L'INFONDATA LEGGENDA DEL - RECOVERY FUND di Leonardo Mazzei - sollevazione
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L’INFONDATA LEGGENDA DEL RECOVERY FUND di Leonardo Mazzei La leggenda secondo cui il Recovery Fund avrebbe cambiato l’Europa, ponendo fine all’austerità per iniziare un nuovo periodo di espansione economica, è una clamorosa bufala. Una gigantesca fake news, per chi ama gli anglicismi. Chi scrive non ha mai avuto dubbi sul punto, ma adesso ci giunge in aiuto un’attenta analisi del professor Gustavo Piga sulla Nota di Aggiornamento del Def (Nadef). Premesso che in tempo di Covid i numeri contenuti nei documenti previsionali valgono quel che valgono, cioè quasi nulla, resta però interessante lo schema di ragionamento che il decisore politico ha posto come cornice al quadro previsionale. Mentre i numeri sono destinati ad essere smentiti, riaggiornati e rismentiti, quello schema di
ragionamento resta invece la traccia indelebile di una precisa impostazione politica: quella degli euroinomani impenitenti, che scrivono di “espansione” anche quando sanno benissimo che avremo invece la solita austerità. Tra questi adoratori del “Dio Europa” il ministro Gualtieri non è l’ultimo arrivato. Ecco così la sua Nadef 2020, come sempre co-firmata col Presidente del consiglio Giuseppe Conte. Su di essa il giudizio di Gustavo Piga è stroncante. Diamo la parola a Piga «La manovra economica del governo che pare espansiva e invece non lo è», questo il titolo chilometricamente liquidatorio del suo articolo. E non lo è – spiega Piga – proprio perché il tanto sbandierato Recovery Fund verrà utilizzato in tutt’altro modo. Probabilmente perché, questo lo aggiungiamo noi, non potrebbe essere diversamente proprio in virtù delle clausole previste da quel fondo, tanto decantato dai media quanto volutamente sconosciuto nei suoi meccanismi essenziali. Vediamo allora le riflessioni di Gustavo Piga, partendo dall’inizio del suo articolo: «Il nostro Paese ha ed avrà ancora di più nei prossimi mesi un bisogno immenso di crescita economica. Non solo per mantenersi stabile socialmente ma anche finanziariamente: una crescita solida è senza dubbio l’unico modo credibile per garantire infatti anche la discesa del rapporto debito pubblico su PIL. Il Recovery Fund doveva raggiungere proprio questo fine, dare garanzia di stabilità sociale e finanziaria, tramite il finanziamento di maggiori investimenti pubblici. Ma qualcosa sembra non stia funzionando perfettamente, almeno se consultiamo il documento fondamentale per capirne di più, la Nota di Aggiornamento al DEF recentemente pubblicata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Questa include infatti tre informazioni chiave: la posizione per il 2021-2023 del Governo stabilita
con il DEF in aprile, gli effetti aggiuntivi della manovra per il 2021 sul triennio e, infine, il contributo per gli anni 2021-23 dei fondi europei del Recovery. L’analisi complessiva di queste tre dimensioni ci dice della posizione fiscale del Governo e di come questa impatta sull’economia». Fatta questa premessa, Piga passa ad esaminare i numeri del Recovery Fund così come tradotti nelle previsioni programmatiche della Nadef: «Cominciamo subito dalla questione dei fondi europei – più semplice da capire ma anche capace di sollevare perplessità – che si suddividono in trasferimenti a fondo perduto e in prestiti a tassi vantaggiosi. I primi sono pari a 14, 20 e 28 miliardi nel triennio a venire: 0,8%, 1% e 1,5% di PIL circa. L’effetto stimato, ancora per il triennio, di crescita economica in più è pari rispettivamente a 0,3%, 0,4% e 0,8%, con un moltiplicatore della crescita da parte della spesa pubblica inferiore dunque allo 0,5. Numero che non è foriero di buone notizie: da un moltiplicatore degli investimenti pubblici ci si aspetta che sia almeno pari ad 1, e un valore così basso non può che voler dire che i fondi UE a fondo perduto non verranno tutti spesi là dove l’impatto è maggiore per la crescita, nell’accumulazione di capitale fisico ed immateriale, ma piuttosto in mille rivoli e trasferimenti». Bene Piga, ma il “fondo perduto” non esiste La denuncia di Piga è chiara ed incontestabile: non c’è nessuna politica espansiva alle porte, né il Recovery Fund segnerà quell’uscita dall’austerità tanto propagandata dai media. Piga ha dunque il merito di svelare – numeri alla mano – la situazione reale dell’Italia reale, così come esce dalle stesse carte previsionali del governo. Un governo che, con i numeri di quelle carte, smentisce anzitutto se stesso, le sue promesse, le roboanti dichiarazioni dei suoi esponenti di punta.
