L'INFONDATA LEGGENDA DEL - RECOVERY FUND di Leonardo Mazzei - sollevazione

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L'INFONDATA LEGGENDA DEL - RECOVERY FUND di Leonardo Mazzei - sollevazione
L’INFONDATA  LEGGENDA DEL
RECOVERY FUND di Leonardo
Mazzei

La leggenda secondo cui il Recovery Fund avrebbe cambiato
l’Europa, ponendo fine all’austerità per iniziare un nuovo
periodo di espansione economica, è una clamorosa bufala. Una
gigantesca fake news, per chi ama gli anglicismi. Chi scrive
non ha mai avuto dubbi sul punto, ma adesso ci giunge in aiuto
un’attenta analisi del professor Gustavo Piga sulla Nota di
Aggiornamento del Def (Nadef).

Premesso che in tempo di Covid i numeri contenuti nei
documenti previsionali valgono quel che valgono, cioè quasi
nulla, resta però interessante lo schema di ragionamento che
il decisore politico ha posto come cornice al quadro
previsionale. Mentre i numeri sono destinati ad essere
smentiti, riaggiornati e rismentiti, quello schema di
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ragionamento resta invece la traccia indelebile di una precisa
impostazione politica: quella degli euroinomani impenitenti,
che scrivono di “espansione” anche quando sanno benissimo che
avremo invece la solita austerità. Tra questi adoratori del
“Dio Europa” il ministro Gualtieri non è l’ultimo arrivato.

Ecco così la sua Nadef 2020, come sempre co-firmata col
Presidente del consiglio Giuseppe Conte. Su di essa il
giudizio di Gustavo Piga è stroncante.

Diamo la parola a Piga

«La manovra economica del governo che pare espansiva e invece
non lo è», questo il titolo chilometricamente liquidatorio del
suo articolo. E non lo è – spiega Piga – proprio perché il
tanto sbandierato Recovery Fund verrà utilizzato in tutt’altro
modo. Probabilmente perché, questo lo aggiungiamo noi, non
potrebbe essere diversamente proprio in virtù delle clausole
previste da quel fondo, tanto decantato dai media quanto
volutamente sconosciuto nei suoi meccanismi essenziali.

Vediamo allora le riflessioni di Gustavo Piga, partendo
dall’inizio del suo articolo:

 «Il nostro Paese ha ed avrà ancora di più nei prossimi mesi
 un bisogno immenso di crescita economica. Non solo per
 mantenersi stabile socialmente ma anche finanziariamente: una
 crescita solida è senza dubbio l’unico modo credibile per
 garantire infatti anche la discesa del rapporto debito
 pubblico su PIL. Il Recovery Fund doveva raggiungere proprio
 questo fine, dare garanzia di stabilità sociale e
 finanziaria, tramite il finanziamento di maggiori
 investimenti pubblici. Ma qualcosa sembra non stia
 funzionando perfettamente, almeno se consultiamo il documento
 fondamentale per capirne di più, la Nota di Aggiornamento al
 DEF recentemente pubblicata dal Ministero dell’Economia e
 delle Finanze. Questa include infatti tre informazioni
 chiave: la posizione per il 2021-2023 del Governo stabilita
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con il DEF in aprile, gli effetti aggiuntivi della manovra
 per il 2021 sul triennio e, infine, il contributo per gli
 anni 2021-23 dei fondi europei del Recovery. L’analisi
 complessiva di queste tre dimensioni ci dice della posizione
 fiscale del Governo e di come questa impatta sull’economia».

Fatta questa premessa, Piga passa ad esaminare i numeri del
Recovery Fund così come tradotti nelle previsioni
programmatiche della Nadef:

 «Cominciamo subito dalla questione dei fondi europei – più
 semplice da capire ma anche capace di sollevare perplessità –
 che si suddividono in trasferimenti a fondo perduto e in
 prestiti a tassi vantaggiosi. I primi sono pari a 14, 20 e 28
 miliardi nel triennio a venire: 0,8%, 1% e 1,5% di PIL circa.
 L’effetto stimato, ancora per il triennio, di crescita
 economica in più è pari rispettivamente a 0,3%, 0,4% e 0,8%,
 con un moltiplicatore della crescita da parte della spesa
 pubblica inferiore dunque allo 0,5. Numero che non è foriero
 di buone notizie: da un moltiplicatore degli investimenti
 pubblici ci si aspetta che sia almeno pari ad 1, e un valore
 così basso non può che voler dire che i fondi UE a fondo
 perduto non verranno tutti spesi là dove l’impatto è maggiore
 per la crescita, nell’accumulazione di capitale fisico ed
 immateriale, ma piuttosto in mille rivoli e trasferimenti».

Bene Piga, ma il “fondo perduto” non esiste

La denuncia di Piga è chiara ed incontestabile: non c’è
nessuna politica espansiva alle porte, né il Recovery Fund
segnerà quell’uscita dall’austerità tanto propagandata dai
media. Piga ha dunque il merito di svelare – numeri alla mano
– la situazione reale dell’Italia reale, così come esce dalle
stesse carte previsionali del governo. Un governo che, con i
numeri di quelle carte, smentisce anzitutto se stesso, le sue
promesse, le roboanti dichiarazioni dei suoi esponenti di
punta.
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Tuttavia Piga commette un grave errore, quello di parlare di
inesistenti «trasferimenti a fondo perduto». Un errore che ne
porta con sé un altro: quello di attribuire all’impiego di
questi    trasferimenti     un   moltiplicatore     sul    Pil
inspiegabilmente basso, a suo avviso dovuto ad una dispersione
in mille rivoli dei fondi in questione.

Ma è davvero questa la causa? O non sarà, piuttosto, che la
Nadef – pur senza dichiararlo – tiene già conto del fatto che
l’Italia dovrà contribuire a finanziare gli stessi fondi di
cui poi usufruirà? A me pare che la spiegazione di un
moltiplicatore talmente basso da risultare irrealistico, per
altro indicato in un documento che in genere chi governa tende
sempre ad improntare in maniera fin troppo ottimistica, non si
spieghi altrimenti. Ed i numeri ce lo confermano.

Abbiamo già visto come la Nadef preveda l’utilizzo delle
cosiddette “sovvenzioni” del Recovery Fund per complessivi 62
miliardi nel triennio a venire, circa 3,3 punti di Pil, cui
corrisponderebbe invece un incremento della crescita economica
di un solo punto e mezzo. L’arcano sta nel fatto che il “fondo
perduto” proprio non esiste, mentre esiste una sorta di
partita di giro con la quale gli Stati con una mano vengono
“sovvenzionati”, mentre con l’altra restituiscono all’UE una
cifra complessivamente equivalente.

