CHI È LA PERSONA GIUSTA PER RACCONTARE EXFADDA A SAN VITO DEI NORMANNI - CHEFARE
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Chi è la persona giusta per raccontare ExFadda a San Vito dei Normanni L’Italia ha bisogno di una nuova biografia culturale: insieme a Il Saggiatore e con il supporto di MiBAC e SIAE e il loro progetto ‘Per Chi Crea’, abbiamo BAGLIORE, un programma di 6 residenze artistiche per scriverla — una delle residenze si terrà a San Vito dei Normanni nell’ex-stabilmento enologico di ExFadda, un laboratorio urbano nato dal recupero di un vecchio stabilimento enologico e oggi rifunzionalizzato attraverso un cantiere “partecipato” — lo spazio (4.000 mq ed un ettaro di giardino) ospita oggi circa 30 organizzazioni attive nei campi della musica, dell’arte, dello sport, dell’artigianato e del welfare. Si tratta di un community hub che attraverso la condivisione di risorse (spazio, relazioni, competenze, denaro) cerca di favorire giovani che hanno un’idea da realizzare o vogliono imparare collaborando ad iniziative già attive. BAGLIORE offre 6 borse di residenza a 6 scrittrici e scrittori under 35 residenti in Italia — 5 mesi di programma, 15 giorni di residenza artistica a 1.600€ lordi di contributo.
Le candidature sono aperte fino al 4 ottobre e per aiutare i candidati a scegliere meglio e a raccontarsi meglio, abbiamo chiesto ai nuovi centri culturali che ospiteranno BAGLIORE di dirci, secondo loro, che tipo di persona sarebbe la più adatta a raccontare le loro iniziative. Continuiamo il nostro viaggio tra i nuovi centri culturali che ospiteranno BAGLIORE con Ginevra Errico, community manager di ExFadda a San Vito dei Normanni. Vuoi saperne di più sui nuovi centri culturali? Nella nostra colonna di ricerca I Nuovi Modi di Fare Cultura ne abbiamo intervistati a decine. Cosa accade nel tuo centro culturale? Il laboratorio urbano ExFadda nasce dal recupero di un vecchio stabilimento enologico abbandonato a San Vito dei Normanni, un complesso di proprietà pubblica in disuso dalla fine degli anni Cinquanta. Il laboratorio è gestito da una società di comunicazione locale (Sandei Srl) in collaborazione con la Cooperativa Sociale Qualcosa di Diverso e da numerose organizzazioni sociali formali e informali, ExFadda è un incubatore di comunità, un posto dove gli abitanti, soprattutto i più giovani, possono imparare in situazione, mettersi alla prova, creare un lavoro in stretta connessione con le risorse del territorio in cui vivono. ExFadda ha permesso la nascita e lo sviluppo di diversi progetti in ambiti differenti (dalla fotografia alla danza, dalla musica all’artigianato, dalla pedagogia allo sport, dalla gastronomia all’arte), alcuni dei quali sono ospitati all’interno degli spazi dell’ex stabilimento facendosi promotore/i della cultura cooperativa e dell’impresa sociale sul territorio. ExFadda, per conto delle associazioni che al suo interno si occupano di musica, danza e teatro, è risultato vincitore dell’edizione 2018 di Culturability, la call della Fondazione Unipolis per sostenere
progetti culturali innovativi ad alto impatto sociale che rigenerano o riattivano spazi abbandonati o sottoutilizzati. “Da grande sarò un teatro!”, questo il nome del progetto vincitore, ha l’obiettivo di rifunzionalizzare e avviare la gestione condivisa di un grande ambiente ancora in disuso dell’ex stabilimento enologico per trasformarlo in un centro di produzione e spettacolo per le arti performative. La comunità di ExFadda redistribuisce il valore economico generato su circa 60 persone tra docenti, operatori, liberi professionisti, artisti, creativi, addetti ai servizi. Il valore sociale complessivamente prodotto è generato tra il libero uso di spazi coperti e scoperti dell’ex stabilimento co-gestiti con gli abitanti per l’intrattenimento ed il tempo libero; l’offerta di servizi gratuiti per gli abitanti per l’orientamento, la co-progettazione, la raccolta fondi; l’inserimento lavorativo di ragazzi e ragazze con disabilità; l’organizzazione di eventi e seminari informativi sul sistema di opportunità di natura pubblica o privata; l’organizzazione e la produzione di eventi artistici e culturali accessibili a tutti; la progettazione e realizzazione di percorsi di alternanza scuola-lavoro con gli istituti scolastici del territorio. L’esperienza di ExFadda ha ispirato le politiche pubbliche del Comune di San Vito dei Normanni accompagnando l’amministrazione comunale nella progettazione del percorso di partecipazione per la rigenerazione urbana SANTU VITU MIA risultato vincitore del finanziamento regionale per la Rigenerazione Urbana Sostenibile e successivamente del Bando Partecipazione della Regione Puglia. Nel 2017 la cooperativa Qualcosa di Diverso ha avviato la gestione di un’azienda agricola confiscata alla criminalità organizzata di circa 50 ettari coltivati ad olivi e vigna. XFARM – Agricoltura Sociale – questo il nome del progetto – ha come obiettivo creare un hub rurale per sperimentare nuove pratiche agricole e sociali, promuovere la cultura antimafia tra le giovani generazioni e creare occasioni di formazione e lavoro per i più giovani. MANIFESTO è il nome dell’olio extravergine di oliva prodotto all’interno dei terreni confiscati. Qual è il tuo candidato ideale? ExFadda non può essere immaginata come una organizzazione classica ma dev’essere percepita come una comunità. Per questo abbiamo deciso di chiedere alle persone che abitano ogni giorno il Laboratorio Urbano una frase, una metafora, una caratteristica che vorrebbero ritrovare nella persona che verrà a stare con noi per BAGLIORE. Di seguito le risposte: Dovrebbe essere una persona coraggiosa, capace di fare un’esperienza comunitaria con voi più che come osservatore esterno. Una persona con i codici sentimentali, politici, intellettuali per guardare alle cose piccole che fanno grande ExFadda. Indipendente. Semplicemente vivere… buttando via il superfluo. Il candidato ideale per ExFadda deve essere esperto in sviluppo sostenibile, particolarmente predisposto alla comprensione dei temi legati al bene comune e al benessere collettivo… magari un giornalista ambientale! E con un pizzico di follia, così tra noi non si sentirà a disagio. Pensiero fluido. Una persona capace di mettersi in gioco e ascoltare! Una persona entusiasta e flessibile capace di conoscere e raccontare un posto magico e folle come ExFadda. Under 18 Capace di poter estrapolare dai racconti e dalla storia di ExFadda l’impatto generato a livello sociale ed economico su San Vito dei Normanni. Sensibile, garbato, improbabile, onesto. Curioso, di mentalità aperta, ficcanaso, socievole.