Tuttavia Piga commette un grave errore, quello di parlare di inesistenti «trasferimenti a fondo perduto». Un errore che ne porta con sé un altro: quello di attribuire all’impiego di questi trasferimenti un moltiplicatore sul Pil inspiegabilmente basso, a suo avviso dovuto ad una dispersione in mille rivoli dei fondi in questione. Ma è davvero questa la causa? O non sarà, piuttosto, che la Nadef – pur senza dichiararlo – tiene già conto del fatto che l’Italia dovrà contribuire a finanziare gli stessi fondi di cui poi usufruirà? A me pare che la spiegazione di un moltiplicatore talmente basso da risultare irrealistico, per altro indicato in un documento che in genere chi governa tende sempre ad improntare in maniera fin troppo ottimistica, non si spieghi altrimenti. Ed i numeri ce lo confermano. Abbiamo già visto come la Nadef preveda l’utilizzo delle cosiddette “sovvenzioni” del Recovery Fund per complessivi 62 miliardi nel triennio a venire, circa 3,3 punti di Pil, cui corrisponderebbe invece un incremento della crescita economica di un solo punto e mezzo. L’arcano sta nel fatto che il “fondo perduto” proprio non esiste, mentre esiste una sorta di partita di giro con la quale gli Stati con una mano vengono “sovvenzionati”, mentre con l’altra restituiscono all’UE una cifra complessivamente equivalente. Il documento “Finanziare il piano di ripresa per l’Europa“, elaborato dalla Commissione Europea, spiega come verrà finanziato il Recovery Fund. Pur auspicando l’aggiunta di nuove tasse europee, a Bruxelles si sono tutelati con una norma secca e chiara: «Per garantire un margine di manovra adeguato, la Commissione propone di modificare la decisione sulle risorse proprie, il testo giuridico che stabilisce le condizioni per il finanziamento del bilancio dell’UE, per consentire l’assunzione di prestiti e aumentare di 0,6 punti percentuali il massimale delle risorse proprie in via eccezionale e
temporanea. Questo aumento delle risorse proprie va ad aggiungersi al massimale permanente delle risorse proprie di 1,4 % dell’RNL proposto tenendo conto delle incertezze economiche e della Brexit». A scanso di equivoci lo stesso documento precisa che: «Il massimale delle risorse proprie determina l’importo massimo delle risorse in un dato anno che possono essere richieste agli Stati membri per finanziare la spesa dell’UE». Dunque il massimale verrà portato dall’1,4% dell’Rnl (Reddito nazionale lordo) di ciascuno Stato al 2%. Per l’Italia significa un aggravio di circa 11 miliardi annui, equivalenti a 33 miliardi nel triennio. Trentatre miliardi da succhiare dalle casse dello Stato, sottraendoli dunque ad altri utilizzi (spesa od investimenti) dello stesso. Ecco allora che i 62 miliardi della Nadef diventano al massimo 29. Il che spiega abbondantemente il modesto incremento quantificato dal governo sul Pil. Se l’aumento di spesa effettivo è quello da noi calcolato, il moltiplicatore non sarebbe più sotto allo 0,5, bensì leggermente superiore ad 1. Il che appare assai più ragionevole Tutto questo sempre nel “fortunato” triennio 2021-23, perché in quello successivo (2024-26) le cose potrebbero peggiorare drasticamente. Come si legge a pagina 12 della Nadef, le sovvenzioni in quel triennio caleranno infatti a soli 13,4 miliardi, mentre l’uscita aggiuntiva dello Stato (direzione Bruxelles) potrebbe restare a quota 33 miliardi. Insomma, una cuccagna! Se così andranno le cose – e questo ci dicono le carte – il famoso “fondo perduto” ammonterebbe a soli 9,4 miliardi in 6 anni, pari ad un miliardo e mezzo all’anno! Una miseria – peraltro tutta da vedere, vista la possibilità di una serie di tassazioni aggiuntive -, ma ad ogni modo più che compensata dalle stringenti condizioni cui verrà incatenato il nostro
Paese. E i prestiti? Fin qui abbiamo parlato delle cosiddette “sovvenzioni”, sperando che si sia almeno capita una cosa: che nella sostanza il “fondo perduto” proprio non esiste, che per l’Italia ci saranno al massimo delle miserevoli briciole, del tutto irrilevanti dal punto di vista macroeconomico. Ma il Recovery Fund prevede anche i prestiti, che per il nostro Paese sono peraltro la parte prevalente. Un totale di 127,6 miliardi, la maggior parte da utilizzarsi nel triennio 2024-26. Inutile dire – qui l’inganno semantico non può funzionare come con le “sovvenzioni” – che i prestiti andranno restituiti. Poiché la Nadef arriva solo fino al 2023, Piga non può far altro che analizzare l’impatto di questi prestiti soltanto sul primo triennio. Ed il suo giudizio è tombale: «Passiamo ai prestiti a tassi vantaggiosi: essi sono pari a 11, 17,5 e 15 miliardi di euro. Una bella cifra. Purtroppo una buona parte di questi non andranno a finanziare nuovi progetti di investimenti ma a sostituire il finanziamento in deficit da parte del Tesoro di spese già previste. Effetto addizionale dunque nullo, se non per un minuscolo risparmio di spesa per interessi. Qualcuno potrebbe dire che vanno a finanziare comunque maggiori investimenti pubblici già previsti da questo Governo, ma il DEF di aprile non lascia scampo nemmeno a questo riguardo: l’aumento di investimenti pubblici dal 2020 è di 3 miliardi per il 2021, altri 3 in più per il 2022 ed un calo di 1 miliardo nel 2023. Bazzecole, se pensiamo alla crisi in cui ci dibattiamo». Queste affermazioni trovano puntuale riscontro in quel che si legge a pagina 11 della Nadef:
«I prestiti… non si tradurranno in un equivalente aumento dell’indebitamento netto in quanto potranno in parte sostituire programmi di spesa esistenti (anche corrente) e in parte essere compensati da misure di copertura. La porzione di prestiti che si traduce in maggior deficit è determinata per ciascun anno secondo gli obiettivi di indebitamento netto illustrati più oltre». Qui l’aspetto principale da cogliere, quello che taglia la testa al toro di ogni retorica europeista, è che i prestiti nulla aggiungeranno alle prospettive economiche del Paese. Trattandosi di debiti, da contabilizzarsi come tali, prendere soldi in prestito dall’UE non sarà per nulla diverso dal prenderli sui mercati finanziari con la normale emissione di titoli. Con il piccolo particolare che l’UE ci imporrà pure come spenderli! Una trappola ben congegnata ai danni dell’Italia, che solo i piddini possono vendere come un affarone. Conclusioni Arriviamo adesso ad alcune conclusioni. Molte sarebbero le cose da dire ancora sul Recovery Fund. Una su tutte la tendenza di alcuni Stati (Spagna in primis) a non volere più i prestiti di questo fondo. Ma ancora più importante è capire le ragioni politiche del perché di tanta insistenza affinché gli Stati mediterranei siano costretti a ricorrervi. Un’insistenza che in Italia arriva perfino all’invocazione piddina, mediatica e confindustriale a favore del Mes. Per non farla troppo lunga torneremo su questi temi in un prossimo articolo, per provare a comprendere oltre al trucco economico (di cui qui ci occupiamo) anche quello politico. Adesso torniamo invece al professor Piga, più esattamente alle conclusioni del suo articolo.
