Il San Sebastiano nell'ultimo capolavoro, Il congedo spirituale di Andrea del Sarto - di Claudio Strinati

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Il San Sebastiano nell'ultimo capolavoro, Il congedo spirituale di Andrea del Sarto - di Claudio Strinati
Il San Sebastiano
nell’ultimo capolavoro,
Il congedo spirituale
di Andrea del Sarto
                   di Claudio Strinati
Il San Sebastiano nell'ultimo capolavoro, Il congedo spirituale di Andrea del Sarto - di Claudio Strinati
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Il San Sebastiano nell'ultimo capolavoro, Il congedo spirituale di Andrea del Sarto - di Claudio Strinati
Esposizione
                                   “San Sebastiano”
                             di Andrea d’Agnolo detto del Sarto
                           22 febbraio 2018 - 31 maggio 2018
                                Chiesa di San Carlo Borromeo,
                                    Via Nassa 26 - Lugano

                         mercoledì 11 aprile 2018 dalle ore 18.00
                             lectio magistralis del Professor

                                        Claudio Strinati

L’editore è a disposizione degli aventi diritto per eventuali immagini di cui non è stato possibile reperire la fonte

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Il San Sebastiano nell'ultimo capolavoro, Il congedo spirituale di Andrea del Sarto - di Claudio Strinati
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Il San Sebastiano nell'ultimo capolavoro, Il congedo spirituale di Andrea del Sarto - di Claudio Strinati
“San Sebastiano”, Olio su tavola, 86.5 x 62.2 cm (1529-30),
Andrea d’Agnolo detto del Sarto (Firenze, 16 luglio 1486 – Firenze, 29 settembre 1530)
                             collezione privata ticinese

                                                                                         5
Il San Sebastiano nell'ultimo capolavoro, Il congedo spirituale di Andrea del Sarto - di Claudio Strinati
Il Prof. Claudio Strinati è un protagonista indiscusso nel mondo dell’arte inter-
nazionale dalle molteplici sfaccettature. Egli ha saputo brillantemente coniu-
gare la capacità dirigenziale propria di un ex soprintendente del Polo museale
romano, che ha permesso una valida riorganizzazione dei musei storici romani
e la riapertura di Palazzo Barberini al pubblico insieme alla promozione del
restauro e la catalogazione delle opere d’arte di Roma e del Lazio rendendole
quindi accessibili agli studiosi attraverso un sistema informatico in costante
aggiornamento, a quella dell’ideatore e curatore di grandi esposizioni di succes-
so – quale p.es. la mostra su Sebastiano del Piombo a Palazzo Venezia (Roma,
2008) di seguito esportata a Berlino, quella sul Il Quattrocento romano (2008)
sempre a Roma o l’esposizione su Caravaggio organizzata alle Scuderie del Qui-
rinale (2010). Tuttavia l’abilità più nota al pubblico più ampio è quella di autore
di innumerevoli pubblicazioni, che spaziano dal breve articolo sul giornale a
imponenti monografie. Il comune denominatore dei suoi scritti? Il saper attin-
gere da un enorme bagaglio culturale interpretando i dati soggettivi in maniera
sapiente, originale e divulgativa.

Allo stesso modo il Prof. Claudio Strinati ha affrontato anche in questo caso
magistralmente il tema del dipinto esposto riassumendo le sue interessanti ri-
flessioni in questo saggio presentato di seguito in via esclusiva.

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Il San Sebastiano nell'ultimo capolavoro, Il congedo spirituale di Andrea del Sarto - di Claudio Strinati
Il San Sebastiano
 nell’ultimo capolavoro,
 Il congedo spirituale
 di Andrea del Sarto
                                                               di Claudio Strinati

È      molto bella e com-
movente la storia della
                                                          Giorgio Vasari Ritratto di Andrea
                                                            del Sarto (Incisione) dalle Vite
creazione       dell’ultima
opera di Andrea del                                        Sarto nel racconto di
Giorgio Vasari nella Vita                                 di Andrea del Sarto
contenuta nella terza par-                              te delle Le vite de’ più
eccellenti architetti, pittori, et                    scultori italiani da Cimabue
insino a’ tempi nostri, presente                  nella prima edizione delle Vite
quella stampata a Firenze nel 1550 per i tipi di Lorenzo Torrentino.
