CHE STA ACCADENDO IN AMERICA - LATINA? di W. I. Robinson

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CHE STA ACCADENDO IN AMERICA - LATINA? di W. I. Robinson
CHE STA ACCADENDO IN AMERICA
LATINA? di W. I. Robinson*
                                     È opportuno ogni tanto
                                     dare un’occhiata non
                                     distratta a quanto
                                     accade    in   America
                                     latina, dove una destra
                                     rampante è tornata al
                                     potere ma dove le
                                     proteste      popolari
                                     stanno in compenso
dilagando (Haiti, Honduras, Cile, Ecuador, Colombia …). Un
caso un po’ più complesso quello boliviano, dove una destra
perversa ha approfittato di alcuni errori madornali
dell’ultimo paese dove esisteva l’ultimo dei governi della
‘decade progressista’.

Opportuno non solo per ragioni di solidarietà ma anche per
alcune similitudini di situazione con L’Europa: lo
scavalcamento dei partiti di sinistra da parte dei movimenti
in lotta (decisamente in numero minore in Europa rispetto
all’A.L.) che hanno assunto in prima persona l’iniziativa e la
crescente brutalità della repressione. Mi pare che in questa
complessivamente condivisibile analisi del sociologo
statunitense W.I. Robinson questo richiamo alla nostra
situazione sia ben presente, per cui mi fa piacere segnalarla.
Aldo Zanchetta

          NUVOLONI NERI SULL’AMERICA LATINA

                UNA PANORAMICA GENERALE
                  William I. Robinson*

Le lotte popolari contro un risorgente neoliberismo e le
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aggressioni dell’ultra-destra che negli ultimi mesi hanno
preso d’assalto l’America Latina si presentano alla Sinistra
globale con un peculiare paradosso: esse avvengono in un
momento in cui la Sinistra istituzionale e partitica ha perso
l’egemonia che aveva precedentemente conquistato e che ora si
trova logorata. Qualsiasi tentativo di spiegare questo
paradosso deve inquadrare l’attuale ribellione popolare nel
contesto più ampio delle dinamiche politiche dell’espansione
capitalista globale e delle crisi nella regione degli anni
recenti.
Nelle attuali circostanze il capitalismo globale affronta una
crisi organica che è ad un tempo strutturale e politica. Dal
punto di vista strutturale il sistema si trova in una crisi di
sovra-accumulazione e in tutto il mondo si è indirizzato verso
un nuovo ciclo di espansione violenta e molto spesso
militarizzata, alla ricerca di nuove opportunità di impiego
dell’eccedenza di capitale accumulata e prevenire la
stagnazione. Politicamente il sistema si trova di fronte a una
decomposizione dell’egemonia capitalista e una crisi di
legittimità dello Stato. Mentre il malcontento popolare va
estendendosi, i gruppi dominanti sono ricorsi in tutto il
mondo a modi di dominazione sempre più coercitivi e repressivi
per contenere questo malcontento e ad un tempo per aprire con
la forza nuove opportunità di accumulazione mediante
l’intensificazione delle politiche neoliberiste.

Questa duplice crisi è visibile con totale chiarezza in
America Latina. Il colpo di Stato del novembre scorso in
Bolivia e la tenace resistenza alla conquista fascista del
potere, la sollevazione all’inizio ottobre in Ecuador contro
la restaurazione liberista, le ribellioni verificatesi a Haiti
e in Cile (quest’ultimo vera culla del capitalismo), e ora in
Colombia, il ritorno al potere dei Peronisti in Argentina
seguito poche settimane appresso dalla sconfitta del Frente
Amplio in Uruguay, convergono tutti, assieme ad altri
avvenimenti recenti, verso una stagione di grande movimento e
incertezza nella regione. Però gli sconvolgimenti attuali
devono essere analizzati nel contesto delle dinamiche
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politiche della globalizzazione capitalista.

Il post-mortem della ‘Marea Rosata’?
L’America Latina dalla decade degli anni ’80 in poi si è
trovata coinvolta nella globalizzazione capitalista, processo
che ha causato una grande trasformazione della sua economia
politica e della sua trasformazione sociale. E’ nata una nuova
generazione di elite e di capitalisti orientati
transnazionalmente a causa della sconfitta dei movimenti
rivoluzionari nelle decadi degli anni ’60 e ’70. Questi gruppi
transnazionali dominanti condussero la regione verso la nuova
epoca globale, caratterizzata dall’accumulazione come una
serra calda, la speculazione finanziaria, la valorizzazione
creditizia, internet, le comunità chiuse, le catene del cibo
spazzatura diffuse ovunque, e i centri commerciali e i mega-
negozi che dominano i mercati locali nelle nascenti mega-
città. Queste elite e questi capitalisti transnazionali nella
decade dei ’90 hanno forgiato un’egemonia neoliberista
realizzando un vastissimo programma di privatizzazioni,
liberalizzazioni, deregolamentazioni e austerità. Pertanto, la
globalizzazione capitalista finì per aggravare la povertà e la
disuguaglianza, facendo spostare decine di milioni dalle
classi popolari e generando vastissimo sotto-impiego e
disoccupazione. Gli impoverimenti scatenarono un’ondata di
emigrazioni da paese a paese e nuove ondate di mobilitazione
di massa fra coloro che erano rimasti.
I governi di sinistra o della cosiddetta ‘Marea Rosata’
giunsero al potere nei primi anni del nuovo secolo sulla
spinta della ribellione delle masse contro questo mostro della
globalizzazione capitalista. Il giro verso Sinistra in America
Latina suscitò grandi attese e ispirò le lotte popolari nel
mondo. L’appello che Hugo Chávez fece per un Socialismo del
XXI secolo risvegliò le speranze che la regione avrebbe
indicato il percorso verso l’alternativa a un capitalismo
globale. I governi della Marea Rosata sfidarono e fecero anche
retrocedere gli aspetti più noti del programma neoliberista,
ridistribuirono la ricchezza verso il basso e ridussero la
povertà e la penuria. Tuttavia, gli sforzi degli Stati e dei
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movimenti sociali per completare le trasformazioni si
scontrarono con l’enorme potere strutturale del capitale
transnazionale, e soprattutto dei mercati finanziari globali.
Questo potere strutturale spinse gli Stati della Marea Rosata
verso un accordo con questi mercati.

Lasciando da parte la retorica, i governi della Marea Rosata
basarono la loro strategia sulla forte espansione della
produzione di materie prime in collaborazione con i
contingenti nazionali e locali della classe capitalista
transnazionale.

Ad eccezione del Venezuela nel periodo di auge della
Rivoluzione Bolivariana, si evidenziò l’assenza di qualunque
cambiamento sostanziale nelle relazioni fra classi e nella
proprietà, nonostante i cambiamenti generati nei blocchi di
potere politico, un discorso a favore delle classi popolari e
una espansione dei programmi di benestare sociale finanziati
dalle imposte sulle industrie estrattive delle corporation.
L’accrescimento delle attività minerarie e dell’agroindustria
transnazionale di loro proprietà ebbe come risultato una
maggiore concentrazione delle terre e del capitale e rafforzò
il potere strutturale dei mercati globali sugli Stati con
orientamento a sinistra. Come risultato, i paesi della Marea
Rosata si trovarono sempre più integrati nei circuiti
transnazionali del capitalismo globale e dipendenti dai
mercati globali delle commodity e del capitale.