«C’è un ultimo aspetto che va considerato, e che rimane quello più importante. Questa manovra è stata “venduta” come manovra espansiva, di supporto all’economia. Ma lo è solo rispetto a quanto deciso in primavera nel DEF; se guardiamo piuttosto alle scelte complessive del Governo, includendo quelle decisioni, vediamo che – in tempi di Covid! – la posizione del Governo rimane molto restrittiva. Meno austera di qualche mese fa, ma pur sempre molto austera». L’austerità dunque prosegue. In forme nuove, dato che con l’attuale crisi il rispetto dei vincoli formali del Fiscal compact non potrebbe chiederli neppure un Valdis Dombrovskis, ma prosegue. Detto questo, la conclusione di Piga è pienamente sottoscrivibile: «Insomma, invece di confermare e stabilizzare il deficit al livello odierno per tutto il triennio e utilizzarne le risorse per fare investimenti pubblici e invece di dedicare le risorse europee a massimizzare i progetti che generano crescita, ci ritroviamo con una programmazione austera e male allocata, in quella che è la maggiore crisi economica del dopoguerra. E perché mai? Per quanto riguarda l’austerità è semplice, basta tornare ai numeri finali del 2023, quell’avanzo primario in pareggio e quel deficit su PIL che tocca la soglia “critica” del 3% del PIL su cui si è costruita la logica del mai abolito e austero Fiscal Compact. Non sono infatti numeri casuali: sono frutto di quella promessa che il Governo italiano ha fatto, implicita nell’accordo sottostante al Recovery Fund, che l’Italia accede a questi fondi purché … si cimenti nell’austerità richiesta dall’Europa appena fuori dal Covid. Con una mano si dà, con l’altra si leva. Cosa si leva? La crescita». Che dire? La leggenda di un Recovery Fund virtuoso e risolutivo è oramai smascherata. Solo la disastrata politica
italiana può ancora far finta che così non sia. Una faccia tosta che prima o poi dovrà fare i conti con la realtà. Ogni previsione economica e politica è in questo momento difficile. Ma una cosa è certa: solo l’uscita dalla gabbia europea potrà dare all’Italia la possibilità di riprendersi. Purtroppo le forze al servizio del blocco eurista hanno potuto utilizzare a loro vantaggio l’epidemia in corso. La paura è un potente strumento di dominio. Vedremo fino a che punto sarà sufficiente a coprire le malefatte della maledetta congrega al potere. MANIFESTO PER LA SOVRANITÀ, LA DEMOCRAZIA E L’AUTODETERMINAZIONE
In occasione dell’anniversario della ratifica del Trattato di Maastricht (1 novembre 1993), il nascente partito Italexit con Paragone, Brexit Party, Génération Frexit e Somos España hanno sottoscritto il seguente Manifesto. MANIFESTO PER LA SOVRANITÀ, LA DEMOCRAZIA E L’AUTODETERMINAZIONE Le organizzazioni firmatarie, provenienti da vari paesi membri dell’Unione europea, sottoscrivono la seguente dichiarazione di principi: 1. 28 anni dopo la firma del Trattato di Maastricht e 63 anni dopo la firma del Trattato di Roma, l’Unione europea è diventata una tirannia tecnocratica che opprime gran parte dei paesi dell’Europa, calpestandone la sovranità e condannandoli alla deindustrializzazione e alla stagnazione economica. Lungi dall’unire i popoli d’Europa, l’UE ha seminato discordia tra di loro. È arrivato il momento di prendere atto dell’inequivocabile fallimento sociale, economico e politico dell’UE e dell’euro e di chiedere il conto ai politici che hanno sostenuto – e continuano a sostenere – il processo di integrazione sovranazionale. 2. A coloro che decretano la morte dello Stato-nazione, rispondiamo che la sovranità deve risiedere solo ed esclusivamente nel popolo, e che non c’è popolo senza nazione. Questo è in netto contrasto con la natura sovranazionale dell’Unione europea e delle sue istituzioni antidemocratiche. Non esiste democrazia senza nazione e l’Unione europea, indipendentemente dai desiderata degli europeisti, non è uno Stato-nazione. 3. Il ritorno del ruolo dello Stato-nazione non implica, come alcuni vorrebbero farci credere, un ritorno alle ostilità e alle guerre del passato. Questo perché siamo patrioti e non nazionalisti. Come disse Charles de Gaulle, «un patriota è colui che ama il suo paese, un nazionalista è colui che odia il paese degli altri». Vogliamo un’Europa fondata sulla cooperazione internazionale, sugli scambi culturali e studenteschi, nonché sul commercio equo tra i paesi. Ma questa Europa che vogliamo dovrà necessariamente essere costruita al di fuori dell’Unione europea. Amiamo l’Europa; per questo ci opponiamo all’Unione europea. 4. A vent’anni dalla sua creazione, l’euro si è dimostrato un
clamoroso fallimento. Soffoca l’economia di molti paesi europei, contribuisce alla loro deindustrializzazione e avvantaggia solo un gruppo ristretto di paesi – Germania in primis. Asseriamo che il diritto di battere la propria moneta è un attributo fondamentale dello Stato-nazione, alla pari del controllo dei confini, delle forze armate e dei corpi diplomatici. Questo è il motivo per cui sosteniamo la fuoriuscita dei nostri paesi dall’euro (richiesta che le parti firmatarie che non fanno parte della zona euro sostengono appieno). 5. Lungi dall’essere una fatalità della storia, il globalismo – un progetto essenzialmente volto a scindere i processi economici e politici dal processo democratico, di cui l’UE rappresenta l’esempio più lampante – non è una realtà ineluttabile. Asseriamo che è possibile e necessario che gli Stati riprendano il controllo delle loro economie, nella misura in cui ogni paese valuterà opportuno. È una questione di volontà politica. Ma questo richiede dei veri patrioti alla guida dei nostri paesi, e la liberazione di questi ultimi dai vincoli dell’UE e dell’euro. 6. I grandi Stati-nazione d’Europa, emersi tra il XVII e il XX secolo, sono un tesoro da preservare e fanno parte del patrimonio comune di tutta l’umanità. Questo è il motivo per cui ci opponiamo alla loro disarticolazione e alla loro frammentazione in micro-Stati, come aspira surrettiziamente a fare la politica delle euroregioni. Lo scopo della creazione di tali micro-Stati è garantire che il rullo compressore del globalismo non incontri più nessun ostacolo alla sua politica di soggiogamento dei popoli. Solo gli Stati-nazione possono resistere all’offensiva globalista. Per questo affermiamo che la questione della sovranità nazionale è strettamente collegata a quella dell’unità nazionale. 7. L’Unione europea non può essere riformata. Dalla firma del Trattato di Roma, abbiamo sentito più e più volte promesse di “un’altra Europa”, ma questo non si è mai tradotto in fatti concreti. Per recuperare la sovranità e dunque la democrazia è necessario abbandonare l’Unione europea e l’euro, e prima è meglio è. 8. Per tutti questi motivi, ci impegniamo a perseguire l’obiettivo di far uscire i nostri paesi dalla gabbia dell’Unione europea (se necessario, per quei paesi che lo
riterranno utile, promuovendo un referendum sull’uscita, come è stato fatto nel Regno Unito), accelerando così il suo inevitabile scioglimento. Organizzazioni firmatarie: Brexit Party Italexit con Paragone Génération Frexit SOMOS España Qui il sito dell’appello multi-lingua: eurexit.org DAL MES AL … SUPER MES Dal Mes al super-Mes (o Recovery fund) Per una breve stagione la politica italiana si era appassionata al Mes. E gli italiani avevano afferrato quale fregatura fosse. L’oligarchia l’ha capito e ha concluso che era meglio imbrogliare le carte. La cupola eurista ha deciso così di fare come con la Costituzione europea 15 anni fa.