Vasari racconta che Andrea negli ultimi tempi della sua breve vita (morì il 19
novembre 1530 all’età di quarantadue anni) frequentava assiduamente la Com-
pagnia di san Sebastiano installata dietro la chiesa dei Servi a Firenze, chiesa
per la quale aveva tanto lavorato nel corso della sua vita e che annoverava molti
suoi amici.
Era un periodo triste della sua esistenza, preludio purtroppo alla prematura
scomparsa, perché all’inizio di quell’anno 1530 che lo avrebbe poi portato alla
morte, aveva ricevuto lo sgradevole, ma molto ben pagato, incarico di rappre-
sentare sulle facciate esterne del Palazzo del Podestà e dell’altro Palazzo affac-
ciantesi sulla cosiddetta Piazza della Mercatanzia Vecchia, una serie di ritratti
di alcuni capitani dell’esercito fiorentino che erano scappati durante l’assedio
di Firenze, portando con sé soldi rubati, sostanzialmente, ai commilitoni loro
inferiori, tradendo ignobilmente la repubblica. Tali ritratti sarebbero rimasti a
eterna memoria dei ribelli additati alla cittadinanza appunto come traditori.
Andrea, pur lusingato dall’incarico, non voleva però fare la figura che aveva
già fatta, un secolo prima, un suo illustre predecessore peraltro suo omonimo,
Andrea del Castagno, quando costui, artista sommo e rispettatissimo, dovette
eseguire una serie di ritratti di impiccati che pure avevano tradito la patria e si
erano macchiati di reati gravissimi, affinché restasse imperitura la memoria di
quei mascalzoni nella coscienza collettiva. Solo che Andrea del Castagno si era
così guadagnato il nomignolo di “Andrea degli Impiccati” ed ora Andrea del
Sarto non voleva che si ironizzasse su di lui in modo simile. Scelse così la via
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più facile per lui che aveva una fiorentissima bottega con un numero cospicuo
di allievi, che avrebbero potuto espletare l’incarico molto bene. Individuò in
uno in particolare la persona più giusta e Vasari ne cita il nome: si trattava di
un brillantissimo giovane pittore chiamato Bernardo del Buda. Non sappiamo
quasi nulla di questo pittore, collaboratore di Andrea del Sarto, ma quel che è
certo è che Andrea lo aiutò fornendogli alcuni disegni (qualcuno si conserva
ancora oggi), ma l’esecuzione fu affidata in toto a lui che condusse il lavoro
magistralmente tanto che il Vasari racconta che quelle figure sembravano vive
e naturali. Oggi queste pitture sono perdute perché ben presto vennero poi im-
biancate o distrutte, e già Vasari, che scrive appena venti anni dopo questi even-
ti, dichiara che le pitture sul Palazzo della Mercatanzia vecchia non si vedevano
più perché scialbate cioè, appunto, imbiancate con la calce per coprirle.
Ma Andrea soffriva moltissimo per la situazione creatasi in quell’anno a Fi-
renze dove scorrazzavano i soldati e il cibo diventava sempre più razionato. La
sua salute, già un po’ declinante, ne ebbe un colpo terribile, ma questo non gli
impedì di lavorare ancora a qualcosa di bello e la cosa più bella fu appunto il
quadro che volle fare per la Compagnia di san Sebastiano in segno di omag-
gio, di affetto e di devozione verso quella Congregazione. È ancora una volta il
Vasari che racconta la vicenda: era Andrea molto familiare d’alcuni che gover-
nano la Compagnia di san Bastiano dietro i Servi, i quali desiderosi di avere una
testa di San Bastiano di mano sua dal bellico in su, fu lor fatta da Andrea con
grandissima arte, sforzandosi la natura
ed egli quasi indovinando che quest’opere
avessino ad essere l’ultime pennellate ch’e-
gli avessi a dare.
Ed effettivamente fu proprio così perché
dopo pochi mesi da questo incarico An-
drea moriva, quasi di indigenza.
Il testo del Vasari è determinante per ca-
pire come andarono veramente le cose
rispetto a questa mezza figura del San Se-
bastiano. Gli storici, per lo più, si limita-
no a notare che di questa immagine esi-
stono molte versioni, alcune conservate
in raccolte pubbliche (come quella nel
Museo degli Innocenti a Firenze o quella
nella Pinacoteca del Comune di Prato),
molte altre, invece, in raccolte private e
                                                “San Sebastiano”, Olio su tavola, (1529-30),
l’elenco delle versioni oggi note è mol-             Andrea d’Agnolo detto del Sarto
to lungo. Solo che, con grande sorpresa                 collezione privata ticinese
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di tutti gli esperti, mentre le versioni sono numerose e
                                molte sono di altissima qualità formale, nessuno è mai
                                riuscito a chiarire quale di queste molte versioni cono-
                                sciute sia il vero originale di Andrea del Sarto e quali
                                siano le copie, le derivazioni, le imitazioni del prototipo.
