BEATI QUELLI CHE HANNO FAME E SETE DI GIUSTIZIA, PERCHE' SARANNO SAZIATI

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BEATI QUELLI CHE HANNO FAME E SETE DI GIUSTIZIA, PERCHE' SARANNO SAZIATI
BEATI QUELLI CHE HANNO FAME E SETE DI GIUSTIZIA,
                          PERCHE’ SARANNO SAZIATI

Abbiamo accolto l’invito di papa Francesco a scandire il nostro cammino di questi due anni con la
meditazione delle Beatitudini. Per la prima tappa abbiamo offerto del materiale per approfondire e
ampliare la riflessione in generale sulle Beatitudini. Per la seconda tappa, abbiamo approfondito, anche
negli esercizi spirituali di inizio Avvento, la beatitudine dei “poveri in spirito”. Con le tre catechesi diocesane
abbiamo approfondito la beatitudine dei “miti”. Con la Veglia in Traditione Symboli abbiamo approfondito
la beatitudine dei “puri di cuore” lasciandoci guidare dal messaggio di papa Francesco per la XXX GMG.
In questa ultima parte del primo anno vorremmo approfondire la beatitudine che riguarda “gli affamati e gli
assetati di Giustizia”. Due sono le ragioni della scelta entrambe connesse con l’evento di Expo che Milano
ospiterà in questi mesi; la riflessione su nutrimento ci interpella come cristiani e cittadini con una domanda
che anche il nostro Arcivescovo Angelo Scola ci ha rivolto: Che cosa nutre la vita? Vogliamo dunque
sviluppare una prima riflessione chiedendoci di che cosa siamo affamati e assetati. Un secondo spunto di
riflessione è legato al tema della giustizia; parlare di alimentazione, di distribuzione delle risorse del
pianeta, di fame nel mondo, chiama in causa il tema della giustizia come riconoscimento del bene che a
ciascuno spetta.
Ecco allora il materiale che abbiamo raccolto per approfondire la quarta beatitudine. Gli approcci sono
diversi e convergenti. Sono come degli ingredienti che affidiamo a ciascuno o ai gruppi perché si costruisca
una riflessione che non perda il riferimento al vissuto, alla Parola, ai contenuti dottrinali e alla
testimonianza di figure spirituali.

          1.   Lettura dei brani biblici attraverso le immagini

La fame e la sete di giustizia nascono anzitutto dal riconoscimento di una fame, di una sete, di un bisogno
del fratello. Le opere di misericordia corporali, rendendo concreta la parola di Gesù narrata dall’evangelista
Matteo al capitolo 25, ne descrivono anche visivamente la via.
Giotto, nella Cappella degli Scrovegni, raffigura le virtù, teologali e cardinali. Guardando alla
rappresentazione della giustizia portiamo la riflessione direttamente su quel tema.

         2. Spunti per una spiegazione esegetica della quarta beatitudine
Attraverso i testi di Martini, Maggioni e Doglio approfondiamo la quarta beatitudine: “Beati quelli che
hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati.”

         3. Ripresa dei temi attraverso il Catechismo della Chiesa Cattolica e YOUCAT
Il tema delle virtù viene analizzato attraverso il catechismo della Chiesa Cattolica, youcat affronta i due
temi della giustizia e pace e del pane quotidiano.

          4. Riflessioni e testimonianze del beato Piergiorgio Frassati e del beato papa Paolo VI
Il testo del beato Frassati affronta la tematica del suo impegno nella politica e nella promozione della
giustizia; l’intervento di papa Paolo VI ai giovani espone le tematica del rapporto pace-giustizia, come
un’equazione difficile ma necessaria: giustizia e pace devono camminare insieme.

          5. Alcune risonanze letterarie e artistiche
Contributi tratti da libri (Luigi Ciotti, da sempre impegnato nella lotta contro tutte le ingiustizie e per la
difesa della legalità - il card Martini) e alcuni suggerimenti per la visione di film legati alle tematiche della
giustizia e delle carceri nella nostra società.

         6. Appendice: proposte expo per giovani

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BEATI QUELLI CHE HANNO FAME E SETE DI GIUSTIZIA, PERCHE' SARANNO SAZIATI
CAPITOLO 1: LETTURA DEI BRANI BIBILICI ATTRAVERSO LE IMMAGINI

                                    Caravaggio
                          Le sette opere di misericordia

     (Michelangelo Merisi da Caravaggio, Le sette opere di misericordia corporale,
                 1606-1607, Napoli, Pio Monte della Misericordia.)
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          Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà
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sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli
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uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua
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destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra:
“Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla
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creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete
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e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito,
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          malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Allora i giusti gli
          risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da
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          mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero
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          e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato
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          o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto
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          quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. Poi
          dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco
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          eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete
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          dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi
          avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”.
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           Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o
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          straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà
          loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli,
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          non l’avete fatto a me”. E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla
          vita eterna». (Mt 25, 31-46)

Le sette opere di misericordia – dare da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, vestire gli
ignudi, alloggiare i pellegrini, curare gli infermi, visitare i carcerati, seppellire i morti – si compiono in una
ambientazione che rievoca i bassifondi napoletani. Con citazioni colte e lontane, mescolate ad elementi
popolareschi, il Caravaggio rappresenta il suo particolare e desolato mondo dei miserabili. Nella donna che
allatta il vecchio si riconoscono: il "dar da mangiare agli affamati" e il "visitare i carcerati". Qui Caravaggio
ha fatto ricorso a personaggi leggendari : Cimone e Pero. "Il vecchio Cimone era stato condannato a morte
, e questa doveva essere per fame . La giovane figlia Pero gli fa visita , ed avendo da poco partorito un
piccino, gli porge il seno gonfio di latte per nutrirlo . Quando viene scoperta dai funzionari , questi vengono
fortemente impressionati dall'immenso altruismo del suo gesto e commossi liberano il vecchio Cimone" . La
storia è riportata nel nono libro di una raccolta redatta dallo storico romano Valerio Massimo che raccoglie
gli " Atti e detti memorabili degli antichi romani " (De factis Dictisque Memorabilibus Libri IX ) e cita
l'episodio come un grande gesto di pietà filiale ed onorabilità romana. Spesso, infatti, ci si riferisce a questo
episodio definendolo "Caritas romana".Nel personaggio che si disseta con l’acqua che sgorga dalla mascella
d’asino (Sansone), si riconosce il "dar da bere agli assetati". Qui è stato fatto ricorso al personaggio biblico.
"Sansone bevve, il suo spirito si rianimò, ed egli riprese vita". (Imprese di Sansone contro i Filistei).

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Giotto
                                                 La Giustizia

                                (circa 1300, Cappella degli Scrovegni - Padova)

Questo il testo dell’iscrizione: IUSTICIA. Giusta esamina ogni cosa con il piatto della bilancia, la giustizia è
perfetta nel premiare il bene, usa con vigore la spada contro i vizi. Tutte le cose godono della libertà se
questa regnerà, agirà con benevolenza chiunque compirà qualcosa. Per essa il soldato combatte,
accompagna, spinge i mercanti già... si manifesta...