Le masse popolari reclamavano trasformazioni più sostanziali.
Il giro verso la Sinistra aprì di fatto spazi perché queste
masse facessero avanzare le loro lotte. Tuttavia, nel loro
impegno per attrarre l’investimento delle corporation
transnazionali e espandere l’accumulazione estrattivista, gli
Stati compressero molte volte le richieste di quelli in basso
verso maggiori trasformazioni. Questi Stati smobilitarono i
movimenti sociali, risucchiandone i loro dirigenti nel governo
e nello Stato capitalista e subordinarono i movimenti delle
masse all’elettoralismo dei partiti della Sinistra. Data
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l’assenza di più ampie trasformazioni strutturali che
potessero rispondere alle cause profonde della povertà e della
disuguaglianza, i programmi sociali furono subordinati ai
viavai dei mercati globali sui quali gli stati della Marea
Rosata non esercitavano alcun controllo.

Allorché a partire dal 2008 esplose la crisi finanziaria
globale, questi Stati cozzarono con i limiti di una riforma
redistributiva ingabbiata nella logica del capitalismo
globale. L’estrema dipendenza dei paesi della Marea Rosata
dalle esportazioni di materie prime, allorché i mercati
globali delle commodity nel 2012 collassarono, li immerse
nell’agitazione economica. Questi paesi ebbero alti livelli di
crescita finché l’economia globale proseguì il suo ritmo di
espansione e finché i prezzi delle commodity restarono elevati
grazie al vorace appetito della Cina verso le esportazioni
delle materie prime. La recessione economica erose la capacità
dei governi di sostenere i programmi sociali, indicendoli a
negoziare concessioni e austerità con le elite finanziarie e
le agenzie multilaterali, come è accaduto in Brasile,
Argentina, Ecuador e Nicaragua, oltre ad altri paesi. Le
tensioni che ne derivarono fecero crescere le proteste e
aprirono lo spazio al risorgere della Destra. Sebbene non si
possano fare affermazioni generalizzate applicandole
uniformemente ai vari paesi, in tutto questo ci sono gli
elementi essenziali per analizzare il quadro del recente colpo
di Stato in Bolivia, la destituzione del Partito del Lavoro in
Brasile e degli altri rovesci della Marea Rosata.

Il ritorno della destra
Le classi dominanti tradizionali all’inizio del processo della
Marea Rosata si videro obbligate a cercare un modus vivendi
con i governi di sinistra dato il bilancio delle forze sociali
e di classe. Però appena l’economia e i sommovimenti politici
offrirono alla Destra uno spazio di manovra, questa passò
all’offensiva, spesso violenta, al fine di recuperare il
potere politico diretto. La svolta costituzionale e extra-
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costituzionale verso Destra ebbe inizio nel 2009 con il colpo
di Stato in Honduras, seguito nel 2012 dal golpe suave in
Paraguay contro il governo di sinistra di Fernando Lugo; la
sconfitta elettorale dei peronisti in Argentina nel 2015; il
colpo di Stato parlamentare in Brasile contro il Partito dei
Lavoratori nel 2016; il ritorno della destra in Cile con
l’elezione nel 2017 del Presidente Sebastián Piñera e la sua
coalizione Chile Vamos in Cile nel 2017, l’elezione nel 2018
in Colombia del presidente di estrema destra Iván Duque, che
non è altro che la faccia rappresentativa del progetto
fascista dell’uribismo, e la sconfitta elettorale all’inizio
del 2019 del Frente Farabundo Martí de Liberación Nacional in
El Salvador (L’elezione di Andrés Manuel López Obrador e del
suo partito Morena in Messico costituisce l’eccezione a questa
virata verso destra).
Questa forte virata a destra ha comportato un’ondata di
repressione in tutta la regione e una mobilitazione dei
partiti e delle organizzazioni imprenditoriali dell’estrema-
destra, culminando più recentemente nel colpo di Stato a
ottobre in Bolivia, per cui la regione sembra tornare
all’epoca delle dittature e dei regimi autoritari. L’America
Latina torna ad essere un focolaio di violenza statale e
privata incentrata sulla repressione della rivolta popolare e
un’apertura del continente verso il saccheggio corporativo. La
Destra nel suo impegno nel consolidare e espandere il potere
transnazionale delle corporation si orienta verso il razzismo,
l’autoritarismo e il militarismo. Da questo punto di vista la
regione è lo specchio di dove si sta dirigendo il mondo. Se il
continente è emblematico dello Stato di polizia globale, lo è
anche dell’ondata di resistenza dal basso attraverso il mondo.

Ma la sorte era segnata già prima che la destra recuperasse il
potere politico diretto. Gli eserciti latinoamericani negli
ultimi anni sono accresciuti rapidamente allo stesso ritmo
della nuova ondata di espansione corporativa e finanziaria
transnazionale nella regione. Spazi territoriali che fino a
pochissimo tempo fa godevano ancora di un certo spazio di
autonomia, come ad es. gli altipiani indigeni del Guatemala e
del Perù, aree dell’Amazzonia e della costa pacifica della
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Colombia, sono in fase di invasione violenta e le loro
abbondanti risorse naturali e di forza lavoro vengono messi a
disposizione del capitale transnazionale. In accordo con il
rapporto “Security for sale” (Sicurezza in vendita),
pubblicato nel 1918 dall’ Inter-American Dialogue, centro di
ricerca situato a Washington, D.C., nel 2017 in America Latina
erano presenti oltre 16.000 società private che offrivano
servizi militari e di sicurezza che impiegavano 2,4 milioni di
persone che frequentemente collaborano con le forze militari e
di polizia dello Stato. Praticamente si cancella di fatto la
distinzione fra personale militare e polizia in servizio e in
pensione da un lato, e dall’altro i dipendenti di queste
società private, come ha concluso l’informativa, poiché esiste
“una rete interconnessa fra i militari in servizio, i militari
in pensione, gli agenti della sicurezza privata, le elite
imprenditoriali e i funzionari del governo”. Il numero dei
militari è raddoppiato in Brasile, Bolivia, Messico, e negli
anni recenti in Venezuela, mentre l’esercito colombiano si è
quadruplicato e le forze armate nel resto della regione sono
aumentate in media del 35%. I militari sono stati dispiegati
nelle mega-città della regione e molte volte collaborano con i
cupi squadroni della morte nella ‘pulizia sociale’ dei poveri
e nella repressione della dissidenza politica.

