, cuffie e webcam servono tool come Google Docs o
software per il project management come Basecamp, che permettono di monitorare e pianificare
progetti da remoto.

4. Gestione del tempo

Per lavorare bene è importante affidarsi alla to do list e perseguire un worklife balance per riuscire
a gestire tutte le incombenze della giornata, comprese le commissioni personali, senza creare
conflitti in agenda.

5. Mettere dei limiti

In alcuni casi è importante declinare le richieste urgenti di colleghi e clienti, fornendo adeguata
motivazione e proponendo qualcun altro per lo svolgimento del compito. Lavorare in modo flessibile
non significa lavorare 24 ore su 24 e richiede la capacità di porre limiti alla propria reperibilità e
creare delle pause.
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   La pandemia è stato un fortissimo shock che ha interessato tutti gli aspetti della nostra vita e il
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              working, vedremo come sta velocemente cambiando il concetto di lavoro.

6. Multitasking

Il multitasking è pericoloso e chi lavora in smart working deve portare a termine un progetto prima
di dedicarsi a quello successivo, in modo da eseguire tutte le attività nel miglior modo possibile.

7. Una modalità di lavoro accessibile a tutti

Nelle aziende che lavorano in modalità smart non devono esserci dipendenti fissi e l’imprenditore
che lavora in modo agile dovrebbe permetterlo anche ai collaboratori.

8. Nuova cultura del lavoro

Per introdurre in azienda lo smart working potrebbe essere necessaria una formazione specifica in
tecniche di lavoro agile per i manager e delle ore di sensibilizzazione per i team, utili a condividere
protocolli e nuova cultura del lavoro.

9. Approccio personale

È stato dimostrato che il 20% dei dipendenti lavora meglio in modalità smart, dato che può gestire il
tempo in modo flessibile e svolgere attività prima impensabili, come accompagnare i figli a scuola.
Ricordiamo, tuttavia, l’importanza di un approccio personale fondamentale per mantenere alte le
prestazioni e appagare le esigenze del dipendente.

10. Organizzare gli spazi fisici

A casa, in co-working e fuori dall’ufficio è importante ricavarsi uno spazio da dedicare solo al lavoro,
ordinato e posizionato in un’area priva di distrazioni.

Seguendo queste semplici regole, in poco tempo appariranno evidenti i vantaggi in termini di
produttività e soddisfazione dei dipendenti e l’azienda, magari, potrebbe decidere di mantenere
lo smart working anche al termine dell’emergenza sanitaria, facendone il fulcro di una nuova cultura
aziendale e di un nuovo modo di lavorare.

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Dal teleleavoro di De Masi allo smart
working: evoluzione di una battaglia persa
per 40 anni
La diffusione del Covid-19 ha evidenziato un cambiamento importante nella modalità lavorativa, una
situazione che probabilmente andrà a modificare l’intero assetto socio-economico del nostro Paese.
Da mesi sentiamo citare la parola “smart working”, come se si trattasse di una novità
assoluta, l’idea invece affonda le radici nel passato, quando ancora con una terminologia più locale
veniva definito telelavoro.

Il primo a parlare di questo tema in Italia fu il sociologo Domenico De Masi, professore
emerito di sociologia del lavoro presso l’università La Sapienza di Roma, e autore di numerosi volumi
accademici e non, che già quarant’anni fondò la Società Italiana Telelavoro. L’attività della
società, senza fini di lucro, aveva l’obiettivo di indurre le aziende ad usare il telelavoro, attraverso lo
svolgimento di appositi seminari, e di spingere il governo a promuovere delle opportune leggi a
riguardo.

Un concetto teorizzato per anni e che in poche settimane è esploso, «il telelavoro si poteva
applicare già da 20 anni, soltanto grazie a questo pipistrello cinese finalmente 8 milioni di persone
hanno capito che si può lavorare da casa» ha dichiarato il professore nella trasmissione televisiva
“L’aria che tira” sul canale televisivo La7. Il pensiero lungimirante del sociologo è legato allo
sviluppo della rete, grazie alla quale in realtà già tutti telelavoriamo senza accorgercene,
in vacanza, in treno, nel tempo libero, senza però averlo mai considerato un diritto. Il
concetto del telelavoro è stato oggi sostituito da quello di lavoro agile (smart working appunto), a
sottolineare il passaggio ad una filosofia che abbandona la teoria lavorativa marcata da un forte
controllo del datore di lavoro, ad una basata sulla maggiore autonomia del lavoratore, centrata
sul raggiungimento degli obiettivi, e per tale motivo realizzato con una maggiore flessibilità di
orario.