Il documento “Finanziare il piano di ripresa per l’Europa“,
elaborato dalla Commissione Europea, spiega come verrà
finanziato il Recovery Fund. Pur auspicando l’aggiunta di
nuove tasse europee, a Bruxelles si sono tutelati con una
norma secca e chiara:

 «Per garantire un margine di manovra adeguato, la Commissione
 propone di modificare la decisione sulle risorse proprie, il
 testo giuridico che stabilisce le condizioni per il
 finanziamento del bilancio dell’UE, per consentire
 l’assunzione di prestiti e aumentare di 0,6 punti percentuali
 il massimale delle risorse proprie in via eccezionale e
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temporanea. Questo aumento delle risorse proprie va ad
 aggiungersi al massimale permanente delle risorse proprie di
 1,4 % dell’RNL proposto tenendo conto delle incertezze
 economiche e della Brexit».

A scanso di equivoci lo stesso documento precisa che:

 «Il massimale delle risorse proprie determina l’importo
 massimo delle risorse in un dato anno che possono essere
 richieste agli Stati membri per finanziare la spesa dell’UE».

Dunque il massimale verrà portato dall’1,4% dell’Rnl (Reddito
nazionale lordo) di ciascuno Stato al 2%. Per l’Italia
significa un aggravio di circa 11 miliardi annui, equivalenti
a 33 miliardi nel triennio. Trentatre miliardi da succhiare
dalle casse dello Stato, sottraendoli dunque ad altri utilizzi
(spesa od investimenti) dello stesso.

Ecco allora che i 62 miliardi della Nadef diventano al massimo
29. Il che spiega abbondantemente il modesto incremento
quantificato dal governo sul Pil. Se l’aumento di spesa
effettivo è quello da noi calcolato, il moltiplicatore non
sarebbe più sotto allo 0,5, bensì leggermente superiore ad 1.
Il che appare assai più ragionevole Tutto questo sempre nel
“fortunato” triennio 2021-23, perché in quello successivo
(2024-26) le cose potrebbero peggiorare drasticamente. Come si
legge a pagina 12 della Nadef, le sovvenzioni in quel triennio
caleranno infatti a soli 13,4 miliardi, mentre l’uscita
aggiuntiva dello Stato (direzione Bruxelles) potrebbe restare
a quota 33 miliardi. Insomma, una cuccagna!

Se così andranno le cose – e questo ci dicono le carte – il
famoso “fondo perduto” ammonterebbe a soli 9,4 miliardi in 6
anni, pari ad un miliardo e mezzo all’anno! Una miseria –
peraltro tutta da vedere, vista la possibilità di una serie di
tassazioni aggiuntive -, ma ad ogni modo più che compensata
dalle stringenti condizioni cui verrà incatenato il nostro
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Paese.

E i prestiti?

Fin qui abbiamo parlato delle cosiddette “sovvenzioni”,
sperando che si sia almeno capita una cosa: che nella sostanza
il “fondo perduto” proprio non esiste, che per l’Italia ci
saranno al massimo delle miserevoli briciole, del tutto
irrilevanti dal punto di vista macroeconomico.

Ma il Recovery Fund prevede anche i prestiti, che per il
nostro Paese sono peraltro la parte prevalente. Un totale di
127,6 miliardi, la maggior parte da utilizzarsi nel triennio
2024-26. Inutile dire – qui l’inganno semantico non può
funzionare come con le “sovvenzioni” – che i prestiti andranno
restituiti.

Poiché la Nadef arriva solo fino al 2023, Piga non può far
altro che analizzare l’impatto di questi prestiti soltanto sul
primo triennio. Ed il suo giudizio è tombale:

 «Passiamo ai prestiti a tassi vantaggiosi: essi sono pari a
 11, 17,5 e 15 miliardi di euro. Una bella cifra. Purtroppo
 una buona parte di questi non andranno a finanziare nuovi
 progetti di investimenti ma a sostituire il finanziamento in
 deficit da parte del Tesoro di spese già previste. Effetto
 addizionale dunque nullo, se non per un minuscolo risparmio
 di spesa per interessi. Qualcuno potrebbe dire che vanno a
 finanziare comunque maggiori investimenti pubblici già
 previsti da questo Governo, ma il DEF di aprile non lascia
 scampo nemmeno a questo riguardo: l’aumento di investimenti
 pubblici dal 2020 è di 3 miliardi per il 2021, altri 3 in più
 per il 2022 ed un calo di 1 miliardo nel 2023. Bazzecole, se
 pensiamo alla crisi in cui ci dibattiamo».

Queste affermazioni trovano puntuale riscontro in quel che si
legge a pagina 11 della Nadef:
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«I prestiti… non si tradurranno in un equivalente aumento
 dell’indebitamento netto in quanto potranno in parte
 sostituire programmi di spesa esistenti (anche corrente) e in
 parte essere compensati da misure di copertura. La porzione
 di prestiti che si traduce in maggior deficit è determinata
 per ciascun anno secondo gli obiettivi di indebitamento netto
 illustrati più oltre».

Qui l’aspetto principale da cogliere, quello che taglia la
testa al toro di ogni retorica europeista, è che i prestiti
nulla aggiungeranno alle prospettive economiche del Paese.
Trattandosi di debiti, da contabilizzarsi come tali, prendere
soldi in prestito dall’UE non sarà per nulla diverso dal
prenderli sui mercati finanziari con la normale emissione di
titoli. Con il piccolo particolare che l’UE ci imporrà pure
come spenderli! Una trappola ben congegnata ai danni
dell’Italia, che solo i piddini possono vendere come un
affarone.

Conclusioni

Arriviamo adesso ad alcune conclusioni.

Molte sarebbero le cose da dire ancora sul Recovery Fund. Una
su tutte la tendenza di alcuni Stati (Spagna in primis) a non
volere più i prestiti di questo fondo. Ma ancora più
importante è capire le ragioni politiche del perché di tanta
insistenza affinché gli Stati mediterranei siano costretti a
ricorrervi. Un’insistenza che in Italia arriva perfino
all’invocazione piddina, mediatica e confindustriale a favore
del Mes. Per non farla troppo lunga torneremo su questi temi
in un prossimo articolo, per provare a comprendere oltre al
trucco economico (di cui qui ci occupiamo) anche quello
politico.

Adesso torniamo invece al professor Piga, più esattamente alle
conclusioni del suo articolo.
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«C’è un ultimo aspetto che va considerato, e che rimane
 quello più importante. Questa manovra è stata “venduta” come
 manovra espansiva, di supporto all’economia. Ma lo è solo
 rispetto a quanto deciso in primavera nel DEF; se guardiamo
 piuttosto alle scelte complessive del Governo, includendo
 quelle decisioni, vediamo che – in tempi di Covid! – la
 posizione del Governo rimane molto restrittiva. Meno austera
 di qualche mese fa, ma pur sempre molto austera».

L’austerità dunque prosegue. In forme nuove, dato che con
l’attuale crisi il rispetto dei vincoli formali del Fiscal
compact non potrebbe chiederli neppure un Valdis Dombrovskis,
ma prosegue.

