La buona scuola? Rimandata a settembre - www.etutorweb.it a cura della redazione

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Collana I Quaderni di eTutorWeb diretta dal prof. Antonio Cocozza
                         quaderno 2/2015

   La buona scuola?
Rimandata a settembre
            a cura della redazione

    www.etutorweb.it
La rivoluzione dell’informatica
                                           Alfonso Benevento

         La parola “rivoluzione” implica sempre, in maniera forte e incisiva, un cambiamento
culturale, sociale e politico in cui la vita di una collettività o di un solo individuo-consumatore si
modifica e si trasforma. Dietro al concetto stesso, di rivoluzione, un desiderio diffuso e comune
“che nulla sarà più come prima” e che ciò che “creativamente è distrutto” serva a far nascere
“cose nuove”. Ne consegue, quindi, il rimescolamento di tutte le convinzioni. Certamente vi è una
differenza sostanziale tra le rivoluzioni politiche e quelle tecnologiche e scientifiche. Tralasciando
le prime, le rivoluzioni tecnico-scientifiche degli ultimi trent’anni sono quelle che stanno
profondamente modificando “l’informazione” in vari ambiti: dalla medicina alla biologia, dalla
matematica alle lingue, dallo studio della letteratura a quello dei classici greci e latini,
dall’economia alla finanza. E’ quella che il filosofo Floridi definisce: la rivoluzione dell’informazione
all’interno della nuova rivoluzione scientifica. Rivoluzione che lo stesso Floridi colloca, per
importanza, alla pari di quella copernicana, darwiniana e freudiana. Infatti: con Copernico la terra
non è più al centro dell’universo, con Darwin l’uomo non è più al centro del regno animale, con
Freud la mente umana è caratterizzata da un inconscio e dal meccanismo di repressione. Si
aggiunge così la quarta rivoluzione, sempre per Floridi, quella dell’informazione, per cui ciascun
individuo senza distinzione d’età o di sesso, non è più un’entità isolata, ma è un inforg ovvero un
organismo informazionale interconnesso, che condivide con agenti biologici (esseri viventi di
qualsiasi specie) e costrutti tecnici (ad es. attrezzi, device, app) un ambiente globale costituito da
informazioni e definito infosfera. La nostra realtà, sia quella percepita sia quella vissuta, sta
lentamente trasformandosi (è qui la rivoluzione) passando da una metafisica materialista tutta
concentrata su oggetti e processi fisici, a una realtà che ruota intorno all’informazione e in cui il
benessere di ciascuno dipende proprio dalla gestione efficiente del ciclo di vita dell’informazione.
Un processo iniziato con l’uomo pensatore Alan Turing quando concettualizzò l’idea di una
macchina in grado di calcolare tutto il calcolabile semplicemente leggendo e scrivendo delle
sequenze di I (uno) e/o O(zero) su di un nastro e, poi nella seconda fase dell’uomo costruttore
Alan Turing, in grado di tradurre il pensiero in realtà tangibile costruendo così il primo calcolatore.
Proprio da lui parte così “l’informatica” e la conseguente “rivoluzione prodotta dall’informatica”
cioè la cosiddetta “rivoluzione dell’informazione”, da cui oggi nessuno può prescindere e che
viviamo o subiamo inconsapevolmente. E’ ovvio che questa quarta rivoluzione debba essere
interpretata non soltanto come una rivoluzione scientifica, ma anche come una rivoluzione
tecnico-produttiva in cui sono i processi produttivi a essere intrinsecamente modificati. Il carattere
distintivo della rivoluzione dell’informazione è allo stesso tempo sia una rivoluzione scientifica sia
una rivoluzione tecnologica. Gli scenari che oggi si presentano sono diversi con enormi vantaggi,
ma certamente anche con tanti rischi. L’uomo, si sa, ha sempre paura di ciò che è nuovo, poiché
questo implica il mettersi in discussione. Forse la paura maggiore, per l’uomo contemporaneo, è
concepire se stesso come un animale informazionale che sta al fianco con gli altri in ogni suo
momento, ma che soprattutto è inserito all’interno di un ambiente nuovo: “l’infosfera”.

       L’istruzione, si sa, è la base della conoscenza per l’uomo, la scuola è lo strumento per
raggiungere la conoscenza. Nella scuola convivono sapere, cultura, preparazione ed emozioni che
formano chi la frequenta. Non v’è dubbio che la scuola risenta dei processi e delle scelte politiche
del momento storico in cui è inserita. Oggi si sente parlare tanto di “problemi della scuola” quanto
di “buona scuola”. La risoluzione dei primi o il raggiungimento della seconda, non passano
certamente attraverso la tinteggiatura di un’aula, oppure dall’avere un tablet in più in classe. Ciò
che occorre, per raggiungere gli obiettivi, è qualcosa di diverso, di forte, anzi di molte forte.
Un’idea “forte” che implica scelte coraggiose e che solo la politica può dare. L’idea è quella che
vede in prospettiva l’uomo di oggi cosa sarà domani, che guarda al cittadino di oggi inserito nella
città di domani, capire quale società si vuole formare per il futuro. Soltanto con queste premesse
si può parlare di “buona scuola” come luogo di consapevole cultura, in cui non s’insegnano
soltanto nozioni, ma si formano uomini e cittadini. Allora per un’offerta formativa di qualità,
occorre reagire con impeto e schivi dal pregiudizio. Occorre avere un progetto educativo
organizzato in cui l’etica sia il primo valore. Con questi presupposti la quarta rivoluzione, può
aiutare chi decide a fare scelte di programma sagge e di lungo periodo. Può effettivamente
avvicinare tutti, a prescindere dall’età, a vivere l’infosfera con la consapevolezza necessaria. Può
interpretare il cyberspazio non come una realtà diversa da vivere, ma soltanto come la realtà che
viviamo. L’adulto, sia genitore o docente, non deve pensare che perde di “ruolo” se collabora con i
più giovani, nell’utilizzo di quegli strumenti tecnologici che lui stesso ha deciso liberamente di
acquistare. Il mettere a fattor comune, gli uni quanto gli altri, ciò che conoscono e quanto non
conoscono è la risposta al cambiamento che la “rivoluzione dell’informazione” ci chiede, prima che
ci travolga. E’ un salto di cultura e di mentalità verso una conoscenza nuova cui le scoperte ci
orientano. Una “buona scuola” è quella che sa dare sempre la risposta giusta, senza mai arrossire.
L’interrogativo di un grande uomo di scuola, scomparso anzitempo.
                                           Mario Rusconi

Piero Romei è stato uno dei più versatili e profondi studiosi dell’organizzazione della scuola. Senza
mai scadere nell’aziendalismo, senza mai farsi ingannare da voli pindarici o cadute demagogiche.

Attento alla realtà degli istituti scolastici, si interessava a capirne la struttura organizzativa per
individuarne le storture e proporre soluzioni di miglioramento.

La sua azione si rivolgeva ai docenti ed ai presidi, curandone la formazione e l’aggiornamento con
una attenzione quasi spasmodica a tutti i particolari, dagli aspetti giuridico-amministrativi a quelli
didattico-educativi.