La destra ora si impegna a utilizzare il potere politico
diretto che ha recuperato per imporre con violenza la piena
restaurazione del neoliberismo come parte dell’espansione
militarizzata del saccheggio delle corporation transnazionali.
La scintilla che ha fatto esplodere le più recenti proteste di
massa è stato un nuovo giro di misure neoliberiste. La
sollevazione in Nicaragua fra l’aprile e l’agosto del 2018 è
stata la risposta alla decisione del governo Ortega di imporre
riforme al sistema pensionistico. In Ecuador indigeni,
contadini e lavoratori si sono sollevati nell’ottobre del 2019
contro gli accordi negoziati dal governo con l’FMI per
eliminare i sussidi ai combustibili. La ribellione in Cile
contro la struttura totalmente neoliberista si è scatenata per
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la decisione del governo di aumentare le tariffe del trasporto
pubblico. In Argentina il fattore che finalmente l’ottobre
scorso ha portato alla sconfitta elettorale il governo Macri è
stato il suo forte programma neoliberista. E in Colombia le
proteste di massa sono state originate dalla promulgazione da
parte del governo di nuove misure di austerità.

L’egemonia contesa
Le crisi strutturali del capitalismo mondiale costituiscono
storicamente momenti in cui si producono prolungati disordini
sociali e più grandi cambiamenti, quali abbiamo visto
recentemente in America Latina. A livello mondiale la spirale
della crisi dell’egemonia sembra sfociare in una crisi
generale del dominio capitalista. A prima vista, questa
affermazione appare come contro-intuitiva poiché la classe
capitalista transnazionale e i suoi agenti sono passati
ovunque all’offensiva contro le classi popolari. Tuttavia, la
rinascita aggressiva della destra, in America Latina e nel
mondo, è una risposta alla crisi che è poggiata su un terreno
instabile.

A livello strutturale, le crisi sono dovute appunto
all’esistenza di ostacoli alla continua accumulazione del
capitale, e pertanto alla tendenza alla stagnazione e al basso
livello degli utili. Data una disuguaglianza senza precedenti
a livello mondiale, il mercato globale non può assorbire la
crescente produzione dell’economia globale, che sta toccando i
limiti della sua espansione. La crescita economica in anni
recenti è stata basata su un consumo insostenibile basato
sull’indebitamento, la frenetica speculazione finanziaria nel
casinò globale, e la militarizzazione promossa dallo Stato
–cosa che definisco accumulazione militarizzata- mentre il
mondo entra in una economia globale di guerra e le tensioni
internazionali si intensificano.

Mentre   l’economia   globale   è   prossima   alla   recessione,
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l’economia latinoamericana è già caduta nella recessione nel
2015 che prosegue fino ad oggi affrontando la stagnazione
(perfino in Bolivia, paese che ha registrato gli indici più
alti di crescita negli ultimi anni, il tasso della crescita
iniziò a contrarsi, cosa che obbligò il governo del MAS a
ricorrere alle riserve valutarie). La classe capitalista
transnazionale e le sue componenti locali ora tendono a
trasferire il peso della crisi sui settori popolari tramite
una rinnovata austerità neoliberista nel suo affanno per
ristabilire la redditività capitalista. Ma è poco probabile
che la destra abbia successo. Il presidente brasiliano Jair
Bolsonaro affronta una caduta vertiginosa nei sondaggi, mentre
il neoliberista Maurizio Macri ha subito un rovescio nelle
recenti elezioni e i governi di Ecuador, Cile e Colombia hanno
dovuto fare marcia indietro nelle loro misure di austerità.

L’incapacità della destra a stabilizzare il proprio progetto
avviene in momenti in cui la Sinistra istituzionale/partitica
ha perso la maggior parte del potere e l’influenza che aveva
guadagnato. Vi è un evidente sfasamento in America Latina
–sintomatico di una situazione della Sinistra a livello
mondiale- fra i movimenti di massa che attualmente fioriscono
e una sinistra partitica che ha perso la capacità di mediare
con un proprio progetto realistico fra le masse e lo Stato. Lo
scenario più probabile è un pareggio momentaneo, mentre i
nuvoloni neri si addensano.

Sebbene sia il momento della solidarietà con le masse
delle/dei latinoamericani che sono in piena lotta contro la
presa di potere della destra, deve essere anche un momento di
riflessione sulle lezioni che l’America Latina offre alla
sinistra globale.

La Marea rosata –dobbiamo ricordarlo- giunse al potere non per
il crollo dello Stato capitalista ma per la via
costituzionale, vale a dire tramite processi elettorali grazie
ai quali i governi di sinistra assunsero la gestione degli
Stati capitalisti. Semplicemente, schiacciare lo Stato
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capitalista non era in agenda. Non basta ricordare
l’esortazione di Marx che le classi lavoratrici non possono
limitarsi a impadronirsi dello Stato capitalista e gestirlo
per i propri scopi. Dato il violento ritorno dell’estrema
Destra, non sarebbe difficile cadere nella tentazione di
considerare come un punto di possibile discussione se i
governi della sinistra avrebbero potuto fare di più per
realizzare maggiori trasformazioni strutturali anche quando
non esistesse la possibilità di rompere col capitalismo
mondiale.

Ma sono lezioni fondamentali per la sinistra globale. Si
tratta della capacità dei movimenti sociali autonomi di massa
di obbligare dal basso gli Stati a intraprendere tali
trasformazioni. In alternativa, questo comporta la necessità
di ripensare la relazione triangolare fra gli Stati, i partiti
della Sinistra e i movimenti sociali di massa. Il modello di
governance della sinistra basato sull’assorbimento dei
movimenti sociali e subordinare l’agenda popolare
all’elettoralismo e alle esigenze della stabilità capitalista
ci conduce in un vicolo cieco – o peggio ci porta al ritorno
della Destra. È solo la mobilitazione di massa autonoma dal
basso che può imporre un contrappeso al controllo esercitato
dal capitale transnazionale e dal mercato globale dall’alto
sugli Stati capitalisti in America Latina, che essi siano
governati dalla Sinistra o dalla Destra.

Qualunque nuovo progetto di sinistra in America Latina, come
anche altrove nel mondo, dovrà vedersela con il problema delle
elezioni e dello Stato capitalista. Abbiamo imparato che la
subordinazione dell’agenda popolare a vincere elezioni ci
porta al fallimento, anche quando dobbiamo partecipare a
processi elettorali, quando ciò sia possibile, e anche
considerando che l’agone elettorale può essere uno spazio
strategico. Dal mio punto di vista, affrontare l’attuale
assalto della Destra passa urgentemente attraverso il
rinnovamento di un progetto rivoluzionario e un piano per la
rifondazione dello Stato. Le recenti esperienze del partito
Syriza in Grecia e dei governi della Marea Rosata in America
Latina, come i partiti social-democratici che in altre parti
del mondo arrivarono al potere negli ultimi anni del XX
secolo, ci insegnano che qualunque forza di sinistra, una
volta salita al governo, si vede obbligata ad amministrare lo
Stato capitalista e le sue crisi. Questi governi –nonostante
il loro colore di sinistra- si vedono spinti a difendere tale
Stato e la sua dipendenza dal capitale transnazionale per la
sua riproduzione, ciò che li porta in conflitto con le stesse
classi popolari e gli stessi movimenti sociali che li hanno
portati al potere.