Detto   questo,    la   conclusione   di   Piga   è   pienamente
sottoscrivibile:

 «Insomma, invece di confermare e stabilizzare il deficit al
 livello odierno per tutto il triennio e utilizzarne le
 risorse per fare investimenti pubblici e invece di dedicare
 le risorse europee a massimizzare i progetti che generano
 crescita, ci ritroviamo con una programmazione austera e male
 allocata, in quella che è la maggiore crisi economica del
 dopoguerra. E perché mai? Per quanto riguarda l’austerità è
 semplice, basta tornare ai numeri finali del 2023,
 quell’avanzo primario in pareggio e quel deficit su PIL che
 tocca la soglia “critica” del 3% del PIL su cui si è
 costruita la logica del mai abolito e austero Fiscal Compact.
 Non sono infatti numeri casuali: sono frutto di quella
 promessa che il Governo italiano ha fatto, implicita
 nell’accordo sottostante al Recovery Fund, che l’Italia
 accede a questi fondi purché … si cimenti nell’austerità
 richiesta dall’Europa appena fuori dal Covid. Con una mano si
 dà, con l’altra si leva. Cosa si leva? La crescita».

Che dire? La leggenda di un Recovery Fund virtuoso e
risolutivo è oramai smascherata. Solo la disastrata politica
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italiana può ancora far finta che così non sia. Una faccia
tosta che prima o poi dovrà fare i conti con la realtà.

Ogni previsione economica e politica è in questo momento
difficile. Ma una cosa è certa: solo l’uscita dalla gabbia
europea potrà dare all’Italia la possibilità di riprendersi.
Purtroppo le forze al servizio del blocco eurista hanno potuto
utilizzare a loro vantaggio l’epidemia in corso. La paura è un
potente strumento di dominio. Vedremo fino a che punto sarà
sufficiente a coprire le malefatte della maledetta congrega al
potere.

MANIFESTO PER LA SOVRANITÀ,
LA       DEMOCRAZIA       E
L’AUTODETERMINAZIONE
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In occasione dell’anniversario della ratifica del Trattato di
Maastricht (1 novembre 1993), il nascente partito Italexit con
Paragone, Brexit Party, Génération Frexit e Somos España hanno
sottoscritto il seguente Manifesto.

MANIFESTO      PER   LA   SOVRANITÀ,     LA   DEMOCRAZIA     E
L’AUTODETERMINAZIONE
Le organizzazioni firmatarie, provenienti da vari paesi membri
dell’Unione europea, sottoscrivono la seguente dichiarazione
di principi:
1. 28 anni dopo la firma del Trattato di Maastricht e 63 anni
dopo la firma del Trattato di Roma, l’Unione europea è
diventata una tirannia tecnocratica che opprime gran parte dei
paesi dell’Europa, calpestandone la sovranità e condannandoli
alla deindustrializzazione e alla stagnazione economica. Lungi
dall’unire i popoli d’Europa, l’UE ha seminato discordia tra
di loro. È arrivato il momento di prendere atto
dell’inequivocabile fallimento sociale, economico e politico
dell’UE e dell’euro e di chiedere il conto ai politici che
hanno sostenuto – e continuano a sostenere – il processo di
integrazione sovranazionale.
2. A coloro che decretano la morte dello Stato-nazione,
rispondiamo che la sovranità deve risiedere solo ed
esclusivamente nel popolo, e che non c’è popolo senza nazione.
Questo è in netto contrasto con la natura sovranazionale
dell’Unione europea e delle sue istituzioni antidemocratiche.
Non esiste democrazia senza nazione e l’Unione europea,
indipendentemente dai desiderata degli europeisti, non è uno
Stato-nazione.
3. Il ritorno del ruolo dello Stato-nazione non implica, come
alcuni vorrebbero farci credere, un ritorno alle ostilità e
alle guerre del passato. Questo perché siamo patrioti e non
nazionalisti. Come disse Charles de Gaulle, «un patriota è
colui che ama il suo paese, un nazionalista è colui che odia
il paese degli altri». Vogliamo un’Europa fondata sulla
cooperazione internazionale, sugli scambi culturali e
studenteschi, nonché sul commercio equo tra i paesi. Ma questa
Europa che vogliamo dovrà necessariamente essere costruita al
di fuori dell’Unione europea. Amiamo l’Europa; per questo ci
opponiamo all’Unione europea.
4. A vent’anni dalla sua creazione, l’euro si è dimostrato un
clamoroso fallimento. Soffoca l’economia di molti paesi
europei, contribuisce alla loro deindustrializzazione e
avvantaggia solo un gruppo ristretto di paesi – Germania in
primis. Asseriamo che il diritto di battere la propria moneta
è un attributo fondamentale dello Stato-nazione, alla pari del
controllo dei confini, delle forze armate e dei corpi
diplomatici. Questo è il motivo per cui sosteniamo la
fuoriuscita dei nostri paesi dall’euro (richiesta che le parti
firmatarie che non fanno parte della zona euro sostengono
appieno).
5. Lungi dall’essere una fatalità della storia, il globalismo
– un progetto essenzialmente volto a scindere i processi
economici e politici dal processo democratico, di cui l’UE
rappresenta l’esempio più lampante – non è una realtà
ineluttabile. Asseriamo che è possibile e necessario che gli
Stati riprendano il controllo delle loro economie, nella
misura in cui ogni paese valuterà opportuno. È una questione
di volontà politica. Ma questo richiede dei veri patrioti alla
guida dei nostri paesi, e la liberazione di questi ultimi dai
vincoli dell’UE e dell’euro.
6. I grandi Stati-nazione d’Europa, emersi tra il XVII e il XX
secolo, sono un tesoro da preservare e fanno parte del
patrimonio comune di tutta l’umanità. Questo è il motivo per
cui ci opponiamo alla loro disarticolazione e alla loro
frammentazione in micro-Stati, come aspira surrettiziamente a
fare la politica delle euroregioni. Lo scopo della creazione
di tali micro-Stati è garantire che il rullo compressore del
globalismo non incontri più nessun ostacolo alla sua politica
di soggiogamento dei popoli. Solo gli Stati-nazione possono
resistere all’offensiva globalista. Per questo affermiamo che
la questione della sovranità nazionale è strettamente
collegata a quella dell’unità nazionale.
7. L’Unione europea non può essere riformata. Dalla firma del
Trattato di Roma, abbiamo sentito più e più volte promesse di
“un’altra Europa”, ma questo non si è mai tradotto in fatti
concreti. Per recuperare la sovranità e dunque la democrazia è
necessario abbandonare l’Unione europea e l’euro, e prima è
meglio è.
8. Per tutti questi motivi, ci impegniamo a perseguire
l’obiettivo di far uscire i nostri paesi dalla gabbia
dell’Unione europea (se necessario, per quei paesi che lo
riterranno utile, promuovendo un referendum sull’uscita, come
è stato fatto nel Regno Unito), accelerando così il suo
inevitabile scioglimento.
Organizzazioni firmatarie:
Brexit Party
Italexit con Paragone
Génération Frexit
SOMOS España
Qui il sito dell’appello multi-lingua: eurexit.org