Sempre operando con pazienza e con lungimiranza, talvolta con la fatica derivante dall’essere un
ottimo docente universitario (all’ateneo di Bologna) ma non risparmiandosi di correre da un
istituto dell’Italia settentrionale ad una scuola del Sud.

Scuole elementari, medie o superiori che fossero: tutte ricevevano una generosa attenzione da
Piero Romei, che prendeva in considerazione i numerosi inviti che gli arrivavano da tutta Italia a
seconda dell’interesse e della passione che scorgeva in chi lo chiamava.

All’improvviso, senza che alcuno di noi se ne capacitasse, Piero si ammalò gravemente. Negli ultimi
mesi della sua vita alcuni di noi vanno a trovarlo, nella sua Rimini, dove si era trasferito – dopo
tanti anni – da Milano.

Frasi di prammatica, attenzione a non toccare argomenti che potessero ulteriormente rattristarlo,
brevi discussioni sulle iniziative ministeriali dell’epoca sulla scuola.

Dopo un po’ (ed il ricordo e l’emozione sono ancora vivi) guardando con intensità negli occhi il
visitatore, una sua frase risuona intrisa di una triste amarezza.

Ricordando la sua attività di scrittore (capace secondo molti di divulgare piacevolmente argomenti
spesso ostici), di studioso (uso ad approfondire le tematiche basilari del “fare scuola”), di
formatore (efficace e spesso “divertente”, a dire di tutti coloro che lo hanno conosciuto o
frequentato), in lui emerge un rimpianto, reso più accorato dalla tristezza del suo sguardo.

“Di una cosa non riesco a capacitarmi. Sono sempre stato uno studioso definito progressista,
aperto al nuovo, disponibile ad offrire il mio contributo culturale e professionale.

Mi sono sempre chiesto come mai governi dal profilo istituzionale “progressista” abbiano
volutamente sottaciuto le mie proposte e trascurato la mia offerta di collaborazione!”

Chi sa rispondere? Chi è in grado di rispondere?
Fare chiarezza, una volta e per tutte
                                         Alessandro Di Liegro

La “Buona Scuola” è partita male. Già dal nome, quel “buona” a sottintendere che finora la scuola
fosse cattiva. Di per sé il concetto di “scuola” è sempre positivo, perché comprende l'idea di
educazione, di apprendimento, di miglioramento delle proprie facoltà cognitive e personali. La
scuola è formatrice, modella persone e personalità, esseri umani, nei limiti delle proprie possibilità
educative. Quindi, “buona” per definizione. Il decreto presentato dal Governo Renzi, e in via di
lavorazione in Parlamento – o meglio, le Camere si preparano a delegare il governo ad attuarlo, se
e quando lo stesso governo darà il via – è solo l'ultimo delle riforme e controriforme che hanno
bersagliato il mondo della scuola negli ultimi anni. Si è partiti da Berlinguer, anzi da De Lorenzo, si è
passati per De Mauro, fino al trittico Moratti, Gelmini, Carrozza, ognuno con la propria idea di
rivoluzione copernicana per la scuola, ognuno perentoriamente smentito dal proprio successore in
seguito ma, al momento, dallo stato dell'arte della scuola.
La “convention” alla americana, una sorta di “mini Leopolda” con cui Matteo Renzi ha annunciato
la più-che-prossima presentazione del decreto sulla scuola è apparso come il classico specchietto
per le allodole per una platea rabbonita dagli ospiti di rilievo – con addirittura un videomessaggio
di Marco Belinelli direttamente da San Antonio, Texas – dall'orchestra dei giovani di Santa Cecilia e
dal discorso finale dello stesso Premier (memorabile la battuta sui test Pisa, a lui indigesti in
quanto fiorentino). I fatti hanno parlato di decine di contestatori – precari della scuola - prima
dell'incontro e di una sola pasionaria rimasta fino alla fine a ribadire quelle posizioni che fino a due
ore prima erano perseguite da buona parte della platea. La riforma è stata presentata come la più
grande, quella essenziale per il vero cambiamento del Paese e, in effetti, è vero. Se un palazzo sta
per crollare, lo si ricostruisce dalle fondamenta. Il problema è quel passo troppo lungo per una
gamba davvero corta. La copertura economica è incerta (come vedremo, non ci sono i soldi per
pagare i MOF, come si fa a poter pagare 149.000 insegnanti, la loro formazione, i nuovi moduli, le
nuove classi, le nuove docenze eccetera, eccetera?), si parla di 4 miliardi presi dalla legge di
stabilità e di “contributi volontari e/o obbligatori” e di 5 per 1000 alle scuole. Il personale ATA,
ovvero la maggior parte delle maestranze scolastiche, è completamente sparito dalle pagine del
decreto. La voce dei ragazzi non è stata per nulla ascoltata, eppure sono loro che vivono più di tutti
quella scuola che, se per alcuni è un lavoro, per loro è tutto l'universo. In più arriviamo da una
situazione che ci vede soccombere rispetto ai nostri colleghi europei, con il Sud pericolosamente
fanalino di coda a livello mondiale e con oltre 2 milioni di ragazzi persi per strada vuoi per un
motivo, vuoi per l'altro.
Perché non parliamo, invece, di “Nuova” scuola. Se superamento del sistema gentiliano dev'essere,
che lo sia per davvero. Con coraggio ma con i piedi per terra. Che si parta dal basso, con costanza,
così come fatto in Finlandia, Nazione che si contende con Cina e Corea del Sud lo scettro di
migliore scuola del Mondo. Che si imponga anche a livello sociale, restituendo agli insegnanti
quella dignità ormai finita sotto i piedi, che rimanga pubblica e libera, che insegni non un pensiero
ma a pensare, che alimenti moltitudini, che permanga come polo d'attrazione e d'interesse e non
“'o peggio carcere” come viene definita in un triste detto partenopeo. Che sia luogo di formazione
in tutto e per tutto, che non si chiuda al vincolo dell'istruzione asettica ma che permetta alle
individualità di emergere, che individui, sostenga e stimoli i talenti, che dialoghi con il tessuto
sociale e industriale del Paese, che non sia solo il “bancomat” della politica ma un moltiplicatore di
cervelli. Che non si chiuda in se stessa ma sia aperta al contemporaneo.
E, soprattutto, che si faccia chiarezza una volta per tutte.
La scuola oggi. Dieci punti su cui riflettere
                            di Ester Gandini e Gianpiero Gamaleri

   Il dato positivo da cui partire è che oggi la scuola è al centro dell’agenda politica e sociale
    del Paese. Dice Renzi: è l’unica strada per risolvere a lunga scadenza il problema della
    disoccupazione giovanile e per rilanciare il Paese preparando e valorizzando le sue risorse
    umane, il bene più prezioso. Torna alla mente l’incisiva frase del grande pedagogista
    americano Neil Postman: “I giovani rappresentano il messaggio vivente che noi
    trasmettiamo a un futuro che non vedremo”. Di qui il progetto e la consultazione “La
    buona scuola”, con apprezzamenti e critiche, il documento della Confindustria, le proposte
    dell’ANP e tanti altri interventi.