Siccome i referendum in Francia ed Olanda la respinsero, si trasferirono quei contenuti nel successivo Trattato di Lisbona, che in quanto tale aggirava la possibilità dei referendum nazionali. Adesso hanno fatto la stessa cosa: poiché dopo la Grecia nessuno vuole il Mes (neppure Cipro!), si sono inventati il Recovery Fund, che in buona sostanza è un super-Mes mascherato da buone intenzioni. Un meccanismo dove al posto delle “condizionalità” del Mes, la parolina magica è “riforme”. Bisognerà fare le “riforme”, il che – tradotto dall’europeese – significherà solo una cosa: nuovi sacrifici, nuovi tagli, nuove tasse. Hanno già cominciato con le pensioni ma non si fermeranno lì. La Von der Leyen l’ha già dichiarato a chiare lettere: «finora ci si allineava volontariamente alle “raccomandazioni” dell’UE, d’ora in avanti sarà invece un obbligo per accedere al Recovery Fund». Solo l’Italexit e la riconquista della sovranità ci salveranno. Vieni a Roma per gridarlo con noi il 10 ottobre! Fonte: Marcia della Liberazione E’ POSSIBILE UN’EUROPA EUROPEA? di Manolo Monereo
Non è facile sfidare i pregiudizi e le cifre. Per meglio dire i pregiudizi che le cifre pretendono di convalidare. Di nuovo la vecchia storia: l’Europa ancora una volta ci salva dalla crisi. Gli aggettivi sono stati usati senza limiti e parole come solidarietà, storia e aiuto hanno varcato tutti i confini conosciuti. L’europeismo è un’ideologia e agisce come un pre- giudizio che cerca di spiegare la realtà a partire da sé stesso. Se si aggiungono cifre enormi che hanno poco o nulla a che fare con l’esperienza delle persone, il discorso chiude il cerchio che i media sigillano. Alla fine l’idea che resta è semplice: l’Unione Europea, in segno di solidarietà, aiuta i Paesi che hanno più sofferto di Covid19. La cancelliera Merkel dà una prova insuperabile di saggezza politica e generosità. La UE — l’unica Europa possibile — riprende il timone e indica il destino in un mondo duro e difficile. Siccome questo viene ripetuto mille volte dai
media, e la classe politica lo riafferma all’unanimità e gli intellettuali lo legittimano, è molto difficile che si sviluppi un pensiero critico. A questo va aggiunto qualcosa di tipicamente spagnolo, vale a dire che questa Europa è un bene in sé, indiscusso e indiscutibile. In quanto tale, il discorso va escluso dal dibattito pubblico. Di fatto, diventa una narrazione disciplinare che tende ad emarginare tutte quelle posizioni che si oppongono a questo specifico modello di integrazione europea e alle sue conseguenze geopolitiche, economiche e sociali. Date queste premesse, è molto difficile spiegare che i famosi fondi arriveranno in ritardo (il che ha gravi conseguenze), che sono insufficienti per l’importanza della crisi economica e sanitaria, che sono fortemente condizionati e che, ancora una volta, la sovranità continua ad essere ceduta a organismi non eletti, senza responsabilità. Alcuni di noi hanno già scritto su questo, dando opinioni, cifre e argomenti, ma difficilmente raggiungeranno la maggioranza e, quel che è peggio, non provocheranno un vero e plurale dibattito pubblico perché le voci critiche vengono zittite. In tempi di crisi, che ancora ci sono e non si sono ancora del tutto manifestati, il pericolo è sempre quello di aggrapparsi a vecchie certezze. Sembrerebbe che l’europeismo sia come l’ultima ideologia, come l’unico consenso possibile di una Spagna che vede intrecciarsi una crisi del regime e quella dello Stato e, cosa più grave, una crisi del futuro. Al centro la “questione” giovanile che diventa strutturale e che lega più generazioni. I giovani che avevano 18 o 20 anni nel 2008 hanno sofferto la crisi e oggi, essendo ancora giovani, ne subiscono un’altra ancora più grave e dagli esiti
più incerti. La crisi della democrazia in Spagna, che abbiamo davanti agli occhi e che non vogliamo vedere, è anche generazionale e richiede un ripensamento di ideali, strategie e modi di fare e di comunicare la politica. Europa (che è molto di più che la Ue) va affrontata come territorio di confronto, di definizione strategica, ponendovi attorno i grandi problemi politici; ovvero, sovranità popolare, indipendenza nazionale, giustizia e conflitto sociale. Una prima questione è la definizione di cosa sia la UE in quanto artefatto giuridico-istituzionale. A mio parere, è un nuovo tipo di sistema di dominio politico che organizza, amministra e disciplina le classi economicamente dominanti; garantisce la coerenza dei tuoi interessi generali; impone una politica economica unica per l’intera Unione e, ciò che è fondamentale, assicurata dallo Stato tedesco. È un’operazione con la volontà di egemonia; poiché alla fine è sostenuta dal potere politico, è ancorata alla potenza dominante che è, in questo caso, la Germania. Il concetto di potere strutturale definisce chiaramente la capacità di questo Stato di imporre regole del gioco e comportamenti agli attori statali che finiscono sempre per beneficiarne. Una seconda questione ha a che fare con la forma-istituzione della UE. L’argomento è così obliquo e tuttavia così dibattuto che le distinzioni tendono a confonderlo piuttosto che a chiarirlo. I dibattiti sulle sentenze della Corte costituzionale tedesca ci dicono che siamo entro i limiti di un’organizzazione basata su Trattati che ha assunto poteri sempre più decisivi e che tende a diventare una forma-Stato basata su un ordinamento giuridico che agisce materialmente come costituzione
sovranazionale. La confusione concettuale è parte di un’operazione che mescola elementi di confederalità, federalità e sovranità, che la Corte di giustizia europea interpreta come se fosse una corte costituzionale convenzionale. Parlare di limiti significa che l’integrazione ha raggiunto un livello che richiede una decisione giuridica fondamentale: o spostarsi verso uno Stato federale o tornare, in un modo o nell’altro, agli Stati nazione che abbiamo conosciuto fino ad ora. L’avanzata istituzionale di questa Unione Europea sarà una fonte permanente di conflitto, degrado delle democrazie esistenti, rinascita di nazionalismi estremi, indebolimento delle libertà pubbliche e super-sfruttamento delle classi lavoratrici. La terza questione viene sistematicamente evitata in tutti i dibattiti, eppure è quella decisiva. Nessuno stato, grande o piccolo, è disposto a dissolversi. Per quanto s’insista, non c’è un popolo europeo né un Demo disponibile. Con il progredire dell’integrazione, la riaffermazione della proprie identità nazionali, delle sovranità statuali e della democrazia come autogoverno, aumenta in ciascuno dei paesi, al punto che i diritti vecchi e nuovi vengono rafforzati difendendo queste aspirazioni. Non è un caso. L’artefatto politico-giuridico che la UE stava definendo, ciò che si stava veramente cercando era quello che Hayek chiamava federalismo economico; ovvero, privare gli stati della sovranità economica e rimuovere la politica economica dal dibattito pubblico, poiché per loro l’unica vera economia è quella neoliberista. Parlare di Europa europea, come faceva il vecchio De Gaulle, non è retorico, è un impegno politico fondamentale.