Deve essere una persona empatica, con dei valori veri e profondi… Che sappia ascoltare. Capacità di ascoltare, empatia, zero presunzione. Una finestra sul giardino. Deve saper leggere nel profondo oltre l’evidenza. Deve avere una spiccata empatia. Mente vuota, cuore pieno. Penso che dovrebbe essere obiettivo e privo di troppe aspettative per avere la mente libera di capire e poter apprezzare tutte le situazioni nella loro complessità. Secondo me ci vuole uno che tende a fare domande scomode. Secondo me questa persona dovrebbe essere molto interessata alle attività svolte in modo da essere poi in grado di riportare tutto ciò che ha appreso; allo stesso tempo dovrebbe avere una mentalità abbastanza aperta perché, come ben sappiamo, è difficile gestire e comprendere determinati meccanismi. Un sognatore ad occhi aperti nel senso buono, cioè deve emozionarsi vivendo il sogno di ExFadda ma deve essere consapevole del valore che c’è dietro, trasmettendo così con la propria scrittura due messaggi: bellezza e comunità. Dobbiamo superare il ‘bandismo’ per ricominciare a fidarci dell’innovazione culturale È tempo di affrontare i nodi che condizionano lo sviluppo delle organizzazioni no profit che operano nell’ambito culturale e sociale, soprattutto nel Mezzogiorno. Non solo per difendere l’operato di migliaia di associazioni, cooperative, fondazioni, imprese sociali, che meritano rispetto, ma per guardare con fiducia ad uno sviluppo equilibrato delle comunità, in cui cioè sono assicurati i servizi sociali e culturali essenziali, si sperimentano progetti per la lotta alla povertà educativa e alla dispersione scolastica, si incoraggiano i giovani a promuovere imprese nella gestione del patrimonio
culturale e nella produzione culturale, si valorizzano i beni confiscati alle mafie, si coltivano opportunità per costruire una economia civile. Leggi e bandi non possono diventare ‘ostacoli’. Per raggiungere questi obiettivi norme, leggi, bandi non possono diventare “ostacoli”. Abbiamo conosciuto un tempo abitato da fiducia, speranza, aspettative, dopo l’approvazione della riforma del Terzo Settore. Poi tutto si è “incagliato”. Non solo non si è data piena attuazione al nuovo quadro normativo (che pure presentava alcune evidenti criticità) ma è stata avviata una campagna di delegittimazione delle associazioni di volontariato, della cooperazione sociale e culturale, delle organizzazioni non governative, alimentando un clima di sospetto e di sfiducia. Sicché milioni di persone hanno dovuto difendere il proprio lavoro, la propria dignità, il loro servizio alle comunità, il loro impegno civile, senza per questo coprire limiti e contraddizioni. Ora serve voltare pagina. Senza aspettare soluzioni miracolistiche ma rimboccandosi le maniche e provando ad interrogarsi anche sui limiti di una azione collettiva che, in qualche caso, ha smarrito l’orizzonte entro il quale sono nati e si sono sviluppati i “mondi vitali”. Ledo Prato Nessuno può sentirsi escluso da questo processo che riveste il profilo di un’”autoriforma”. Ci sono
nodi che vanno affrontati. Ne cito alcuni. C’è una dicotomia nelle stesse organizzazioni del Terzo settore, fra Nord e Sud, fra aree interne e centri urbani, fra grandi cooperative, associazioni e la miriade di piccole esperienze che si affannano quotidianamente. Chi è “grande”, spesso non si cura di chi è più “piccolo”. Ci si prende cura della propria comunità ma non delle piccole realtà associative che di quella comunità fanno parte e di cui molte volte sono il lievito. Vivaio Sud è una rete informale di associazioni, cooperative, imprese sociali, progettisti che operano in ambito culturale e sociale La competizione, alimentata da un esasperato “bandismo”, mortifica le possibilità di crescita. Le alleanze, i partenariati si fanno fra soggetti forti senza coinvolgere le realtà più piccole. Qualche volta si “sceglie” di restare piccoli e la frammentazione non sempre consente di crescere. I professionisti, legittimamente, emettono le proprie parcelle. Quelli più bravi, più ricercati, sono una “merce” a disposizione di chi ha i mezzi adeguati. I più piccoli, a volte, devono ripiegare su professionalità meno competenti in materia ma che hanno costi più abbordabili. Le conseguenze sono immaginabili. Questo quadro, già complesso, si fa ancora più grave se lo riferiamo al Mezzogiorno. Qui, le tante straordinarie esperienze che, fra mille difficoltà, si sono fatte avanti fra sconfitte e conquiste, non hanno facili interlocuzioni con il sistema bancario, non possono fare riferimento alle risorse delle Fondazioni bancarie (poche e debolissime), si confrontano con enti locali deboli sul piano delle risorse finanziarie e umane, operano spesso in contesti ostili perché rappresentano un presidio di legalità e principi di comunitarismo. Si costruiscono bandi pubblici sempre più complessi con una serie interminabile di vincoli e criteri di selezione che premiano chi è già forte In un sistema normativo sempre più tendente ad omologare le imprese no profit a quelle profit, si costruiscono bandi pubblici sempre più complessi con una serie interminabile di vincoli e criteri di selezione che premiano chi è già forte e collaudato. Un esempio per tutti. Asse II del PON Cultura (destinato al Terzo settore). Dotazione iniziale 114 milioni. Domande presentate, 186. Ammesse 34 (il 18%!). Dopo tre anni le risorse ancora disponibili sono 84 milioni. E se è vero che non dobbiamo affidare solo alle norme legislative la soluzione di questioni culturali e sociali è altrettanto vero che la legislazione, la giurisprudenza, possono contribuire a semplificare o complicare processi e procedure. Quindi i fronti sono più di uno e ciascuno rimanda all’altro. Di questo e di altro parleremo a Salerno il 19 settembre in occasione della VI edizione di Vivaio Sud organizzata da Mecenate 90, in collaborazione con il Forum del Terzo settore.