DAL MES AL … SUPER MES

Dal Mes al super-Mes (o Recovery fund)
Per una breve stagione la politica italiana si era
appassionata al Mes. E gli italiani avevano afferrato quale
fregatura fosse. L’oligarchia l’ha capito e ha concluso che
era meglio imbrogliare le carte.
La cupola eurista ha deciso così di fare come con la
Costituzione europea 15 anni fa.
Siccome i referendum in Francia ed Olanda la respinsero, si
trasferirono quei contenuti nel successivo Trattato di
Lisbona, che in quanto tale aggirava la possibilità dei
referendum nazionali.
Adesso hanno fatto la stessa cosa: poiché dopo la Grecia
nessuno vuole il Mes (neppure Cipro!), si sono inventati il
Recovery Fund, che in buona sostanza è un super-Mes mascherato
da buone intenzioni.
Un meccanismo dove al posto delle “condizionalità” del Mes, la
parolina magica è “riforme”. Bisognerà fare le “riforme”, il
che – tradotto dall’europeese – significherà solo una cosa:
nuovi sacrifici, nuovi tagli, nuove tasse.
Hanno già cominciato con le pensioni ma non si fermeranno lì.
La Von der Leyen l’ha già dichiarato a chiare lettere: «finora
ci si allineava volontariamente alle “raccomandazioni”
dell’UE, d’ora in avanti sarà invece un obbligo per accedere
al Recovery Fund».
Solo l’Italexit e la riconquista della sovranità ci
salveranno.
Vieni a Roma per gridarlo con noi il 10 ottobre!
Fonte: Marcia della Liberazione

E’    POSSIBILE   UN’EUROPA
EUROPEA? di Manolo Monereo
Non è facile sfidare i pregiudizi e le cifre. Per meglio dire
i pregiudizi che le cifre pretendono di convalidare. Di nuovo
la vecchia storia: l’Europa ancora una volta ci salva dalla
crisi.

Gli aggettivi sono stati usati senza limiti e parole come
solidarietà, storia e aiuto hanno varcato tutti i confini
conosciuti. L’europeismo è un’ideologia e agisce come un pre-
giudizio che cerca di spiegare la realtà a partire da sé
stesso. Se si aggiungono cifre enormi che hanno poco o nulla a
che fare con l’esperienza delle persone, il discorso chiude il
cerchio che i media sigillano.

Alla fine l’idea che resta è semplice: l’Unione Europea, in
segno di solidarietà, aiuta i Paesi che hanno più sofferto di
Covid19.

La cancelliera Merkel dà una prova insuperabile di saggezza
politica e generosità. La UE — l’unica Europa possibile —
riprende il timone e indica il destino in un mondo duro e
difficile. Siccome questo viene ripetuto mille volte dai
media, e la classe politica lo riafferma all’unanimità e gli
intellettuali lo legittimano, è molto difficile che si
sviluppi un pensiero critico.

A questo va aggiunto qualcosa di tipicamente spagnolo, vale a
dire che questa Europa è un bene in sé, indiscusso e
indiscutibile. In quanto tale, il discorso va escluso dal
dibattito pubblico. Di fatto, diventa una narrazione
disciplinare che tende ad emarginare tutte quelle posizioni
che si oppongono a questo specifico modello di integrazione
europea e alle sue conseguenze geopolitiche, economiche e
sociali.

Date queste premesse, è molto difficile spiegare che i famosi
fondi arriveranno in ritardo (il che ha gravi conseguenze),
che sono insufficienti per l’importanza della crisi economica
e sanitaria, che sono fortemente condizionati e che, ancora
una volta, la sovranità continua ad essere ceduta a organismi
non eletti, senza responsabilità.

Alcuni di noi hanno già scritto su questo, dando opinioni,
cifre e argomenti, ma difficilmente raggiungeranno la
maggioranza e, quel che è peggio, non provocheranno un vero e
plurale dibattito pubblico perché le voci critiche vengono
zittite.

In tempi di crisi, che ancora ci sono e non si sono ancora del
tutto manifestati, il pericolo è sempre quello di aggrapparsi
a vecchie certezze.

Sembrerebbe che l’europeismo sia come l’ultima ideologia, come
l’unico consenso possibile di una Spagna che vede intrecciarsi
una crisi del regime e quella dello Stato e, cosa più grave,
una crisi del futuro.

Al centro la “questione” giovanile che diventa strutturale e
che lega più generazioni. I giovani che avevano 18 o 20 anni
nel 2008 hanno sofferto la crisi e oggi, essendo ancora
giovani, ne subiscono un’altra ancora più grave e dagli esiti
più incerti. La crisi della democrazia in Spagna, che abbiamo
davanti agli occhi e che non vogliamo vedere, è anche
generazionale e richiede un ripensamento di ideali, strategie
e modi di fare e di comunicare la politica.

Europa (che è molto di più che la Ue) va affrontata come
territorio di confronto, di definizione strategica, ponendovi
attorno i grandi problemi politici; ovvero, sovranità
popolare, indipendenza nazionale, giustizia e conflitto
sociale.

Una prima questione è la definizione di cosa sia la UE in
quanto artefatto giuridico-istituzionale.

A mio parere, è un nuovo tipo di sistema di dominio politico
che organizza, amministra e disciplina le classi
economicamente dominanti; garantisce la coerenza dei tuoi
interessi generali; impone una politica economica unica per
l’intera Unione e, ciò che è fondamentale, assicurata dallo
Stato tedesco.

È un’operazione con la volontà di egemonia; poiché alla fine è
sostenuta dal potere politico, è ancorata alla potenza
dominante che è, in questo caso, la Germania. Il concetto di
potere strutturale definisce chiaramente la capacità di questo
Stato di imporre regole del gioco e comportamenti agli attori
statali che finiscono sempre per beneficiarne.

Una seconda questione ha a che fare con la forma-istituzione
della UE.

L’argomento è così obliquo e tuttavia così dibattuto che le
distinzioni tendono a confonderlo piuttosto che a chiarirlo.

I dibattiti sulle sentenze della Corte costituzionale tedesca
ci dicono che siamo entro i limiti di un’organizzazione basata
su Trattati che ha assunto poteri sempre più decisivi e che
tende a diventare una forma-Stato basata su un ordinamento
giuridico che agisce materialmente come costituzione
sovranazionale.

La confusione concettuale è parte di un’operazione che mescola
elementi di confederalità, federalità e sovranità, che la
Corte di giustizia europea interpreta come se fosse una corte
costituzionale convenzionale. Parlare di limiti significa che
l’integrazione ha raggiunto un livello che richiede una
decisione giuridica fondamentale: o spostarsi verso uno Stato
federale o tornare, in un modo o nell’altro, agli Stati
nazione che abbiamo conosciuto fino ad ora.

L’avanzata istituzionale di questa Unione Europea sarà una
fonte permanente di conflitto, degrado delle democrazie
esistenti, rinascita di nazionalismi estremi, indebolimento
delle libertà pubbliche e super-sfruttamento delle classi
lavoratrici.

La terza questione viene sistematicamente evitata in tutti i
dibattiti, eppure è quella decisiva.