Iusticia è l'unica Virtù a indossare gioielli, una cuffia ornata di perle, una spilla per trattenere il mantello e
una cintura di metallo prezioso; la corona la qualifica regina. Abbigliata come una Madonna, è seduta su
di un trono con archi acuti; il trono inquadra la Virtú prospetticamente in uno spazio ordinato, «giusto»;
da notare che il trono è stato preso in prestito da quello che Giotto assegna proprio alla Madonna (si
veda ad esempio la Madonna di Ognissanti agli Uffizi di Firenze). L'impressione di trovarci di fronte ad
una figura sacra è aumentata dalla «catena» che tiene l'arco della spalliera, come fosse quella di una
chiesa; basta volgersi alle «catene» che stanno fra gli archi del Tempio da cui Gioacchino viene scacciato,
nel primo episodio.

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Iusticia tiene nelle mani due piatti della bilancia, retta dall'invisibile Sapienza divina. Recita il Liber
Sapientiae (8.7): «E se alcuno ama la giustizia, frutto delle fatiche di questa [la Sapienza] sono le virtù.
Essa infatti insegna temperanza e prudenza, giustizia e fortezza, di cui non c'è nulla di più utile nella vita
dell'uomo. Se poi, uno brama una larga esperienza, essa conosce il passato e congettura il futuro».

Sopra ai piatti della bilancia sono due esseri alati; un vecchio barbuto - sembrerebbe un demonio - sta
per decapitare un reo con le mani legate dietro la schiena, mentre un giovane coronato, simile ad una
Vittoria" premia con una corona un uomo seduto dietro ad un banco. Quest'ultimo sembrerebbe un
orefice; la zona è rovinata ma si vedono bene un oggetto di base esagonale, parrebbe un calice, e poi un
martellino, una pinza e una minuscola incudine su cui l'artigiano sta battendo, nonché molti piccoli
oggetti tondi tutti uguali fra loro, che a prima vista parrebbero pietre preziose. Nella Visio Egidii di
Giovanni da Nono, il solito angelo profetizza che a Padova, dalla parte settentrionale del Palazzo della
Ragione «vi saranno le botteghe di quelli che lavorano e fabbricano cinghie, coppe, calici, braccialetti,
fibbie ed altri oggetti d'oro e d'argento ». L'artigiano suggerirebbe allora che Iusticia premia il benessere
da lei prodotto, esemplificato negli oggetti di valore, simbolo della ricchezza che è giusto possedere, in
modo da distribuirla poi liberalmente, come indica Karitas". (Tratto da C. Frugoni, L’affare migliore di
Enrico, Einaudi Editore 2008)

                                                  La giustizia
La giustizia è la prima esigenza dell'amore: "la misura minima della carità" (Paolo VI). Minima, ma imprescindi-
bile. Nessun rapporto di amore è infatti possibile e nessuna sua forma è credibile senza la giustizia.
Con la giustizia l'amore è possibile, perché essa è un aspetto della carità. Solo il giusto sa amare. La passione
per la giustizia è oggi la grande "fame e sete" (Mt 5,6) dell'uomo: interpella gli uomini di cultura, la politica, le
ideologie, le confessioni religiose diverse.
La giustizia non esiste che a partire dalle persone e per le persone ed esprime una profonda esigenza: che
ogni uomo sia riconosciuto e trattato da ogni altro come valore e fine dei propri atti, e non come semplice
mezzo o strumento "che ci serve" per ottenere qualcosa per noi. La giustizia è cogliere il valore della persona:
è dare all'altro ciò che gli occorre per essere se stesso.
All'origine e alla base della giustizia c'è dunque la persona, con quel nome, con quel carattere, con quella
storia; c'è la sua originalità, la sua unicità, il suo valore, la sua dignità. L'uomo esige giustizia ed è chiamato a
rendere giustizia. Ma può succedere che ciò che è giusto in nome della legge non lo sia in nome dell'uomo.
Cristo mette l'uomo al centro, non la legge, e ci invita a fare altrettanto. Giustizia, pertanto, è fare il bene per
quella persona, far sì che sia pienamente se stessa, proprio come Dio la vuole.
La storia ci può far comprendere come sia facile cadere nel rischio di non mettere l'uomo al centro: il salario di
sussistenza attribuito dai primi capitalisti era giusto in nome della legge vigente, ma non lo era in nome
dell'uomo; i beni con cui i colonizzatori scambiavano le materie pregiate degli indigeni erano giusti secondo il
pattuito, ma non lo erano in nome della dignità umana; una giustizia burocratica e formale adempie alle
esigenze della legislazione sociale, ma non sempre a quelle di un essere che è assai più del suo numero di
codice fiscale.
E' sbagliato pensare che oltre allo stretto dovuto e oltre la misura e la forma legale c'è solo la carità.
No, c'è ancora la giustizia. Perché questa non esaurisce il suo compito solo sul piano dell'avere: c'è una
giustizia dell'essere prioritaria e non meno esigente di quella dell'avere, perchè "la vita vale più del cibo e il
corpo più del vestito" (Lc 12,23), perchè «l'uomo vale più per quello che è che per quello che ha" (Gaudium
et Spes 35).
Una giustizia che sa che "il sabato è fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato"(Mc 2,27) antepone ed
induce a rispettare i diritti fondamentali della persona. Sono tutti quei diritti che consentono alla persona di

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"essere" persona e di realizzarsi come tale: dal diritto alla vita, al diritto alla libertà, all'istruzione, alla
dignità, al lavoro,....
Sono diritti che non derivano da un contratto e non sono garantiti da uno scambio. Per troppi esseri umani
non sono tutelati neppure da un ordinamento giuridico.
Non per questo sono meno diritti. Di essi si fa garante la virtù morale e sociale della giustizia.
L'ingiustizia è ogni manipolazione e sopraffazione dell'uomo: del suo bene personale, familiare e sociale. E'
la sua emarginazione, strumentalizzazione, spersonalizzazione, e banalizzazione. La giustizia appare così
come liberazione umana. Il giusto è impegnato perché ogni uomo e tutto l'uomo disponga di quanto è nel
suo diritto per un'esistenza a misura e forma veramente d'uomo.
La giustizia è legata alla carità, perché è amare l'uomo in modo "giusto" come Dio lo ama: "L'amore
cristiano del prossimo e la giustizia non possono essere separati tra loro. L'amore, infatti, implica
un'assoluta esigenza di giustizia, ossia il riconoscimento della dignità e dei diritti del prossimo; la giustizia a
sua volta raggiunge la sua interiore pienezza unicamente nell'amore. E poichè ogni uomo è in realtà
un'immagine visibile dell'invisibile Dio ed è fratello di Cristo, appunto per questo il cristiano trova in ogni
uomo Dio stesso e quell'assoluta esigenza di giustizia e di amore, che è propria di Dio" (J.Danielou).