Il prof. De Masi sottolinea che a suo avviso i vantaggi apportati nel tempo da un lavoro di
questo tipo sono vari, quali: risparmio di tempo di tempo per il lavoratore, che normalmente
deve spendere per recarsi e tornare dal posto di lavoro, accompagnato da un notevole risparmio di
denaro relativo alle suddette spese di trasporto; calo degli incidenti automobilistici; maggiore
autonomia del dipendente nella gestione del lavoro, che comporterà una maggiore produttività.

Uno studio condotto dall’Università di Standford nel 2015 ha infatti dimostrato che in Germania,
dove il dipendente medio lavora circa 1400 ore annuali, rispetto alle 1800 italiane, si registra una
produttività del 22% superiore a quella di casa nostra, e questo perché si lavora più rilassati, e liberi
di organizzare le ore tra lavoro e tempo personale. Per le aziende invece il risparmio sarà
soprattutto economico, in quanto vi è una sostanziale diminuzione del costo di gestione dello
spazio fisico, come affitto, riscaldamenti, pulizie e mobilio. Una soluzione lavorativa di smart
working potrebbe, secondo il luminare, giovare all’intera società, consentendo un calo
dell’inquinamento, sia climatico che acustico, meno traffico, e rivitalizzazione di quartieri, come ad
esempio quelli esclusivamente residenziali, che godrebbero di maggiore vita anche nell’orario
diurno, quando invece sono soliti svuotarsi.

Come affrontare il problema della scarsa socialità con i colleghi, ossia la mancanza della
così detta pausa-macchinetta? Per il professore è semplice, organizzando frequenti pranzi e cene
con i collaboratori (come lui stesso ammette di fare), che permettono di avere momenti di
convivialità qualitativamente migliori.

                     Scopri il nuovo numero: Just Working
   La pandemia è stato un fortissimo shock che ha interessato tutti gli aspetti della nostra vita e il
  mondo del lavoro è certamente tra questi. Dal telelavoro allo smart working, passando per il south
              working, vedremo come sta velocemente cambiando il concetto di lavoro.

Il problema italiano è quello di essere arrivato in ritardo sull’argomento rispetto all’Europa, lo smart
working non è ancora considerato un vero diritto lavorativo, nonostante la possibilità fosse già
contenuta nella Legge n.81/2017, nella quale viene definito come una modalità di esecuzione del
lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari e spaziali, con il riconoscimento di un
trattamento economico paritario alla modalità lavorativa tradizionale. Attualmente è riconosciuta
tale possibilità, in virtù del Decreto Legge n. 34 del 19/05, solo fino a dicembre, come strumento
d’emergenza a causa della pandemia. Tale legiferazione non lascia ben sperare per il futuro, gli
ultimi mesi hanno permesso di realizzare un grande esperimento collettivo ma non
abbiamo certezza che si continui su questa strada, nonostante buona parte dei lavoratori in tale
modalità, circa il 65% secondo l’Istituto Noto Sondaggi, considerino positiva questa esperienza,
dichiarando di aver dedicato più tempo alla famiglia e a sé stessi.

L’Osservatorio del Politecnico di Milano, nato da qualche anno proprio per studiare l’evoluzione del
fenomeno dello smart working, rassicura i pessimisti che rimpiangono le ore in ufficio, sottolineando
che le remore relative all’attuale situazione sono giustificate dal fatto che questo non può essere
considerato il “vero” smart working, piuttosto un lavoro forzato dall’emergenza sanitaria che
comporta alcune criticità, quali ad esempio il senso di isolamento, difficoltà della connessione
Internet e nel gestire l’equilibrio tra vita privata e lavorativa. Il passaggio ad una reale cultura di
lavoro agile deve essere accompagnato da idonee iniziative di formazione e comunicazione,
che potranno portare, a quel punto, alla realizzazione della filosofia agognata già da Domenico De
Masi, anni or sono.
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Smart working – south working - well
working! La pandemia distrugge il falso
mito della scrivania
Non sono solita scrivere articoli molto personali, preferisco più dare un mio punto di vista su dati e
fatti, ma questo periodo di lockdown è stato così impattante da vari punti di vista che ha visto
necessario in più occasioni che mi leggessi dentro per esprimere stati d’animo e pensieri. Ne è stato
un esempio il pezzo “Mentre il mondo si ferma, la rete corre veloce!”, che ha messo a nudo
sensazioni di quel momento.