Vivaio Sud è una rete informale di associazioni, cooperative, imprese sociali, progettisti che operano in ambito culturale e sociale, prevalentemente nelle regioni del Mezzogiorno, che si danno appuntamento ogni anno per confrontarsi su temi “sensibili”, per imbastire rapporti, relazioni, collegamenti, scambiarsi esperienze. Il titolo di questa edizione è “Fiducia nell’innovazione sociale e culturale. Fiducia nel terzo settore”. Un titolo che è anche un appello. I lavori (che hanno inizio alle 10.30 e di norma terminano alle ore 17.30/18.00) sono organizzati in due sessioni: al mattino si ascoltano gli interventi (15 minuti) di alcuni esperti sui temi posti al centro del meeting. Nella seconda sessione si presentano alcune esperienze, mettendo a tema le problematiche con cui si sono confrontati i partecipanti nel corso dell’anno, con particolare riferimento alle questioni presentate nella prima sessione. Serve un supplemento di impegno civile, culturale In questa edizione avremo occasione di confrontarci anche sugli istituti della co-programmazione e co-progettazione, disciplinati dal Codice del Terzo settore, con l’obiettivo di individuare le modalità con cui è possibile comporre un quadro che migliori l’efficacia e l’efficienza nella erogazione delle risorse destinate al Terzo settore nell’ambito culturale e sociale. Per affrontare alcuni dei temi richiamati sono stati invitati: Sergio De Felice, Presidente di Sezione del Consiglio di Stato, Michele Corradino, Consigliere dell’ANAC, Luca Gori, giurista della Scuola Sant’Anna di Pisa, Carlo Borgomeo, Presidente della Fondazione con il Sud, amministratori locali come Roberto Covolo, Assessore a Brindisi, economisti come Ludovico Solima e Stefano Consiglio, esperti come Marco D’Isanto, Renato Quaglia e Agostino Riitano, Bertram Nissen di cheFare, partner di Vivaio Sud. Soprattutto tante donne e uomini impegnati in una economia che si vuole generativa di contesti
sociali e culturali capaci di valorizzare le persone. Con loro, insieme a Maurizio Mumolo, Direttore del Forum del Terzo settore, proveremo a condividere domande e a fare proposte. Perché lo richiede il tempo che stiamo vivendo. Serve un supplemento di impegno civile, culturale, serve il coraggio di individuare le criticità, la saggezza necessaria per avanzare proposte che segnino quella discontinuità che serve per costruire un diverso presente prima ancora che un nuovo futuro. Per partecipare a Vivaio Sud, inviare una mail a m90@mecenate90.it Come salvare il giornalismo da se stesso: lo slow journalism secondo Alberto Puliafito e Daniele Nalbone Lo sentiamo dire ogni giorno: il giornalismo è morto. Morto ammazzato. Se la situazione è questa, la domanda sorge spontanea: chi l’ha ucciso? Da questa domanda muove il saggio Slow Journalism, di Alberto Puliafito e Daniele Nalbone (Fandango Editore), in cui c’è, per iniziare, un’ammissione di colpa: “La nostra indagine è anche una confessione: se il giornalismo è stato ucciso, anche Daniele e io siamo colpevoli”, racconta a cheFare Alberto Puliafito. La ragione è molto semplice: Alberto e Daniele sono stati a lungo, rispettivamente, direttore di Blogo e responsabile di Today. “Da questo punto di vista, siamo stati complici: abbiamo fatto parte di quel giornalismo che si basava solo o quasi sui click allo scopo di far vedere quanti più banner pubblicitari ai visitatori. È un tipo di lavoro che, soprattutto per quanto riguarda il posizionamento su Google attraverso la SEO, abbiamo fatto abbastanza bene; tanto da venir poi imitati da parecchie testate mainstream”, spiega Puliafito. “Quindi, per cominciare, facciamo ammissione di colpa”.
Come in ogni carneficina, i responsabili sono però numerosi. Al di là dei giornali che utilizzano modelli di business basati sui click (spesso alla base delle numerose degenerazioni di giornalismo sensazionalista, affrettato e poco accurato che vediamo ogni giorno), chi sono gli altri responsabili? “Tutti ci dicono che la colpa è di Facebook e di Google. Sarà vero?”, si chiede l’autore di Slow Journalism. “Noi non siamo diventati improvvisamente difensori di queste piattaforme: sappiamo benissimo che ci sono dei problemi. Ma sappiamo anche che – per quanto tolgano alcune opportunità – possono anche offrirne delle altre”. In poche parole, Google e Facebook sono certamente responsabili di divorarsi una parte enorme della torta della pubblicità digitale. Allo stesso tempo, un loro attento utilizzo fornisce agli editori la possibilità di raggiungere una platea immensa di lettori, con positive ricadute economiche (per quanto insufficienti a sopperire al calo di copie vendute in edicola). È un omicidio un po’ strano: tutti dicono che il giornalismo è stato ucciso, ma il cadavere non si trova La ricerca del colpevole, quindi, deve continuare: “Sarà mica colpa della gente che è stupida, come spesso affermano i colleghi più fortunati; quelli regolarmente assunti nelle redazioni con contratti di ferro?”, prosegue Alberto Puliafito. “Ma quand’è che la gente è diventata stupida? Significa che fino a poco fa, quando compravano il giornale di carta, erano invece intelligenti?”. “È un omicidio un po’ strano: tutti dicono che il giornalismo è stato ucciso, ma il cadavere non si trova. La verità infatti è un’altra: il giornalismo non è morto. È un mestiere sempre necessario e si trova ancora chi lo fa per bene: bisogna soltanto avere la pazienza di andarlo a cercare”, spiega sempre Alberto. “Non c’è un omicidio, non ci sono degli assassini: ci sono semmai svariate concause che hanno messo in grave difficoltà questa professione. E sono le stesse che andiamo ripetendo da tempo: il modo errato in cui si è monetizzato il digitale, il calo delle vendite e degli abbonamenti, la fiducia in costante discesa nei confronti del giornalismo (come di tutte le altre istituzioni)”. Ma la colpa sta anche nell’autoreferenzialità di un mondo che, di fronte alle difficoltà che sta incontrando, non trova niente di meglio che incolpare l’ignoranza di chi non legge più i giornali. È possibile sostenere una tesi del genere? “Non ci credo. Anzi, penso che troppi colleghi si siano dimenticati che il giornalismo è un prodotto che deve parlare a un pubblico; non lamentarsi se questo pubblico non lo ascolta più. Uno dei problemi principali è che non ha saputo mettersi in discussione. Se vogliamo generalizzare – e fatte le dovute eccezioni – possiamo dire che il modello di business che c’era una volta è saltato completamente. Se prima l’inserzionista pagava per apparire su un mezzo generalista come il quotidiano (perché veniva comprato da tot persone, veniva letto al bar e quindi garantiva una certa esposizione), oggi gli inserzionisti sono molto più interessati a raggiungere con precisione i loro potenziali clienti. Ed è in questo che Google e Facebook hanno davvero fatto la differenza: hanno il monopolio dei dati e di conseguenza quello sulla pubblicità digitale; lasciando agli altri soltanto le briciole”.