                                Dal punto di vista iconografico le varie versioni sono
                                quasi uguali. Si vede, come nel caso del dipinto oggetto
                                della nostra trattazione, il santo ignudo a mezzo busto
                                (dunque dall’ombelico in su, come racconta il Vasari)
                                raffigurato come un bellissimo giovinetto che stringe
                                nella mano destra due frecce, del tipo turco con la coda
                                ad aletta, che sono le frecce che vennero conficcate nel
         Particolare:           suo petto dai torturatori senza tuttavia provocarne la
due frecce del tipo turco con morte. Lo sguardo è rivolto al cielo nella posa classica del
      la coda ad aletta
                              fervente devoto, il disegno del corpo è perfetto come era
sempre stato tipico di Andrea del Sarto, il fondo compatto, in alcune versioni
più chiaro, in altre più scuro.
Un’opera, insomma, di estrema sobrietà, raffinatezza, sensibilità.
Non c’è poi dubbio che Andrea esprimesse in questa immagine una devozione
ardente e insieme modesta, uno slancio verso il divino intensissimo e coinvolto
e un’angoscia appena velata dall’attesa del martirio e riscattata insieme dalla
certezza del Regno, come fu realmente nella vicenda terrena del milite Seba-
stiano.
Ma come mai ci sono così tante versioni e come mai sovente sono di alta qua-
lità e di ben probabile, anche se talvolta parziale, autografia? Perché il Vasari
fa capire bene nel suo racconto che quando Andrea ricevette il graditissimo
incarico dalla Compagnia di san Sebastiano, sentendosi vicino al suo ultimo
giorno, dovette come identificarsi nel martire e volle moltiplicare le versioni
del prototipo che tanto piacque ai confratelli come a voler sfidare la morte,
soffermandosi sullo stesso soggetto che costituiva per lui una sorta di memento
mori, di attesa della fine, ma di un’attesa fervida, serena, lieta e sicura, come fu
quella del protomartire. Quasi indovinando che quest’opere avessino a essere
l’ultime pennellate che egli avessi a dare. Vasari cioè parla di queste opere, non
di una sola, ma si riferisce al san Sebastiano, non ad altri dipinti. Senza dirlo
esplicitamente fa capire al lettore che, ricevuto l’incarico di eseguire un san
Sebastiano che fungesse quasi da emblema della Compagnia fiorentina, egli
ne fornisse una serie di versioni, come se avesse pensato a un brano musicale
che, arrivato alla fine, termina con un grande accordo conclusivo reiterabile più
volte o lungamente prolungato fino a che la musica non si ode più e il brano è
finito. Una tecnica musicale, peraltro, molto in uso anche nella Firenze del tem-
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Il San Sebastiano nell'ultimo capolavoro, Il congedo spirituale di Andrea del Sarto - di Claudio Strinati
po quando capitava sovente di ascoltare un madrigale profano o un mottetto
religioso, che si concludono su una stessa nota o gruppo di note, che i cantori
ripetono più volte, magari con intensità diverse, fino a che il brano termina in
un senso di acquietamento e di pace interiore.
E proprio l’acquietamento e la pace interiore promanano dall’immagine del san
Sebastiano che quindi fu pensato da Andrea del Sarto per essere ripetuto più
volte onde approfondire la minima variazione di sentimento, di impulso inti-
mo, di meditazione profonda che l’immagine vuole esprimere.
Una ulteriore conferma di questa tesi viene sempre dal testo vasariano.
Infatti il famoso passo in cui Vasari enumera e illustra i moltissimi allievi che
Andrea del Sarto ebbe nella sua operosa e attivissima bottega, si trova imme-
diatamente dopo il racconto del san Sebastiano, come a voler legare i due con-
cetti: l’ultima opera di Andrea fu il san Sebastiano, ma lo fece insieme con gli al-
lievi migliori, ognuno dei quali partecipò forse alla stesura di una delle versioni
principali senza che nessuna prevaricasse l’altra e qualcuno potesse poi dire:
«questa versione l’ha fatta tutta Andrea, quest’altra è invece del tale discepolo,
quest’altra ancora è per metà di Andrea e per metà di un certo altro allievo o
collaboratore».