Oggi ci ritroviamo alla fase tre, quella delle mascherine e guanti nei luoghi chiusi e
dell’irresponsabilità delle persone nei luoghi aperti, quella che dovrebbe permetterci a breve di
ripartire ma che non si sa quanto durerà, quella che il passato ce lo siamo già dimenticato e che il
rischio che ritorni è un attimo.

Ma ciascuno di noi la ripresa se la sente dentro, rivedere i congiunti, gli amici, i colleghi, uscire e
visitare luoghi; le vacanze sono vicine e ci si appresta a non far trascorrere questa estate
inosservata, anche se con le dovute cautele.

Non si può non ammettere che qualcosa è cambiato, ci si incontra e non ci si abbraccia, la mano non
la si stringe più, si scherza sul darsi il gomito, il sorriso è nascosto e si tiene il disinfettante a portata
di mano, sempre.

Abbiamo cambiato le nostre abitudini, è strano ma è così, ma ce ne è una che modificandola ci fa
sentire tutti più leggeri, sarà perché trascorriamo meno ore nel traffico, perché abbiamo un migliore
work life balance e possiamo lavorare da ogni dove facendo emergere quel desiderio di libertà
intrinseco in ognuno di noi, ma lo #smartworking ci sta rendendo persone migliori.

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   La pandemia è stato un fortissimo shock che ha interessato tutti gli aspetti della nostra vita e il
  mondo del lavoro è certamente tra questi. Dal telelavoro allo smart working, passando per il south
              working, vedremo come sta velocemente cambiando il concetto di lavoro.

Sono fermamente convinta che vivere di qualità e lavorare di qualità sono opportunità che
con lo smart working possono convivere!

La pandemia lo ha dimostrato, ma non sarebbero necessari eventi straordinari se si avesse una
mentalità più orientata al risultato che al controllo. Il falso mito della scrivania, delle ore in
ufficio sono da sfatare, abbiamo dimostrato in questi mesi che volere è potere e (per alcune tipologie
di lavori) lavorare in smart working è la giusta modalità!

Risparmiando le ore di traffico A/R verso l’ufficio in una città metropolitana impazzita all’orario di
punta mi hanno permesso di organizzarmi meglio il lavoro, ho lavorato di più, è vero, più ore
connessa, ma con soglie di stress ridotte al minimo, mantenendo i consueti standard di qualità.
Lavorare in modo fluido senza una sede fisica è una questione di mentalità, chi di norma lavora bene
in ufficio può farlo da ogni dove, perché maggiormente organizzato e capace di un work life balance
di alto livello.

Sicuramente le relazioni ci hanno un po’ rimesso, è l’altro lato della medaglia, ma dove la relazione
c’è ed è radicata, anche una video call può permettere il dialogo senza incomprensioni.

Un team agile che lavora da remoto è abituato a lavorare per obiettivi, è in grado di condividere la
vision aziendale e lavorare bene a distanza senza aver bisogno del controllo. Il grande sforzo
dovrebbe essere quello di entrare in empatia con le persone, ma ci dovrebbe essere a prescindere.

Ritengo che come tutte le modalità di comunicazione l’integrazione tra canali on-line e off-line è
l’approccio maggiormente funzionale, alternare momenti di smart working con momenti di
discussione F2F ci porterebbero ad una giusta modalità di lavoro fluido, con un pranzo e un caffè
con il collega nel mezzo, che fa sempre piacere.
E’ un tema caldo e Linkedin Notizie ha pubblicato un post- survey che in un solo giorno ha
raggiunto oltre 300 interazioni, circa 700 commenti e 5000 voti.

Se fosse possibile lasceresti la grande città per lavorare da remoto da un altro posto?
Il popolo della rete si è sbizzarrito. Vince il sì assolutamente!