*William I. Robinson. Professore di Sociologia, Università
della California di Santa Barbara.
** Fonte: https://twitter.com › w_i_robinson
*** Traduzione a cura di camminar domandando

FOIBE      E      IPOCRISIA
NAZIONALISTA di Sandokan
                                       Da quando, con la legge
                                       30 marzo 2004 n. 92, è
                                       stato istituito, sulla
                                       falsa riga del “Giorno
                                       della memoria”, quello
                                       del “ricordo” — per
                                       «conservare e rinnovare
                                       la    memoria    della
                                       tragedia degli italiani
                                       e di tutte le vittime
                                       delle foibe, dell’esodo
dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo
dopoguerra e della più complessa vicenda del confine
orientale» — abbiamo parlato di foibe alcune volte su questo
blog. La prima il 16 febbraio 2010. L’ultima l’anno scorso.

Abbiamo detto l’essenziale, ma data l’insopportabile ipocrisia
nazionalistica — gli stessi che inneggiano all’orgoglio
italiota sono gli stessi che svendono la sovranità italiana e
inneggiano all’Unione europea— sento che debbo tornarci su.

Politici e pennivendoli di regime accusano chiunque osi
sfidare la vulgata pseudo-patriottica sulle foibe, di
“negazionismo” — ancora una volta sulla falsa riga della
shoah.

A scanso di equivoci: non nego un bel niente. I partigiani
titoisti iugoslavi effettivamente gettarono nelle foibe, in
una prima ondata nel 1943 e poi nella seconda del 1945, i
corpi di centinaia di italiani precedentemente fucilati. Fu
una barbarie? Sì, lo fu.

MA QUI CERTE “COSETTE” VANNO DETTE…

Come gli storici di ogni tendenza hanno confermato, si
trattava nel 90% dei casi di italiani che svolgevano funzioni
apicali (militari e civili) nell’occupazione italiana e (dopo
il 1943) nazi-fascista, e che furono direttamente e/o
indirettamente responsabili di eccidi di massa ai danni delle
popolazioni slave. Eccidi, crimini e repressione sistematici,
che vennero avanti sin dalla fine della prima guerra mondiale.
Dopo la Grande Guerra, si ritrovarono entro i confini del
Regno d’Italia 490mila tra croati e sloveni, ed anche serbi
abitanti in Venezia Giulia, Istria e Dalmazia. Lo Stato
italiano, lungi dal rispettare i loro diritti, diede avvio ad
una politica imperialistica di assimilazione forzata di questi
gruppi slavi. Con l’avvento al potere del partito nazionale
fascista, questa politica di assimilazione divenne brutale,
anzi criminale.

 – tutti gli slavi vennero esclusi dagli impegni pubblici,
 assegnato solo ad italiani;
 – Con l’adozione della riforma scolastica gentile (1 ottobre
 1923) fu abolito nelle scuole l’insegnamento delle lingue
 croata e slovena. Tutte le scuole slovene e croate vennero
 chiuse, e la lingua italiana la sola ammessa;
 – furono imposti (Decreto regio del 29 marzo 1923) nomi
 italiani a tutte le centinaia di località, comprese quelle
 abitate solo da slavi;
 – con Decreto regio del 7 aprile 1926 vennero imposti cognomi
 italiani a decine di migliaia di croati e sloveni,
 – con legge del 1928 a parroci e uffici anagrafici venne
 fatto divieto di iscrivere nomi slavi nei registri delle
 nascite.

Dite un po’? voi non vi sareste incazzati per questa “bonifica
etnica”? Io sì, e se fossi stato sloveno o croato, da
patriota, avrei raggiunto la resistenza, che infatti subito
sorse.

E se provo vergogna per quello che l’Italia fece allora, sono
forse un “negazionista”?
Non è finita qui…

Con l’invasione della Iugoslavia (aprile 1941) da parte degli
eserciti tedesco e italiano, il Paese venne smembrato e i suoi
territori anessi alla Germania e all’Italia. I crimini
compiuti da occupanti fascisti e nazisti furono inenarrabili.
Furono compiuti (e ampiamente documentati) dalle truppe
fasciste e naziste svariati massacri per debellare la
resistenza titoista.
«Si procede ad arresti, ad incendi (…) fucilazioni in massa
fatte a casaccio e incendi dei paesi fatti solo per il solo
gusto di distruggere (…) la frase “gli italiani sono diventati
peggiori dei tedeschi” che si sente mormorare dappertutto,
compendia i sentimenti degli sloveni verso di noi». [1] Se
foste stati sloveni o croati voi che avreste fatto?

Contro la Resistenza iugoslava le autorità fasciste si diedero
alla deportazione sistematica nei campi di concentramento e a
ulteriori massacri indiscriminati:

«. . . Si informano le popolazioni dei territori annessi che
con provvedimento odierno sono stati internati i componenti
delle suddette famiglie, sono state rase al suolo le loro
case, confiscati i beni e fucilati 20 componenti di dette
famiglie estratti a sorte, per rappresaglia contro gli atti
criminali da parte dei ribelli che turbano le laboriose
popolazioni di questi territori . . .» . [2]
Il 12 luglio 1942, nel
                                   villaggio di Podhum, per
                                   rappresaglia furono fucilati da
                                   reparti militari italiani, su
                                   ordine del Prefetto della
                                   Provincia di Fiume Temistocle
                                   Testa, tutti gli uomini del
                                   villaggio di età compresa tra i
                                   16 e i 64 anni. Il resto della
                                   popolazione fu deportata nei
                                   campi di internamento italiani
                                   e   le   abitazioni     furono
incendiate.

Cartina a sinistra: Dopo l’8 settembre del 1943 i nazisti
prendono il controllo della Venezia Giulia e dell’Istria,
sottraendolo alla Repubblica Sociale Italiana

Dopo   l’8   settembre,   quando   i   tedeschi   rimpiazzarono   i
fascisti, le cose non migliorarono. L’esercito nazista,
sostenuto dalle autorità locali italiane e dagli Ustascia
croati, continuò la politica di sterminio già adottata verso
le altre popolazioni slave sotto occupazioni. Vale la pena
ricordare che rispetto agli abitanti, i popoli iugoslavi
subirono nella seconda guerra mondiale le maggiori perdite in
vite umane (1milione e 200mila).

Non voglio giustificare le rappresaglie compiute dalla
Resistenza iugoslava (dopo quelle del 1943, quelle dopo la
ritirata dei nazisti della fine del 1944), ma esse vanno
contestualizzate, altrimenti si fa demagogia da quattro soldi.
Una demagogia che serve ai satrapi dell’Unione europea per
salvarsi la faccia dandosi una patina di retorico patriottismo
— si inneggia all’italianità dei dalmati e degli istriani
mentre si smantella la sovranità nazionale. Per la cronaca:
l’esercito partigiano iugoslavo (di cui facevano parte anche
italiani, vedi Porzus), una volta occupati la Venezia Giulia,
Trieste, l’Istria ecc., eliminò anche diversi esponenti del
CLN italiano. C’era in queste ritorsioni un’odio
nazionalistico? Si, c’era, ma c’era anche quella che gli
storici hanno chiamato “vendetta sociale e di classe”, visto
che contrariamente a Togliatti, Tito congiungeva lotta di
liberazione nazionale e passaggio al socialismo.