Il discorso del Vasari è ben diverso e vuole saldare nella nostra mente questi
due concetti: le versioni del san Sebastiano sono come tanti figli gemelli, si as-
somigliano tutti e sono tutti figli di uno stesso padre e una stessa madre ma poi,
a ben vedere, ed è questo il secondo concetto, ognuno ha in sé delle piccole e
determinanti differenze che ne fanno un individuo a sé stante, pur avendo tanti
fratelli vicinissimi a lui.
Ed è proprio il caso del dipinto di cui raccontiamo qui la storia.

     Andrea del Sarto,
   Ritratto di sua moglie                                    La moglie viene descritta
Lucrezia de Baccio Del Fede                                  dal Vasari come un arpia,
         (1513-14)                                               fredda ed egoista.
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Anche se c’è un risvolto divertente e alquanto malizioso che è tipico del Vasari
e del suo modo di scrivere. Nel ricordare, infatti, quanti e quali magnifici allievi
Andrea del Sarto avesse avuto, coglie l’occasione per tirare una frecciatina alla
consorte del Maestro. Erano così tanti, dice il Vasari, che disturbavano alquanto
la quiete familiare perché il Maestro passava la maggior parte del tempo con
loro e la moglie se ne lagnava non poco.
Ecco il testo del Vasari: furono i discepoli suoi infiniti, i quali chi poco chi assai vi
dimorarono per colpa non sua ma della donna di esso, per le frequenti tribulazio-
ni ch’ella nel comandar gli dava loro non riguardando nessuno.
L’elenco degli allievi (e dei migliori perché molti nomi sono omessi dal Vasari)
è in effetti notevolissimo e ci fa comprendere come certamente tra questi vi
furono alcuni che di certo collaborarono alla stesura del nostro san Sebastiano.
Val la pena di riportare l’elenco: Jacopo da Pontormo, pittore divenuto poi cele-
berrimo, vicinissimo al Maestro e da annoverare trai migliori pittori del secolo;
Andrea Sguazzella, che lavorò moltissimo con Andrea specie in Francia duran-
te il breve, ma intensissimo, periodo che Andrea del Sarto trascorse a Parigi in
un momento storico cruciale nei rapporti tra la Francia, il Papato e la Signoria
di Firenze; Francesco de’ Rossi detto il Salviati, un altro gigante della pittura che
molto dovette ad Andrea in quanto a gusto, raffinatezza, eleganza, eccellenza
del disegno e del colore; Antonio di Giovanni da Settignano detto il Solosmeo,
un maestro che fu pittore e scultore la cui figura è oggi poco chiarita dagli sto-
rici, ma che fu anch’egli artista di primissimo piano; Pier Francesco di Jacopo
di Sandro, pittore anch’egli raffinatissimo che negli ultimi tempi della sua vita
fu attivo anche a Roma dove lasciò opere egregie; Jacopo del Conte, sommo
ritrattista, maestro indiscusso, autorevolissimo erede del Sarto; Nannoccio del-
la Costa di san Giorgio, un altro importante collaboratore di Andrea durante
il suo periodo francese, oggi meno conosciuto; Il Tribolo, eccelso scultore, di
cui restano oggi poche opere, ma importante per attestare la presenza anche
di scultori notevoli nella operosissima bottega di Andrea; Jacopo di Giovanni
Francesco detto Jacone, pittore molto importante e alquanto misterioso che fu
membro dell’Accademia di san Luca a Roma, la cui figura ancora oggi è poco
chiara agli storici ma è chiarissimo che dovette essere maestro di primo piano;
Domenico Conti, allievo prediletto ed esecutore testamentario del sommo Ma-
estro; e molti altri ancora.
È logico, dunque, che tra queste elette personalità debbano essere individuati
coloro i quali aiutarono il Maestro Andrea ad eseguire la serie dei dipinti del
san Sebastiano.
Ma come riconoscerli?
Indubbiamente non è facile perché tutti lavorarono sul san Sebastiano secondo
il disegno del Maestro e si attennero al suo stile, alla sua sensibilità, al suo no-
                                                                                     11
bilissimo animo.