Ciò che stiamo vivendo da più di 30 anni è una progressiva “nordamericanizzazione” della nostra vita pubblica; vale a dire la sostituzione della forma-democrazia costruita negli Stati europei e che ha il suo motore fondamentale nel conflitto di classe. L’integrazione europea ha anche questo lato oscuro che limita radicalmente la sovranità popolare, il costituzionalismo sociale, e la politica intesa come capacità di decidere su modelli economici e sociali differenziati. L’involuzione politica, il degrado sociale e un aumento sostanziale delle disuguaglianze vanno di pari passo quando la democrazia si distacca dalla trasformazione sociale e dalla lotta per la giustizia. Nordamericanizzazione della vita pubblica significa democrazia intesa come meccanismo di selezione delle élite al potere, difenditrice degli interessi privati e slegata dalla lotta per l’uguaglianza sostanziale. Non molto tempo fa Oscar Lafontaine ha parlato della necessità per la UE di ripensare se stessa, di andare avanti su vari piani e di fare marcia indietro su altri che si stavano rivelando estremamente dannosi e che dividevano l’Europa. Nessuno, a questo punto, dubita che l’euro sia mal concepito e progettato, ha accentuato la differenziazione tra un centro sempre più potente e periferie sempre più dipendenti; la separazione tra politica fiscale ed economica e politica monetaria non è sostenibile ed è all’origine della stagnazione economica e sociale che sta vivendo l’UE; la concezione della moneta come semplice mezzo di scambio ignora che si tratta di un’istituzione sociale che dipende dall’autorità dello Stato. La natura incompleta dell’euro richiama l’attenzione su un fatto che ritornerà inevitabilmente a ogni crisi: che non esiste moneta senza unità economica e fiscale; che l’estrema eterogeneità socio-economica dei paesi che compongono l’Unione verrà accentuata, senza un drastico intervento dei poteri
pubblici. Che non esiste moneta senza uno Stato che la imponga e la garantisca. L’Unione europea sta abbattendo l’Europa per di più rendendola impossibile. Il motivo è sempre più chiaro: vogliono costruire un’Europa senza e contro la sovranità popolare; senza e contro lo Stato sociale; senza e contro i diritti sociali fondamentali; senza e contro la politica intesa come procedura, deliberazione e decisione tra progetti differenziati. La politica interna ed estera sono sempre correlate. Non dovrebbe sorprendere, con questi fondamentali, che con più integrazione europea, più dipendenza dagli Stati Uniti, maggiore incapacità di intervenire attivamente e positivamente in un mondo che cambia rapidamente e, cosa più grave, mancanza di una politica solvibile e autonoma di alleanze internazionali. La proposta di un’Europa europea significa costruire un progetto partendo da ciò che ci rende forti: stato sociale, sovranità popolare, diritti e libertà pubbliche costituzionalizzati, democrazia economica e sociale. Non dovrebbero esserci troppi dubbi, nelle condizioni attuali un’Europa-Stato sarebbe un’Europa tedesca. Ma questo non accadrà. Dov’è la chiave? Secondo me, camminare verso un’Europa confederale. Non si tratta di condividere le sovranità, ma di rafforzarle; definire politiche comuni e rafforzare la cooperazione per sviluppare l’autonomia produttiva, i diritti sociali e la democrazia in ciascuno degli Stati; un’uscita concordata dall’euro che consenta la transizione verso economie più egocentriche con una maggiore capacità di attuare politiche di sviluppo regionale e industriale. Si potrebbe continuare. Si dirà che questo non è possibile. Che i grandi stati si opporranno. Che la destra non accetterebbe un’Europa così costruita. Allora si può dire solo la verità: che l’Unione europea è incompatibile con i diritti sociali fondamentali; che essa si oppone alla sovranità popolare e che è uno
strumento per indebolire le classi lavoratrici e i sindacati. Che il suo obiettivo finale è porre fine al costituzionalismo sociale e che, al di là della retorica, ciò che cerca è un’involuzione storica su larga scala. Non accadrà. Manolo Monereo La Parra, 16 agosto 2020 IL PREZZO DEI SOLDI di Piemme Partiamo da un dato di fatto difficilmente contestabile: se l’Italia decidesse di alzare i tacchi, verrebbe giù non solo la moneta unica, ma tutta l’Unione europea.
Così ci spieghiamo i prestiti offerti al nostro Paese e le concessioni e le deroghe in quanto a Patto di stabilità. In merito a questi aiuti abbiamo mostrato non solo che sono poca cosa,ma che sono una gravissima minaccia per l’Italia. L’abbiamo detto e lo ripetiamo: l’Unione europea sostiene l’Italia come la corda sostiene l’impiccato. Fioccano analisi dettagliate degli accordi sottoscritti a Bruxelles: recovery fund, sure, ecc. Pochi si soffermano sul dato più importante, quello politico, lì dove trapela il disegno strategico dell’élite eurocratica e si annida la vera minaccia. Lo fa Sabino Cassese in un editoriale pubblicato dal Corriere della Sera del 21 luglio scorso. Il Cassese elenca “tre principi essenziali che riguardano il futuro dell’Unione europea”. Il terzo è quello che in questo caso ci riguarda. Egli lo chiama “il potere di distribuire e di controllare l’uso delle risorse che vengono assegnate agli Stati”. Sentiamo: «Una volta dotata del “potere della borsa” [un più potente bilancio europeo e la capacità di raccogliere fondi propri sul mercato, NdR], l’Unione deve operare attraverso gli Stati ai quali vengono trasferiti i fondi europei, assicurandosi, alla pari di ogni finanziatore (come lo Stato italiano quando assegna fondi alle regioni) che le finalità per le quali i fondi sono assegnati vengano rispettate». Cassese svela quale sia — al netto delle tecnicalità e dei trabocchetti finanziari, al netto della visione neoliberista della società — la vera ratio che sottostà al faticoso compromesso raggiunto a Bruxelles: un passo verso la trasformazione della Ue in una vera e propria federazione statuale in cui i tradizionali Stati nazionali sarannono precipitati al rango di regioni. Che poi questi Stati mantengano la loro attuale configurazione
non è affatto detto, visto che il passo successivo (previsto) sulla via dell’Unione federale sarebbe quello di smembrare gli Stati per rimpiazzarli e rimescolarli nelle cosiddette “macro regioni”. Chi ci accusa di essere “nazionalisti” perché ci battiamo contro questa prospettiva chiediamo: ma come fate a non vedere che l’Unione che le élite hanno in mente sarebbe un pilastro mondiale del capitalismo neoliberista e parassitario? Ma come fate a non vedere che essa è un mostro antipopolare? Ma come fate a non capire che se vogliono spianare gli Stati nazionali è perché li considerano ostacoli al loro predominio totale? È MEGLIO ANDARSENE di Gianluigi Paragone
Pubblichiamo l’intervista concessa a fine luglio dal Senatore Gianluigi Paragone a Carlos Garcia Hernandéz e pubblicata il 3 agosto sul sito spagnolo Red Mmt col titolo “La speranza dell’Europa del Sud”. D. Perché l’Italia dovrebbe uscire dall’euro e dall’Unione europea? R. Perché all’Italia non conviene restare nell’Unione Europea. All’Italia conviene invece avere una propria valuta a medio e lungo termine. Inoltre, penso che il progetto UE sia destinato al collasso, quindi ritengo che sia meglio andarsene. D. Qual è l’ostacolo principale che ti aspetti di incontrare nella tua lotta per la sovranità italiana? Hai paura di possibili ritorsioni se il tuo progetto politico prende slancio? R. La mia paura principale è che agli italiani non venga data l’opportunità di comprendere la mia proposta e che non capiscano che l’Unione europea è un nemico che li impoverirà.