   Questo proposito deve però misurarsi con gravi ostacoli. Il primo ostacolo, che viene da un
    passato di disattenzione, è l’arretratezza delle strutture materiali. Una scuola letteralmente
    da ricostruire, un’edilizia scolastica da rifondare, una intollerabile situazione di insicurezza
    anche fisica e talora persino di degrado di studenti ed insegnanti.

   Il secondo ostacolo è la condizione troppo spesso precaria del corpo docente, cui si spera
    sia posto rimedio con le annunciate assunzioni a tempo indeterminato: dalla scuola
    materna ed elementare fino al liceo gli studenti hanno bisogno di rapporti educativi
    continuativi, di progetti didattici non interrotti, di sicurezze affettive e cognitive, oltre che
    naturalmente di solide preparazioni e capacità didattiche degli insegnanti.

   Il terzo ostacolo non viene dal passato ma riguarda una difficoltà del presente e del futuro:
    la differenza di velocità tra i ritmi della scuola, e quelli dello sviluppo tecnologico. Questo
    spiega in gran parte il calo delle iscrizioni universitarie (70mila in dieci anni), l’aumento
    della dispersione, la disaffezione di studenti e famiglie, la rarefazione delle frequenze, la
    tendenza a un effimero utilitarismo formativo, a un troppo precoce inserimento nel lavoro
    in certe regioni e la contemporanea creazione di vistose sacche di disoccupazione giovanile
    in altre, fino ad arrivare ad ampie aree di ristagno sociale, di demoralizzazione di ragazzi e
    famiglie, con tendenze al reclutamento criminale dei giovani, alla fuga di cervelli e a tanti
    altri fenomeni di desocializzazione e impoverimento culturale.

   C’è quindi la necessità di un nuovo “patto educativo” tra tutti i soggetti interessati:
    autorità politiche, personale direttivo , docente e ausiliario, genitori, tessuto associativo,
    ma soprattutto studenti. E in questa chiave va colta l’opportunità costituita da “La buona
    scuola” e della consultazione che la sta accompagnando, fino ad arrivare a provvedimenti e
    atteggiamenti correttivi delle gravi disfunzioni sopra enunciate.

Punti fondamentali di questo “patto educativo” potrebbero e dovrebbero essere i seguenti:

1. Assicurare agli studenti una solida formazione generale, capace di rispondere alla
   domanda che loro stessi si pongono non appena si affacciano al mondo degli adulti: la
   scuola mi ha dato le basi? mi ha fornito le radici su cui sviluppare l’albero della coscienza
   civile, della conoscenza, del carattere, delle abilità, dell’impegno nella società e nella
futura professione? E’ uUn’esigenza etica, culturale, ma anche un’esigenza psicologica di
   sicurezza e solidità personale, di gruppo e collettiva: il senso di un Paese che attraverso i
   suoi giovani ben preparati marcia verso il futuro. Il problema delle “basi” riguarda la
   scuola dell’obbligo ma va anche oltre la scuola dell’obbligo, come leit motiv che
   attraversa tutti gli ordini e i gradi.

2. Promuovere una efficiente preparazione sia nelle discipline fondamentali, sia nelle
   conoscenze emergenti, capaci di farci vivere la nostra epoca e le sue prospettive:
   informatica, lingue straniere, ma anche le componenti del necessario “pacchetto
   culturale”, come musica (enormemente presente nell’orizzonte giovanile e non solo),
   arte, l’accesso alle forme di quella “bellezza” che sprigiona la verità, cui i giovani sono
   sensibilissimi.

3. Trovare l’equilibrio tra i curricula disciplinari (“tante lingue ben fatte”, diceva Condillac) e
   l’intreccio interdisciplinare come capacità di affrontare problemi reali, più o meno
   complessi (problem solving).

4. Una scuola della libertà e nella libertà. Non è compito facile specie per la scuola italiana
   che nel tempo si è strutturata come scuola statale e centralistica. Qualche numero: otto
   milioni di studenti, ottocentomila docenti: la più grande azienda statale, una percentuale
   rilevante anche se ancora insufficiente del prodotto interno lordo (pil). Di qui la difficoltà
   di essere scuola di ciascuno e di tutti come recitava la prima vera riforma repubblicana
   che ha introdotto la scuola dell’obbligo. E' il 31 dicembre 1962 con la legge n.1859, si va a
   istituire la nuova Scuola media unificata. Qualcuno l'ha definita la più importante riforma
   scolastica del dopoguerra e, dopo sessant'anni, è una definizione che tutto sommato è
   ancora sostenibile e in parte ancora da attuare.

5. Un’attenzione al glocal, cioè sia al locale, al proprio territorio, alle sue caratteristiche,
   tradizioni, opportunità, sviluppi, sia al globale, al contesto sovrannazionale e planetario
   su cui si muovono le tendenze che ci investono nella nostra particolare situazione. In
   questo senso occorre concepire e inserire l’attività formativa nella rete delle conoscenze
   in modo efficace e insieme critico, così che l’affacciarsi sul mondo, anche in tempo reale
   (si pensi all’utilizzo della LIM, del tablet, dello smartphone, dei libri digitali, ecc.) non sia
   una dispersione ma un arricchimento.

6. Saper porre le giuste domande. Marshall McLuhan scrisse fin dagli anni ’70 un libro
   intitolato “La città come aula”, costituito soltanto da domande. Voleva dimostrare che se
   si formulano i corretti interrogativi, la città intesa come metafora della realtà intorno a
   noi offre tutte le necessarie risposte. E’ la pedagogia delle domande, che ha il pregio di
   attivare l’interesse dello studente perché è lui ad elaborarle e di conseguenza a
   personalizzare le risposte, appropriandosene. Oggi in cui la città è diventata il mondo
   intero, la pedagogia della domanda apre su tutta la gamma delle conoscenze possibili ed
   è una risorsa praticabile e preziosa.

7. Integrare il processo educativo con la necessaria socializzazione. Una socializzazione che
   non è soltanto più materiale, ma è anche virtuale. Una socializzazione che i giovani
realizzano già spontaneamente in una misura straordinaria, ma che non più rimanere
   estranea alla scuola che deve suscitare il necessario spirito critico nella massa di contatti
   digitale che ogni studente intrattiene. Da questo punto di vista bisogna anche affrontare
   il tema dei rischi insiti nella socializzazione virtuale, in cui i pericoli di adescamento sono
   frequenti e non possono rimanere estranei all’azione formativa della scuola, in dialogo
   con le famiglie. Su questo terreno la parola-chiave è fiducia: quella fiducia che deve
   essere conquistata dagli adulti, in chiave di libertà e non di ingerenza, per non lasciare
   soli i giovani nella fase più delicata della loro vita.

8. Promuovere una scuola aperta: proprio per l’insieme delle responsabilità sempre più
   ampie che la investono. la scuola deve aprirsi agli ambienti che la circondano. Ambienti
   istituzionali, ambienti professionali, ambienti culturali, ambienti associativi, ambienti
   nazionali ed esteri.

9. Aprire verso una scuola integrata che sappia mettere insieme in modo collaborativo e
   non competitivo responsabilità pubbliche e iniziative private. Il nostro Paese è tuttora
   attraversato da profonde diffidenze derivanti dalla nostra storia che portano a una netta
   separazione tra scuola statale e scuola privata, che sono chiamate entrambe a concorrere
   alla formazione dei nostri figli.