Il #southworking emerge come la grande novità del 2020, ma come soprattutto una grande
esigenza per riprendersi in mano le proprie vite, rivivere le proprie città natali e gli affetti,
continuando a produrre, ma non necessariamente al nord o in città. La nuova meta del lavoro da
remoto alternativo sono antichi borghi, scrivanie con vista mare, tavoli in campagna all’ombra di una
quercia. Già solo immaginarselo dà serenità. Si aprono scenari di vivibilità tutti da approfondire.

Per i più avventurosi sarebbe un’opportunità la proposta delle Barbados, dove l’ente del turismo
invita a richiedere il visto valido 12 mesi per vivere e lavorare da remoto. Soggiornando sull’isola da
veri autoctoni dopo il periodo difficile della pandemia anziché trascorrervi le classiche vacanze di
una, due o tre settimane, i viaggiatori ora possono pianificare la loro intera attività lavorativa, per
tutto l’anno.

Come sarebbe lavorare circondati da sole, splendido mare, stare al pc con i piedi nella
sabbia? Non è un’occasione da cogliere al volo? Ecco, con lo smart working si può!

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L'altra faccia dello smart working. Piccola
storia di un piccolo PC.
Ciao, mi chiamo Lenpik e sono un PC portatile.

Abito in una casa grande. La mia vita è sempre stata molto tranquilla, qualche spolverata ogni tanto,
qualche surfata nella rete per cercare le vacanze. Da qualche anno poi si sono sempre più
dimenticati di me.

Sono arrivati a casa nostra Smarty e poi Smartyf. Sembrano dei PC ma sono molto più piccoli. Anche
io sono piccino, sono solo 13 pollici ma loro lo sono ancora di più. E poi sono così colorati con quelle
cover divertenti. A me nessuno cambia mai vestito.

Poi un giorno è successa una cosa strana. Nessuno usciva più di casa e tutti volevano stare con me.
All’inizio era divertente, mi sentivo il protagonista. Pensate: litigavano addirittura per potermi avere!
Ma poi è diventato tutto più faticoso. Ero attivo 20 ore al giorno, tutto sudato e affaticato. All’inizio
chi stava con me era sempre sorridente, c’erano sempre cose divertenti sul mio schermo, dalle
ricette di cucina ai tutorial di bricolage. Ora invece spesso si arrabbiano, battono i pugni sul
tavolo e ogni tanto ho paura.

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E poi quanto lavoro. Così tanto che mi sono ammalato. Prima mi hanno fatto un paio di pillole
di Defrag poi mi hanno somministrato un nuovo antivirus. Però ero così stanco, sempre surriscaldato
e iniziavo a lavorare a rilento. Mi hanno portato dal dottore per mettermi in riparazione e ogni tanto
li sentivo dire che era ora di sostituirmi.

Cosa?
Dopo tutto quel lavoro?
Tutta quella fatica?
Io ero un piccolo PC portatile di soli 13 pollici per navigare tra le recensioni degli hotel e gli acquisti
on line.

Ho sentito parlare di Covid, che ha cambiato tutto. E ha cambiato anche la mia vita. E’ proprio
vero: se non ti tieni al passo con l’ultimo aggiornamento, sei fuori gioco.

Speriamo di rimetterci in sesto, di fare un upgrade e di andare avanti. Non ho proprio voglia di
fermarmi qui e di mollare tutto.

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La trasformazione digitale italiana tra
smart working, automation e nuovi
scenari: intervista a Giulia Verzeletti.
L’Italia è un paese straordinario e lo è per la capacità di risollevarsi e ricominciare da zero, infinite
volte. Lo è per la capacità di essere tutt’uno con il caldo afoso delle sue estati che la rendono vera,
appassionata, affascinante, anche con un ospite indesiderato come il Covid-19. Lo è per la capacità
di guardare avanti e di sapere che conflitti bellici o emergenze sanitarie, non fermeranno mai il
fermento del nostro paese.

Ed è così che in piena chiusura e panico da pandemia, abbiamo ri-scoperto lo smart working, lo
abbiamo annusato, guardato con sospetto, studiato a debita distanza e poi ci siamo buttati a
capofitto perché nessuno meglio degli italiani sa che da ogni crisi nascono sempre grandi
opportunità.

Abbiamo reinventato il cliché e lo stereotipo della tradizionale PMI italiana, che se non vede i suoi
dipendenti 8 ore al giorno incollati alla scrivania, teme il fallimento istantaneo.