(tratto da Quaderni di Parresia – L’impegno sociale e politico, Ed In Dialogo)

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CAPITOLO 2: SPUNTI PER UNA SPIEGAZIONE ESEGETICA DELLA PRIMA BEATITUDINE

                                           C.M. Martini
                       “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia ”

Procedendo gradualmente nella riflessione sulle Beatitudini, ci accorgiamo che la proclamazione della
felicità non riguarda precetti fondamentali -onora il padre e la madre, non rubare, non uccidere, eccetera-,
ma piuttosto situazioni e atteggiamenti che comunemente non sono considerati di benessere.
E le Beatitudini che ci colpiscono maggiormente sono soprattutto quelle che si esprimono con un bruciante
contrasto: beati i poveri, beati gli afflitti, beati gli affamati. Esse infatti rivelano un misterioso
capovolgimento antropologico che consiste nel passare dall’avere all’essere, dall’essere al dare, dall’avere
per sé all’essere per gli altri. Cogliendo la dinamica di questo guado che è importantissimo per l’uomo,
possiamo raggiungere il segreto di Dio, e insieme il vero segreto dell’uomo: donarsi.
Mediamo sulla Beatitudine della fame e sete della giustizia.

Lectio.
Gli affamati e assetati di giustizia saranno saziati.
“Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati” (Mt 5,6).
Anche in questo caso non è facile rendere tutta la ricchezza di significati del testo greco che parla di
peinontes kai dipsontes. Le diverse traduzioni cercano di sottolineare quegli aspetti che sembrano più
evidenti e la Bibbia interconfessionale, ad esempio, dice: “Beati quelli che desiderano ardentemente ciò che
Dio vuole, perché Dio esaudirà i loro desideri”. E’ difficile giudicare quale sia la traduzioni migliore se non
poniamo attenzione ai tre concetti fondamentali del versetto di Matteo: giustizia, fame e sete, sazietà.

Giustizia
La parola ricorre altre volte nello stesso Discorso della Montagna.
Mt 5,10: “Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.2
Mt 5,20: “Poiché io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete
nel regno dei cieli”. Notiamo che a questo punto Gesù parla di “vostra giustizia” non semplicemente della
giustizia. Ancora in Mt 6,1. La Bibbia CEI traduce: “Guardatevi dal praticare le vostre opere buone…”, dando
così un’interpretazione al termine “giustizia”. Mt 6,33: “Cercate prima il regno di Dio e la sia giustizia, e
tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”. Possiamo concludere che il vocabolo “giustizia” indica
almeno tre atteggiamenti diversi. Anzitutto la giustizia di Dio, la salvezza finale offerta da Dio a tutti gli
uomini. In secondo luogo, la giustizia dell’uomo, le sue opere buone, osservanza delle leggi, elemosina,
sanità morale. Infine, la giustizia sociale, i rapporti giusti. Tre atteggiamenti collegati tra loro come la radice,
il fiore e il frutto. La radice è la giustizia di Dio; è lui che ci fa giusti, è la sua grazia che ci rende giusti. Il fiore
sono le opere buone secondo la volontà di Dio. Il frutto è la giustizia sociale, la solidarietà, la carità,
quell’atteggiamento per cui l’uomo non punta tutto sulla propria soddisfazione o il proprio interesse, ma li
sottopone all’impegno per la difesa della vita e della dignità del fratello più povero.

Fame, sete, sazietà
Quale di queste tre realtà -la giustizia di Dio, la giustizia dell’uomo, la giustizia sociale- è più specificamente
oggetto della fame e della sete che saranno saziate?

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Nella Scrittura ricorre spesso l’espressione “fame e sete”, molte volte nel senso immediato del termine:
uno che da tempo non ha mangiato e ha assoluta necessità di cibo; uno che si trova nell’arsura del deserto
e se non gli viene data acqua morirà. Fame e sete rappresentano due bisogni primordiali dell’uomo, che lo
definiscono nelle sue essenziali necessitò fisiologiche, di sopravvivenza. Proprio per questo evocano un
desiderio irrefrenabile, ineluttabile, che non si può soffocare. E nella Bibbia, come pure nella letteratura
universale, avere fame e sete, significa metaforicamente un bisogno profondo dell’uomo, che chiede di
essere appagato. Un esempio di fame in senso fisico le leggiamo nel Sal 107 (vv. 6.8-9). Il salmista narra di
persona che si sono sperdute durante un viaggio, e non hanno nulla da mangiare e da bere; il Signore indica
loro la strada giusta, l’oasi dove sfamarsi e dissetarsi. La fame in senso metaforico, appare nel Libro
dell’Apocalisse: “Non avranno più fame, né avranno sete né li colpirà il sole né arsura di sorta”(Ap 7,16).
Ovviamente c’è un riferimento alla fame fisica, ma appagandola si appaga ogni desiderio, viene superata
ogni fragilità umana, è vinta ogni sofferenza di questo mondo.
Nel contesto delle Beatitudini, “fame e sete” significano chiaramente il desiderio ardente di una giustizia
che, pur implicando il fiore e il frutto – le opere buone, i rapporti giusti verso il prossimo -, va alla radice: è
la giustizia nei riguardi di Dio, la tensione a una vita pienamente conforme alla volontà divina. Gli affamati e
assetati di questa giustizia non potranno non essere saziati dal Padre che è nei cieli.

Meditatio.
Il messaggio per noi
L’invito che le parole di Gesù ci rivolgono è di desiderare per la nostra vita ciò che è veramente essenziale.
Vengono alla mente le invocazioni di quella preghiera, il Padre Nostro, che costituisce il centro del Discorso
della montagna: “Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà” .
Il cristiano, ciascuno di noi, è sollecitato ad avere fame e sete anzitutto della volontà di Dio; che si compia
quanto il Signore ritiene bene e giusto – ci venga concesso quindi anche il pane materiale -, ma
specialmente ogni verità e giustizia, perché si realizzi il regno dell’amore di Dio.
Per aiutarvi nella meditazione personale, mi piace recitare il commento di don Luigi Serenthà sulla quarta
Beatitudine: «Beati quelli che hanno fame e sete di fare la volontà di Dio, cioè che dicono: il mio
nutrimento, il nutrimento su cui faccio crescere la mia vita, così come il copro cresce sul pane e sull’acqua,
non è la mia volontà ma la volontà di Dio. Io ho fame di Dio, ho sete di lui, la sua volontà è punto di
riferimento per la mia esistenza. Mi affido a Dio, lui è la mia gioia, ciò che egli mi rivela lo mangio e lo bevo
con quell’avidità con cui l’assetato e l’affamato bevono e mangiano il pane». Sono parole molto belle, che
esprimono il grande, inestinguibile desiderio dell’uomo e la risposta promessa dal Signore a tale desiderio.