Nessuno stato, grande o piccolo, è disposto a dissolversi. Per
quanto s’insista, non c’è un popolo europeo né un Demo
disponibile. Con il progredire dell’integrazione, la
riaffermazione della proprie identità nazionali, delle
sovranità statuali e della democrazia come autogoverno,
aumenta in ciascuno dei paesi, al punto che i diritti vecchi e
nuovi vengono rafforzati difendendo queste aspirazioni. Non è
un caso.

L’artefatto politico-giuridico che la UE stava definendo, ciò
che si stava veramente cercando era quello che Hayek chiamava
federalismo economico; ovvero, privare gli stati della
sovranità economica e rimuovere la politica economica dal
dibattito pubblico, poiché per loro l’unica vera economia è
quella neoliberista.

Parlare di Europa europea, come faceva il vecchio De Gaulle,
non è retorico, è un impegno politico fondamentale.
Ciò che stiamo vivendo da più di 30 anni è una progressiva
“nordamericanizzazione” della nostra vita pubblica; vale a
dire la sostituzione della forma-democrazia costruita negli
Stati europei e che ha il suo motore fondamentale nel
conflitto di classe.

L’integrazione europea ha anche questo lato oscuro che limita
radicalmente la sovranità popolare, il costituzionalismo
sociale, e la politica intesa come capacità di decidere su
modelli economici e sociali differenziati.

L’involuzione politica, il degrado sociale e un aumento
sostanziale delle disuguaglianze vanno di pari passo quando la
democrazia si distacca dalla trasformazione sociale e dalla
lotta per la giustizia. Nordamericanizzazione della vita
pubblica significa democrazia intesa come meccanismo di
selezione delle élite al potere, difenditrice degli interessi
privati ​​e slegata dalla lotta per l’uguaglianza sostanziale.

Non molto tempo fa Oscar Lafontaine ha parlato della necessità
per la UE di ripensare se stessa, di andare avanti su vari
piani e di fare marcia indietro su altri che si stavano
rivelando estremamente dannosi e che dividevano l’Europa.

Nessuno, a questo punto, dubita che l’euro sia mal concepito e
progettato, ha accentuato la differenziazione tra un centro
sempre più potente e periferie sempre più dipendenti; la
separazione tra politica fiscale ed economica e politica
monetaria non è sostenibile ed è all’origine della stagnazione
economica e sociale che sta vivendo l’UE; la concezione della
moneta come semplice mezzo di scambio ignora che si tratta di
un’istituzione sociale che dipende dall’autorità dello Stato.

La natura incompleta dell’euro richiama l’attenzione su un
fatto che ritornerà inevitabilmente a ogni crisi: che non
esiste moneta senza unità economica e fiscale; che l’estrema
eterogeneità socio-economica dei paesi che compongono l’Unione
verrà accentuata, senza un drastico intervento dei poteri
pubblici. Che non esiste moneta senza uno Stato che la imponga
e la garantisca.

L’Unione europea sta abbattendo l’Europa per di più rendendola
impossibile. Il motivo è sempre più chiaro: vogliono costruire
un’Europa senza e contro la sovranità popolare; senza e contro
lo Stato sociale; senza e contro i diritti sociali
fondamentali; senza e contro la politica intesa come
procedura, deliberazione e decisione tra progetti
differenziati. La politica interna ed estera sono sempre
correlate. Non dovrebbe sorprendere, con questi fondamentali,
che con più integrazione europea, più dipendenza dagli Stati
Uniti, maggiore incapacità di intervenire attivamente e
positivamente in un mondo che cambia rapidamente e, cosa più
grave, mancanza di una politica solvibile e autonoma di
alleanze internazionali.

La proposta di un’Europa europea significa costruire un
progetto partendo da ciò che ci rende forti: stato sociale,
sovranità   popolare,   diritti   e  libertà  pubbliche
costituzionalizzati, democrazia economica e sociale. Non
dovrebbero esserci troppi dubbi, nelle condizioni attuali
un’Europa-Stato  sarebbe un’Europa tedesca. Ma questo non
accadrà. Dov’è la chiave? Secondo me, camminare verso
un’Europa confederale. Non si tratta di condividere le
sovranità, ma di rafforzarle; definire politiche comuni e
rafforzare la cooperazione per sviluppare l’autonomia
produttiva, i diritti sociali e la democrazia in ciascuno
degli Stati; un’uscita concordata dall’euro che consenta la
transizione verso economie più egocentriche con una maggiore
capacità di attuare politiche di sviluppo regionale e
industriale. Si potrebbe continuare.

Si dirà che questo non è possibile. Che i grandi stati si
opporranno. Che la destra non accetterebbe un’Europa così
costruita. Allora si può dire solo la verità: che l’Unione
europea è incompatibile con i diritti sociali fondamentali;
che essa si oppone alla sovranità popolare e che è uno
strumento per indebolire le classi lavoratrici e i sindacati.

Che il suo obiettivo finale è porre fine al costituzionalismo
sociale e che, al di là della retorica, ciò che cerca è
un’involuzione storica su larga scala. Non accadrà.

Manolo Monereo

La Parra, 16 agosto 2020

IL PREZZO DEI SOLDI di Piemme

Partiamo da un dato di fatto difficilmente contestabile: se
l’Italia decidesse di alzare i tacchi, verrebbe giù non solo
la moneta unica, ma tutta l’Unione europea.
Così ci spieghiamo i prestiti offerti al nostro Paese e le
concessioni e le deroghe in quanto a Patto di stabilità.
In merito a questi aiuti abbiamo mostrato non solo che sono
poca cosa,ma che sono una gravissima minaccia per l’Italia.
L’abbiamo detto e lo ripetiamo: l’Unione europea sostiene
l’Italia come la corda sostiene l’impiccato.

Fioccano analisi dettagliate degli accordi sottoscritti a
Bruxelles: recovery fund, sure, ecc.
Pochi si soffermano sul dato più importante, quello politico,
lì dove trapela il disegno strategico dell’élite eurocratica e
si annida la vera minaccia.
Lo fa Sabino Cassese in un editoriale pubblicato dal Corriere
della Sera del 21 luglio scorso.
Il Cassese elenca “tre principi essenziali che riguardano il
futuro dell’Unione europea”.
Il terzo è quello che in questo caso ci riguarda. Egli lo
chiama “il potere di distribuire e di controllare l’uso delle
risorse che vengono assegnate agli Stati”.
Sentiamo:

«Una volta dotata del “potere della borsa” [un più potente
bilancio europeo e la capacità di raccogliere fondi propri sul
mercato, NdR], l’Unione deve operare attraverso gli Stati ai
quali vengono trasferiti i fondi europei, assicurandosi, alla
pari di ogni finanziatore (come lo Stato italiano quando
assegna fondi alle regioni) che le finalità per le quali i
fondi sono assegnati vengano rispettate».

Cassese svela quale sia — al netto delle tecnicalità e dei
trabocchetti finanziari, al netto della visione neoliberista
della società — la vera ratio che sottostà al faticoso
compromesso raggiunto a Bruxelles: un passo verso la
trasformazione della Ue in una vera e propria federazione
statuale in cui i tradizionali Stati nazionali sarannono
precipitati al rango di regioni.