A differenza di quanto avvenuto nel cinema e nell’industria discografica (che – dopo quasi due decenni di pesante calo seguiti alla rivoluzione inaugurata da Napster – ha ricominciato a crescere grazie alla diffusione dei servizi in streaming), il giornalismo non si è dimostrato in grado di adattarsi all’epoca digitale. Come se ne esce? “La cruda verità è che un modello di business che ci permetterà di tornare a lavorare come prima non esiste e non esisterà”, spiega Puliafito. “La rivoluzione digitale è, per l’appunto, una rivoluzione. E le rivoluzioni fanno morti e feriti, non sono un pranzo di gala; per usare la classica citazione”. La situazione, quindi, è questa: la rivoluzione digitale ha cambiato il mondo sotto ai piedi dei giornalisti e l’Italia ha investito pochissimo in ricerca e sviluppo. Sono passati due decenni dall’inizio di questo processo e ci troviamo ancora oggi alle prese con un disorientamento completo. “In più, si è creato un vero e proprio solco tra chi ha avuto la fortuna di entrare nel giro degli articolo 1 (i contratti regolari da giornalisti, nda), che sono giustamente tutelati, e chi ha solamente la partita Iva”, prosegue Alberto. “Le aziende ormai non ti chiamano neanche più giornalista, ma content editor e ti pagano tre euro a pezzo. Ovviamente non si può dare la colpa a chi accetta questi compensi: se uno ha bisogno di lavorare diventa ricattabile per necessità. È un cane che si morde la coda: il modello di business salta, non si investe, i compensi scendono, la qualità scende, la fiducia scende”. Il contenuto dev’essere pensato per durare nel tempo Su un punto così importante come quello dei compensi, credo che sia il caso di fare un ulteriore chiarimento. Spesso ci si immagina un giornalista che lavora tutto il giorno per scrivere un singolo pezzo che viene pagato 3/5/15 euro. Le cose non stanno così. L’ho sperimentato per anni sulla mia pelle: ciò che viene richiesto è di scrivere moltissimi articoli ogni giorno (anche dieci); articoli brevi e da produrre all’istante, in cui si riprendono polemiche, dichiarazioni sui social dei vari politici, gossip e quant’altro. In questo modo, per il giornalista che li produce, diventa possibile mettere assieme un compenso che, in alcuni casi, può persino essere dignitoso. Il problema è (anche) un altro: è dignitoso il giornalismo che si produce in questo modo, fatto di tonnellate di articoli che diventano inutili nel giro di un paio d’ore? “Anche quanto abbiamo visto durante l’incendio di Notre Dame è stato drammatico”, conferma Alberto Puliafito. “Titoli che hanno il solo scopo di emozionare e che riportano i fatti in maniera assolutamente esagerata”. Tutto questo è una conseguenza della necessità di fare clic sul web e, ormai, anche di ridurre il calo delle copie; attraverso titoli urlati che possono diventare virali sui social network (i casi di Libero o La Verità ci ricordano tutti i giorni questa particolare dinamica). “Qual è allora la buona notizia? Avendo fondato, nel mio piccolo e assieme ad altri colleghi, un progetto come Slow News – che rinuncia completamente alla raccolta pubblicitaria – abbiamo avuto modo di conoscere altre redazioni che lavorano secondo questa logica”, prosegue Puliafito. “Realtà come la danese Zetland, la britannica Delayed Gratification, l’olandese De Correspondent e altre ancora. Tutte realtà che si sostengono, in forme diverse, grazie al supporto economico dei lettori. Alcune usano il termine Slow Journalism e altre no; ma tutte hanno una cosa in comune: l’attenzione nei confronti dei contenuti e la consapevolezza che la loro produzione non è solo qualcosa che costa tempo e fatica, ma è anche un asset che va sfruttato sul lungo termine”. Perché produrre un articolo pagato pochi euro e che genera attenzione per poche ore, quando si può produrre qualcosa di qualità, pagato il giusto e che mantenga la sua freschezza per mesi se non addirittura anni? Da questo punto di vista, uno dei casi scuola a livello mainstream è l’articolo What
Isis Really Wants del The Atlantic. Un pezzo di qualità, lungo, approfondito, che sfrutta anche una chiave di ricerca molto comune su Google (“Che cosa vuole l’Isis?”) e che ha generato, letteralmente, milioni di visite per mesi e mesi. Un articolo capace di coniugare successo in termini di traffico con qualità e longevità. E che sicuramente svolge un ruolo sociale molto più importante dei vari pezzi che riportano gli ultimi selfie di Salvini. Mi chiedo se sia sostenibile un modello in cui tutte le testate parlano della stessa notizia allo stesso modo “Il contenuto dev’essere pensato per durare nel tempo. E il digitale offre, da questo punto di vista, la possibilità di manutenere gli articoli pensati in questo modo, aggiornandoli quando necessario”, precisa Alberto. “Dal punto di vista del rapporto con i lettori, invece, i casi di Zetland e De Correspondent ci insegnano soprattutto come vadano trattati gli abbonati: non delle persone da contattare solo per il rinnovo dell’abbonamento, ma membri di una community con cui dialogare, con cui relazionarsi, di cui ascoltare le richieste. Non significa avere un rapporto paternalistico o confondere il ruolo dei giornalisti e dei lettori, ma avere consapevolezza che tra i nostri lettori ci sono insegnanti, infermieri, avvocati: persone che hanno conoscenze che a noi giornalisti mancano”. In questo modo, diventa possibile ascoltare le richieste dei lettori e pianificare i contenuti prendendosi il tempo necessario”. Finora, però, abbiamo parlato dei modelli di business di realtà editoriali di nicchia, che non ambiscono e non hanno i mezzi per sostituire le testate più note, che continuano comunque a svolgere un ruolo cruciale: tenerci informati su ciò che sta avvenendo in questo momento. “Non nego la necessità di avere informazioni su ciò che succede adesso, ma mi chiedo se sia sostenibile un modello in cui tutte le testate parlano della stessa notizia allo stesso modo”, precisa Puliafito. “Si è obbligati a riempire gli spazi in ogni modo, anche dicendo assurdità. Quand’ero più giovane, in televisione c’era l’edizione straordinaria: si interrompevano i programmi per cinque minuti, si davano le informazioni e poi riprendeva la programmazione normale. Non era cinismo, in quei pochi minuti venivano dette le cose che si sapevano: cos’altro ti devo dire sul momento?”. Oggi invece si fanno maratone chilometriche ma inutili, in cui si ripetono all’infinito le stesse cose; prima ancora che si abbia una vera conoscenza dell’accaduto. “Prendiamo il caso del crollo del Ponte Morandi: nonostante tutto lo spiegamento di forze che c’è stato, il lavoro più bello l’ha fatto il New York Times, con un reportage uscito quasi un mese dopo il fatto”. Il senso di tutto questo è: ci servono davvero news immediate e incomplete o è meglio concentrare le risorse per investigare davvero l’avvenuto; prendendosi il tempo necessario? “Uno dei modi per salvare il giornalismo è capire che il nostro impegno dovrebbe rivolto verso qualcos’altro rispetto alle news, che ormai sono diventate una commodity. Il giornalismo invece non si è mai interessato a quello che succede in senso fondativo, ma solo in senso eccezionale. Come dice il direttore di De Correspondent: ‘Abbiamo parlato per 150 anni del tempo che fa, avremmo dovuto invece parlare del clima che cambia’”. C’è una sola strada da seguire: iniziare subito
a sperimentare, investire e trovare nuove forme di produzione dei contenuti e di business Se la salvezza di musica e cinema è arrivata attraverso realtà come Netflix e Spotify, saranno piattaforme come Apple News + o Blendle a risollevare le sorti economiche del giornalismo (usando lo stesso principio: paghi un tot al mese e puoi accedere a tutti i contenuti che vuoi)? “Per quanto riguarda Blendle, quando li ho intervistati ho avuto la sensazione di una startup che andrà lentamente declinando. Non penso che il modello Netflix possa funzionare. Il giornalismo non è come il cinema o la musica: nel giornalismo sei legato alla testata in una maniera completamente diversa rispetto al legame che si ha con un’etichetta discografica. Invece di dare 10 euro al mese a Apple News, è più probabile che si preferisca darli al giornale di fiducia”. E infatti questa è la strada intrapresa da sempre più testate italiane come Repubblica, il Corriere e La Stampa; che pubblicano numerosi articoli sotto il cosiddetto paywall, che richiede un pagamento mensile per accedere a tutti i contenuti. “Per i big questa strada può funzionare eccome, ma devono ripensare profondamente il loro giornalismo. Se provi questa via, devi avere il coraggio di rinunciare a tutto il resto: togliere le gallery e le notizie curiose. Se vuoi convincermi a pagare, devi creare un ecosistema completamente diverso”. Questa strada, come noto, è quella perseguita con successo dal New York Times, che ha superato i 3 milioni di abbonati all’edizione digitale. Ma c’è un problema: il NYT è una testata che si rivolge letteralmente a tutto il mondo, i cui abbonati arrivano in larga parte anche da fuori gli Stati Uniti (16%) e che rappresenta comunque un caso unico. Può essere sostenibile anche per le testate nostrane, che si rivolgono a una platea massima potenziale di 60 milioni di lettori (neonati inclusi)? “Con i costi di struttura che queste testate hanno oggi, non si può fare. E in questi costi includo anche il numero di giornalisti. Non c’è un modello di business che vale per tutti, ognuno deve trovare la sua via”. Se vogliamo evitare uno scenario apocalittico, in cui le realtà editoriali che oggi conosciamo smettono di esistere per poi rinascere in maniera economicamente più sostenibile (lasciando quindi sul terreno i già citati “morti e feriti delle rivoluzioni”), c’è una sola strada da seguire: iniziare subito a sperimentare, investire e trovare nuove forme di produzione dei contenuti e di business; che restituiscano prestigio a questa professione, e di conseguenza facciano riscoprire ai lettori il vero valore del giornalismo di qualità.