Contemplatio.
Contempliamo Gesù nei santi
Vi suggerisco di contemplare Gesù il cui cibo è stato di fare la volontà del Padre che lo ha mandato,
attraverso il santi. Chi sono infatti coloro che, in e per Gesù, hanno avuto fame e sete della volontà divina, e
ne sono stati profondamente saziati, così da darci un esempio di pace, di pienezza, di soddisfazione
profonda? Sono i santi. Noi possiamo dunque pensare a un santo e chiedergli in preghiera: come hai avuto
fame e sete della volontà di Dio? Quale gioia, quale sazietà hanno colmato la tua vita? Insegnami a vivere
come hai vissuto tu. Se scegliamo di contemplare Maria, ci rivolgeremo a lei dicendo: Maria tu che ha
voluto si compisse in te la volontà di Dio, avvenisse in te secondo la sua parola, tu che hai avuto fame e sete
della volontà del Padre e sei stata pienamente saziata, divenendo madre di Dio, madre della Chiesa, madre
dell’umanità, insegnaci a gustare il cibo della volontà di Dio. Fa risuonare in noi la voce del tuo Figlio: il mio
cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato. Il mio sguardo corre ad altri santi: a Carlo Borromeo, al
Cardinale Andrea Carlo Ferrari: quale fame e sete hanno avuto della divina giustizia, quale desiderio di
operare tutto ciò che il Signore chiedeva loro, quale voglia che si compisse il disegno di Dio sulla loro
generazione! E di quale sazietà sono stati colmati, in corrispondenza al loro immenso desiderio! Il mio
sguardo corre a sant’Antonio, a san Martino, a sant’Ambrogio, a sant’Ignazio, a santa Teresa del bambino
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Gesù, a tutti i santi delle vostre chiese. Fermatevi un momento a parlare con ciascuno di loro, cercando di
ricordare come hanno espresso nella vita la fame e sete della volontà di Dio, come sono stati saziati,
pregando anche perché avvenga a noi così.

L’actio
Conclusioni pratiche
1. La prima potete metterla in pratica fin da questo momento e poi continuarla per tutto il mese: recitare
lentamente il Padre nostro, perché ci educa ad avere fame e sete della volontà di Dio. Recitarlo
lentamente, soffermandovi a gustarne ogni invocazione, quasi sentendo fame e sete del dono che viene
richiesto.
2. La seconda è di mortificare un poco, in questo tempo di Quaresima, la fame e sete fisica. Mortificare la
gola per esprimere meglio la fame e sete di Dio e, insieme, per alleviare la fame e sete dei nostri fratelli
poveri di tutto il mondo, affinché si adempia anche in questo modo la parola di Gesù. Coloro che hanno
fame di pane materiale e sete di acqua saranno così saziati per la carità dei fratelli che si sacrificano nel
desiderio di combattere la povertà drammatica e dolorosa di tante popolazioni della terra.
(C.M .MARTINI, Le Beatitudini, ed In dialogo - pag 51-58)

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B. Maggioni
          Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati

Questa beatitudine si, rivolge a tutti gli affamati e assetati della terra, invitandoli a trasformare la loro fame
e la loro sete in fame e sete di giustizia. Gesù non si rivolge in primo luogo ai ricchi e ai sazi perché diano le
briciole del loro superfluo agli affamati. Si rivolge direttamente agli affamati, perché trovino la forza di
rizzarsi in piedi e farsi protagonisti del loro cammino. A questi affamati la beatitudine non offre progetti
economici né progetti politici, ma una speranza: "sarete saziati". Una speranza solida, al sicuro, perché
sostenuta dalla promessa di Dio. La speranza è indispensabile per uscire dalla rassegnazione (che
annullerebbe ogni sforzo di cambiamento) e dalla disperazione (che porterebbe fatalmente alla violenza).

Ma se in primo luogo la beatitudine è rivolta agli affamati perché trovino la speranza e la dignità di
affacciarsi come protagonisti sulla scena del mondo, in secondo luogo la beatitudine è rivolta anche a noi, i
sazi, impegnandoci in un discorso che richiede profonda conversione. L'affamato di giustizia è vivo e prote-
so in un'appassionata ricerca della volontà di Dio. La "giustizia" è appunto la volontà di Dio, il suo disegno di
salvezza, proprio quel disegno che Gesù ha solennemente dichiarato al battesimo di essere venuto a
compiere (3,15). Le metafore della fame e della sete significano poi la totalità della ricerca appassionata
della volontà di Dio.

Aver fame e sete di giustizia significa avere la passione della giustizia, non un languido e sporadico
interessamento. L'assetato desidera l'acqua con tutto se stesso, un desiderio che di colpo ridimensiona tutti
gli altri desideri. Così l'assetato di giustizia è chi si impegna a fondo per la giustizia, con tutto se stesso, dalla
mattina alla sera, dalla testa ai piedi.

La parola giustizia ha nel vangelo un significato globale: non soltanto indica il rispetto dei diritti fra gli
uomini, ma ancor prima il rispetto dei diritti di Dio. L'affamato di giustizia vuole che siano rispettati anche i
diritti di Dio, non solo i diritti economici, sociali e politici. La giustizia della beatitudine è universale: non solo
giustizia per me, per noi, per quelli della mia parte, ma per tutti, senza distinzioni. La ricerca di giustizia di
cui parla la beatitudine è una ricerca non violenta. Per questo la beatitudine della fame di giustizia è
preceduta dalla beatitudine della non violenza: «Beati i miti perché possederanno la terra». I non violenti
assomigliano a Cristo. Sono coraggiosi, si compromettono, suscitano problemi e anche disagi, ma non
ricorrono alla violenza.

Credono nella forza dell'amore e della verità. Non sentono il bisogno di ricorrere a mezzi differenti,
coercitivi, per imporre l'amore e la verità.

L'affamato e assetato di giustizia si impegna in una ricerca vera di giustizia, non finta. Per questo non si
limita a denunciare i sintomi, ma va alle cause. Diceva Helder Camara: «Se do da mangiare ai poveri, dicono
che sono un santo, se denuncio le cause della povertà, dicono che sono un sovversivo».

La giustizia di cui parla Gesù è certamente la giustizia di cui parla anche l'Antico Testamento, specialmente i
profeti. Qualche esempio. Una prima esemplificazione - che riprendo dall'antica saggezza di Israele - non
esita quasi a confondere la giustizia nei rapporti sociali con la solidarietà. La ragione è che il modello di ogni
giustizia è sempre, sia pure sullo sfondo, il modo di comportarsi di Dio. Il libro dei Proverbi condanna
l'ingiustizia in tutte le sue forme: la frode, l'usura, soprattutto il sopruso nei confronti dei piccoli e dei
deboli: «Non spostare i confini della vedova e non entrare nei campi degli orfani, perché il loro difensore è
potente e difenderà contro di te la loro causa» (23,10-11). II medesimo libro è poi particolarmente attento

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a smascherare l'ingiustizia nei processi. E’ il caso della falsa testimonianza dei giudici corrotti che accettano
regali: «L'empio accetta un dono di nascosto per deviare le vie della giustizia» (17,23). L'uomo saggio dà
voce a chi non ha voce e fa sua la causa dei deboli: «Apri la tua bocca per chi è muto, per la causa di tutti i
derelitti! Apri la tua bocca, giudica con giustizia, rendi giustizia all'infelice e al povero» (31,8-9).

Una seconda esemplificazione intende mostrare che la giustizia - persino nei rapporti tra creditori e debitori
- va ben oltre il nostro concetto di giustizia. Si legge nel libro del Deuteronomio (24,10-13): «Se fai un
prestito qualsiasi al tuo prossimo, non entrerai in casa sua per prenderti il suo pegno; rimarrai fuori e
l'uomo al quale hai fatto il prestito ti porterà fuori il pegno. Ma se è un uomo povero, non dormirai col suo
pegno: devi restituirgli il pegno al tramonto del sole, dormirà nel suo mantello e ti benedirà e ciò sarà per te
una giustizia al cospetto del Signore tuo Dio».