Che poi questi Stati mantengano la loro attuale configurazione
non è affatto detto, visto che il passo successivo (previsto)
sulla via dell’Unione federale sarebbe quello di smembrare gli
Stati per rimpiazzarli e rimescolarli nelle cosiddette “macro
regioni”.

Chi ci accusa di essere “nazionalisti” perché ci battiamo
contro questa prospettiva chiediamo: ma come fate a non vedere
che l’Unione che le élite hanno in mente sarebbe un pilastro
mondiale del capitalismo neoliberista e parassitario?

Ma come fate a non vedere che essa è un mostro antipopolare?

Ma come fate a non capire che se vogliono spianare gli Stati
nazionali è perché li considerano ostacoli al loro predominio
totale?

È   MEGLIO   ANDARSENE                                    di
Gianluigi Paragone
Pubblichiamo l’intervista concessa a fine luglio dal Senatore
Gianluigi Paragone a Carlos Garcia Hernandéz e pubblicata il 3
agosto sul sito spagnolo Red Mmt col titolo “La speranza
dell’Europa del Sud”.

D. Perché l’Italia dovrebbe uscire dall’euro e dall’Unione
europea?

R. Perché all’Italia non conviene restare nell’Unione Europea.
All’Italia conviene invece avere una propria valuta a medio e
lungo termine. Inoltre, penso che il progetto UE sia destinato
al collasso, quindi ritengo che sia meglio andarsene.

D. Qual è l’ostacolo principale che ti aspetti di incontrare
nella tua lotta per la sovranità italiana? Hai paura di
possibili ritorsioni se il tuo progetto politico prende
slancio?

R. La mia paura principale è che agli italiani non venga data
l’opportunità di comprendere la mia proposta e che non
capiscano che l’Unione europea è un nemico che li impoverirà.
L’Europa sfrutta le risorse italiane. Il mio scopo è che i
cittadini capiscano perché l’Italia starebbe meglio al di
fuori della UE. Quando i cittadini annegano, l’Europa gli
permette di tenere la testa fuori dall’acqua per respirare,
poi però gliela rimette sotto. Gli italiani sono abituati a
respirare in questo modo e non capiscono che si può respirare
diversamente.

D. Quali passi concreti dovrebbe adottare l’Italia per
abbandonare l’euro e l’Unione europea e quindi stabilizzare
l’economia del Paese?

R. Il primo e più importante passo è un voto democratico e
popolare. Se gli italiani credono che un partito potrà vincere
una simile sfida, non c’è nulla da fare. La UE è stata
costruita dall’alto verso il basso, ma non puoi uscirne senza
il consenso popolare. Nessun partito può pretendere di portar
fuori l’Italia dall’euro e l’Unione europea senza questo
passo. È importante che gli italiani comprendano i pericoli
dell’adesione all’UE.

D. Quali sarebbero le principali differenze tra Brexit e
Italexit? Pensi che il percorso dell’Italia verso la sua
sovranità sarà più difficile di quello del Regno Unito?

R. La prima differenza è che il Regno Unito ha conservato la
sua valuta mentre l’Italia è nella zona euro. Questa è la
principale difficoltà. La seconda differenza macroscopica è di
natura culturale e costituzionale. Noi siamo una democrazia
costituzionale, il Regno Unito no. La Costituzione italiana è
una miscela perfetta di tre grandi tradizioni: socialismo,
cattolicesimo rispettoso dei diritti dei cittadini e
liberalismo (non neoliberismo). Il liberalismo consente la
proprietà privata, ma sempre nei limiti della Costituzione.
Sebbene le tradizioni del Regno Unito e dell’Italia siano
diverse, entrambe condividono interessi comuni e sono al di
fuori di quanto stabilito dall’UE.
D. Immaginiamo di essere il giorno dopo le prossime elezioni
in Italia e che Gianluigi Paragone è il nuovo presidente del
Consiglio dei Ministri. Cosa succederebbe da quel momento?
Quali sarebbero le pietre miliari fondamentali durante il
mandato di Gianluigi Paragone?

R. Una situazione del genere significherebbe che il mio
partito avrebbe vinto le elezioni grazie alla chiara volontà
degli elettori. Ogni azione politica presuppone una dimensione
dialettica. Lasciare l’euro o l’UE non è un problema
muscolare. L’UE non agirebbe nel proprio interesse se non si
confrontasse con un paese che, non attraverso un referendum,
ma attraverso elezioni libere, ha deciso di lasciare l’UE
perché è un progetto in cui non crede più.
Quindi ci sarebbero due possibili scenari. Nel primo caso, i
trattati con la UE dovrebbero essere rinegoziati in modo
intelligente e sempre con il chiaro obiettivo di lasciare la
UE. Il secondo scenario è quello in cui non viene raggiunto un
accordo. Quindi la UE non dovrebbe stupirsi se l’Italia opterà
per un piano B, uscendo in modo non negoziato.

D. Hai difeso pubblicamente la Teoria monetaria moderna (Mmt).
Che ruolo avrebbe la Mmt nel tuo governo? Contempli un’Italia
in cui, grazie alla sovranità monetaria, si raggiunga la piena
occupazione senza inflazione, come proposto da Bill Mitchell,
Pavlina Tcherneva e il resto degli economisti della Mmt?

R. Per me è essenziale che la classe dirigente non conduca i
cittadini alla povertà, a causa di una crisi. Tuttavia, questo
è precisamente l’obiettivo delle élite della UE, che ha
approfittato della crisi per impoverire i cittadini. La piena
occupazione è una condizione primaria per me. Va ricordato che
il primo articolo della Costituzione italiana afferma che
“l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.
Pertanto, i Padri della Costituzione hanno capito che la piena
occupazione è un obiettivo fondamentale. Il lavoro è un
diritto di cittadinanza, non qualcosa che viene concesso come
un favore. Lo stato deve garantire l’accesso al lavoro. Oggi i
diritti dei lavoratori sono trascurati e in Europa i
lavoratori italiani sono i più sfruttati. Ecco perché i salari
italiani sono stati svalutati. Da parte sua, lo Stato dice ai
cittadini che devono indebitarsi affinché il loro stipendio
abbia più valore. In altre parole, ti tolgono i diritti del
lavoro, ma in cambio ti danno la possibilità di indebitarti,
sostenendo che i tassi di interesse sono favorevoli a coloro
che si indebitano. Noi diciamo invece che coloro che si
indebitano rinunciano alla loro libertà.
La Mmt è una prospettiva importante per raggiungere
l’obiettivo primario della piena occupazione. E’ uno strumento
che funge da officina meccanica in cui riparare la macchina
economica al fine di raggiungere gli obiettivi che ci siamo
prefissati.

D. Quali sono i tuoi parametri di riferimento in politica
economica e ideologicamente? Ti chiedo questo perché ci sono
molte persone che non sanno dove collocarti nello spettro
politico. Ti consideri un uomo di sinistra o di destra?