Chi è la persona giusta per raccontare le Officine Culturali di Catania L’Italia ha bisogno di una nuova biografia culturale: insieme a Il Saggiatore e con il supporto di MiBAC e SIAE e il loro progetto ‘Per Chi Crea’, abbiamo BAGLIORE, un programma di 6 residenze artistiche per scriverla — una delle residenze si terrà a Catania negli spazi di Officine Culturali, un’associazione culturale la cui presenza è diffusa in luoghi come il Monastero di San Benedetto, il suo Museo della Fabbrica e il relativo Archivio, il Museo universitario di Archeologia, l’Orto Botanico e il Museo Civico Castello Ursino. Si tratta di un’impresa sociale in cui la ricerca e la progettazione si trasformano in esperienza e racconto finalizzati a rendere i beni culturali uno spazio di integrazione e aggregazione per la collettività. Nata nel 2009, oggi Officine Culturali conta 12 dipendenti e collaborazioni culturali di alto livello con le maggiori istituzioni dell’area. BAGLIORE offre 6 borse di residenza a 6 scrittrici e scrittori under 35 residenti in Italia — 5 mesi di programma, 15 giorni di residenza artistica a 1.600€ lordi di contributo.
Le candidature sono aperte fino al 4 ottobre e per aiutare i candidati a scegliere meglio e a raccontarsi meglio, abbiamo chiesto ai nuovi centri culturali che ospiteranno BAGLIORE di dirci, secondo loro, che tipo di persona sarebbe la più adatta a raccontare le loro iniziative. Continuiamo con Ciccio Mannino, delle Officine Culturali di Catania. Vuoi saperne di più? Nella nostra colonna di ricerca I Nuovi Modi di Fare Cultura abbiamo scoperto cosa sono le Officine Culturali. Cosa accade nel tuo centro culturale? L’associazione culturale Officine Culturali viene fondata il 2 novembre 2009. L’11 settembre 2018 l’associazione acquisisce la qualifica di Impresa Sociale ETS. Dal 2010, grazie ad un partenariato con l’Università di Catania (non oneroso per l’Ateneo), l’associazione si prende cura del Monastero dei Benedettini, oggi popolata sede universitaria nonché edificio di riferimento per la comunità locale, che vi si riconosce sempre più. L’associazione, nata nel 2009 dall’aggregazione di studenti e studiosi e oggi organizzazione non profit con 12 dipendenti a tempo indeterminato con CCNL Federculture. Oggi Officine Culturali, socio e parte del Consiglio Direttivo Federculture e membro dell’International Council of Museums (ICOM), svolge le sue attività tra il Monastero, il suo Museo della Fabbrica e il relativo Archivio, il Museo universitario di Archeologia, l’Orto Botanico, il Monastero di San Benedetto e il Museo Civico Castello Ursino. In questi otto anni Officine Culturali ha ritenuto imprescindibile tutelare il patrimonio culturale, rendendolo accessibile e comprensibile attraverso forme inclusive e partecipative di mediazione e
comunicazione sociale della ricerca scientifica. Non meno importante, il contrasto al fenomeno delle povertà educative è stato assunto tra gli obiettivi principali delle azioni realizzate, nel quadro di una visione generale di un welfare culturale con finalità di coesione sociale. Tali finalità sono state perseguite grazie ad attività di ricerca e studio sul patrimonio culturale e i suoi possibili utilizzi. Il risultato: circa 250mila visitatori accompagnati in 8 anni (38mila nel 2018); una adesione crescente e convinta della comunità locale, sempre più consapevole della natura di bene comune del Monastero e dei suoi utilizzi possibili; bambini e ragazzi di ogni età coinvolti a migliaia ogni anno nella partecipazione ad attività educative e nella co-creazione di contenuti; processi inclusivi volti ad abbattere barriere architettoniche, sociali, economiche e cognitive; scambio crescente tra la comunità universitaria e il resto del territorio: tutto questo ha radicalmente cambiato la percezione del complesso architettonico da parte della città, attivando sentimenti di integrazione, partecipazione, coinvolgimento e cittadinanza attiva. Un orgoglio collettivo ben riscontrabile dalla reputazione che i catanesi stanno costruendo in così pochi anni attorno al “loro” Monastero, vivendo intorno ad esso una stagione di attivismo civico. Officine Culturali vuole lavorare sul welfare culturale e la consapevolezza civica, grazie ad un palinsesto storico-architettonico che restituisce complessità storica e non solo bellezza (funzione educativa); e integrazione, grazie ad attività diversificate che consentono un continuo scambio tra le persone (funzione coesiva): mediante la collaborazione tra un ente scientifico-didattico pubblico e una organizzazione non profit, la Terza Missione dell’università si fa sperimentazione quotidiana, public engagement, accessibilità, inclusione e infine motore di coesione sociale e valorizzazione professionale del capitale umano e culturale. Qual è il tuo candidato ideale? Una persona curiosa, attenta alle idee che troverà, ma anche a chi usufruisce degli esiti di quelle idee. Indipendente. Possibilmente che conosca il mondo dei beni culturali, e soprattutto che sia intrigata dal rapporto che le persone intessono con quel mondo. E a cui, più in generale, interessino le relazioni tra persone e luoghi. Una persona, infine, che non si spaventi a tuffarsi nel quotidiano di un’impresa sociale che ogni giorno gestisce attività per centinaia di utenti, affronta emergenze, tenta la sostenibilità, sogna l’efficacia del proprio operato.