La giustizia non è senza solidarietà. Non è un'attitudine passiva di imparzialità, quanto piuttosto un
appassionato impegno per l'uomo.

Tutti i profeti hanno rigorosamente trattato il tema della giustizia e dell'ingiustizia, mostrando che la scelta
dell'una o dell'altra coinvolge due opposte visioni della vita, due modi opposti di vedere Dio e l'uomo. La
giustizia non è una virtù "isolabile" dal complessivo (e ordinario) modo di pensare Dio, l'uomo e il mondo.

Già il profeta Amos, il primo dei profeti scrittori, denuncia con particolare forza e acutezza l'ingiustizia in
tutte le sue forme. Non potendo qui parlare di tutti i profeti, scelgo appunto Amos come esempio
particolarmente adatto al nostro tema. Lo sguardo del profeta segue due direzioni: Israele e le nazioni. Ciò
è comune a tutti i profeti e, molto significativo. È significativo che lo sguardo del profeta non si chiuda su
Israele: Dio si interessa anche agli altri popoli. Però il profeta non condanna le nazioni perché non praticano
la religione di Israele, né anzitutto perché combattono Israele, ma più semplicemente perché commettono
delitti contro l'uomo. Ad esempio: «Hanno deportato popolazioni intere per consegnarle a Edon»; «Hanno
deportato popolazioni intere senza ricordare l'alleanza fraterna»; «Hanno sventrato le donne incinte di
Galaad per allargare il loro confine» (1, 13). Come si vede, il profeta non mira a convertire i popoli alla
religione di Israele, ma all'uomo. Prendere come unità di misura l'uomo, come fa Amos, significa fare un
discorso religioso e insieme laico, disinteressato e universale. La prima giustizia, ovviamente, è verso Dio: di
qui quella verso gli uomini. Se si turba il primo rapporto, si turba anche il secondo. A una falsa concezione di
Dio corrisponde un falso rapporto con gli uomini. Le varie forme di ingiustizia e oppressione si riassumono
per Amos in un parola: violenza. Una violenza diffusa, penetrata dovunque, eretta a sistema, giustificata.
Amos può parlare di «regno di violenza» (6,3).

Possiamo riassumere in un quadro sintetico la situazione sociale che il profeta descrive. Il primo urto è
contro un benessere sfacciato e mal distribuito, che porta a una vita lussuosa, incurante delle miseria che
sta accanto. Più in profondità, il profeta scorge che questo benessere è frutto di ingiustizia, genera ingiu-
stizia, rende ciechi: la rovina è imminente e nessuno se ne accorge. Il tutto è poi accompagnato da un culto
falso: parole e sacrifici, riti, ma non vita e giustizia. In questa situazione il profeta è colui che si assume il
compito di smascherare l'ingiustizia dietro il benessere, la falsità dietro il culto, ed è colui che - nella
generale sonnolenza - getta un grido di allarme per la rovina imminente. Così è anche la beatitudine di
giustizia. Ma c'è una cosa da non dimenticare.

Israele non deduce i diritti dell'uomo riflettendo sull'uomo (o riflettendo soltanto e principalmente
sull'uomo), ma riflettendo su Dio e la sua azione salvifica. Il fondamento non è qualcosa che l'uomo ha in
sé, visibile per se stesso. Naturalmente anche questo punto di partenza è possibile, probabilmente

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doveroso. Ma ciò che è tipicamente biblico è diverso: la dignità dell'uomo è colta nell'atteggiamento di Dio
verso l'uomo. Un atteggiamento che non soltanto fonda la dignità dell'uomo e la riconosce, ma interviene
attivamente per difenderla. Di qui scaturisce non solo il riconoscimento del valore dell'uomo, ma l'esigenza
di un movimento di solidarietà verso l'uomo. Per la Bibbia i diritti dell'uomo sussistono soltanto dentro un
movimento di attiva solidarietà.

L'uomo biblico ha dunque scoperto la propria dignità sperimentando la vicinanza di Dio, non tanto
sperimentando la propria superiorità sulla creazione (cf. Salmo 8). La dignità dell'uomo è riflessa, ricevuta.
La dignità dell'uomo è coram Deo. Questo non significa impoverire l'uomo ma, al contrario, collocare la sua
dignità in qualcosa di assoluto, in qualcosa di cui non si può disporre.

Soggetto di dignità e diritti è l'uomo in quanto voluto, creato, amato e difeso da Dio. Nel produrre questa
dignità sono in azione sia il Dio creatore sia il Dio salvatore. L'esperienza del Dio salvatore e del Dio creatore
costituisce per Israele il luogo ermeneutico (accanto alle sollecitazioni della storia, ovviamente)
dell'individuazione dei diritti.

(Tratto da B. Maggioni, Le Beatitudini, 2014 Cittadella Editrice pag 43-49)

                                           C. Doglio
                     “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia ”
                             Il Signore Dio ci nutre e ci soddisfa

                    Vai al sito: http://www.atma-o-jibon.org/italiano/don_doglio26.htm

                                                                                                               12
CAPITOLO 3: RIPRESA DEI TEMI DELLA BEATITUDINE ATTRAVERSO IL CATECHISMO
DELLA CHIESA CATTOLICA E YOUCAT

                                    CATECHISMO CHIESA CATTOLICA

BEATI QUELLI CHE HANNO FAME E SETE DI GIUSTIZIA

ARTICOLO 7 - LE VIRTU'

1803 « Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode,
tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri » (Fil 4,8).La virtù è una disposizione abituale e ferma a fare il
bene. Essa consente alla persona, non soltanto di compiere atti buoni, ma di dare il meglio di sé. Con tutte
le proprie energie sensibili e spirituali la persona virtuosa tende verso il bene; lo ricerca e lo sceglie in azioni
concrete: « Il fine di una vita virtuosa consiste nel divenire simili a Dio ».

I. Le virtù umane

1804 Le virtù umane sono attitudini ferme, disposizioni stabili, perfezioni abituali dell'intelligenza e della
volontà che regolano i nostri atti, ordinano le nostre passioni e guidano la nostra condotta secondo la
ragione e la fede. Esse procurano facilità, padronanza di sé e gioia per condurre una vita moralmente
buona. L'uomo virtuoso è colui che liberamente pratica il bene.

Le virtù morali vengono acquisite umanamente. Sono i frutti e i germi di atti moralmente buoni;
dispongono tutte le potenzialità dell'essere umano ad entrare in comunione con l'amore divino.

Distinzione delle virtù cardinali

1805 Quattro virtù hanno funzione di « cardine ». Per questo sono dette « cardinali »; tutte le altre si
raggruppano attorno ad esse. Sono: la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza. « Se uno ama la
giustizia, le virtù sono il frutto delle sue fatiche. Essa insegna infatti la temperanza e la prudenza, la giustizia
e la fortezza » (Sap 8,7). Sotto altri nomi, queste virtù sono lodate in molti passi della Scrittura.