E quindi adeguarono sicuramente le loro singole maniere di dipingere indivi-
duali all’obbiettivo di realizzare una serie di opere che fossero molto simili le
une alle altre, garantendo però quello che oggi potremmo chiamare il copyright
del Maestro Andrea.
E così fu.
Ma questa nuova versione da cui siamo partiti ha in effetti delle caratteristiche
così interessanti, che merita di essere esaminata con attenzione e approfondi-
mento, tanto che molto probabilmente possiamo circoscrivere i termini della
questione nel modo migliore, e proclamare che tale versione (fino ad oggi non
indagata dalla storiografia e non conosciuta dagli esperti stessi) è fulgida testi-
monianza della creatività di Andrea del Sarto e del suo metodo di lavoro.
Per comprendere meglio un tale assunto occorre ripercorrere alcuni aspetti
cruciali della personalità di Andrea del Sarto, specie nel momento della attività
in Francia che precede di una decina d’anni l’esecuzione del san Sebastiano.
Il periodo francese è purtroppo poco e mal documentato al punto che, dei tre
quadri insigni posseduti oggi dal Louvre di mano del Maestro Andrea, sol-
tanto uno, un autentico capolavoro raffigurante la Carità, è stato sicuramente
                                                             eseguito dal grande maestro durante
                                                             il periodo francese. Le fonti ci dicono
                                                             che Andrea trascorse circa un anno
                                                             in Francia (dal maggio del 1518 all’ot-
                                                             tobre del 1519) invitato dal re Fran-
                                                             cesco I in persona, lavorando molto
                                                             e con gran soddisfazione della corte.
                                                             Qui Andrea fu accompagnato e aiuta-
                                                             to soprattutto dal bravissimo allievo
                                                             Andrea Sguazzella. Il re certamente
                                                             vedeva in Andrea del Sarto il più alto
                                                             esponente dell’arte fiorentina attivo
                                                             in quel momento e, in conseguenza,
                                                             il più importante pittore d’Europa. La
                                                             corte di Francia, infatti, aveva stretto
                                                             un rapporto fortissimo con la fami-
                                                             glia Medici di Firenze e quindi l’arte
                                                             fiorentina era considerata il fulcro
                                                             stesso dell’arte mondiale. Il papa re-
                                                             gnante era Leone X, figlio di Lorenzo
 La Carità (185x137 cm) di Andrea del Sarto, firmato, datato il Magnifico, e appunto all’inizio di
             1518, olio su tavola trasferita su tela,
                 Museo del Louvre di Parigi
                                                             maggio di quel fatale anno 1518 l’alle-
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anza solidissima tra il papato (e quindi la famiglia Medici) e il Regno di Francia
era stata suggellata dal matrimonio della nipote prediletta del Re, Maddalena
de La Tour d’Auvergne con Lorenzo de’ Medici, duca di Urbino, nipote di Papa
Leone X. È pur vero che Leone X in occasione di un così fausto evento aveva
inviato da Roma al re di Francia alcune opere pregevolissime eseguite dal suo
artista di corte, Raffaello Sanzio di Urbino, ma è altrettanto vero che Raffaello
non era fiorentino come il papa, mentre Andrea del Sarto era in quel momento
l’esponente più illustre della patria delle arti, Firenze, e quindi egli arrivò in
Francia sull’onda di questo strepitoso successo provocato dall’alleanza Firenze-
Roma-Francia, come pittore degno di essere protagonista dell’arte presso la pri-
ma corte del mondo, quella appunto di Parigi.
Era la conseguenza di una carriera, cominciata già nei primissimi anni del Cin-
quecento, che aveva consentito ad Andrea di qualificarsi come il pittore più
colto, intelligente, dotato e autorevole della sua generazione, come e forse ancor
più di Raffaello. Tutte le opere, dunque, che Andrea eseguì a Parigi e successi-
vamente, nell’ultimo decennio della sua vita, sono ispirate a questo concetto:
essere Andrea una sorta di equivalente, nel campo dell’arte, della figura del re-
gnante, del Re in persona che governa i destini della pittura, la più regale delle
arti, e traccia la strada agli altri, una strada su cui tutti coloro che sanno cosa
sia veramente l’arte in sé si possano incamminare per proseguire verso una via
tracciata egregiamente.
In realtà c’erano delle profonde motivazioni che spiegano molto bene il profon-
do significato che un’opera estrema, come il san Sebastiano, ebbe poi agli occhi
dei contemporanei e dei successori.