R. Quando un imprenditore cerca di non essere schiacciato da
una multinazionale, non chiede la tessera di sinistra o di
destra. Quando un lavoratore si lamenta perché i suoi diritti
sul luogo di lavoro non vengono rispettati e perché viene
sfruttato dal sistema economico, a lui non importa se sei a
sinistra o a destra, ciò che ti chiede è se sei disposto a
lottare per i suoi diritti. Ecco perché i diritti
dell’imprenditore e del lavoratore trovano un punto di unione
nella Costituzione italiana, poiché la Costituzione italiana
non legittima la classe politica per attaccare i lavoratori,
distruggendo il loro lavoro ed i loro diritti. Scopo della mia
proposta politica è di recuperare il vero obiettivo della
Costituzione italiana. Per me è essenziale recuperare lo
spirito della Costituzione, che si basa su ideali socialisti,
cattolici e liberali. Nell’ambito della Costituzione vi è
spazio per la libertà di impresa, ma l’articolo 36 chiarisce
come deve essere remunerato il lavoratore. I padri della
Costituzione non litigavano sulla questione su chi dovesse
guadagnare più o meno soldi, ma si chiedevano invece come
scrivere la migliore Costituzione possibile con l’obiettivo di
trovare un equilibrio ottimale nella vita degli italiani.

D. Tuttavia, ho letto le proposte del Manifesto Italexit e non
ne ho trovato nessuna che non possa essere considerata di
sinistra.

R. Questo perché sono proposte socialiste. Tuttavia, queste
proposte potrebbero anche appartenere al meglio del
cattolicesimo, quando nella sua età d’oro ha combattuto per le
piccole imprese. Probabilmente i peggiori attacchi alla classe
operaia provengono da partiti di sinistra da quando hanno
adottato il neoliberismo. Tu segnali il senso socialista [del
Manifesto Italexit], ma in quelle proposte sono anche espressi
il sentire e le opinioni di liberali e cattolici. Questo è ciò
che è necessario oggi, dare al lavoratore la garanzia che non
sarà in balia dei mercati e dando all’imprenditore italiano la
garanzia che il pesce piccolo non sarà inghiottito dal pesce
grosso delle multinazionali. Oggi l’imprenditore deve
sopportare le peggiori pressioni fiscali, il peggio della
burocrazia e il peggio della globalizzazione, mentre le
multinazionali divorano l’inventiva dei piccoli imprenditori.
Questo mi sembra profondamente ingiusto. Cattolicesimo,
socialismo e liberalismo sono funzionali all’economia reale se
sono tutti incorporati insieme, non si può vivere sotto una
legge marziale permanente.

D. Come immagini l’Italia tra 10 anni?

R. Se continuiamo con le stesse politiche fin qui seguite,
l’Italia sarà più povera, più umiliata, messa in svendita
attraverso aste e liquidazioni. Ma questo non è solo il caso
in Italia. L’Italia è un paese molto forte, ma la crisi
interesserà l’intero Mediterraneo e lo spazio politico europeo
non presta attenzione ai paesi che quelli del Nord chiamano
PIIGS.
D. Qual è il rapporto che l’Italia deve mantenere con il resto
dell’Europa? L’Unione europea dovrebbe essere sostituita da un
altro organismo europeo o sarebbe meglio dimenticare l’intero
progetto?

R. Il progetto UE è un progetto che, secondo gli attuali
trattati, non prenderò in considerazione né proverò a
correggere. Tuttavia, l’Italia è un paese che, come altri
paesi sovrani, potrebbe essere un attore importante in una
nuova Europa di tipo confederale in cui i pieni poteri siano
nelle mani dei capi di stato. Saranno loro a decidere le
politiche economiche non i mercati.

D. Una volta raggiunta la piena sovranità, quali sono le
principali sfide per l’Italia?

R. Lo Stato dovrebbe impadronirsi di una parte del debito
pubblico che è ora nelle mani di mercati speculativi. Lo Stato
deve tornare ad essere uno stato forte con il potere di
affrontare le tempeste nei mercati finanziari e nella
globalizzazione. L’Italia deve avere uno Stato che sta dalla
parte degli imprenditori e dei lavoratori e che sappia che le
piccole cose sono importanti. Partiamo dal concetto che il
piccolo è prezioso. Questa è la base della nostra storia,
fatta di borghi e villaggi che sfidavano le grandi famiglie.
Oggi, l’idea che il piccolo sia prezioso si sta perdendo.
Questa perdita è un grosso errore. Piccolo dà un valore
aggiunto all’Italia. Piccolo è la forza di uno stato vincente.

* Fonte: Red Mmt
** Traduzione dalla spagnolo a cura di SOLLEVAZIONE
VAROUFAKIS: CON IL RECOVERY
FUND FARETE LA FINE DELLA
GRECIA

                                                 Varoufakis,
come tante volte abbiamo ricordato, è un convinto
“altreuropeista”, non punta certo a smontare la gabbia della
Ue.
A maggior ragione è importante quanto sostiene in questa
intervista.

Quale giudizio dà dell’intesa in Consiglio europeo sul ‘Next
generation Eu’?

Questo accordo verrà ricordato come un’altra grande sconfitta
per l’Unione Europea.

Anche questo?

Sì. Primo, è un accordo che di fatto seppellisce gli eurobond,
un piano preparato da Berlino per uccidere gli eurobond
proposti dall’Italia, dalla Spagna, dalla Francia e gli altri
paesi più colpiti dal covid. Si tratta di un fondo
insignificante dal punto di vista macroeconomico.

Sono 750 miliardi di euro.

Insignificante. Lo spiegherò nei termini dell’economia
italiana. La vostra economia subirà un calo del pil del 15 per
cento, roba pazzesca. L’anno prossimo Bruxelles sarà spinta da
Berlino a fare pressione sul governo italiano per
riequilibrare il bilancio. E anche se nel 2021 ci sarà il
recovery fund, non sarà sufficiente per eliminare il deficit
di bilancio. Magari potrà portarlo a -8 per cento, ma non di
più. Per riequilibrare il bilancio dovrete sottostare a ferree
regole di austerity.

Però il Patto di stabilità e crescita è stato sospeso
all’inizio della pandemia.

L’hanno sospeso per quest’anno. Io sto parlando dell’anno
prossimo e l’anno prossimo lo riattiveranno. L’eurogruppo
dell’11 giugno ne ha discusso.

Lei è sicuro che l’anno prossimo sarà riattivato.

Vedrà. Ecco perché i cittadini italiani, spagnoli, greci e
finanche i tedeschi dovrebbero considerare questo accordo come
una grande sconfitta per l’Europa. E poi c’è una cosa di cui i
media in Italia e anche in Grecia non parlano.

Cosa?