L’Europa sfrutta le risorse italiane. Il mio scopo è che i cittadini capiscano perché l’Italia starebbe meglio al di fuori della UE. Quando i cittadini annegano, l’Europa gli permette di tenere la testa fuori dall’acqua per respirare, poi però gliela rimette sotto. Gli italiani sono abituati a respirare in questo modo e non capiscono che si può respirare diversamente. D. Quali passi concreti dovrebbe adottare l’Italia per abbandonare l’euro e l’Unione europea e quindi stabilizzare l’economia del Paese? R. Il primo e più importante passo è un voto democratico e popolare. Se gli italiani credono che un partito potrà vincere una simile sfida, non c’è nulla da fare. La UE è stata costruita dall’alto verso il basso, ma non puoi uscirne senza il consenso popolare. Nessun partito può pretendere di portar fuori l’Italia dall’euro e l’Unione europea senza questo passo. È importante che gli italiani comprendano i pericoli dell’adesione all’UE. D. Quali sarebbero le principali differenze tra Brexit e Italexit? Pensi che il percorso dell’Italia verso la sua sovranità sarà più difficile di quello del Regno Unito? R. La prima differenza è che il Regno Unito ha conservato la sua valuta mentre l’Italia è nella zona euro. Questa è la principale difficoltà. La seconda differenza macroscopica è di natura culturale e costituzionale. Noi siamo una democrazia costituzionale, il Regno Unito no. La Costituzione italiana è una miscela perfetta di tre grandi tradizioni: socialismo, cattolicesimo rispettoso dei diritti dei cittadini e liberalismo (non neoliberismo). Il liberalismo consente la proprietà privata, ma sempre nei limiti della Costituzione. Sebbene le tradizioni del Regno Unito e dell’Italia siano diverse, entrambe condividono interessi comuni e sono al di fuori di quanto stabilito dall’UE.
D. Immaginiamo di essere il giorno dopo le prossime elezioni in Italia e che Gianluigi Paragone è il nuovo presidente del Consiglio dei Ministri. Cosa succederebbe da quel momento? Quali sarebbero le pietre miliari fondamentali durante il mandato di Gianluigi Paragone? R. Una situazione del genere significherebbe che il mio partito avrebbe vinto le elezioni grazie alla chiara volontà degli elettori. Ogni azione politica presuppone una dimensione dialettica. Lasciare l’euro o l’UE non è un problema muscolare. L’UE non agirebbe nel proprio interesse se non si confrontasse con un paese che, non attraverso un referendum, ma attraverso elezioni libere, ha deciso di lasciare l’UE perché è un progetto in cui non crede più. Quindi ci sarebbero due possibili scenari. Nel primo caso, i trattati con la UE dovrebbero essere rinegoziati in modo intelligente e sempre con il chiaro obiettivo di lasciare la UE. Il secondo scenario è quello in cui non viene raggiunto un accordo. Quindi la UE non dovrebbe stupirsi se l’Italia opterà per un piano B, uscendo in modo non negoziato. D. Hai difeso pubblicamente la Teoria monetaria moderna (Mmt). Che ruolo avrebbe la Mmt nel tuo governo? Contempli un’Italia in cui, grazie alla sovranità monetaria, si raggiunga la piena occupazione senza inflazione, come proposto da Bill Mitchell, Pavlina Tcherneva e il resto degli economisti della Mmt? R. Per me è essenziale che la classe dirigente non conduca i cittadini alla povertà, a causa di una crisi. Tuttavia, questo è precisamente l’obiettivo delle élite della UE, che ha approfittato della crisi per impoverire i cittadini. La piena occupazione è una condizione primaria per me. Va ricordato che il primo articolo della Costituzione italiana afferma che “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Pertanto, i Padri della Costituzione hanno capito che la piena occupazione è un obiettivo fondamentale. Il lavoro è un diritto di cittadinanza, non qualcosa che viene concesso come un favore. Lo stato deve garantire l’accesso al lavoro. Oggi i
diritti dei lavoratori sono trascurati e in Europa i lavoratori italiani sono i più sfruttati. Ecco perché i salari italiani sono stati svalutati. Da parte sua, lo Stato dice ai cittadini che devono indebitarsi affinché il loro stipendio abbia più valore. In altre parole, ti tolgono i diritti del lavoro, ma in cambio ti danno la possibilità di indebitarti, sostenendo che i tassi di interesse sono favorevoli a coloro che si indebitano. Noi diciamo invece che coloro che si indebitano rinunciano alla loro libertà. La Mmt è una prospettiva importante per raggiungere l’obiettivo primario della piena occupazione. E’ uno strumento che funge da officina meccanica in cui riparare la macchina economica al fine di raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati. D. Quali sono i tuoi parametri di riferimento in politica economica e ideologicamente? Ti chiedo questo perché ci sono molte persone che non sanno dove collocarti nello spettro politico. Ti consideri un uomo di sinistra o di destra? R. Quando un imprenditore cerca di non essere schiacciato da una multinazionale, non chiede la tessera di sinistra o di destra. Quando un lavoratore si lamenta perché i suoi diritti sul luogo di lavoro non vengono rispettati e perché viene sfruttato dal sistema economico, a lui non importa se sei a sinistra o a destra, ciò che ti chiede è se sei disposto a lottare per i suoi diritti. Ecco perché i diritti dell’imprenditore e del lavoratore trovano un punto di unione nella Costituzione italiana, poiché la Costituzione italiana non legittima la classe politica per attaccare i lavoratori, distruggendo il loro lavoro ed i loro diritti. Scopo della mia proposta politica è di recuperare il vero obiettivo della Costituzione italiana. Per me è essenziale recuperare lo spirito della Costituzione, che si basa su ideali socialisti, cattolici e liberali. Nell’ambito della Costituzione vi è spazio per la libertà di impresa, ma l’articolo 36 chiarisce come deve essere remunerato il lavoratore. I padri della