Se si paragona al san Sebastiano la regale immagine della Carità del Louvre
si possono trarre deduzioni interessanti. La Carità, grande e indiscusso capo-
lavoro, molto probabilmente vuole adombrare la felice nascita del Delfino di
Francia avvenuta appunto in quel momento storico, il 25 aprile 1518, tanto che
Silvie Béguin ha ipotizzato che nelle fattezze della Madonna si possano intra-
vedere quelle della Regina Claudia di Francia, che aveva appena dato alla luce
suo figlio. L’opera costruita con una classica struttura piramidale, manifesta ad
altissimo livello quella competenza disegnativa del maestro che fu giudicata dai
contemporanei fonte di sublime bellezza, specie se unita a un trattamento della
gamma cromatica così limpida e nel contempo fluida e nettamente percepibile
in un’atmosfera tersa e luminosa, che lasciava alle spalle il fascino dello sfumato
leonardesco.
Va ricordato che Leonardo da Vinci scomparve proprio nell’anno 1519 in Fran-
cia, amatissimo, a sua volta, dal re Francesco I, ma non più attivo come pittore
data una infermità che aveva funestato i suoi ultimi anni.
Andrea del Sarto, dunque, con un’opera maestosa e bellissima come la Carità
                                                                               13
prendeva in un certo senso il posto di Leonardo in una prospettiva più moder-
na di solidità delle immagini, semplicità del sentimento, regalità e autorevolez-
za della pittura, destinate a recare soddisfazione, gloria, piacevolezza dell’esi-
stenza e certezza del potere.
La Carità di Andrea mostra una immagine femminile umile e modesta, ma
nello stesso tempo maestosa e grandiosa. È l’immagine stessa dell’interiorità
e della consapevolezza. Allatta soltanto uno dei bambini, come è coerente con
l’iconografia, ma non contempla nessuno dei tre. Abbraccia il secondo figlio
che si protende sorridente verso di lei, mentre il terzo fanciullo è separato dalla
madre e sembra dormire o forse addirittura piangere per l’abbandono. Attende
di ascendere verso la madre e, come è consuetudine nell’arte di Andrea del
Sarto, vi è leggibile una condizione di latente angoscia, di disagio, di tormento
proprio in un contesto che dovrebbe ispirare soltanto felicità, quiete e dolcezza
del vivere.
La Carità è virtù teologale nella dottrina cattolica che proprio in quel tempo si
stava consolidando e evolvendo sotto i colpi dell’appena emerso luteranesimo,
se consideriamo come dalla cosiddetta affissione delle Tesi di Wittenberg da
parte di Martin Lutero alla nascita del Delfino di Francia passa appena un anno.
Andrea del Sarto, con un’opera come la Carità del Louvre, veniva a consacrare
una sorta di ortodossia, di linea “giusta” della pittura, una linea che aveva per-
fezionato fin dagli anni della prima giovinezza e che adesso gli permetteva di
rivendicare a sé il ruolo di guida e signore della pittura. Una impostazione che
rimase ferrea fino all’ultimo giorno, come testimonia perfettamente il prototipo
del san Sebastiano, che attesta al meglio la continuità e la coerenza di questo
modo di fare arte.
In effetti protagonisti assoluti della pittura di Andrea, dalle prime opere fino
alle ultime, sono le figure dei santi e quella della Vergine e non si tratta di una
casuale circostanza, ma di una scelta che garantì l’eccellenza della sua opera
quale vero e proprio baluardo della arte sacra nell’Italia sconvolta da crisi in-
terne ed esterne, contestazioni dottrinali e sociali, aspri scontri sul piano dell’i-
deologia e della politica, ben attestati da un capolavoro come il Principe del
fiorentino Machiavelli, composto nel 1513 quando Andrea si trovava nella fase
iniziale della sua carriera e pubblicato poi molti anni dopo nel 1532, a due anni
dalla morte del grande pittore.
Si potrebbe quasi sostenere la tesi, in proposito, che l’arte di Andrea del Sarto
abbia costituito una sorta di contraltare estetico al discorso politico di un Ma-
chiavelli, là dove il segretario fiorentino tese a dare una vivida immagine delle
contraddizioni della più laica di tutte le attività, la politica, mentre Andrea co-
struì, nel corso degli anni, un tema artistico destinato a dare corpo e significato
diverso alle immagini più nobili della tradizione religiosa, infondendovi uno
  14
spirito nuovo, vivificante che assunse il carattere di una vera e propria dottrina
in immagine. Tale immagine rifulge proprio nell’amorevole attenzione alla fi-
gura della Vergine e a quella dei Santi della Chiesa cattolica rappresentati, l’una
e gli altri, come vere e proprie immagini di eroi, baluardi della Fede e della
Bellezza inestricabilmente collegati in una superiore concezione dell’arte, che
consente a ognuno di noi di aspirare a un rinnovamento totale dell’individuo
nella prospettiva del Bene e del Giusto.