Inutile continuare. Il tutto serve a dire che un Paese serio e
rispettoso davvero dei valori della pace e della fratellanza
tra i popoli, se proprio deve istituire il “giorno del
ricordo”, non dovrebbe ricordare solo i propri morti (e dire
la verità su chi fossero e cosa avessero fatto) ma pure quelli
altrui, quelli caduti proprio per mano fascista italiana.

PS
Mi chiederete: e dell’esodo degli italiani che hai da dire?
Segnalo soltanto che esso ebbe enormi proporzioni (una
minoranza restò entro i confini della nuova Iugoslavia) solo
dopo   il febbraio 1947, come conseguenza del “Trattato di
Parigi” fra l’Italia e le potenze alleate. Il Trattato incluse
non solo la rinuncia ai possedimenti coloniali in Africa ma
anche lo scambio tra Italia e Iugoslavia di diverse aree.
Scambio provvisoriamente sancito dal “Memorandum di Londra”
del 1954 [vedi Cartina a destra: zona A amministrata dagli
Alleati e quella B dalla Iugoslavia], definitivamente
formalizzato dal “Trattato di Osimo” del novembre 1975. Le
responsabilità per questo esodo non sono solo delle autorità
titine, ma pure di quelle italiane le quali a Parigi
accettarono la clausola che dava la facoltà allo Stato, al
quale il territorio era ceduto, di esigere il trasferimento in
Italia dei cittadini che avessero esercitato questa opzione.
Domandatevi: Non è forse vero che esso incoraggiò l’esodo?
Perché il governo italiano accettò questa clausola e avallò
l’esodo quando poteva impugnare un’altra clausola del
“Trattato di Parigi” che stabiliva il pieno rispetto dei
diritti delle minoranze?NOTE
[1] Riportato da due riservatissime personali del 30 luglio e
del 31 agosto 1942, indirizzate all’Alto Commissario per la
Provincia di Lubiana Emilio Grazioli, dal Commissario Civile
del Distretto di Longanatico (in sloveno: Logatec) Umberto
Rosin.

[2] Dalla copia del proclama prot. 2796, emesso in data 30
maggio 1942 dal Prefetto della Provincia di Fiume Temistocle
Testa, riportata a pagina 327 del libro di Boris Gombač,
Atlante storico dell’Adriatico orientale.

DOPO LA BREXIT, LA RUSSIA
COME ALTERNATIVA? di Manolo
Monereo
Manolo Monereo

Enric Juliana è un giornalista unico e, per molti versi,
diverso. Il suo stile è quello di collocare storicamente il
fatto, i dati, le notizie; cercando di andare oltre il giorno
per giorno, inquadrando ciò che accade in un contesto più
ampio. Qualche giorno fa ha collegato la Brexit alla
geopolitica assumendo come riferimento Halford Mackinder. Non
ha detto molto di più. Mi aspettavo che sviluppasse questa
idea, ma non l’ha fatto. Quindi tiro questo filo sapendo che,
sicuramente, il noto giornalista catalano non sarà d’accordo
con molte delle cose che scrivo.

Sir Halford Mackinder (1861-1947) fu un notevole geografo
britannico e un politico molto influente. Questa doppia
condizione deve essere sempre presa in considerazione; egli ha
cercato di conoscere la realtà, sempre al servizio degli
interessi strategici del suo paese. Sebbene non abbia mai
usato il termine geopolitica, ha influenzato in modo decisivo
questa disciplina che alcuni considerano la scienza e altri
un’arte politica dello Stato. Nel 1904 pubblicò una noto
saggio dal titolo “Il perno geografico della storia”. Nel 1919
sviluppò queste idee in un libro molto importante ai suoi
tempi, chiamato “Idee e realtà democratica”. Non è facile
spiegare in un articolo come questo la complessità, la
profondità e le ipotesi di una concezione geografica che ha
segnato, per più di un secolo, i dibattiti strategici e
politici di un mondo in perpetuo cambiamento. Forse questo è
ciò che sorprende di più. Il “problematico Mackinder” ritorna
ancora e ancora, e ritorna — precisamente — quando i teorici
della globalizzazione ritengono che il territorio e la
geografia abbiano perso la loro rilevanza nelle relazioni
internazionali.

Per capire bene cosa Mackinder continua a dirci oggi, dobbiamo
partire da due idee centrali. La prima è l’opposizione
strutturale della geopolitica mondiale tra potere marittimo
(talassocrazia) e potere terrestre (tellurocrazia); Questa
opposizione è sostanziale e influisce sulle strategie
politiche e militari e ha conseguenze per la costruzione e lo
sviluppo degli Stati. La seconda, ampiamente sviluppata nel
saggio sopra citato di Mackinder, ha a che fare col
sopraggiungere di una nuova fase della geografia mondiale,
fase che potremmo chiamare post-colombiana. Le scoperte di
Cristoforo Colombo segnarono un’intera fase storico-sociale
delle potenze dell’Europa (che è una penisola dell’Eurasia)
che si espansero in tutto il mondo attraverso gli oceani
diventando vasti imperi in collisione permanente. Mackinder
crede che questo stadio si sia cocnluso. Il mondo si era
chiuso, essendo distribuito tra le grandi potenze, con una
chiara egemonia dell’impero britannico. La chiave — siamo così
in cuore del dibattito — è che i poteri talassocratici avevano
perso parte del loro vantaggio strategico e che il territorio
era ancora una volta un elemento centrale (tellurocrazia).

Il geografo britannico identifica un territorio fondamentale
che chiama l’isola del mondo composta da Europa, Asia e
Africa. Al suo centro, un perno geografico che, in seguito,
avrebbe chiamato Heartland o Cuore Continentale. Da questo
centro nascono due grandi linee, una interna e una esterna.
L’Heartland occuperebbe un ampio spazio di ciò che chiamiamo
Siberia e Asia centrale; cioè, dal Volga allo Yangtze e
dall’Himalaya all’Oceano Artico. La conclusione di Mackinder
segna un’intera era ed è ben nota.

 «Quando i nostri statisti stanno conversando con il nemico
 sconfitto, qualche angelo alato dovrebbe sussurrare loro di
 volta in volta: chiunque domini l’Europa orientale controlla
 il cuore continentale; chi domina il cuore continentale
 controlla l’isola del mondo; che domina l’isola del mondo,
 controlla il mondo».

Una piccola nota: ciò che si stava decidendo in quel momento
(1919) era il nuovo ordine concordato a Versailles.