1807 La giustizia è la virtù morale che consiste nella costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo
ciò che è loro dovuto. La giustizia verso Dio è chiamata « virtù di religione ». La giustizia verso gli uomini
dispone a rispettare i diritti di ciascuno e a stabilire nelle relazioni umane l'armonia che promuove l'equità
nei confronti delle persone e del bene comune. L'uomo giusto, di cui spesso si fa parola nei Libri Sacri, si
distingue per l'abituale dirittura dei propri pensieri e per la rettitudine della propria condotta verso il
prossimo. « Non tratterai con parzialità il povero, né userai preferenze verso il potente; ma giudicherai il
tuo prossimo con giustizia » (Lv 19,15). « Voi, padroni, date ai vostri servi ciò che è giusto ed equo, sapendo
che anche voi avete un padrone in cielo » (Col 4,1).

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YOUCAT

“BEATI QUELLI CHE HANNO FAME E SETE DI GIUSTIZIA”
GIUSTIZIA E PACE

302 Come si fa a comportarsi giustamente?
Ci si comporta giustamente quando si fa attenzione a rendere a Dio e al prossimo ciò che gli
spetta. [1807, 1836]
Il principio della giustizia è «a ciascuno il suo»: un bambino colpito da un handicap deve essere
sollecitato in maniera diversa rispetto a un bambino superdotato, cosicché entrambi siano messi
ín condizione di ricevere ciò che è giusto per loro. La giustizia si sforza di rendere le persone
uguati, e desidera che gli uomini ricevano ciò che spetta loro.
Dobbiamo usare giustizia anche nei confronti di Dio, dandogli ciò che è suo: il nostro amore e ìl
nostro rispetto.

395 Che cos'è la pace?
La pace è la conseguenza della giustizia e il segno dell'amore realizzato; laddove c'è la pace «ogni
creatura può raggiungere la tranquillità in maniera ordinata» (Tommaso d'Aquino); la pace sulla
terra è l'immagine della pace di Cristo che ha riconciliato il cielo e la terra. [2304-2305]
La pace è ben più dell'assenza di guerra; è anche più di un equilibrio di forze («equilibrio del
terrore») sapientemente bilanciato. In uno stato di pace gli uomini possono vivere in sicurezza con
la proprietà che si sono giustamente guadagnati e possono operare un libero scambio fra loro; in
stato di pace viene rispettata la dignità così come il diritto di autodeterminazione del singolo e
anche dei popoli interi; in stato di pace tutto ciò che è umano è improntato alla solidarietà
reciproca. -> 66, 283-284, 327

“PERCHE’ SARANNO SAZIATI”
IL PANE QUOTIDIANO

522 Che cosa significa: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano»?
Chiedere il nostro pane quotidiano fa di noi uomini che attendono tutto dalla bontà del Padre
celeste, anche i beni materiali e spirituali che sono necessari per la vita; nessun cristiano può
esprimere questa richiesta senza pensare alla propria reale responsabilità per quelle persone che,
nel mondo, non hanno neppure lo stretto necessario.

523 Perché l'uomo non vive di solo pane?
«Non di solo pane vivrà t'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4, 4 con
riferimento a Dt 8, 3). [2835]
Queste parole della Scrittura ci ricordano che gli uomini provano una fame spirituale che non si
può placare con cibo materiale. Si può morire per carenza di pane; ma si può morire anche per
aver ricevuto solo pane. Solo chi ha «parole di vita eterna» (Gv 6, 68) ci nutre in profondità con un
cibo che non si deteriora (Gv 6, 27), ovvero con la santa eucaristia.

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CAPITOLO 4: RIFLESSIONI E TESTIMONIANZE DEL BEATO PIER GIORGIO FRASSATI E
DEL BEATO PAPA PAOLO VI