Cos’è la lingua quando cessa di comunicare? Vanni Bianconi presenta Babel Festival 2019 A settembre è ormai consueto l’appuntamento con i festival culturali che portano l’estate fin dentro l’autunno con una serie di fine settimana sparsi nelle varie città italiane all’insegna della letteratura, della filosofia, dell’ecologia e della scienza. Le piazze delle città diventano così veri e propri luoghi di confronto e di scambio in cui si intessono nuove relazioni e se ne approfondiscono altre.
Ed è proprio partendo dall’idea della relazione che abbiamo con piacere intervistato Vanni Bianconi che dirige un festival poco oltre i confini italiani che si caratterizza per un tema che per certi versi riassume tutti gli altri: la traduzione. Babel Festival – che apre i battenti il 12 settembre – giunge alla tredicesima edizione guidato da Vanni Bianconi, poeta e traduttore, originario di Locarno e da dieci anni residente a Londra. Quando nasce e perché Babel Festival? Cosa vi ha ispirato? Quale l’ambizione e la visione? Quale la necessità? Babel nasce nel 2006, ospitando le lingue della diaspora ungherese, a 50 anni dai Fatti di Ungheria. Erano gli anni Berlusconi, e i festival letterari sembravano offrire un’alternativa – se non un antidoto – alle proposte culturali dei mass media. Babel è nato dal desiderio di mettere al centro una dimensione della letteratura allora ancora trascurata, la traduzione. La traduzione che, intesa come “ospitalità linguistica” – cioè la pratica che ti porta ad andare verso l’altro per poi poterlo invitare a casa tua –, può servire da modello per altri tipi di ospitalità. Babel si concentra sulle lingue meticce, le seconde lingue, le lingue immaginate e disprezzate Questa l’ambizione e la necessità, mentre la visione passa dallo spioncino, ha a che fare con la fiducia nella letteratura quando la si ascolta con cura, come fa il traduttore, parola per parola: come è più significativo il dialogo tra traduttore e autore sulla ricorrenza di un termine o uno scarto sintattico che non le interpretazioni critiche che tendono a sovrapporsi al testo, così un testo che ci parla di una persona creandone la voce sa dirci di più sull’umanità o sul nostro tempo che molta teoria accademica o pratica politica. Come siete partiti e quanti siete ora? A quale il modello socio economico si ispira?
Eravamo un gruppo di amici vicini alle Edizioni Casagrande di Bellinzona, scrittori e traduttori. Ora siamo una ventina di persone che ci lavorano sull’arco dell’intero anno. Il modello economico è prevalentemente toyotista. A differenza di tanti festival più generici Babel affronta un tema specifico da un’angolatura specifica: sceglie un paese ospite – Balcani, Inglesi Uniti d’America, Palestina, Brasile ecc. – o un tema – Aldilà, Non parlerai la mia lingua quest’anno – che si confrontano internamente con le traduzioni, linguistiche e culturali, e invita autori che vivono e scrivono in più lingue, in dialogo con i loro traduttori italiani. Lo sforzo curatoriale è notevole, ma il risultato è speciale, come fosse un unico incontro che si articola in tanti momenti sempre collegati tra loro. Vanni Bianconi Negli anni che pubblico ha raggiunto il Festival? Quale relazione si attiva tra gli autori e il pubblico? Il festival rimane piccolo, senza sovrapposizioni di eventi in un unico teatro che ospita 380 persone, su tre giorni. Ma a dipendenza dell’edizione, il pubblico può venire da tutta Italia o piuttosto dalle regioni limitrofe, coinvolgere le comunità di immigrati che ritrovano i loro scrittori e le loro lingue o gli svizzeri delle diverse aree linguistiche. Data la dimensione intima del festival il rapporto è stretto: gli autori, star o esordienti che siano, ritrovano il pubblico a cena o nei castelli di Bellinzona.
Come si rapporta Babel Festival con il territorio? E quali pratiche promuove durante l’anno? Per anni Babel ha portato il meglio della letteratura internazionale nel contesto del Cantone Ticino per poi scomparire per un anno: molto del lavoro veniva e viene fatto a livello mondiale, con collaborazioni con festival e case editrici, riviste e istituzioni internazionali. Per dirne due, abbiamo appena curato una serie di performance di scrittori brasiliani di origine indigena e svizzeri che hanno scritto dei testi collettivamente, al gigantesco festival FLIP di Paraty. È nel passaggio, nello scarto, nella relazione, che si può cogliere qualcosa di sé e di quanto ci sta attorno Un altro progetto potenzialmente illimitato è la rivista multilingue www.specimen.press, dove pubblichiamo i testi delle decine di scrittori scoperti con il lavoro di ricerca di Babel, in qualsiasi lingua e qualsiasi alfabeto. Ma da quest’anno è nato TESSin Babel, affidato a un gruppo di giovani tornati in Ticino che organizzano incontri ed eventi sul territorio durante tutto l’anno.
Perché la traduzione? Quale il tema dell’edizione di quest’anno? La propria lingua è ciò che più si avvicina a quel che si cerca di definire “identità” – ma per questo Babel si concentra sulle lingue meticce, le seconde lingue, le lingue immaginate e disprezzate, e la traduzione: l’identità non è mai identica a se stessa ed è nel passaggio, nello scarto, nella relazione, che si può cogliere qualcosa di sé e di quanto ci sta attorno. L’edizione di quest’anno si intitola “Non parlerai la mia lingua”: nata da curiosità linguistiche – cos’è la lingua quando cessa di comunicare? – finisce per toccare l’attualità da molto vicino: mai come ora, nella storia recente, le nazioni-stato sono divise da fazioni che sembrano aver perso la capacità di ascoltarsi, e quindi ogni possibilità di intavolare un dialogo.
Abbiamo declinato il tema in quanti modi possibile: dal Codex Seraphinianus di Luigi Serafini e le riflessioni sulle lingue immaginate di Paolo Albani, a un discorso sulle lingue disprezzate di Irvine Welsh, e un suo DJ set di Acid House, dall’Archivio dei bambini perduti di Valeria Luiselli, che ausculta la nostra realtà grazie al silenzio imposto ai bambini messicani internati al confine con gli USA, alla Straniera di Claudia Durastanti, figlia di due genitori sordi immigrati a NY, in dialogo con lo scrittore eritreo-etiope ipoudente Saleh Addonia, dalla performance di yodel contemporaneo di Christian Zehnder alla tavola rotonda di traduttori di opere impossibili da tradurre.
Chi è la persona giusta per raccontare i Bagni Pubblici di via Agliè di Torino L’Italia ha bisogno di una nuova biografia culturale: insieme a Il Saggiatore e con il supporto di MiBAC e SIAE e il loro progetto ‘Per Chi Crea’, abbiamo BAGLIORE, un programma di 6 residenze artistiche per scriverla — una delle residenze si terrà a Torino nei Bagni Pubblici di via Agliè, un centro socio-culturale che fa parte di una rete di collaborazione fra 8 altri progetti chiamata Case del Quartiere. Si tratta di un punto di incontro per nuovi e vecchi cittadini, al cui interno sono presenti le sedi di associazioni, una sala con palcoscenico per le attività teatrali, il salotto/bar, una sartoria oltre ad alcuni spazi all’aperto. BAGLIORE offre 6 borse di residenza a 6 scrittrici e scrittori under 35 residenti in Italia — 5 mesi di programma, 15 giorni di residenza artistica a 1.600€ lordi di contributo.