Torniamo alla Brexit. Questo mese ho pubblicato su El Viejo
Topo un saggio sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione
europea. Mi riferisco ad esso per le altre considerazioni. Una
cosa vorrei sottolineare: la ferocia della classe dirigente e
dei media europei contro una decisione democratica e legittima
non ha una spiegazione facile. Insulti e disprezzo hanno
raggiunto limiti difficilmente sopportabili, al punto che la
secessione della Scozia è incoraggiata in un momento in cui la
questione territoriale è un grave problema in Spagna. A ciò
hanno partecipato sia la destra che la sinistra. Nessun leader
importante si è chiesto perché, dal 1992 (referendum
francese), nessuna consultazione sull’Europa abbia vinto. E’
accaduto solo in Spagna, il che non è un caso. La mancanza di
autocritica delle élite europee è allarmante. Il paradosso di
tutto questo dibattito è che per gli europei più federalisti
la partenza dalla Gran Bretagna avrebbe dovuto essere vissuta
come un’opportunità. La costruzione neoliberista dell’Europa è
stata giustificata, in larga misura, dalla presenza della Gran
Bretagna; l’involuzione sociale, la predominanza delle libertà
comunitarie e la deregolamentazione dei mercati sono state
tradizionalmente attribuite alla presenza di un’isola
percepita più come una quinta colonna che come costruttore
leale di un processo di integrazione unitaria.

Si può capire cosa sta succedendo negli Stati Uniti e in Gran
Bretagna sulla base del fatto che nel mondo stanno cambiando
le basi geopolitiche e che siamo (in questo mondo chiuso) di
fronte a una grande transizione che ha al suo centro una
grande ridistribuzione del potere. Per dirla in altro modo,
ciò che abbiamo chiamato globalizzazione è alò tramonto. Non
sarà facile capire le mutazioni che stiamo vivendo; non sarà
facile capirle e, tanto meno, avere una piattaforma ideo-
politica in grado di guidarci in un mondo in rapido
cambiamento. Ciò che sta accadendo lo abbiamo davanti ai
nostri occhi: un potere (USA) che rifiuta di accettare la sua
decadimenza, che non è disposto a condividere, in nuove
condizioni, la sua egemonia mondiale e che affronta un potere
emergente (Cina) che è destinato a cambiare l’ordine mondiale.
Lo dirò come lo disse Kaplan: gli Stati Uniti non accetteranno
il dominio di una grande potenza nell’emisfero orientale. Lo
combatterà con ogni mezzo e fino alla fine. La “trappola di
Tucidide” è ancora presente.

In questo mondo che cambia, le grandi potenze economiche
britanniche vogliono camminare da sole; mettono al centro i
loro interessi strategici e, dalla loro autonomia, cercheranno
alleanze con l’Europa; o meglio, con alcuni paesi europei.
Nessuno mette in discussione gli accordi sostanziali con gli
Stati Uniti, e il Regno Unito li perseguirà con la propria
voce e difendendo i propri interessi. L’altro lato della
questione dovrebbe sollevare qualche riflessione agli
europeisti che ci accerchiano. I dati più rilevanti per gli
uomini e le donne che si trovano nella UE è che maggiore è
l’integrazione, minore è la capacità europea di essere un
soggetto autonomo e differenziato nelle relazioni
internazionali in cui le grandi potenze definiscono interessi
e quadri d’azione.

Con Mackinder ritorna la Russia. Per gli Stati Uniti il ​
fronte europeo è secondario, ora sono occupati in
qualcos’altro: contrastare l’egemonia della Cina nel Pacifico.
La NATO ha questo scopo, subordinare una UE senza anima e
senza un progetto, dividerla e impedire un partenariato
duraturo con la Russia. La “casa comune europea” è stato un
progetto fallito delle élite russe che facevano affidamento su
un’alleanza con le democrazie occidentali. Putin è il figlio
di quel fallimento. Prese atto e trasse le opportune
conseguenze strategiche. Gli Stati Uniti hanno provato — e
continueranno a provare — a trasformare la Russia in un grande
potere avversario dei popoli europei. È la ricerca di un
nemico che giustifica l’esistenza della NATO, la corsa agli
armamenti e l’inimicizia tra Germania e Russia. L’espansione a
est della NATO, la rapida integrazione degli ex paesi
socialisti nella UE e il loro rigido allineamento con l’amico
americano è lo stesso processo, dobbiamo insistere, per
impedire qualsiasi associazione economica e politica con la
Russia; vale a dire, con il perno geografico mondiale o
Heartland continentale.

Più di 20 anni fa, Brzezinski, parlando dei futuri pericoli
per gli Stati Uniti, scrisse quanto segue:

 «Lo scenario potenzialmente più pericoloso sarebbe quello di
 una grande coalizione tra Cina, Russia e forse Iran, una
 coalizione” anti-egemonica “unita non da un’ideologia ma da
 torti complementari. Ricorderei, a causa delle sue dimensioni
 e portata, la minaccia rappresentata, ad un certo momento,
 dal blocco sino-sovietico, anche se questa volta la Cina
 sarebbe probabilmente il leader e la Russia il gregario.
 Evitare questa contingenza, per quanto remota possa essere,
 richiederà un dispiegamento simultaneo di abilità strategiche
 statunitensi nel perimetro occidentale, orientale e
 meridionale dell’Eurasia».
Il noto analista geopolitico americano aveva ragione ed fu in
grado di intravedere il futuro. Quando si tratta di soluzioni,
riappare sempre Rimland o l”anello continentale” di Spykman.

Europa e Germania hanno geoeconomie complementari e potrebbero
avere strategie geopolitiche convergenti. Esistono conflitti
(come quello in Ucraina) ma sarebbero risolvibili nel quadro
di un accordo di partenariato economico, energetico e
politico. Il presupposto è che l’Europa abbia un suo progetto
autonomo nelle relazioni internazionali; cioè, di disimpegno
dalla NATO, definendo i suoi interessi strategici e cercando
il suo posto in un mondo che transita, con enormi difficoltà,
verso la multipolarità. Il mio vecchio insegnante Samir Amin
ha parlato fino al’ultimo di un asse Parigi-Berlino-Mosca-
Pechino.

Mackinder ritorna e, con lui, l’Eurasia. La storia, non solo
non è finita, ma ricomincia.

Madrid, 10 febbraio 2020

BARCELLONA, 11 FEBBRAIO: CONFERENZA SULLA GEOPOLITICA DI
MANOLO MONEREO

* Traduzione a cura della Redazione
** Fonte: Cuarto Poder

I   TEDESCHI                      PIÙ           POVERI
D’EUROPA?
Vale la pena segnalare
                                     un’indagine della Bce
                                     del 2013. Essa prendeva
                                     in     considerazione
                                     anzitutto il tasso di
                                     proprietà immobiliare
                                     delle famiglie.
                                     Era già noto che esso è
                                     in Germania tra i più
bassi, mentre nei paesi mediterranei è decisamente più alto,
così noi, ma anche greci e spagnoli, risultavamo più ricchi
dei tedeschi. Per di più il tasso d’indebitamento dei
cittadini tedeschi era tra i più alti della Ue.
Di acqua ne è passata sotto i ponti. Una nuova indagine
mostrerebbe di sicuro che le politiche austeritarie adottate
per stampellare l’eurozona, hanno causato un impoverimento dei
paesi mediterranei (a cominciare dalla Grecia) a tutto
vantaggio della Germania.