10. Perseguire una visione, come l’ha chiamata Ernesto Galli della Loggia in un suo recente
    articolo: “All’imbarbarimento che incombe sulle giovani generazioni si rimedia creando
    nelle scuole un’atmosfera diversa”. E’ l’atmosfera – diciamo noi – data dall’accettare la
    sfida educativa che il nostro tempo ci pone, l’unica sfida che può farci vincere il futuro.
    Perché è capace di costruire l’uomo e la donna di domani.
Cambiamo programma
                                            Cinzia Cetraro

Cambiare programma è piuttosto semplice.
Con il telecomando non c'è neanche più bisogno di alzarsi dal divano. Eccetto quando, a volte, per
la natura stessa del suo prefisso sparisce tra i cuscini del salotto, oppure quando le batterie sono
imprevedibilmente scariche e ci ritroviamo a dover affrontare qualche altro rito prima di
raggiungere il nostro obiettivo. La spinta al cambiamento di programma nella scuola diventa
pressante. Vi è un divario sempre più grande tra il mondo privato delle nuove generazioni
connesse e una scuola che chiude gli occhi alle immense risorse cui gli studenti accedono dal loro
smartphone. Troppo spesso la scuola continua a ritenersi l’unica fonte legittima del sapere, da
trasmettere attraverso ore di lezioni frontali, secondo la concezione della tabula rasa: la mente
degli studenti come un contenitore vuoto da riempire. È vero che dalla fine degli anni ’90 non vi è
l'obbligo dell'aggiornamento per docenti, ma possiamo continuare a immaginare che la scuola
diventi migliore solo attraverso obblighi di legge? Non credo. La scuola va cambiata dal basso, da
studenti e docenti che si misurano ogni giorno con la realtà, le difficoltà e il piacere legati a tutto
quanto il dialogo educativo comporta. È evidente che un docente che non ama il suo mestiere e
non capisce l'importanza del suo ruolo e che non considera l'aggiornamento una porzione del suo
pane quotidiano è destinato alla depressione, al burn out sul piano personale e al fallimento su
quello professionale, e contribuirà a spegnere la più piccola scintilla del desiderio di conoscenza e
comprensione nei suoi alunni. Secondo il principio per cui Pietro non può dare ciò che non ha,
dagli Atti degli Apostoli 3:5, l'educatore demotivato non può motivare e d'altra parte non dovrebbe
chiedere all'alunno di fare ciò che non sarebbe lui stesso disposto a fare. La scuola deve tornare ad
essere quel terreno di opportunità che nella società contadina di un tempo significava riscatto
sociale e crescita culturale aprendosi alle idee creative, alle proposte didattiche che hanno effetto
non solo sulla preparazione ma sulla formazione individuale e l'autostima degli studenti. Per
colmare quel divario di comunicazione e aspettative sempre più grande tra le nuove generazioni e
la scuola di vecchi docenti (in Italia siamo i più vecchi d’Europa), ancorata a principi che non sono
più condivisibili, il documento La Buona Scuola identifica molte delle direzioni in cui bisogna
muoversi: maggiore flessibilità nei programmi appunto, carriere legate al merito, potenziamento
dell’informatica e delle lingue, metodologie nuove come il CLIL. E comunque la normativa attuale
prevede già una didattica per obiettivi, incentrata sullo sviluppo delle competenze. Dunque i motivi
per cambiare sono evidenti, e gli obiettivi da raggiungere sono stati identificati.Ciò che manca
invece è una riflessione sui meccanismi del cambiamento. Ci sarà un diktat dall’alto che
rivoluzionerà tutto, o sarà lasciato alla buona volontà degli insegnanti introdurre i cambiamenti e
farli funzionare? E in tal caso, quale sarà l’incentivo che li spingerà a lavorare bene, ad accettare i
maggiori carichi di lavoro necessari per introdurre cambiamenti e superare tutte le difficoltà
iniziali, ad uscire dalla comoda libertà di insegnamento dietro la quale si nasconde l'inerzia di una
demotivazione crescente da entrambi i lati della cattedra?Insomma, ci vuole sempre una buona
ragione per cambiare programma. E nonostante le proteste delle categorie, questa non sarà di tipo
economico. Da una parte, nell’attuale situazione economica Italiana, dobbiamo riconoscere che le
risorse mancano. L’incentivo previsto da La Buona Scuola non è sufficiente neanche a comprare il
quotidiano nei mesi di 31 giorni.Un incentivo economico, poi, solleva una serie di problemi legati
alla distribuzione di queste nuove risorse. Chi sarà incentivato, e in base a quali dati? Senza un
metro oggettivo e valido, riconosciuto come tale da tutti gli attori coinvolti, si scatena la rivolta
delle categorie (come già è successo più volte in passato, quando i vari ministri della Pubblica
Istruzione hanno proposto meccanismi di incentivazione economica del merito). E alla fine si arriva
alla distribuzione a pioggia, che riduce l’incentivo ad un piccolo aumento di stipendio slegato dal
merito, oppure alla valutazione per titoli che può innescare meccanismi, a volte perversi, che se di
sicuro rimpinguano il curriculum del docente non necessariamente lo portano verso un reale
miglioramento dell'offerta educativa. Inoltre, l’incentivazione economica tende a mettere gli
insegnanti gli uni contro gli altri, creando una situazione in cui si può guadagnare dall’insuccesso
dei propri colleghi. In ogni caso, non è attraverso un aumento economico che si arriva ad avere
insegnanti appassionati e capaci. Quello che un bravo insegnante desidera e vuole è una
valutazione del proprio lavoro: una valorizzazione del proprio impegno con gli studenti.
Ancora un paio di riflessioni su orientamento e curriculum.
Leggo l'invito della buona scuola a lavorare sul 20% di flessibilità del curriculum come
un'ammissione eufemistica della necessità di rimodulare gli insegnamenti secondo le richieste
degli studenti. Purtroppo il ventaglio offerto per la scelta dell'indirizzo, nonostante tanti sforzi per
l'orientamento, è ancora calibrato su un modello rigido che il più delle volte anziché a una scelta
obbliga a un ripiego. Ad esempio quando la decisione di frequentare il liceo scientifico è una fuga
dallo studio delle materie letterarie (e poi, ironicamente, ci si ritrova con più ore di latino che di
fisica); oppure quando un ragazzo particolarmente portato per un indirizzo tecnico-pratico si vede
costretto su un libro di greco per evitare di finire in un ambiente dove il bacino d'utenza è poco
stimolante, tipico di chi non ha un interesse non spiccato verso lo studio.
Questa precoce decisione relativa alla “scelta” della scuola secondaria è in molti casi fallimentare,
come è evidente da ricorrenti richieste di nullaosta.Oggi genitori, psicologi e insegnanti sono
attenti a questioni legate al disagio dei giovani, spesso in maniera esagerata, cercando di
diagnosticare disturbi dell'apprendimento a ragazzi che sono semplicemente annoiati. Uno slogan
diffuso deve farci riflettere: I have no Attention Deficit Disorder, I am just not interested.
La scuola che vorrei è quella con un primo biennio comune a tutti che permetta l'approfondimento
di materie già note in moduli interdisciplinari, la continuità con l'apprendimento di arte, musica,
una seconda lingua straniera, l'introduzione di teatro, scrittura creativa, programmazione e
linguaggi multimediali, il tutto affiancato da una didattica laboratoriale. Così che ognuno potrà
rendersi conto di ciò che lo appassiona veramente per scegliere l'indirizzo che gli è più congeniale.
Inoltre nella mia scuola ideale gli studenti appartengono a classi aperte, con massimo 20 alunni,
lavorano in aule disciplinare ben allestite e funzionali, vengono impegnati in laboratori progettuali,
messi in grado di fare e di imparare con consapevolezza. E fuori dalla scuola la fila dei genitori e per
iscrivere i propri figli perché non esiste POF o SNV che sia più eloquente del giudizio e del
benessere dei nostri alunni. Il loro venire a scuola con piacere si riverbera sul territorio al punto da
rendere l'orientamento una pratica inutile perché le scuole dove tutto questo non c'è, sono
costrette a chiudere o ad impegnarsi.Quali incentivi abbiamo perché docenti e dirigenti si
applichino all'ideazione e allo sviluppo di progetti creativi che consentano ai loro studenti di
apprendere? In mancanza di un sistema di esami esterni come quello britannico, l’unico efficace
indicatore del valore di una scuola è l’opinione degli alunni, dei loro genitori e del personale, ed è
espresso attraverso domande di iscrizioni e di trasferimento. Se una scuola funziona, crescerà. E se
la crescita della scuola diventa l’indicatore in base al quale vengono attribuiti fondi e risorse
incentivanti, presidi e insegnanti avranno tutta la motivazione per lavorare insieme e introdurre le
novità che possono rendere la scuola più attraente. Solo così sarà realistico parlare di una
condivisione di buone pratiche, di peer coaching mirato alla creazione di un clima didattico che
nella scuola diventa gradevole e proficuo, capace di aggiustare il tiro verso il raggiungimento di
obiettivi comuni. Solo così i docenti diventeranno più disposti al confronto, a lavorare in team, a
intendersi sulla condivisione del senso di appartenenza, ad uscire finalmente dall'autoreferenzialità
del proprio operato che è spesso all'origine di un malessere diffuso che causa la transumanza da
sezione a sezione, da scuola a scuola e, non raramente, l'abbandono scolastico. Insomma, una
buona scuola per davvero, in cui si diventa dirigente scolastico non perché sai il nome delle sei
mogli di Enrico VIII ma perché sei riuscito a far crescere la tua scuola.
Chi valuta chi?
                                          Stefania Grossoni