Abbiamo sdoganato il lavoro da remoto, il divano come scrivania, la t-shirt dei Nirvana come divisa
aziendale. Abbiamo capito che lavorare a distanza si può… ed è pure produttivo.

Voi non lo sapete, ma questo è il vero primo passo verso la trasformazione digitale delle aziende
italiane. Un piccolo passo per l’uomo è un grande passo per l’umanità, diceva qualcuno.
G
i
u
l
i
a
V
e
rzeletti, esperta di Inbound Marketing
Automation

Ma quali sono i prossimi passi e quale sarà lo scenario futuro lo abbiamo chiesto a Giulia
Verzeletti, esperta di Inbound Marketing Automation, autrice e relatrice sul tema, che da anni
si occupa di consulenza aziendale attraverso strumenti di lavoro agile e fluido.

D. Ciao Giulia, il lavoro ai tempi del Covid-19 è profondamente mutato in Italia: abbiamo
cominciato ad abituarci allo smart working e a forme sempre più creative di lavoro
quotidiano. Quale sarà lo scenario dei prossimi mesi per chi, come te, si occupa di creare
strategie e di gestire progetti di automazione personalizzati per aziende b2b e b2c?

R. Io ho sempre avuto la fortuna di poter lavorare per buona parte del mio tempo in modalità smart:
svolgere consulenza e attività di project management, con il supporto degli strumenti giusti, è
assolutamente fattibile anche da remoto perciò per me le cose non sono cambiate eccessivamente
durante la pandemia. Quando parlo di strumenti giusti faccio riferimento a tutta una serie di
supporti utili allo svolgimento dell’attività in qualsiasi posto ci si trovi, dai software di video
conference come Zoom alle chat aziendali come Slack e passando per tool di project management
come Teamwork o Trello.

Credo fortemente nello smart working per migliorare la gestione e la qualità del proprio
tempo e credo anche che sia importante che molte aziende abbiano fatto un passo in questa
direzione. Non è possibile parlare per tutti di smart working e ovviamente l’emergenza Covid è stata
così preponderante che, nella fretta di adeguarsi alle disposizioni governative, molte aziende hanno
iniziato ad adottare il telelavoro ma non lo smart working. Come dicevo, un primo passo è stato
fatto, tuttavia per arrivare a poter lavorare davvero smart servirebbe proprio una
riorganizzazione di dinamiche e attività che, mi rendo conto, non sarà così immediata per alcune
tipologie di aziende. Sarà una bella sfida ma credo sia anche imprescindibile essere pronti in futuro
a reagire più rapidamente a una situazione di emergenza (anche se, ovviamente, ci si augura che
non capiti più).

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D. Le aziende oggi devono mangiare, respirare e lavorare digitale, quali sono 3 consigli che
ti senti di dare alle tradizionali PMI che hanno paura della trasformazione digitale?

R. Io penso che ormai non si possa prescindere dalla trasformazione digitale e, al contempo, non
voglio ricadere nello stereotipo diffuso durante il boom dei social, cioè il classico: “apri
Facebook/Instagram/LinkedIn perché ce l’hanno tutte le aziende e devi averlo anche tu!”.

In questo caso parliamo proprio di una necessità che arriva dalle persone stesse.

Tornando all’esempio del lavoro, sempre più persone hanno la necessità di trovare la corretta
work-life balance e ovviamente degli strumenti digitali aiuterebbero a raggiungere questi obiettivi.
Perciò, il primo consiglio è proprio legato all’adozione di strumenti digital per migliorare
l’esperienza d’impiego dei propri dipendenti.

Un altro modo in cui le persone influenzano la necessità di essere digital è proprio la continua
sofisticazione dei gusti e delle richieste del pubblico finale: oggi la stragrande maggioranza di
potenziali clienti fa ricerche online prima di acquistare qualsiasi cosa, perciò è importante per
un’azienda essere presente ed esserci nel modo giusto (anche, semplicemente, curando le proprie
recensioni e rispondendo alle richieste degli utenti online). Il secondo consiglio quindi è quello
di “sistemarsi l’abito” online, perché oggi più che mai quell’abito fa il monaco.