                         *   *  *
Uno studio della Bce mostra che i tedeschi sono tra i più
poveri d’Europa
di Shai Ahmed*

I tedeschi sono una delle popoalzioni più povere d’Europa,
persino più povere di quelle nelle travagliate nazioni
periferiche di Grecia, Spagna e Italia, ciò secondo i
sorprendenti risultati di un sondaggio congiunto di diversi
dipeartkenti della Banca centrale europea.

L’indagine sulle finanze e i consumi delle famiglie (HFCS) ha
esaminato la ricchezza delle famiglie in alcuni paesi chiave
dell’area dell’euro.

Secondo il rapporto, “la composizione della ricchezza netta è
determinata principalmente da beni reali”, di cui la
componente principale è la ricchezza abitativa occupata dai
proprietari.
Per i paesi che non hanno alti tassi di proprietà della casa e
non hanno registrato aumenti significativi dei prezzi delle
case, la ricchezza netta appare più marcatamente ridotta, come
la Germania, che è “più povera” in termini di ricchezza netta
rispetto ad alcuni paesi che invece finanziano programmi di
salvataggio.

L’indagine ha identificato il tasso di proprietà in immobili
delle famiglie in cinque categorie: residenza principale,
altre proprietà immobiliari, veicoli, oggetti di valore e
attività di lavoro autonomo.

Rispetto a tutti i paesi indagati questo tasso è in Germania
il più basso.

La Germania ha infatti uno dei tassi di proprietà più bassi
quando si tratta di residenza principale ed anche uno dei più
bassi in termini di altre proprietà immobiliari.

Grecia, Cipro e Spagna hanno mostrato tassi più elevati e
quindi una maggiore ricchezza netta.

Un fattore, che avrebbe potuto distorcere i risultati, è che
il sondaggio ha esaminato la ricchezza delle famiglie e non
degli individui. Pertanto, quei paesi che hanno una tradizione
e una preferenza culturale per le famiglie più numerose,
prevalentemente nell’Europa meridionale, possono sembrare più
ricchi.

La ricchezza netta secondo i risultati è sostanzialmente più
elevata a Cipro a 671.000 euro rispetto ai 195.000 euro
alquanto irrisori per i tedeschi.

Anche la Spagna supera la Germania con una ricchezza netta
pari a 291.000 euro e l’Italia a 275.000 euro.

Alla luce dei fatti macroeconomici sul campo, potrebbe essere
sorprendente apprendere che la Germania, nel suo insieme, è
“più povera” di Cipro, un paese in ginocchio, o della Spagna
dove la disoccupazione si attesta al 26 percento, rispetto al
tasso della zona euro del 12 percento.

Scrive la BCE:

 «La misurazione della ricchezza è subordinata al fatto che la
 variazione della ricchezza è influenzata dalle istituzioni e
 da macrodinamiche che recentemente hanno differito
 sostanzialmente tra le varie famiglie, regioni e paesi sia
 con dell’eurozona che fuori».

L’idea che i cittadini delle nazioni periferiche abbiano
sperperato la loro ricchezza e siano stati frivoli, è stata
anche smentita dalla ricerca.

Gli italiani risultano essere i più parsimoniosi nello studio
con il tasso d’indebitamento più basso..

Il settantacinque percento delle famiglie italiane non ha
alcun debito, rispetto a circa il 53 percento in Germania e il
34 percento in Olanda.

* Fonte: CNBC
** Traduzione a cura della redazione

LA RICETTA DELLA M.M.T. di
Gianluigi Paragone
Venerdì scorso ho avuto
                                     modo di organizzare
                                     assieme      all’amico
                                     Thomas      Fazi     un
                                     incontro/dibattito con
                                     Bill Mitchell, uno dei
                                     massimi      esponenti
                                     mondiali della Modern
                                     Monetary Theory (Mmt),
                                     teoria macroeconomica
                                     di cui sempre più si
                                     stanno affermando gli
spunti e gli strumenti per uscire dal fanatico rigore
neoliberista incistato nei trattati europei. Di Mmt ne hanno
discusso recentemente sia Mario Draghi (che in quanto
“allievo” di Federico Caffè conosce bene la dottrina di
Keynes, che sta alla base del postulato Mmt), sia colei che ne
ha preso il posto alla Bce, Christine Lagarde.

Ma è negli Stati Uniti che da anni il dibattito sollevato da
questa teoria anima accademici e classe dirigente, tanto che i
democratici eretici Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez
hanno sottoscritto parecchi documenti proposti dalla Mmt,
anche – e soprattutto – alla luce di quanto sollecitato da
parecchie banche centrali (quelle vere non la Bce) e di quanto
sta accadendo in Giappone dove la leva a deficit è ormai un
“must” del premier Shinzo Abe (13mila miliardi di yen appena
sfornati per investimenti pubblici).

Per farci capire, i teorici della Mmt ribaltano completamente
il paradigma di Bruxelles, il pareggio di bilancio,
l’austerity e il maniacale controllo del deficit pubblico. Più
volte ho scritto che il coraggio di uscire dall’inganno
neoliberista (fondato sul controllo della spesa pubblica,
imponendo così privatizzazioni, liberalizzazioni, depressione
sociale, mancata crescita eccetera eccetera) ha premiato
diversi capi di governo; persino quel Donald Trump la cui
elezione fu salutata dal mainstream di fede clintoniana come
una sciagura che avrebbe provocato il collasso delle Borse e
dell’economia reale americana. Sciagure per nulla
verificatesi. Tanto per capirci, a deficit Trump ha varato la
sua riforma fiscale. Tutto questo però non basta, pensano in
Mmt: i governi non devono minimamente avere il problema del
deficit finché non si raggiunge piena occupazione e quindi
profitto e sviluppo per le imprese.

Le grandi sfide dell’impatto lavoratore/robot o la green
economy non possono essere giocate senza la scommessa della
spesa pubblica. Qual è però il requisito fondamentale della
Mmt? Avere una moneta sovrana e una banca centrale che possa
ripagare il debito pubblico creando nuova moneta fino a quando
non si verifica una situazione di alta inflazione, condizione
di cui al momento non si vede assolutamente il pericolo.

L’architettura che sorregge l’Unione europea di fatto
impedisce tutto questo e sta costringendo l’Italia a ragionare
sullo zero virgola in più o in meno, creando un tappo alla
crescita, all’occupazione e allo sviluppo. È solo un problema
italiano? No, visto che tutti gli economisti convengono sul
dato che l’eurozona è la parte del mondo sviluppato che cresce
di meno. Quindi, che fare?

Questa è la sfida di cui abbiamo parlato appunto con Bill
Mitchell, uno dei massimi esperti mondiali della Mmt. Partendo
da un dato “politico”: il sovranismo non è né di destra né di
sinistra, ma è una condizione necessaria se si vuole
sovvertire il maleficio neoliberista incistato nelle
stupidissime regole dell’Unione europea. Regole che nessuno
vuole rompere davvero. Bill Mitchell non sfugge al dato
politico e sociale, nel senso che “la generalizzata rivolta
anti-establishment ha sancito il fallimento delle élite”.
Tocca allora alla politica raccogliere il dolore dei
cittadini, degli imprenditori, delle famiglie e pure di chi,
per conto della finanza, ha ben chiaro che solo gli Stati
possono riprendere in mano la politica fiscale, fare politiche
espansive, cioè in deficit. La Abenomics è la prova vivente
che la teoria dominante è fallace. Tutto questo ovviamente
viene nascosto dal mainstream che non ha altre armi se non
quella della propaganda (la imbarazzante pagina comprata da
firme del giornalismo italiano per ringraziare supinamente
Mario Draghi…) o della paura (i mercati, lo spread…). Tutto
sotto la regia di una cultura pseudo-riformista, di cui il Pd
in Italia è alfiere.