La cultura del valutare e del verificare è finalmente uscita dall’ambito della classe per porre la
propria lente di ingrandimento sulla scuola in un’ottica di ricerca, condivisione e corresponsabilità
ormai alla base di un percorso educativo dinamico ed articolato.In un periodo storico così
complesso come questo che stiamo vivendo, dove viene chiesta da più parti la trasparenza delle
strategie messe in atto, la scuola decreta il limite del suo sistema e si valuta per connotarsi in
modo aperto, in grado di confrontarsi per indirizzare le scelte future.Per il prossimo triennio la
valutazione del sistema educativo di istruzione e formazione sarà caratterizzata dalla progressiva
introduzione nelle istituzioni scolastiche del procedimento di un Sistema di Valutazione Nazionale
(SVN). Il DPR 28/3/2013 n°80 ne specifica il regolamento, mentre la Direttiva n°11 del 18/9/2014
e il C.M. del 21/10/ 2014 ne stabiliscono le priorità strategiche fino al 2017 determinandone
anche i passaggi secondo le seguenti fasi :

   1. AUTOVALUTAZIONE
      Le istituzioni scolastiche (statali e paritarie) sono chiamate a sviluppare - nel corrente anno
      scolastico – un’attività di analisi e di valutazione interna partendo da dati ed informazioni
      secondo il percorso delineato dal Rapporto di autovalutazione (RAV). Il RAV è da elaborare,
      entro il primo semestre 2015, esclusivamente on line attraverso una piattaforma operativa
      unitaria.

   2. VALUTAZIONE ESTERNA
      Nel corso del prossimo anno scolastico è prevista l’attivazione della fase di valutazione
      esterna attraverso le visite alle scuole dei nuclei. Saranno coinvolte circa 800 istituzioni
      scolastiche, secondo quanto previsto dalla Direttiva 11/2014. Quest’ultime in parte (3%)
      saranno scelte casualmente, in parte (7%) saranno individuate sulla base di specifici
      indicatori di efficienza e di efficacia.

   3. AZIONI DI MIGLIORAMENTO – AGGIORNAMENTO RAV
      A partire dal prossimo anno scolastico, in coerenza con quanto previsto nel RAV, tutte le
      scuole pianificano e avviano le azioni di miglioramento, avvalendosi eventualmente del
      supporto dell’INDIRE o di altri soggetti pubblici e privati (università, enti di ricerca,
      associazioni professionali e culturali). Un primo aggiornamento del RAV, finalizzato alla
      verifica dello stato di avanzamento del processo e ad un’eventuale ri-taratura degli
      obiettivi, è previsto per il mese di luglio 2016.

   4. VALUTAZIONE ESTERNA - AZIONI DI MIGLIORAMENTO – AZIONI DI RENDICONTAZIONE
      SOCIALE
      Nel terzo anno di messa a regime del procedimento di valutazione in cui proseguono
      l’autovalutazione, la valutazione esterna e le iniziative di miglioramento, le scuole
      promuovono, in chiave dinamica, anche a seguito della pubblicazione di un primo rapporto
      di rendicontazione, iniziative informative pubbliche ai fini della rendicontazione sociale,
      ultima fase del procedimento.

Il POF( Piano dell’Offerta Formativa) che è il biglietto da visita di ogni scuola che ne caratterizza
l’identità e la mission, ora non esaurisce la propria valutazione, in verifiche degli obiettivi interni
alla propria realtà, ma si connota in un ampio sistema di valutazione nazionale per ridefinirsi.
Senza spersonalizzarsi nel percorso, l’identità della scuola è salvaguardata. L’ individuazione dei
bisogni dell’utenza, l’analisi del territorio, sono fondamentali prima di redigere un POF, che ha
come obiettivo il successo scolastico, in cui finalità e mission coincidono.

Purtroppo, però, spesso il percorso formativo è sviluppato grazie all’attività dei docenti, a volte
caratterizzato da scelte individualiste che portano all’isolamento e che determinano classi
strapiene con richieste lunghissime di iscrizioni e classi con alunni che arrancano per tutto il ciclo
di studi con evidenti carenze in una o più discipline. Nella valutazione, le esperienze didattiche, la
professionalità dei docenti, la gestione delle risorse, trovano conferme, risposte e direzione per
eventuali aggiustamenti, contribuiscono all’arricchimento dei bisogni formativi ed evitano
contesti troppo agli antipodi.