                                         Giovanni Battista Montini

                               L’equazione della giustizia e della pace

Oggi, primo giorno dell’anno civile, parliamo di pace, celebriamo la pace, perché la pace è il bene sommo
della civiltà, e perché al principio del nostro operare dobbiamo guardare al traguardo, al fine ultimo al
quale esso vuole giungere. Oggi è il giorno dei programmi, il giorno dei propositi. Noi vogliamo essere
padroni del tempo; lo vogliamo spendere bene. Vogliamo dare un senso alla nostra vita. La vita vale per il
senso che noi le diamo, per la direzione che noi le imprimiamo; la meta, lo scopo a cui noi la rivolgiamo.
Quale meta? Quale scopo? La pace. E la pace, che cosa è? Noi lo dicevamo: è il bene, che in questa vita
presente, la vita temporale, comprende tutti gli altri, è l’ordine, il vero ordine, non soltanto quello della
disciplina esteriore, ma l’ordine che fa stare bene tutti gli uomini e tutto l’uomo; un ordine che suppone
che tutti abbiano ciò che serve alla vita, il cibo, l’abito, la casa, la scuola, il lavoro, il riposo, il rispetto, la
sicurezza;.. anzi una società libera, concorde, ordinata, onorata d’intorno a sé; e di più cosciente del destino
della vita, e perciò colta e soprattutto religiosa (perché la religione è la lampada della vita; essa, ed essa
sola, se è la vera religione, qual è quella cristiana, ci dà luce, e ci rivela il senso della nostra esistenza, e ci
offre i mezzi per vivere bene e per salvarci, anche oltre la fine del tempo che ci è dato per vivere). Si vede
subito che la pace è una cosa assai bella, ma è una cosa difficile; tanto difficile e complessa, che alcuni la
credono un sogno, un mito, una utopia. Noi invece diciamo che la pace è una cosa difficile, sì; difficilissima
anzi; ma è una cosa possibile, una cosa doverosa. Il che vuol dire che bisogna lavorare molto per ottenere la
pace. Non si raggiunge da sé. Non si mantiene da sé. Essa è frutto di grandi sforzi, di grandi programmi. E,
prima di tutto, è frutto della giustizia: Se vuoi la pace, lavora per la giustizia. E facciamo attenzione:
dobbiamo volerla tutti; tutti dobbiamo meritarla. Spesso noi pensiamo che a questo grande programma,
quello di mettere ordine e pace nel mondo, di organizzare bene la società devono pensare coloro che
dirigono il mondo e la società; certamente, ma non esclusivamente. La pace è un bene di tutti; e tutti
dobbiamo collaborare per mantenerla, per farla progredire. E in qualche modo tutti e ciascuno in qualche
misura, lo possiamo, lo dobbiamo. Ma qui si presenta una domanda: perché un discorso così alto e così
difficile è fatto, qui, a dei ragazzi, a dei giovani, come voi, che già vivete in un ambiente ordinato e pacifico?
Ecco la risposta. La risposta però esige un’altra domanda: come si raggiunge la pace? La vera pace,
ripetiamo; quella che risulta dall’ordine vero? Perché vi può essere un ordine falso; e come! un ordine
imposto con la forza, la prepotenza, la paura, la minaccia, il ricatto, l’abuso della debolezza altrui,
l’abitudine invalsa di mantenere situazioni, dove la gente soffre, dove non può nemmeno sollevarsi e
migliorare la propria esistenza . . . è ordine vero? La schiavitù è ordine vero? La miseria sociale è ordine
vero? La povertà senza rimedio e senza assistenza, è ordine vero? L’ignoranza voluta del popolo per tenerlo
più facilmente soggetto, è ordine vero? Il dominio e lo sfruttamento dei forti sui deboli, dei ricchi sui miseri,
è ordine vero? L’imposizione pesante delle idee di alcuni su quelle degli altri, pena danni e repressioni e
castighi è ordine vero? E l’incuria dei responsabili verso l’inosservanza dei diritti altrui, dell’immoralità
scandalosa, o la tolleranza della licenza nociva al bene della società, è ordine vero? Dove non esiste, o non è
rispettata una legge ragionevole e efficace, vi è ordine vero? eccetera. Vogliamo dire: vi sono ordini
apparenti, falsi, contrari al bene comune, alla legittima libertà, alla promozione delle categorie bisognose,
ecc., i quali non possono meritare il nome autentico e bello di pace. Sono piuttosto disordini tollerati, o
costituiti, che non veri ordini equilibrati e favorevoli al benessere e al progresso comune; sono condizioni,
che possono dare una certa fissità alla vita pubblica, una consuetudine inveterata, un adattamento
rassegnato, ma che non possono generare una vera pace. Questo è chiaro. Ormai tutti ne hanno qualche
esperienza; e ormai la convinzione si diffonde che non vi può essere vera pace senza . . . Ditelo voi! senza
giustizia.
                                                                                                                   15
Ma qui sorge una seconda domanda, difficile questa; ma una domanda alla quale voi ragazzi, voi giovani
specialmente, sapete rispondere subito, istintivamente, intuitivamente. Che cosa è la giustizia?
Voi avete già in mente due risposte: vi è una giustizia del mio e del tuo, che è difesa dal famoso
comandamento «non rubare». Nessuno vuol essere chiamato ladro. E vi è un’altra giustizia che riguarda la
natura stessa dell’uomo; la giustizia, la quale vuole che ogni uomo sia trattato da uomo. Voi lo capite
subito. Sono tutti eguali gli uomini? In sostanza, sì. Ogni uomo ha una sua dignità. Dignità inviolabile: guai a
chi lo tocca! piccolo o grande che sia, povero o ricco che sia! bianco o negro che sia! Ogni uomo ha una sua
carica di diritti e di doveri, che gli meritano d’essere trattato come persona. Anzi noi cristiani diciamo che
ogni uomo è nostro fratello. Dev’essere trattato come fratello, cioè amato (l’anno scorso, per la giornata
della pace, abbiamo proprio meditato questa realtà: ogni uomo è nostro fratello).
E possiamo anche dire di più: quanto più l’uomo è piccolo, povero, sofferente, indifeso, decaduto anche, e
tanto più merita d’essere assistito, sollevato, curato, onorato! questo ce lo ha insegnato il Vangelo; ma
anche chi non crede all’autorità del Vangelo intuisce che quella parola divina ha ragione: questa è la
giustizia! questa è la via all’ordine, cioè al diritto e al dovere dell’uomo; qui è la giustizia, qui è la pace!
Ed ecco allora la spiegazione della nostra scelta nel preferire di venire qua, fra voi ragazzi, fra voi giovani,
per celebrare la giornata della pace, perché voi prima e più degli altri, avete il senso della giustizia. Voi,
senza molti ragionamenti, comprendete che nel mondo, anche nel nostro mondo moderno, vi è ancora
bisogno di giustizia. Più che mai lo comprendete, perché appunto siete moderni; cioè lo sviluppo sociale e
culturale, al quale oggi siamo arrivati, ha svegliato una coscienza umana, che non può più rimanere
insensibile ai disordini congeniti nel nostro ordinamento sociale, non può non accorgersi che il progresso
stesso produce malanni, ai quali bisogna porre rimedio; produce frustrazioni, produce disuguaglianze,
produce ingiustizie; produce conflitti, produce pericoli di catastrofi, di conflagrazioni, d’inquinamenti . . . a
cui bisogna reagire:non è giusto che sia così! Voi lo capite, e voi, a vostro modo, lo dite; e lo dite con una
minaccia, che può essere fatale: non vi può essere pace, senza una nuova giustizia. Voi, figli della nuova
generazione, afferrate subito la intrinseca necessità di questo binomio: la giustizia e la pace; esse
camminano insieme. Non vi può essere vera pace senza vera giustizia. E siccome la giustizia deve progredire
secondo le legittime aspirazioni esplose nella coscienza evoluta dell’uomo moderno, così la pace non può
essere statica, non può convalidare uno stato di cose che non tenga conto dello sviluppo dell’uomo, delle
sue antiche e nuove necessità. Difficile equazione quella della giustizia e della pace: richiederà saggezza,
prudenza, pazienza, gradualità, non violenza, non rivoluzione (che sono altre ingiustizie), ma dovrà essere
perseguita con tenacia, con sacrificio, con alto e sincero amore per l’umanità. Voi, giovani, col vostro
naturale distacco dal passato, col vostro facile genio critico, con la vostra antiveggenza istintiva, col vostro
ardimento per le imprese umane, nobili e grandi, voi potete essere all’avanguardia profetica della causa
congiunta della giustizia e della pace. E sappiate che questi Signori, i quali hanno voluto essere presenti alla
nostra e vostra celebrazione della Giornata della Pace, e sono rappresentanti illustri e qualificati del mondo
dei Responsabili - sono Diplomatici, sono Autorità politiche e cittadine, sono Vescovi e Dignitari della
Chiesa, sono Laici valorosi dedicati alla missione del bene - questi sono con voi! Mentre ringraziamo voi,
ragazzi e giovani di questa Città ideale, per la vostra accoglienza, ringraziamo tutti i presenti per la loro
significativa adesione, e col voto della Giustizia e della Pace, tutti di cuore vi benediciamo.

(V Giornata mondiale della Pace - Omelia - Sabato, 1° gennaio 1972)

                                                                                                              16
Pier Giorgio Frassati
                       L’impegno politico e la promozione della giustizia

Il suo impegno politico ha esigenze fondamentali l'una all'altra inscindibilmente collegate: difesa e
promozione della libertà e promozione della giustizia quali conseguenze di una visione cristiana dell'uomo e
del mondo.

Per questo sentiva che quelle esigenze affondavano le loro radici nel terreno per esse più fecondo, direbbe
oggi Paolo VI, la politica intesa come un momento esigente della carità. Le sue convinzioni politiche
maturate al vaglio di una sana ed intesa esperienza cristiana lo portano decisamente verso posizioni di
sinistra. Il problema della promozione delle masse proletarie fino all'incontro di tutti nella fraterna
universalità di Cristo era per lui far sì che i ricchi si convincessero per i primi ad abdicare ai troppi privilegi e
ad una più intensa pratica morale. Il criterio morale era al fondo del suo giudizio politico e in base a tale
criterio era condotto in quel momento a giudicare con un po' più di indulgenza - beninteso senza
approvarlo - il comunismo che non il fascismo la cui politica di sopraffazione e corsa al potere gli
apparivano, come erano, prive di ogni afflato spirituale. La sorella osserva che potrebbe apparire strano o
almeno retorico che egli nato e vissuto in una famiglia agiata e borghese si scagliasse violentemente contro
gli industriali ed il governo che chiaramente appoggiava i magnati della finanza.