Costituzione non litigavano sulla questione su chi dovesse guadagnare più o meno soldi, ma si chiedevano invece come scrivere la migliore Costituzione possibile con l’obiettivo di trovare un equilibrio ottimale nella vita degli italiani. D. Tuttavia, ho letto le proposte del Manifesto Italexit e non ne ho trovato nessuna che non possa essere considerata di sinistra. R. Questo perché sono proposte socialiste. Tuttavia, queste proposte potrebbero anche appartenere al meglio del cattolicesimo, quando nella sua età d’oro ha combattuto per le piccole imprese. Probabilmente i peggiori attacchi alla classe operaia provengono da partiti di sinistra da quando hanno adottato il neoliberismo. Tu segnali il senso socialista [del Manifesto Italexit], ma in quelle proposte sono anche espressi il sentire e le opinioni di liberali e cattolici. Questo è ciò che è necessario oggi, dare al lavoratore la garanzia che non sarà in balia dei mercati e dando all’imprenditore italiano la garanzia che il pesce piccolo non sarà inghiottito dal pesce grosso delle multinazionali. Oggi l’imprenditore deve sopportare le peggiori pressioni fiscali, il peggio della burocrazia e il peggio della globalizzazione, mentre le multinazionali divorano l’inventiva dei piccoli imprenditori. Questo mi sembra profondamente ingiusto. Cattolicesimo, socialismo e liberalismo sono funzionali all’economia reale se sono tutti incorporati insieme, non si può vivere sotto una legge marziale permanente. D. Come immagini l’Italia tra 10 anni? R. Se continuiamo con le stesse politiche fin qui seguite, l’Italia sarà più povera, più umiliata, messa in svendita attraverso aste e liquidazioni. Ma questo non è solo il caso in Italia. L’Italia è un paese molto forte, ma la crisi interesserà l’intero Mediterraneo e lo spazio politico europeo non presta attenzione ai paesi che quelli del Nord chiamano PIIGS.
D. Qual è il rapporto che l’Italia deve mantenere con il resto dell’Europa? L’Unione europea dovrebbe essere sostituita da un altro organismo europeo o sarebbe meglio dimenticare l’intero progetto? R. Il progetto UE è un progetto che, secondo gli attuali trattati, non prenderò in considerazione né proverò a correggere. Tuttavia, l’Italia è un paese che, come altri paesi sovrani, potrebbe essere un attore importante in una nuova Europa di tipo confederale in cui i pieni poteri siano nelle mani dei capi di stato. Saranno loro a decidere le politiche economiche non i mercati. D. Una volta raggiunta la piena sovranità, quali sono le principali sfide per l’Italia? R. Lo Stato dovrebbe impadronirsi di una parte del debito pubblico che è ora nelle mani di mercati speculativi. Lo Stato deve tornare ad essere uno stato forte con il potere di affrontare le tempeste nei mercati finanziari e nella globalizzazione. L’Italia deve avere uno Stato che sta dalla parte degli imprenditori e dei lavoratori e che sappia che le piccole cose sono importanti. Partiamo dal concetto che il piccolo è prezioso. Questa è la base della nostra storia, fatta di borghi e villaggi che sfidavano le grandi famiglie. Oggi, l’idea che il piccolo sia prezioso si sta perdendo. Questa perdita è un grosso errore. Piccolo dà un valore aggiunto all’Italia. Piccolo è la forza di uno stato vincente. * Fonte: Red Mmt ** Traduzione dalla spagnolo a cura di SOLLEVAZIONE
VAROUFAKIS: CON IL RECOVERY FUND FARETE LA FINE DELLA GRECIA Varoufakis, come tante volte abbiamo ricordato, è un convinto “altreuropeista”, non punta certo a smontare la gabbia della Ue. A maggior ragione è importante quanto sostiene in questa intervista. Quale giudizio dà dell’intesa in Consiglio europeo sul ‘Next generation Eu’? Questo accordo verrà ricordato come un’altra grande sconfitta per l’Unione Europea. Anche questo? Sì. Primo, è un accordo che di fatto seppellisce gli eurobond, un piano preparato da Berlino per uccidere gli eurobond proposti dall’Italia, dalla Spagna, dalla Francia e gli altri paesi più colpiti dal covid. Si tratta di un fondo
insignificante dal punto di vista macroeconomico. Sono 750 miliardi di euro. Insignificante. Lo spiegherò nei termini dell’economia italiana. La vostra economia subirà un calo del pil del 15 per cento, roba pazzesca. L’anno prossimo Bruxelles sarà spinta da Berlino a fare pressione sul governo italiano per riequilibrare il bilancio. E anche se nel 2021 ci sarà il recovery fund, non sarà sufficiente per eliminare il deficit di bilancio. Magari potrà portarlo a -8 per cento, ma non di più. Per riequilibrare il bilancio dovrete sottostare a ferree regole di austerity. Però il Patto di stabilità e crescita è stato sospeso all’inizio della pandemia. L’hanno sospeso per quest’anno. Io sto parlando dell’anno prossimo e l’anno prossimo lo riattiveranno. L’eurogruppo dell’11 giugno ne ha discusso. Lei è sicuro che l’anno prossimo sarà riattivato. Vedrà. Ecco perché i cittadini italiani, spagnoli, greci e finanche i tedeschi dovrebbero considerare questo accordo come una grande sconfitta per l’Europa. E poi c’è una cosa di cui i media in Italia e anche in Grecia non parlano. Cosa? Prendiamo gli Stati dovranno ripagare una parte del costo totale del recovery fund. La Commissione europea non ha soldi. I soldi che darà a Italia, Spagna, Grecia saranno presi in prestito su garanzia degli Stati. Più del 50 per cento del prestito deve essere conteggiato nel debito italiano e deve essere restituito, seppure nel giro di molti anni. Quindi penso che gli Stati europei non avrebbero dovuto avviare una discussione sul recovery fund ma sulla sospensione del Patto di stabilità e crescita a tempo indeterminato. Invece di