Le notizie di questi giorni lo confermano: il governo italiano
potrebbe essere condannato per i mancati pagamenti della
Pubblica amministrazione; i venti miliardi di clausole di
salvaguardia da coprire entro l’anno prossimo (per cui si
parla di aumentare l’Iva ad albergatori e ristoratori, già
massacrati dal fisco e dalla concorrenza delle nuove
piattaforme digitali); l’occupazione che batte in testa, le
imprese soffocate da tasse e burocrazia. Insomma, fintanto che
si resta dentro questa gabbia si muore a piccole dosi. È
certo. Per questo con Bill Mitchell ho voluto riprendere in
mano il tema dei temi: ha senso restare dentro l’eurogabbia?
No. Lo penso anch’io. Per questo mi sono rimesso in movimento
fuori dal Movimento.

* Fonte: IL PARAGONE
LA PROSSIMA GUERRA MONDIALE
di Giulietto Chiesa
                              Si è svolto sabato scorso a
                              Foligno il previsto incontro
                              con Giulietto Chiesa.
                              Sala gremita [vedi foto accanto
                              ]e pubblico molto attento, a
                              dimostrazione dell’interesse
                              per i temi riguardanti la
                              complicata         situazione
                              internazionale e geopolitica.

Prima di dare la parola a Giulietto Chiesa, hanno introdotto
l’incontro Giacomo Zuccarini a nome dei Comitati Popolari
Territoriali umbri di Liberiamo l’Italia, quindi Armando
Mattioli, portavoce di Futuro Collettivo (associazione
politico-culturale molto attiva in città).

Armando Mattioli, Giulietto
Chiesa, Giacomo Zuccarini

Chiesa ha svolto un’articolata prolusione con uno sguardo sui
diversi scacchieri di tensione geopolitica, chiamando alla
lotta contro il rischio di una nuova guerra mondiale che
alcuni settori ultra-imperialisti dell’Occidente stanno
preparando, e per far si che l’Italia esca dalla NATO e
diventi un Paese neutrale.

Chiesa ha avuto poi modo di sottolineare la grande importanza
della mobilitazione che sta iniziando contro il 5G e
l’installazione delle antenne sui diversi terrritori.

A seguire diverse le domande e quindi la replica di Giulietto
Chiesa.

                   IL VIDEO DELL’INCONTRO

PERCHÉ NO! Il MES in parole
povere
                                       Comunicato n. 2/2020
                                       del Comitato centrale
                                              di P101

(1) Se prima il M.E.S. (il cosiddetto “Fondo salva stati”),
finanziato dai singoli stati della Ue, faceva capo all’Unione
medesima, con la “riforma” il MES diventerà né più e né meno
che una super-banca d’affari privata indipendente, la quale
potrà prestare denaro agli stati solo a condizione che ne
tragga un lauto guadagno. Di più: sarà un organismo di rango
superiore agli stati nazionali e che avrà potere di vita o di
morte su quelli che dovessero ricorrere al suo “aiuto” (come
la troika lo fu per la Grecia).

Si tratterebbe per l’Italia di un’altra palese cessione di
sovranità in aperta violazione dell’art. 11 della
Costituzione, dell’ennesimo crimine per tenere in via il
mostro liberista dell’Unione europea.

(2) La “riforma” stabilisce due linee di credito, dividendo
così paesi di serie A e B, quelli considerati solvibili (che
cioè rispettano i famigerati parametri ordoliberisti del 3% e
del 60%) e quelli con alto debito pubblico (che non li
rispettano) considerati ad alto rischio.
Abbiamo quindi, col nuovo MES, un doppio paradosso: a) paesi
come la Germania con banche piene zeppe di titoli tossici
godrebbero, per l’accesso al credito del MES, di una corsia
preferenziale e di condizioni molto vantaggiose; mentre
l’Italia, per usufruire dello “aiuto”, dovrebbe impegnarsi ad
adottare draconiane misure di riduzione del debito pubblico,
quindi austerità, tagli alla spesa sociale ed ai diritti,
privatizzazioni; b) l’Italia, ratificando il Trattato, sarebbe
un grande finanziatore del MES ma ciò a tutto vantaggio dei
paesi considerati di seria A. Né più e né meno che una
colossale rapina.

(3) Tutti gli analisti concordano che una conseguenza
inevitabile dell’eventuale richiesta di “aiuto” provocherebbe
una brutale svalutazione del valore dei titoli pubblici
italiani a danno dei tanti risparmiatori che hanno acquistato
Bot o Btp. Anzi! già solo l’entrata in funzione del MES,
quindi l’adozione dei suoi parametri — quelli per cui l’Italia
sarebbe considerata un Paese di serie B —, potrebbe innescare
ex ante una fuga generalizzata dai titoli di stato italiani,
con conseguente fuga di capitali dall’Italia verso altri paesi
a tripla A, con l’inevitabile svalutazione del valore dei
titoli di debito italiani.
(4) In questo caso sarebbe dunque altamente probabile il
collasso generale del sistema bancario italiano. Le banche
italiane posseggono oggi circa 400 miliardi di titoli
pubblici. Una forte decurtazione del loro valore (come detto,
possibile ancor prima che si dovesse chiedere “aiuto” al MES)
causerebbe quindi crolli bancari a catena.

(5) Le conseguenze inevitabili sarebbero dunque: a) che il MES
si comporterebbe come uno strozzino con facoltà di pignorare i
beni italiani; b) che lo Stato sarebbe costretto non solo ad
applicare una violenta austerità, ma, sempre per rimborsare il
credito, a vendere a prezzi stracciati proprietà e patrimoni;
c) che le banche, per non fallire, dovrebbero ricorre al bail-
in, ovvero ricorrere ad espropri forzosi non solo degli
azionisti ma pure dei correntisti, con conseguente stop
all’erogazione di prestiti ad aziende e cittadini.

Una recessione violenta sarebbe dunque inevitabile con
chiusura di aziende, crollo degli investimenti pubblici e
privati, aumento generale della disoccupazione. In poche
parole: un disastro nazionale.

Fermare il MES è quindi questione di interesse nazionale.

I governanti, venduti allo straniero, hanno già firmato la
capitolazione.

Sarà il Parlamento tuttavia, nella prossima primavera, a dover
ratificare il nuovo Trattato.

Prepariamo una grande mobilitazione per impedirlo!
Usciamo dalla gabbia dell’euro, prepariamo l’Italexit!

Il Comitato centrale del Movimento Popolare di Liberazione –
Programma 101

10 febbraio 2019
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