 Nell’ ottica di questo sistema, a mio avviso, si inserisce la rete delle scuole che opera e comunica
nello stesso territorio e che si basa sulla consapevolezza che le scuole debbano superare fra loro
la relazione concorrenziale che non arricchisce, ma depaupera il percorso didattico-educativo.
Esplica un’azione di aggiornamento. Attiva la comunicazione interna ed esterna, in cui le idee
circolano. Attiva un percorso di riflessione sui punti di forza e quelli di debolezza per avviare il
fondamentale percorso di ricerca-azione. In tempi di così rapidi cambiamenti sociali con
improvvisi stravolgimenti, la rete crea un contesto organicistico in cui le sinergie, senza appiattire
la differenza fra le scuole, motivano il percorso . La scuola deve essere cosciente che spesso non
risponde alle esigenze dei ragazzi e non è sempre attenta alle richieste della società in cui opera. I
motivi sono molteplici, dall’apparato burocratico-amministrativo lento e farraginoso,
all’inadeguatezza delle strumentazioni, dalla mancanza di adeguati corsi di formazione, al disagio
dei docenti di trovarsi in un ruolo poco considerato dai media. Il sistema di valutazione che si sta
mettendo in atto, nella complessità della vita scolastica, è sicuramente uno strumento per
ripensare al lavoro e per stimolare alla riflessione culturale e per attivare iniziative che rispondano
ai cambiamenti sociali . Il metodo di ricerca oggettivo nasce proprio dalla necessità di confrontarsi
perché, credo, che l’attività dell’istituzione scolastica non scollegata: rassicura , supporta, motiva,
carica e funge da vera e propria rete. Per tale motivo il SVN che si vuole mettere in atto trova la
giusta collocazione nella verifica delle scelte educative attraverso la valutazione delle
contraddizioni che potrebbero emergere. Reputo sia un valido strumento, che motiva e dà senso al
progetto educativo. Da non identificare con il processo. La valutazione vuole e deve verificare la
congruenza fra la fase descrittiva e quella decisionale del piano annuale delle attività. La realtà
deve coincidere con la progettazione, con quanto la scuola ha pianificato privilegiando il
superamento dei problemi rilevati fra cui: la dispersione, l’integrazione, l’accoglienza ed il disagio.
Quando parliamo di qualità non possiamo non riferirci a sistemi di valutazione. Ho verificato, nella
mia lunga esperienza, che alcune scuole lo fanno da anni, in modo autonomo, cercando di
ottenere risultati attendili e significativi, con tabulazioni semplici e personali. Altre impiantano il
progetto didattico-educativo, attraverso un’autovalutazione, che diventa elemento fondante in
ogni ambito, dalla qualità del servizio, alla progettualità. Con una ricaduta sul sistema scolastico
soddisfacente. Altre ancora che rifiutano a priori tutto ciò che è valutazione, perché ci si sente in
qualche modo giudicati. Basti pensare alla resistenza dei docenti ad accettare il sistema Invalsi ,
che obiettivamente è valido, ma credo che non sempre sia attendibile, per certi risultati che
aprono al dubbio. Oggi, che è attivo un SVN ad ampio raggio, non si può improvvisare. Si
dovrebbero attivare per i dirigenti, i docenti, tutto il personale della scuola dei corsi di
aggiornamento specifici affinché la scuola non sia solo l’”oggetto” del cambiamento, ma anche un
efficace “strumento”, che possa interagire per migliorare il cambiamento stesso.

Credo sia doveroso chiarire che la valutazione, perché sia efficace deve collocarsi come un sistema
non autoreferenziale, che non conduca a conclusioni, ma sia in evoluzione e funzionale. La
valutazione che suscita tanti timori: confrontarsi, essere giudicati, criticati, mettersi in discussione,
sentirsi responsabili( ingiustamente) per l’insuccesso dei propri alunni, deve essere intesa come
work in progress, come stimolo a progettare meglio. Mi viene da dire:” Chi valuta chi?” Questo è
un passaggio che appare poco chiaro. L’oggettività deve essere fondamentale. Nessuno all’interno
della scuola deve avere una qualche possibilità di manipolare tale strumento per acquisire potere
e la possibilità di prevaricare. Sarebbe la fine del sistema scolastico. Aggiungo che sarebbe un
grave errore dare aumenti di stipendio senza tener conto di quale sia il ruolo fondamentale di un
insegnante, non certo dare disponibilità oraria( che dovrebbe essere pagata adeguatamente), ma
dare agli alunni gli strumenti necessari per affrontare il futuro lavorativo, per superare le difficoltà
della vita, per essere un cittadino consapevole.

Siamo pronti ad affrontare il cambiamento?

I tempi della scuola sono sempre molto lunghi, ”arriva tardi a qualsiasi appuntamento”,
nonostante l’impegno e la partecipazione di persone che credono nella loro professionalità.

Cerchiamo di cambiare rotta!
Per un quantitative Easing Culturale
                                          Gennaro Colangelo

La prima volta che ho messo piede in una università nordamericana, presso la WCSU –Western
Connecticut State University, ho notato che dopo le lezioni curriculari gli studenti non tornavano
subito a casa, come fuggendo da un luogo di tortura, ma si redistribuivano nell’ Ateneo per seguire
i corsi serali : teatro, videomaking, yoga, scenografia, costumistica erano le attività che
riscuotevano il maggior apprezzamento e l’Università rimaneva aperta fino a tarda sera, in una
perenne festa mobile. Mi fu spiegato che il sistema educativo anglosassone prevede, non solo nei
Campus, l’insegnamento di una serie di discipline oltre quelle sportive, che non vanno intese
semplicemente come momenti rilassanti e defatiganti, ma risultano altamente formative e dirette
soprattutto a rafforzare le capacità disinibitorie dei giovani nei rapporti umani.

Le attività integrative che le istituzioni scolastiche prevedono in Europa fin dai primi cicli di
apprendimento, dovrebbero essere punti qualificanti dell’offerta formativa anche negli Atenei ,
non perché compito degli studi universitari sia quello di fornire talenti alle performing Arts, ma
perché un direttore del personale, un couch d’impresa, un selezionatore o un tagliatore di teste
aziendale colgono subito la capacità relazionale dei giovani che possono vantare un surplus di
conoscenza rispetto ai competitori, e quindi potranno rappresentare un investimento sicuro in
termini di capitale umano .

Com‘è noto, vi sono tre aspetti che una cultura deve possedere, per potersi definire tale in senso
socio-antropologico :

-la riproduzione biologica, attraverso la trasmissione fra le generazioni dell’esperienza che
caratterizza ogni tipologia culturale;

-una produzione materiale, attraverso l’uso e lo sviluppo di determinate tecniche ;

-la produzione di significati, attraverso le più diverse modalità.

In assenza di questi requisiti, una cultura incapace di proporre un’offerta di senso non è degna di
questo nome , non riesce a sviluppare rapporti concreti di appartenenza né a costruire un tessuto
identitario. Con riferimento allo schema di Lotman, per evitare effetti disgreganti ogni cultura
deve promuovere non solo le produzioni grammatologiche ma anche quelle testuali, che sono
tipiche dei talenti e delle fasce giovanili, e servono a stimolare l’ ingegno e la fantasia.