Le candidature sono aperte fino al 4 ottobre e per aiutare i candidati a scegliere meglio e a raccontarsi meglio, abbiamo chiesto ai nuovi centri culturali che ospiteranno BAGLIORE di dirci, secondo loro, che tipo di persona sarebbe la più adatta a raccontare le loro iniziative. Cominciamo con Erika Mattarella, dei Bagni Pubblici di via Agliè di Torino. Vuoi saperne di più? Nella nostra colonna di ricerca I Nuovi Modi di Fare Cultura abbiamo scoperto cosa sono i Bagni Pubblici di via Agliè. Cosa accade nel tuo centro culturale? Cosa accade in via Agliè è una incognita quotidiana nel varcare la porta del nostro stabile: puoi incontrare i “bagnanti”, ovvero i frequentatori del servizio doccia, che potrebbero raccontarti come è andata la loro giornata, chi vince il campionato, se domani pioverà. Oppure darti consigli su case popolari e dormitori, mercati a prezzi economici. A volte una doccia può aiutare a far scendere la rabbia della frustrazione. Oppure incontrare un abitante di Barriera, che espone magie e macerie di un quartiere frizzante, che ogni giorno ha qualcosa da raccontare e raccontarsi, qualcuno da accogliere e da scoprire. Ancora, potresti incappare in qualcuno che cerca lo sportello per avere aiuto e informazioni per orientarsi nel magico mondo della burocrazia istituzionale. O un giovane o vecchio naif che ha piacere di passare una giornata in quel dei Bagni, per leggere, conoscere qualcuno o semplicemente lavorare. A questi incontri ci affianchi un caffè, una birra, una torta, un pasto. E un concerto jazz, una serata multicultura, una mostra di arte contemporanea o fotografia, uno spettacolo di teatro. E perché no, un corso, un workshop, una presentazione di un libro con autore al seguito, un dibattito, un film.
Installazione artistica nelle docce per Artissima Qual è il tuo candidato ideale? I quartieri come Barriera di Milano, per niente unico nel suo genere e di cui sono piene le grandi e medie città d’Europa, sono luoghi che nel bene e nel male hanno tanto da raccontare (del passato), ma hanno anche tanto da esprimere (nel futuro). Quartieri che sono belli e brutti come altri, che non devono essere vissuti come luoghi invivibili, e per altro verso nemmeno come luoghi “da scoprire” da qualche flaneur radical chic che cerca di cambiarlo senza percepirne la vera natura e viverlo come è. Crediamo fermamente che la mescolanza sociale sia un grande valore per i quartieri come Barriera, ma purtroppo molte esperienze di rigenerazione urbana non solo torinesi ma europee, ci hanno raccontato una storia di trasformazione fatta di stravolgimenti, esclusione ed espulsione. Con questa premessa, il candidato ideale dovrebbe essere in grado di percepire, leggere ed osservare Barriera e la sua complessità. Che sia in grado di interagire con i suoi abitanti e ricostruire un significato nuovo, capace di mettersi in gioco e non rimanere nella sua – volontaria o involontaria – idea artistica a volte autoreferenziale. Abbiamo imparato con il tempo e grazie a moltissimi artisti e scrittori che l’arte efficace è quella che interagisce e comprende; che un artista incisivo è quello che ferma il proprio ego di fronte alla cittadinanza. Che ascolta. Che dialoga. Naturalmente lo vorremmo bello e simpatico — e soprattutto scherzoso!
Candidati a BAGLIORE, il nostro programma di residenze artistiche per scrittrici e scrittori under 35 Stiamo cercando 6 scrittrici e scrittori under 35 residenti in Italia per partecipare a BAGLIORE, il programma di residenze artistiche per scrivere una nuova biografia culturale dell’Italia. BAGLIORE è realizzato dal centro per la cultura collaborativa cheFare e dalla casa editrice Il Saggiatore. Con il supporto di MiBAC e SIAE, nell’ambito del programma ‘Per Chi Crea‘. Compila qui sotto il modulo per candidarti a partecipare a BAGLIORE — la call si chiuderà venerdì 4 ottobre alle ore 12. I vincitori saranno annunciati entro martedì 22 ottobre. Per ogni dubbio o domanda, contattaci a mail@che-fare.com.
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Partecipa a BAGLIORE, il nostro programma di residenze artistiche nei nuovi centri culturali L’Italia ha bisogno di una nuova biografia culturale: abbiamo creato 6 residenze artistiche per scriverla e a partire da oggi sono aperte le candidature per partecipare. BAGLIORE è il programma di residenze artistiche per scrittrici e scrittori under 35 in 6 nuovi centri culturali in Italia realizzato da cheFare e Il Saggiatore, è stato sviluppato con il sostegno del MiBAC e di SIAE, nell’ambito del programma ‘Per Chi Crea‘. BAGLIORE permetterà a 6 scrittrici e scrittori residenti in Italia di entrare a far parte di un programma di residenza della durata di 5 mesi composto da workshop, lezioni e da una residenza artistica della durata di 15 giorni. Per la partecipazione al programma di residenza è previsto un contributo di 1.600€ lordi e la copertura delle spese di vitto e alloggio durante il periodo di residenza nei nuovi centri culturali. COME PARTECIPARE A BAGLIORE Il bando di partecipazione è aperto a partire da oggi, giovedì 5 settembre, e si concluderà alle ore 12.00 di venerdì 4 ottobre — i vincitori di BAGLIORE saranno annunciati entro martedì 22 ottobre.