E proprio sull’argomento della Madonna con i fanciulli si era dipanata gran
parte della carriera del Maestro, che su quel tipo di tematica aveva condotto
l’arte fiorentina a riappropriarsi di un ruolo che le competeva fin dai tempi di
Giotto e che era stato messo in durissima crisi dalla predicazione del frate fer-
                                                      Il falò delle vanità avvenne il 7 febbraio 1497
                                                                    e Vasari lo descrisse:

                                                     « il carnovale seguente, che era costume della
                                                     città far sopra le piazze alcuni capannucci di
                                                      stipa et altre legne, e la sera del martedì per
                                                     antico costume arderle queste con balli amo-
                                                      rosi… si condusse a quel luogo tante pitture
                                                      e sculture ignude molte di mano di Maestri
                                                     eccellenti, e parimente libri, liuti e canzonieri
                                                       che fu danno grandissimo, ma particolare
                                                         della pittura, dove Baccio portò tutto lo
                                                       studio de’ disegni che egli aveva fatto degli
                                                      ignudi, e lo imitò anche Lorenzo di Credi e
                                                       molti altri, che avevon nome di piagnoni. »

                                                     Il rogo in Piazza della Signoria,
                                                             Anonimo, 1498,
                                                        Museo di S. Marco, Firenze

rarese Gerolamo Savonarola e dal conseguente rogo delle vanità, di cui Andrea
bambino aveva certamente avuto cognizione, se non diretta (e non è affatto da
escludere) mediata dalle testimonianze dei genitori.
Quando si osserva l’impostazione stilistica e iconografica che Andrea ha elabo-
rato per il S. Sebastiano, ci si rende conto che alle origini di un’opera del genere
ci sono proprio i fatti cui Andrea assistette fanciullo nella Firenze di allora.
Andrea, infatti, sembra essere il rappresentante di una forma dì arte cristiana
che mette in forte evidenza la devozione, l’estasi, la fede come elementi indi-
spensabili per la precisa definizione dell’immagine sacra.
E questo è certamente vero, ma ancor più vero se si riflette su quella che fu
la predicazione del Savonarola e sulle conseguenze che tale predicazione ebbe
sulla attività artistica e culturale non solo della Firenze del tempo, ma dell’Italia
e, probabilmente, dell’Europa tutta.
Savonarola, per un bambino come Andrea del Sarto, proveniente da una fami-
                                                                                                15
glia che oggi potrebbe essere definita della media borghesia, non poteva non
essere la figura di massimo spicco del momento.
Il giudizio sul Savonarola è ancora oggi molto controverso e molto controversa
è l’esatta interpretazione del suo pensiero e delle vicende che lo riguardarono.
Dotato di capacità sicuramente prodigiose, come una memoria ferrea, una for-
za di volontà di gran lunga superiore a quella di qualunque altro personaggio
del suo tempo e di una cultura sterminata e profondamente metabolizzata, il
Savonarola si pose ben presto come una figura profetica, dotata di facoltà pres-
soché sovrumane, in grado di condizionare le scelte di principi e potenti, ma
anche di indirizzare il popolo verso obbiettivi di quasi utopistica rigenerazione
morale e spiritale.
                                                  Il rapporto con il potere politico fu contro-
                                                  verso. Da un lato una personalità come Lo-
                                                  renzo il Magnifico si trovò in grandi difficol-
                                                  tà nel trattare con un uomo simile, che non
                                                  aveva mai un atteggiamento diplomatico nel
                                                  presentare le proprie critiche e non arretrava
                                                  davanti a nessuna difficoltà; dall’altro il pa-
                                                  pato era in condizioni quasi di imbarazzo e
                                                  oggettiva difficoltà di fronte a un religioso
                                                  domenicano autorevolissimo da un lato, ma
                                                  troppo esplicitamente contrario alla politica
                                                  papale da poter essere lasciato in pace, chiu-
                                                  so nel suo Convento di San Marco a Firenze,
 Moretto da Brescia. Ritratto ideale di Girolamo  onde renderlo innocuo.