Prendiamo gli Stati dovranno ripagare una parte del costo
totale del recovery fund. La Commissione europea non ha soldi.
I soldi che darà a Italia, Spagna, Grecia saranno presi in
prestito su garanzia degli Stati. Più del 50 per cento del
prestito deve essere conteggiato nel debito italiano e deve
essere restituito, seppure nel giro di molti anni. Quindi
penso che gli Stati europei non avrebbero dovuto avviare una
discussione sul recovery fund ma sulla sospensione del Patto
di stabilità e crescita a tempo indeterminato. Invece di
discutere di questo punto che è cruciale, si sono messi a
discutere di miliardi di euro che non risolveranno il problema
e non addrizzeranno la direzione di marcia filo-austerity.
Così si creerà maggiore tensione.

Non ci sono gli eurobond, ma c’è un embrione di debito comune.

Si può anche dire che il fondo sia una prima mossa verso un
debito comune, ma vorrei ricordare che si tratta di una ‘una
tantum’, è uno strumento di debito comune a tempo, da non
ripetere, per avere soldi freschi che non risolveranno la
crisi e faranno crescere l’euroscetticismo sia in Italia che
in Olanda, sia in Grecia che in Germania. Questo accordo ha
ucciso l’idea di una unione fiscale con l’arma di un piccolo
acconto di debito comune.

Che pensa della parte sulle risorse proprie? Web tax, carbon
tax non sono approfondite nel testo.

Rispondendo ricordando una ‘coincidenza’. Hanno nominato il
ministro delle Finanze irlandese Donohoe come presidente
dell’Eurogruppo proprio negli stessi giorni in cui la
Commissione europea ha perso la sua battaglia in Corte di
giustizia europea contro Apple, accusata di aver beneficiato
di un regime fiscale agevolato in Irlanda. E’ questa la
risposta alla sua domanda: ci stiamo muovendo nella direzione
sbagliata. L’elezione del ministro delle finanze irlandese a
presidente dell’Eurogruppo, il potere crescente dell’olandese
Rutte che governa un paradiso fiscale al centro dell’Europa,
la forza di un altro paradiso fiscale come il Lussemburgo.
Tutto questo ci dice che mai si metteranno d’accordo su nuove
risorse proprie per ripagare questo debito.

Perchè Rutte, pur premier di un piccolo Stato membro come
l’Olanda è riuscito a imporsi così tanto nelle trattative?

Dalla mia passata esperienza nella crisi del debito greca,
posso dire che il ministro tedesco non parlava mai per primo.
Prima, parlava lo sloveno o il lituano contro la
mutualizzazione del debito, a favore dell’austerity. Poi
parlava l’olandese e aumentava il volume a favore
dell’austerity. E poi interveniva il tedesco cercando di
apparire come la voce sensata tra i primi due. Ma tutti
sapevamo che le indicazioni rigoriste arrivavano da Berlino.
Era solo coreografia.

Crede che ancora adesso arrivino da Berlino?

Naturalmente. Una telefonata di Merkel e Rutte avrebbe chiuso
il becco.

Ma c’è qualcosa di positivo in questo accordo?

Se si guarda ai tagli agli investimenti ‘verdi’, ai fondi
destinati alla ricerca, alla scelta di aumentare i ‘rebates’
per i frugali è davvero molto difficile trovare qualcosa di
positivo. Ma siccome dobbiamo cercare la speranza nel buio,
posso dire che l’idea di debito comune è in qualche modo presa
in considerazione anche se in una modalità negativa. E poi
dobbiamo sforzarci magari di pensare che il covid unisca
l’Europa meglio di quanto sappiano fare i politici. Forse così
possiamo estrarre un po’ di speranza da tutta questa cecità.

* Fonte: huffingtonpost.it

DICHIARAZIONE INTERNAZIONALE:
Contro il neoliberismo, dopo
l’Unione europea
Pubblichi
amo un’importante dichiarazione politica sottoscritta oltre
che da diverse organizzazioni e associazioni politiche
europee, anche da molti militanti e intellettuali — in fondo
alla dichiarazione i primi firmatari. Questa dichiarazione è
stata sottoscritta, tra gli altri, da MPL-P101.

CONTRO IL NEOLIBERISMO, DOPO L’UNIONE EUROPEA

La pandemia da Covid-19, avendo scatenato la “tempesta
perfetta”, è uno spartiacque storico. Il vaso di Pandora si è
aperto, tutti i mali cronici del sistema capitalistico
iperfinanziarizzato sono venuti alla luce. Sull’umanità
aleggia lo spettro della “stagnazione secolare”. Col tramonto
della globalizzazione neoliberista entriamo in un periodo di
grandi turbolenze e catastrofi sociali le quali possono aprire
delle nuove opportunità di cambiamento In questo quadro il
rischio di uno scontro tra i partigiani del potere popolare e
quelli di un regime autoritario è nell’ordine delle cose. Gli
sconvolgimenti travolgeranno gli attuali equilibri
geopolitici, col rischio di un cataclisma devastante tra le
grandi potenze.

L’Unione europea, a causa delle sue fragilità strutturali e
delle sue contraddizioni interne, non resisterà al terremoto
mondiale in arrivo. La pandemia da Covid-19 ha infatti messo a
nudo la totale incapacità dell’Unione di far fronte
all’emergenza, la sua incapacità a riformarsi. Nonostante sia
evidente l’insostenibilità delle sue rigide regole
ordoliberiste, la Germania, che è il dominus dell’Unione e non
ha mai smesso di agire pro domo sua, si ostina invece a
difenderle, anzitutto a danno dei paesi mediterranei —
nonostante essi rischino di sprofondare nell’abisso. Questo ci
dice la recente sentenza della Corte costituzionale tedesca.

Nessuna traccia di eurobond, cioè di mutualizzazione del
debito. Gli strumenti concepiti per sostenere questi paesi
(Bei, Sure, Esm) sono come la corda sostiene l’impiccato. Si
tratta infatti di prestiti, di nuovo debito per stati i cui
titoli sono già considerati quasi spazzatura. Peggio ancora:
per accedere a questi prestiti queste nazioni dovranno
accettare severe condizioni che includono la possibilità di
essere posti sotto regime di protettorato e di stretta
sorveglianza. Ciò sottoporrà questi paesi, in primo luogo
l’Italia, a tensioni sociali e politiche formidabili, tensioni
che potrebbero spingerli sulla via dell’uscita dalla gabbia
dell’euro.

Questa fuga in avanti dell’Unione europea non è che un modo
per prolungare l’agonia. Il cosiddetto e aleatorio Recovery
fund non cambierà niente. Non è un’alternativa la proposta di
Mario Draghi di consentire alla Bce di funzionare come tutte
le altre banche centrali (agendo cioè come un prestatore di
ultima istanza, così da creare l’enorme liquidità necessaria
allo scopo di rimettere in moto l’economia). Questa proposta,
concepita nel quadro del rispetto di una visione liberista
classica, sarebbe pur sempre moneta a debito. La banca
centrale dovrebbe finanziare gli stati usando i canali delle
banche private, stati che poi dovrebbero rimborsare i prestiti
accollandosi i fallimenti del settore privato. Il principio è
noto: pubblicizzazione delle perdite e privatizzazione dei
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