I NUOVI CENTRI CULTURALI I nuovi centri culturali che ospiteranno le residenze artistiche del programma di BAGLIORE sono: i Bagni Pubblici di Via Agliè di Torino; gli spazi di CLAC a Palermo; l’ex stabilimento enologico di ExFadda a San Vito dei Normanni; l’Ex Villaggio Eni di Borca di Cadore; le Officine Culturali di Catania; i panorami di Pollinaria a Civitella Casanova. Le scrittrici e gli scrittori in residenza saranno chiamati a realizzare un testo riguardante la loro esperienza nei nuovi centri culturali — la raccolta di questi testi, infine, sarà curata e pubblicata in un libro edito da Il Saggiatore. PERCHÉ ABBIAMO CREATO BAGLIORE L’obiettivo di BAGLIORE è favorire la realizzazione di una serie di testi di narrativa, fiction, non- fiction, saggistica, poesia, fumettistica e narrativa illustrata con la finalità di: far emergere un nuovo racconto unitario dei nuovi centri culturali e delle comunità, reti e organizzazioni che rappresentano — un ecosistema di produzione, consumo e riflessione culturale di cui nessuno si è occupato fino ad ora; studiare ed approfondire i metodi e le dinamiche attraverso cui i nuovi centri culturali riescono a supportare la produzione culturale e l’attivazione di processi di coesione sociale; favorire le competenze creative delle scrittrici e degli scrittori partecipanti con particolare attenzione alla capacità di ascolto, lettura e interpretazione di fenomeni territoriali e all’interazione con editori e piattaforme di pubblicazione attraverso la convergenza conclusiva nel libro curato da Il Saggiatore. IL CONTESTO Viviamo in una crisi culturale permanente che è incapace di offrire visioni e opportunità. La via d’uscita passa attraverso la valorizzazione di una cultura collaborativa che nasce dal basso grazie allo sforzo di comunità disseminate sul territorio. È necessario un racconto corale che valorizzi e definisca queste comunità, reti e organizzazioni restituendo all’innovazione culturale sul territorio la sua giusta visibilità e importanza, con particolare attenzione ai luoghi in cui queste pratiche vengono concepite e sviluppate. Noi di cheFare chiamiamo questi luoghi nuovi centri culturali, spazi popolati da comunità, reti e organizzazioni culturali nate in risposta alla crisi economica del 2008. I nuovi centri culturali sono makerspace, biblioteche sperimentali, spazi rigenerati, community hub, residenze d’artista e Fablab — sono spazi funzionali ma allo stesso tempo luoghi che fanno molto di più di ciò che li definisce. DOMANDE FREQUENTI (F.A.Q.) BAGLIORE è un programma di residenze artistiche a cui è possibile accedere attraverso un bando di partecipazione. Tutte le informazioni sono disponibili all’interno del bando di partecipazione, ma abbiamo creato una serie di F.A.Q. in continuo aggiornamento. Per ogni domanda, possiamo essere contattati all’indirizzo email: posta@che-fare.com. Cosa si intende per scrittrice e scrittore ‘di età non superiore ai 35 anni’? Come indicato all’art. 6 del bando, con il termine scrittrice e scrittore di età non superiore ai 35 anni si intendono quelle persone che non abbiano ancora compiuto 36 anni il 05.04.2019. Una scrittrice o scrittore che compirà 36 anni dopo il 05.04.2019, è considerato under 35? Si.
Una scrittrice o scrittore che compirà 36 anni il 05.04.2019, è considerato under 35? No. Possono candidarsi le scrittrici e scrittori di nazionalità non italiana? Sì, purché residenti in Italia. Come previsto all’art. 6 dei bandi, è ammesso il coinvolgimento di scrittrici o scrittori di età non superiore ai 35 anni e residenti in Italia, inclusi i soggetti di nazionalità non italiana, purché residenti in Italia. È possibile proporre la realizzazione di un’opera a fumetti per la realizzazione di testi relativi al soggiorno presso uno dei 6 nuovi centri culturali? Si. È possibile proporre illustrazioni o narrativa illustrata per la realizzazione di testi relativi al soggiorno presso uno dei 6 nuovi centri culturali? Si. È possibile avere una lista delle domande del modulo di candidatura? Mi è più comodo scrivere offline e poi copiare e incollare le risposte nel modulo. Certo, eccole. Una modesta proposta perché gli incontri letterari siano utili alla comunità e non di
peso per il Paese Uno spettro si aggira per l’Italia, è lo spettro di uno scrittore, e tutte le librerie della penisola si sono coalizzate per respingerlo. Lo scrittore è capa tosta, però. Non molla l’osso perché ha una missione, sente le voci come Giovanna D’Arco e non sta fermo un momento, firma migliaia di libri all’anno. Il problema è che poi vuole presentarli. Ma la presentazione di un libro più che un evento mondano- culturale è diventata un supplizio medievale. È sotto gli occhi di tutti che alle presentazioni non si va perché si vuole, ma perché si “deve”. Perché l’autore è un amico/parente/collega. Perché se non ci vado “pare brutto”. Perché l’autore mi fa pena. Nella maggior parte dei casi, però, la gente si dà malata o inventa scuse come a scuola. E quali che siano i motivi, il risultato è sempre lo stesso: centinaia e centinaia di scrittori e scrittrici che cercano di camuffare l’imbarazzo, fotografati da soli o quasi, accanto alle pilette dei loro libri. E con loro, altrettanto imbarazzati e delusi, i librai che hanno messo su l’evento strombazzandolo sui social. Ma il problema è che pubblicizzare un incontro letterario allontana invece che attrarre. Funziona al contrario: se ne parli in giro la gente segna la data per ricordarsi di non passare dalle tue parti nel giorno designato. Il punto è che la stragrande maggioranza degli incontri letterari sono una tortura. E questo è uno dei miserabili non detti che ammorbano l’aere delle italiche e auliche plaghe invase da scrittori, poeti e auto-pubblicatori. Eppure dovremmo tutti esserci rassegnati all’idea che se pure hai scritto un libro, non è detto che tu sia capace di presentarlo. Se non sai parlare in pubblico; se non ti sforzi di buttare giù una scaletta, due appunti; se ti intestardisci a leggere ad alta voce ma non sai leggere, o se peggio fai leggere a qualche attore con il birignao; se pensi che “ritmo” sia una vecchia macchina della FIAT; se sei uno di quelli che “per me esistono solo i classici” e “che tempi, che tempi”, ma il tuo ego ti ha portato ugualmente a scrivere; se pensi che tutto ti sia dovuto perché tu sei l’Autore; se non hai capito che “scrittore” non significa “oratore”, potrai anche aver firmato un capolavoro, ma non dovresti assillare le librerie pretendendo di presentare te stesso, la tua ascella pezzata e la tua opera. Non c’è solo lo scrittore, però, a cui vorrei parlare oggi. Perché in questo crimine ci sono due colpevoli, l’autore e il libraio. Caro libraio indipendente, ma anche caro libraio di catena con lo spazio-eventi, dico proprio a te: perché ti ostini a presentare Tizio, se hai letto il libro e hai constatato che si tratta di un monolito inscalfibile, una muraglia di interminabili supercazzole più ostinate del temibile tiki-taka? Come hai potuto pensare che quell’insalata di parole vomitata fuori tempo massimo potesse piacere a persone che la sera prima hanno visto una puntata di Breaking bad? Non sto dicendo che il libro di Gesualdo Toponi, L’arte di mesmerizzare i cuori infranti, pubblicato da Ombelico edizioni, sia così brutto. Sto dicendo che non tutti i libri entusiasticamente recensiti da quarantenni animati da astratti furori siano presentabili nella tua onesta libreria di provincia. O ti inventi qualcosa, qualcosa di nuovo, oppure meglio lasciar perdere. Perché ci sono libri che se presentati si trasformano in macchine della morte. Vi ricordate Hellraiser? C’è questo cubo di Lemarchand, che se manipolato evoca i cenobiti, demoni sado- masochisti della sofferenza. Devo aggiungere altro? Cari librai, lo sappiamo che il dolorismo tira alla grande sui giornali e sul web. Ma se usciamo dalla bolla virtuale e presentiamo un romanzo dolorista in libreria, a provare dolore quasi sempre sarà il pubblico. Meglio evitare, allora, per concentrarsi sul lato commerciale. Sembra bieco ma non dovremmo mai dimenticare che le librerie fanno cultura vendendo i libri. Un’equazione in cui le parole “cultura” e “vendendo” sono indissolubili.
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