Appare chiaro che ogni competenza di ricerca, ogni approccio innovativo e qualsiasi know how
economico non possano prescindere dai fattori di sviluppo dell’immaginazione e del confronto in
vari campi d’indagine. Le intraprese ad alto contenuto tecnologico traggono sempre vantaggio dal
dinamismo mentale dei loro dipendenti, consulenti , collaboratori provenienti dai più vari ambiti
creativi.Ma se, nel momento storico attuale, la nostra cultura non sarà in grado di immettere un
Quantitative Easing massiccio e continuo nel mercato della conoscenza, per sostenere la crescita
multilivello del talento ed elaborare una valida produzione di significati, cesseremo presto di
essere una cultura e diventeremo un coacervo di individui isolati, che si ritrovano a condividere un
medesimo spazio nella reciproca indifferenza.
La Buona Scuola sarà “rimandata”
                                        Flavia Cuccaro (16 anni)

È slittata, o forse visto l’ambito sarebbe più opportuno dire che è stata “rimandata”, la riforma sulla
scuola voluta dal governo di Matteo Renzi.

Nel 52esimo consiglio dei ministri tenutosi il 3 Marzo a Palazzo Chigi infatti il premier ha
sottolineato: «Ci siam presi questa settimana perché tutti i ministri riflettano e discutano» così che,
al termine del prossimo consiglio (previsto per il 10 Marzo), quando questo “esame” del testo
introdotto e stilato insieme al ministro dell’istruzione Stefania Giannini sarà finalmente concluso, il
governo avrà finalmente chiare le idee su quali misure e strumenti legislativi utilizzare per
concretizzare “la scommessa strategica del futuro”.

Ma non è la prima volta che il decreto legge viene rinviato. Proprio perché considerata una tra le
tematiche più importanti per la “svolta buona”, l’organizzazione della scuola era stata già affrontata
dall’attuale presidente del consiglio, all’epoca candidato alla segreteria del Partito Democratico, nel
dossier “l’Italia cambia verso”, presentato in occasione delle primarie del Dicembre 2013, nel quale
affermava: «Casa per casa, comune per comune, scuola per scuola, da gennaio 2014 i nostri
insegnanti, i nostri assessori alla scuola, i nostri circoli, i nostri ragazzi saranno chiamati alla più
grande campagna di ascolto mai lanciata da un partito a livello europeo, sul doppio binario di una
piattaforma tecnologica dedicata e di un rapporto personale, vis a vis». Campagna d’ascolto che
però è riuscito a realizzare solo il 15 settembre, dopo aver “sottratto la campanella” a Enrico Letta
quindi, e che si è conclusa due mesi dopo, come affermato nel videomessaggio di tre giorni fa, con
«2.041 incontri con parlamentari, studenti, insegnanti e dirigenti scolastici e oltre 1.750.000
consultazioni avvenute fisicamente e online». I dibattitti e le discussioni, tuttavia, avrebbero
dovuto portare già dal 27 febbraio (diventato prima 3 marzo, ora posticipata al 10) alla nascita di
un piano di interventi radicali per il mondo scolastico che, come afferma il presidente dell’Anief
(Associazione Sindacale Professionale) Marcello Pacifico, i precari e le famiglie aspettano da anni.
Ma il premier, previdente, seppur mantenendosi sulla difensiva: «Trovo sorprendente che quando
facciamo le cose da soli siamo dei “dittatorelli”, quando invece apriamo al dibattito civile, pacifico e
democratico siamo dei ritardatari», risponde indirettamente dal podio della sala stampa del
palazzo del governo: «Non c’è nessun rischio che slittino le procedure di assunzione del personale
che lavorerà con noi all’educazione e alla formazione dei ragazzi dal 1 settembre 2015».

Chissà se gli insegnanti si fidano ancora dell’“alunno” che per già due volte non ha portato i
compiti.
La buona scuola ce la dobbiamo meritare
                                       Marzia Cappetta (18 anni)

Secondo il disegno di legge proposto dal capo del governo Matteo Renzi per la scuola, i due
concetti chiave per il miglioramento di questa sono: autonomia e qualità. In quanto studente è la
qualità l’aspetto su cui vorrei porre l’attenzione. Verrà introdotto già dal prossimo anno scolastico
un Sistema Nazionale di Valutazione (SNV) ovvero uno strumento di lettura per chi è esterno alla
scuola, in grado di esaminare il lavoro svolto da docenti, alunni e dirigenti scolastici in maniera
chiare e trasparente. La valutazione è un punto cruciale del disegno di legge. Le scuole si
sottoporranno a valutazioni interne ed esterne al fine di migliorarsi. Questo sistema è già presente
nelle scuole inglesi: le valutazione date ai docenti sono chiare e accessibili a tutti. Esistono inoltre
dei boards of governors (consigli di amministrazione) che si occupano del numero degli insegnanti
necessari al proprio organico e delle eventuali retribuzioni supplementari basate sui risultati e sulla
bravura dell’insegnante (secondo tre parametri fondamentali: pianificazione degli obiettivi,
monitoraggio dei progressi, valutazione finale dell’insegnante). L’introduzione di questo sistema
darà un’enorme scossa al mondo scolastico ormai fermo sui suoi passi da troppo tempo. Gli
insegnanti, volenti o nolenti, si sentiranno costretti a migliorare mentre gli alunni, attraverso un
sistema meritocratico si sentiranno più tutelati e saranno più motivati a dare il massimo per
raggiungere i propri obiettivi.
Se il sistema sarà chiaro, trasparente e oggettivo la scuola di un tempo sembrerà solo un brutto e
lontano ricordo.
Intervista al Moige
                                         Luca Cardone (16 anni)

Moige: «Non c'è Buona Scuola senza buono-scuola»

Risulta evidente il fatto che, in una democrazia, una legge o una riforma si possa definire valida,
solo quando essa é , in primo luogo, il risultato di un attento ascolto delle opinioni dei diretti
interessati. D'altronde la scuola è un grande sistema nel quale anche i genitori svolgono un ruolo
importante. Quella del Moige (Movimento Italiano Genitori) è una posizione per nulla scontata
che elogia le misure della riforma ritenute valide senza però dimenticarsi di sottolineare quelle
carenti o inadeguate . I punti, per cosi dire, "molto caldi"sono quello del confronto tra scuola
pubblica e scuola paritaria, con la conseguente proposta di un estensione delle detrazioni fiscali
per le rette di quest'ultime.

Qual'è il giudizio complessivo del Moige sulla riforma della Buona Scuola di Renzi?

Diciamo un 6 complessivo. Ci sono punti che potrebbero essere elaborati in maniera più
approfondita, ma al contempo ci sono argomenti che, secondo noi, sono meritevoli di plauso.

Quali sono i punti all'interno della riforma che vi hanno colpito favorevolmente?

Un plauso alla trasparenza dei dati sulla scuola che divengono un utile strumento per i genitori di
accrescere la propria consapevolezza nella scelta educativa del figlio. Lodevole lo spazio di carriera
e di progressione promesso ai docenti statali. Il coraggio di «giudicare gli insegnanti» , supportato
da una norma crea un nuovo stato giuridico degli insegnanti che si differenzieranno anche per
carriere e stipendi. Bene la maggiore importanza data alla formazione degli insegnanti alla
tecnologia digitale, così come l’obbligatorietà della formazione degli insegnanti anche in servizio.