Non bisogna dimenticare che Pier Giorgio oltre a non pretendere per sé assolutamente nulla del patrimonio
paterno, aveva più volte pubblicamente dichiarato che una volta entrato in possesso di quei beni li avrebbe
divisi con i. poveri. Nel luglio del 1922 in una lettera all'amico Villani in occasione della crisi del governo
Fàcta, scrive tra l'altro: "Speriamo che finalmente il nostro Paese possa avere un ministero capace di farsi
rispettare e si ponga fine a uno scandalo così grosso come quello rappresentato dal movimento fascista".
Aggiungeva: "Spererei nel ministero Popolare/socialista. Io spiego ancora le violenze che in qualche paese
purtroppo hanno esercitato i comunisti".

Almeno quelle erano per un grande ideale: quello di elevare la classe operaia per tanti anni sfruttata da
gente senza coscienza, ma i fascisti che ideale hanno? ...Il vile denaro! ... pagati dagli industriali ed anche
purtroppo vergognosamente dal governo,-non agiscono che sotto l'impulso della moneta e della disonestà.
Gli avvenimenti impedirono il realizzarsi di un governo quale Pier Giorgio auspicava e quando con la marcia
su Roma dell'ottobre la violenza ebbe il sopravvento sulla legalità, anche per debolezza di chi si arrese al
fatto compiuto, egli scriveva da Berlino allo stesso amico il 19 novembre 1922: "Ho dato uno sguardo al
discorso di Mussolini, tutto il sangue mi ribolle". Poi esprimeva un giudizio certamente affrettato nei
riguardi di alcuni membri del Partito Popolare che prima dell'Aventino sostenevano il fascismo,
aggiungendo: "Credi sono rimasto deluso del contegno dei popolari. Dove è il senso del progresso, dove è la
fede che anima i nostri uomini, purtroppo quando si tratta di salire agli onori del mondo gli uomini
calpestano la propria coscienza. Il giudizio cala forse maggiormente sul piano della fede che non su quello
storico/politico, tuttavia resta limpida rivelazione del rigore morale di questo giovane poco più che
ventenne che un anno prima a Roma si era fatto difensore della bandiera della FUCI contro la violenza
fascista e che nel 1923 si dimise dalla carissima FUCI il cui presidente aveva osato esporre la bandiera in
occasione della visita di Mussolini a Torino e che nel 1924 non esitò, a suon di ben assestati pugni, a
difendere la casa paterna aggredita dai fascisti.

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In quegli anni sapeva già ben distinguere le posizioni dei cattolici assunte nei confronti del fascismo
giudicando severamente tutti quei "girelli" che quotidianamente si vendono al fascismo e bolla
severamente il cosiddetto Centro Cattolico, un'ibrida formazione sorta per appoggiare il fascismo, dicendo:
"Che schifo quel Centro Cattolico". Come si può chiamare cattolico chi appoggia un governo che non ha
morale o meglio che ha fatto del rubare e dell'assassinio la sua morale?... Ben diverse erano le parole
scritte a Don Sturzo nel tormento procuratogli dalla situazione nella quale era caduto il Paese. Ogni giorno
sono sempre più stomacato e se non fossi certo che la mia fede è divina mi abbandonerei a qualche atto
insensato. Nelle ore di sconforto guardo il ritratto di Don Sturzo che ho davanti a me e dopo che dalla reli-
gione da lui attingo la forza per proseguire".

Ancora una volta e più che mai a spiegare la figura di Pier Giorgio appare il "miracolo" della sua fede che
come lo faceva generoso senza misura nell'esercizio della carità, riusciva a contenere la sua impetuosa
natura con la potenza chiarificatrice della carità e dell'umiltà e faceva del suo soffrire un'offerta per la
riparazione di ogni violenza.

(tratto da A. Viganò, Pier Giorgio Frassati)

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CAPITOLO 5: ALCUNE RISONANZE LETTERARIE E ARTISTICHE

                                              L. Ciotti
                                    Giustizia, giudici, processi
Perché esistono leggi e giudici?

Forse ci siamo domandati perché esistono leggi e giudici. Proviamo a rispondere a questo
interrogativo con qualche esempio. Marito e moglie si separano: si apre il problema della
sistemazione dei figli (con la madre, con il padre, con altri...) e della divisione dei beni.
Una rapina in banca. Un giovane viene trovato nei pressi con un passamontagna e una pistola:
occorre accertare se è uno dei rapinatori e, in caso affermativo, stabilire quale «punizione» deve
essergli applicata.
Due auto si scontrano in un incrocio e i conducenti di entrambe sostengono di aver ragione: è
necessario che intervenga una decisione che accerti chi è in colpa e quale risarcimento è dovuto
all’altro.
Ecco la necessità di una legge che stabilisca delle «regole di comportamento» valide per tutti, e di un
giudice che ne curi l'applicazione nel caso concreto.
I giudici (o magistrati) sono, dunque, incaricati di risolvere i conflitti tra i cittadini e di accertare le
responsabilità per i reati commessi (con applicazione delle corrispondenti sanzioni). Ma chi sono i
magistrati? Ecco i principali:
a) pubblici ministeri (organizzati nelle diverse procure della Repubblica) e giudici (che costituiscono
le preture, i tribunali, i tribunali per i minorenni, i tribunali di sorveglianza, le corti di appello e la
Corte di cassazione) i primi si occupano soprattutto delle indagini in materia penale e della
conseguente accusa in giudizio, cioè durante il processo; ai secondi competono le decisioni sia in
materia civile che penale;
b) giudici di mestiere (o «togati») e giudici onorari o popolari. I primi sono laureati in giurisprudenza,
hanno superato un apposito esame e fanno dell’attività giudiziaria il proprio lavoro; i secondi sono
«esperti» (presenti nei tribunali minorili e in quelli di sorveglianza) o cittadini scelti per sorteggio (i
cosiddetti «giurati» delle corti d'assise);
c) giudici monocratici e giudici collegiali. I primi sono organi giudiziari costituiti da una sola persona
fisica (per esempio, il pretore), mentre i secondi sono organi giudiziari composti da più persone che
decidono (in caso di dissenso) a maggioranza.
Deboli e potenti hanno lo stesso trattamento?
Carattere comune a tutti i magistrati (e garanzia fondamentale per i cittadini) è il fatto che siano
tenuti ad obbedire solo alla legge e che siano indipendenti da ogni altra autorità dello Stato. Solo
così, infatti, è possibile sperare che deboli e potenti abbiano lo stesso trattamento, senza alcuna
discriminazione.

Esistono due tipi di processo:

Il processo civile
A tutti noi può accadere di avere con altri dei problemi su cui non riusciamo a «metterci d'accordo».
Agli esempi fatti all'inizio possiamo aggiungerne infiniti altri: dai contrasti sulla retribuzione tra
lavoratore e datore di lavoro sino alle contestazioni sull’ammontare dell’affitto per l’alloggio in cui
abitiamo. In tutti questi casi è possibile ricorrere al giudice chiedendogli per esempio di stabilire a
quale genitore i figli devono essere affidati; chi deve risarcire il danno provocato; quali sono la
retribuzione o il canone di affitto dovuti, ecc... La caratteristica della decisione finale del giudice è la
sua esecutività, cioè il suo carattere vincolante e la possibilità per la persona interessata di
ottenerne l'esecuzione anche contro la volontà dell’altra parte. Il processo civile è, dunque, lo
strumento per la tutela dei propri diritti in modo pacifico (civile, appunto).

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