Il terzo consiglio è quello di procedere per gradi: come tutte le trasformazioni, anche quella
digitale può avvenire step by step all’interno di una realtà aziendale, dando tempo alle persone di
accettarla e abituarcisi.

D. Hai scritto un libro molto interessante sull’Inbound Marketing Automation (che ho letto
in 3 ore) e nel tuo blog parli sempre di automazione, ci spieghi di cosa si tratta e come può
aiutare le aziende a rivedere i loro workflow?

R. Quando sento che il mio libro non si trasforma in un mattone da scrivania (o da comodino) sono
super soddisfatta, perciò grazie mille! Ricambio, tra l’altro, i complimenti perché anche il tuo
manuale sull’Inbound è scorrevole e ben scritto.

Fare Marketing Automation significa rendere automatiche molte azioni di marketing e
comunicazione la cui esecuzione manuale “ruba” tempo prezioso ad altre attività: per
esempio, inviare una email a un contatto che rispetta determinate condizioni. Oppure ricordarsi di
fare una telefonata a un prospect. Se si adotta un software di Marketing Automation e si impostano
delle regole, queste azioni possono essere svolte in maniera automatica permettendo di risparmiare
tempo e dedicarlo alla creazione di valore per i potenziali clienti.

Quando parlo di creazione di valore mi riferisco sia alla creazione di contenuti utili per chi
desidera acquistare un prodotto o servizio ma è ancora indeciso, sia alla cura di chi ha già acquistato
e ha bisogno di capire come trarre il massimo dall’acquisto. Lo stesso Customer Care può
intervenire al momento giusto e dare davvero un tocco in più all’esperienza dell’utente. Per questo a
volte considero la Marketing Automation un metodo per “scremare” le richieste del pubblico,
gestendo in automatico quelle più ricorrenti e coinvolgendo il supporto umano quando necessario.

Quindi, in sostanza, l’automazione della comunicazione e dei processi di vendita è utile a risparmiare
tempo perché, una volta impostata, funziona automaticamente. Ovviamente, prima di arrivare a
questo punto è necessario avere una strategia di marketing e comunicazione, meglio se inbound, in
modo da avere già una mappa delle attività da automatizzare e capire dove concentrarsi.

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Milano è solo un apostrofo rosa tra le
parole Smart e Working.
“Sveglia e caffè,
Barba e bidet.
Presto che perdo il tram…”

Avrete sicuramente riconosciuti questi versi e magari anche canticchiati: è senz’altro uno dei pezzi
più riconoscibili de “La ballata di Fantozzi”, che faceva da sfondo ai primi due film di Fantozzi
(1975). Un motivetto simpatico, ma al contempo amaro.

Dal 1975 ad oggi, più o meno le cose sono andate allo stesso modo: milioni di persone si
svegliano al mattino cercando di rubare quanti più minuti possibili alla sveglia, si preparano in tutta
fretta e corrono a prendere il tram, la metro o, forse peggio, si infilano in autostrade e superstrade
ricolme di auto per recarsi in tempo sul posto di lavoro.

https://youtu.be/sN6opoE0iZk

I lavoratori, visti dall’alto, appaiono come tante formiche in coda. Messi uno di seguito
all’altro o ammassati se si trova un ostacolo (cfr. le porte delle metro o dei tram), portano sulle loro
spalle uno zainetto (che da tempo ha preso il posto della classica valigetta) che per le formiche altro
non è che la mollica di pane. A fine giornata, poi, la storia si ripete ma in senso contrario. Insomma
quotidianamente i lavoratori vanno e vengono dal proprio formicaio…òps, ufficio.

E in mezzo? In mezzo il lavoro.
Già perché quanto appena descritto, e che conosciamo tutti sin troppo bene, è la cornice di qualcosa,
non il qualcosa.

Da qualche tempo i lavoratori (certo questo non vale per tutti i lavori) hanno la possibilità di poter
produrre anche non recandosi in ufficio. Hanno la possibilità seguire progetti anche dalla
scrivania di casa. Hanno la possibilità di partecipare a riunioni anche dal proprio divano. Insomma
hanno la possibilità di poter svolgere le loro mansioni lavorative in un luogo diverso da quello
consueto di lavoro. E questa possibilità è stata data dalla tecnologia.