discutere di questo punto che è cruciale, si sono messi a discutere di miliardi di euro che non risolveranno il problema e non addrizzeranno la direzione di marcia filo-austerity. Così si creerà maggiore tensione. Non ci sono gli eurobond, ma c’è un embrione di debito comune. Si può anche dire che il fondo sia una prima mossa verso un debito comune, ma vorrei ricordare che si tratta di una ‘una tantum’, è uno strumento di debito comune a tempo, da non ripetere, per avere soldi freschi che non risolveranno la crisi e faranno crescere l’euroscetticismo sia in Italia che in Olanda, sia in Grecia che in Germania. Questo accordo ha ucciso l’idea di una unione fiscale con l’arma di un piccolo acconto di debito comune. Che pensa della parte sulle risorse proprie? Web tax, carbon tax non sono approfondite nel testo. Rispondendo ricordando una ‘coincidenza’. Hanno nominato il ministro delle Finanze irlandese Donohoe come presidente dell’Eurogruppo proprio negli stessi giorni in cui la Commissione europea ha perso la sua battaglia in Corte di giustizia europea contro Apple, accusata di aver beneficiato di un regime fiscale agevolato in Irlanda. E’ questa la risposta alla sua domanda: ci stiamo muovendo nella direzione sbagliata. L’elezione del ministro delle finanze irlandese a presidente dell’Eurogruppo, il potere crescente dell’olandese Rutte che governa un paradiso fiscale al centro dell’Europa, la forza di un altro paradiso fiscale come il Lussemburgo. Tutto questo ci dice che mai si metteranno d’accordo su nuove risorse proprie per ripagare questo debito. Perchè Rutte, pur premier di un piccolo Stato membro come l’Olanda è riuscito a imporsi così tanto nelle trattative? Dalla mia passata esperienza nella crisi del debito greca, posso dire che il ministro tedesco non parlava mai per primo. Prima, parlava lo sloveno o il lituano contro la
mutualizzazione del debito, a favore dell’austerity. Poi parlava l’olandese e aumentava il volume a favore dell’austerity. E poi interveniva il tedesco cercando di apparire come la voce sensata tra i primi due. Ma tutti sapevamo che le indicazioni rigoriste arrivavano da Berlino. Era solo coreografia. Crede che ancora adesso arrivino da Berlino? Naturalmente. Una telefonata di Merkel e Rutte avrebbe chiuso il becco. Ma c’è qualcosa di positivo in questo accordo? Se si guarda ai tagli agli investimenti ‘verdi’, ai fondi destinati alla ricerca, alla scelta di aumentare i ‘rebates’ per i frugali è davvero molto difficile trovare qualcosa di positivo. Ma siccome dobbiamo cercare la speranza nel buio, posso dire che l’idea di debito comune è in qualche modo presa in considerazione anche se in una modalità negativa. E poi dobbiamo sforzarci magari di pensare che il covid unisca l’Europa meglio di quanto sappiano fare i politici. Forse così possiamo estrarre un po’ di speranza da tutta questa cecità. * Fonte: huffingtonpost.it DICHIARAZIONE INTERNAZIONALE: Contro il neoliberismo, dopo l’Unione europea
Pubblichi amo un’importante dichiarazione politica sottoscritta oltre che da diverse organizzazioni e associazioni politiche europee, anche da molti militanti e intellettuali — in fondo alla dichiarazione i primi firmatari. Questa dichiarazione è stata sottoscritta, tra gli altri, da MPL-P101. CONTRO IL NEOLIBERISMO, DOPO L’UNIONE EUROPEA La pandemia da Covid-19, avendo scatenato la “tempesta perfetta”, è uno spartiacque storico. Il vaso di Pandora si è aperto, tutti i mali cronici del sistema capitalistico iperfinanziarizzato sono venuti alla luce. Sull’umanità aleggia lo spettro della “stagnazione secolare”. Col tramonto della globalizzazione neoliberista entriamo in un periodo di grandi turbolenze e catastrofi sociali le quali possono aprire delle nuove opportunità di cambiamento In questo quadro il rischio di uno scontro tra i partigiani del potere popolare e quelli di un regime autoritario è nell’ordine delle cose. Gli sconvolgimenti travolgeranno gli attuali equilibri geopolitici, col rischio di un cataclisma devastante tra le grandi potenze. L’Unione europea, a causa delle sue fragilità strutturali e
delle sue contraddizioni interne, non resisterà al terremoto mondiale in arrivo. La pandemia da Covid-19 ha infatti messo a nudo la totale incapacità dell’Unione di far fronte all’emergenza, la sua incapacità a riformarsi. Nonostante sia evidente l’insostenibilità delle sue rigide regole ordoliberiste, la Germania, che è il dominus dell’Unione e non ha mai smesso di agire pro domo sua, si ostina invece a difenderle, anzitutto a danno dei paesi mediterranei — nonostante essi rischino di sprofondare nell’abisso. Questo ci dice la recente sentenza della Corte costituzionale tedesca. Nessuna traccia di eurobond, cioè di mutualizzazione del debito. Gli strumenti concepiti per sostenere questi paesi (Bei, Sure, Esm) sono come la corda sostiene l’impiccato. Si tratta infatti di prestiti, di nuovo debito per stati i cui titoli sono già considerati quasi spazzatura. Peggio ancora: per accedere a questi prestiti queste nazioni dovranno accettare severe condizioni che includono la possibilità di essere posti sotto regime di protettorato e di stretta sorveglianza. Ciò sottoporrà questi paesi, in primo luogo l’Italia, a tensioni sociali e politiche formidabili, tensioni che potrebbero spingerli sulla via dell’uscita dalla gabbia dell’euro. Questa fuga in avanti dell’Unione europea non è che un modo per prolungare l’agonia. Il cosiddetto e aleatorio Recovery fund non cambierà niente. Non è un’alternativa la proposta di Mario Draghi di consentire alla Bce di funzionare come tutte le altre banche centrali (agendo cioè come un prestatore di ultima istanza, così da creare l’enorme liquidità necessaria allo scopo di rimettere in moto l’economia). Questa proposta, concepita nel quadro del rispetto di una visione liberista classica, sarebbe pur sempre moneta a debito. La banca centrale dovrebbe finanziare gli stati usando i canali delle banche private, stati che poi dovrebbero rimborsare i prestiti accollandosi i fallimenti del settore privato. Il principio è noto: pubblicizzazione delle perdite e privatizzazione dei
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