E invece i punti che hanno sollevato dubbi o perplessità?

Non c'è buona scuola senza buono-scuola. Le scuole paritarie non sono, a livello di costi, accessibili
a tutti i genitori. Auspichiamo un sistema competitivo tra le migliori scuole, che non sia vessato da
insormontabili impedimenti economici per le famiglie meno abbienti. Il costo delle assunzioni
statali (148.000 docenti) è di altri 3 miliardi di euro a cui si aggiungono i costi di 40.000 abilitati per
concorso. Un costo che crescerà del 25% nei prossimi 10 anni. Inoltre bisogna ricordare la spesa
per la manutenzione ordinaria degli edifici, una spesa da sostenere per diversi anni.

A proposito di buono-scuola, la vostra posizione riguardo le scuole paritarie va un po' in
contrasto con il giudizio comune su una scuola pubblica per definizione. Credete che sia
necessario ampliare la scelta a disposizione delle famiglie, oppure credete che la scuola pubblica
non sia abbastanza affidabile?

La scuola paritaria resiste a una protesta vagamente populista ma contraria agli interessi della
gente meno abbiente. La scuola non è più un ascensore sociale. La protesta mediatica contro la
scuola paritaria combatte la scuola “privata”, senza riconoscere che gran parte di essa è già
formalmente “pubblica” da 14 anni (L. 62/00) e, soprattutto, va nella direzione di un’inutile difesa
del monopolio della scuola pubblica. La soluzione non è dare tutto allo Stato, ma controllare chi fa
scuola perché raggiunga i migliori risultati che la collettività può dare. Per lo Stato, il costo medio
per la scuola paritaria (primaria e secondaria) è al di sotto dei 500 euro per alunno, mentre quello
per la scuola statale ammonta a 6.882 euro (spese correnti del Miur ad esclusione delle altre voci
che concorrono a formare il finanziamento pubblico della scuola statale).

Quindi, secondo Lei, il provvedimento Renzi dovrebbe puntare ancora di più sulle paritarie

Favorendo l’aumento degli alunni nella scuola paritaria si verrebbero a creare, a regime, importanti
economie da impegnare nel miglioramento della scuola di Stato. Per estendere la partecipazione
nelle scuole paritarie sarebbe sufficiente dare alle famiglie un “buono scuola” che incrementi il
contributo pubblico non oltre il 50% del costo medio delle scuole di Stato. In tal modo, si
raggiungerebbero presto i livelli della Francia (17% di alunni di primaria e secondaria non statali
contro il 5% dei nostri paritari), senza pretendere di toccare i livelli dell’Olanda, con il 71% di
studenti paritari.

Si augura un maggiore coinvolgimento dei genitori nel processo decisionale in merito alla
scuola?

In tutti i paesi europei, il coinvolgimento dei genitori nella vita scolastica è predittore sicuro di
buoni risultati. In Italia, la capacità dei genitori di incidere con una presenza costruttiva sul
miglioramento della vita scolastica dipende dalla libertà (anche economica) di una loro scelta e dal
grado di concorrenza e competitività di cui si vorrà dotare il sistema. Non è importante chi gestisce
la scuola, se lo Stato o dei Soggetti sociali, ma diventa decisiva la proposta educativa che si offre, in
linea con i valori della nostra Costituzione. Bisogna favorire la scelta libera dei genitori perché, più
di altri, hanno il diritto di indirizzare la formazione umana, culturale e professionale dei propri figli.
Informatica…mente
                                     Matteo Benevento (11 anni)

Da quando, poco più di un anno fa, Matteo Renzi si è insediato come Presidente del Consiglio,
diversi sono i temi di natura politica, economica e legislativa che sta cercando di affrontare e
risolvere. Fra i tanti la “scuola”, o come lui stesso definisce la “buona scuola”, è uno di quelli che
gli sta maggiormente a cuore. La sua è una scelta coraggiosa e importante. E’ la scuola a formare
con i suoi insegnamenti, anno dopo anno, le nuove generazioni. Dai rinvii e dalle lungaggini, a
volte del tutto incomprensibili, in cui il percorso verso “la buona scuola” si sta muovendo, anche
questa volta forse c’è poco da sperare. A scuola i docenti ci insegnano a risolvere i problemi in
tempi certi, i Ministri con quest’atteggiamento sono dei cattivi maestri. Tralasciando comunque gli
aspetti economici e quelli legati alla carriera che interessano principalmente i dirigenti, i docenti e
il personale non docente, gli aspetti più sostanziali, dal mio punto di vista, sono quelli riguardanti
lo studio e la formazione di noi giovani. In ogni tempo la scuola vive sempre i mutamenti che la
società propone e, proprio per questo deve essere sempre pronta ed aperta al confronto per la
crescita. Oggi, forse, la scuola che viviamo è poco “attuale” con i processi di cambiamento della
“società globale”. Mi riferisco proprio alle modificazioni che le tecnologie stanno imprimendo alla
vita di ciascuno e, invece, come la scuola le percepisca con incertezza. Non è un problema di
dotazioni cui si potrebbe anche sopperire con quelle personali, basti pensare ad esempio che
l’Istat stima tre smartphone a testa per ogni italiano. L’incertezza invece è da ricercarsi
nell’inadeguatezza della scuola oggi ad affrontare o meglio a non affrontare l’educazione al
digitale. Manca quella cultura all’informatica “civica”, che può rendere tutti più consapevoli
nell’utilizzo delle nuove tecnologie, e farne apprezzare le opportunità che le stesse offrono.
Ancora oggi, ad esempio, in Italia vi è scarsa collaborazione e interazione tra alunni e docenti della
stessa scuola o di scuole diverse, per vivere l’apprendimento in maniera nuova e attuale. Manca
completamente la collaborazione fra nativi digitali e importati digitali per accorciare ciò che è
definito digital divide. Non è con un libro digitale o con una lim che cambia la scuola o il modo di
studiare, viceversa si può acquisire un metodo diverso in cui lo strumento digitale può aiutare. Il
libro di carta rimane sempre centrale per lo studio e la conoscenza, viceversa tecnologie e rete
possono allargare quelle competenze e quelle esperienze che altrimenti non sarebbero possibili
fare. E’ questo lo “spirito nuovo e diverso” con cui si può creare un “apprendimento più attuale”.
Attraverso la cooperazione tra informazione e automazione è nato il network, quale sinonimo
d’informatica. Al momento lo sforzo deve essere quello di creare una rete basata sulla
collaborazione fra studenti e insegnanti, attori principali di quel sistema in cui le tecnologie sono
motore del cambiamento. In questo modo la rete riesce a unificare il mondo, attraverso la vasta e
infinita potenza del web, e a coinvolgere adulti e ragazzi in una concreta trasformazione sociale. In
un sistema così composto il ruolo della scuola è fondamentale nell’educare alla cittadinanza
digitale e alla democrazia della rete come opportunità della globalizzazione e senza creare
dipendenze da essa.
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