Eureka! Poter lavorare dove si vuole, eliminare i tempi degli spostamenti, ridurre lo stress e
mantenere la stessa efficienza…facciamolo tutti e subito, no?! Ehm…no. A fine 2019 lo smart
working in Italia era adottato solo dal 58% delle grandi aziende, e le PMI e la Pubblica
Amministrazione erano molto più indietro.

Poi il Covid 19. Purtroppo per tutto quello che abbiamo e
stiamo vivendo, ma per fortuna per quello che stiamo
imparando.
Durante i mesi di lockdown abbiamo avuto molto tempo per pensare, per riflettere e per riprendere
contatto con noi stessi. Abbiamo aperto gli occhi e capito che per lavorare non era necessario
essere in un determinato luogo. Abbiamo visto che le email arrivavano comunque, anche se non
eravamo in ufficio, e che – udite udite – potevamo anche rispondere. Abbiamo chiuso e avviato
progetti, iniziato collaborazioni e mantenuto elevati livelli di produttività; il tutto online.

La riscoperta del tempo e dello spazio.
Abbiamo imparato che correre su e giù da una metro non ci faceva sentire più giovani, ma
solo più stressati (e sudati). Abbiamo imparato che mangiare in un baretto angusto e spendere 10-15
euro per un panino e un’acqua non era figo, anche se era “all’ombra della Madonnina” (anche
perché la Madonnina neanche la vedevamo). Abbiamo imparato che il nostro tempo ha un valore
e che il nostro valore di professionisti non cambia se siamo fisicamente in un luogo piuttosto che in
un altro. Abbiamo riscoperto i nostri territori d’origine (in quanti negli anni si sono trasferiti per
lavoro?!). Così, giorno dopo giorno, abbiamo iniziato a pensare che quei 40-50 metri quadrati
pagati a peso d’oro per stare in una grande città non erano poi così giustificabili e che fare tutti i
giorni i pendolari non era indispensabile.

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  mondo del lavoro è certamente tra questi. Dal telelavoro allo smart working, passando per il south
              working, vedremo come sta velocemente cambiando il concetto di lavoro.
Le grandi città dovrebbero rivedere un po’ la loro value proposition, ossia i vantaggi per cui
qualcuno dovrebbe scegliere di viverci, al netto del lavoro. Ad esempio, personalmente, di Milano mi
piace tantissimo la spinta che ti dà. Ti porta sempre a dare il meglio di te stesso, a fare sempre
qualcosa in più ed è proiettata verso il futuro. Però è evidente che qualcosa si è incrinato. Le
persone stanno prendendo consapevolezza. E le cose stanno cambiando velocemente, per almeno
due motivi:

■   Il primo, se si può lavorare ovunque perché scegliere proprio Milano (o un’altra grande città) e non
    uno dei tanti borghi d’Italia o una città sul mare?
■   Il secondo, per avere stimoli o essere connesso ad altre persone interessanti c’è il digitale. Poi
    certo l’interazione umana è insostituibile, ma puoi sempre scegliere tu dove, come e quando
    incontrarti. Non si tratta di certo di rimanere in casa per la vita.

E non sono certo un pazzo, un genio o un visionario, a seconda dei punti di vista. Non sono l’unico
ad essersi accorto di questo cambio radicale. Le due cartine di torna sole sono da un lato le
dichiarazioni infelici, opportunistiche e forse anche un po’ miopi del sindaco Sala (Milano
probabilmente è la città più colpita da questa nuova situazione), evidentemente figlie del timore di
non riuscire più a rimettere insieme i pezzi; e dall’altro (o come conseguenza) la recente produzione
di un video (anche ben fatto) di pura brand awareness da parte di YesMilano (cfr. Comune di Milano
e Camera di Commercio di Milano, Monza, Brianza e Lodi), segno evidente che Milano ha bisogno di
riguadagnare posizioni. Nota a margine: mi dispiace per Ghali, ma sapere che a Milano c’è anche
la “mitologica” Baggio non è sufficiente per venire a viverci.

https://youtu.be/vDHPCFb9o5M

Come in tutte le rivoluzioni, soprattutto di matrice digitale, bisognerà ripensare all’intero
modello, all’intero sistema. Al centro c’è e ci deve essere la vita delle persone. E, oggi, le stesse
persone ne hanno percezione. D’altronde l’abbiamo visto in questi anni, i cambiamenti non si
possono fermare.

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