          Savonarola. 1524. Verona.              Savonarola sostanzialmente prevedeva per
Firenze, per il papato e per l’Europa intera una situazione di vero e proprio
collasso che avrebbe potuto travolgere gli equilibri politici, amministrativi, eco-
nomici e culturali vigenti in quel momento coincidente con un fatale passaggio
tra due secoli (il Quattrocento e il Cinquecento) che videro effettivamente un
rivolgimento epocale provocato, tra l’altro, dalla scoperta di un nuovo mon-
do avvenuta proprio all’atto dell’insediamento del papa Alessandro VI Borgia
(1492), che di questa gigantesca e sbalorditiva apertura di insospettati orizzonti
trasse elementi decisivi nell’esercizio del suo pontificato, di cui Savonarola ve-
deva con chiarezza il declino morale e religioso. Ma il rapporto tra Savonarola e
la Curia romana fu oscillante e ambiguo fino alla fine della vita dello sfortunato
monaco ferrarese. Il papa Borgia, in realtà, non era affatto ostile in un primo
momento alla predicazione del Savonarola e, anzi, aveva colto in lui un possi-
bile alleato in un momento storico in cui il rischio maggiore per il Papato era
quello di uno sbilanciamento totale del governo del mondo destinato ad atte-
  16
starsi fuori del territorio italiano. E così in effetti accadde pochissimi anni dopo
la morte del Savonarola, quando le istanze di riforma e rigenerazione totale,
che il Savonarola stesso aveva ardentemente auspicato, ma restando nell’ambito
del contrasto, tutto interno alla realtà italiana, tra Roma, Napoli, Firenze, Ve-
nezia e Milano, si spostarono con risultati pressoché irreversibili verso il nord
dell’Europa nella complessa dialettica che divenne supremazia tra il regno di
Francia, i riformatori protestanti luterani e calvinisti, l’Impero Asburgico e la
Corona d’Inghilterra, tutti, per un motivo o per un altro, intenzionati a confi-
nare la potenza economica e culturale italiana, in una marginalità che avrebbe
condannato anche la nostra cultura a una posizione minoritaria nel corso del
secolo successivo e dei tempi a venire.
Di fatto questa situazione non si verificò così come si era configurata nelle men-
ti di un Lutero all’inizio del Cinquecento o, alla fine di quello stesso secolo, di
una Regina Elisabetta di Inghilterra, ma resta il fatto che nell’immediato, cioè
subito dopo la morte di Savonarola, molti intellettuali e uomini di cultura eb-
bero la netta percezione, in Italia e fuori d’Italia, che si fosse rotto in modo defi-
nitivo quell’equilibrio su cui era fiorita, durante tutto il Quattrocento, una delle
più alte civiltà che la storia dell’Umanità ricordasse, quella, cioè, delle grandi
corti dell’Umanesimo italiano tra cui la Curia romana stessa poteva ben essere
annoverata e al massimo livello, avvicinandosi la fine di quel secolo, di elabora-
zione culturale e artistica.
Andrea del Sarto fanciullo ebbe dunque precoce cognizione di questo gran-
dioso rivolgimento e dovette percepire con grande chiarezza la critica severa
e spietata che il Savonarola, proprio negli anni dell’infanzia del futuro pittore,
aveva sferrato in particolare verso il mondo dell’arte bollato quale supremo cor-
ruttore delle coscienze per la produzione di lusso, ornamento, ostentazione e
decorativismo, tutti fattori contrari all’esercizio della vita religiosa e moralmen-
te ineccepibile quale quella predicata dal Savonarola per contrastare un mondo
allo sfascio, almeno dal suo punto di vista.
Nell’ultima fase della predicazione savonaroliana, insomma, gli artisti e gli arti-
giani fiorentini, ma anche gli orafi, massima gloria del mondo toscano, gli arre-
datori, i produttori di codici miniati, altra mirabile attività creativa del tempo,
vennero travolti dall’accusa di corruttori delle coscienze. L’arte, tanto più bella e
seducente si presentava, tanto più tendeva, secondo il Savonarola, a distogliere
gli uomini dalla loro più vera e autentica vocazione alla spiritualità, al rigore
morale, alla severità dei costumi. Naturalmente era la pittura l’arte che più di
ogni altra poteva apparire agli occhi del Savonarola e dei suoi, talvolta fanatici,
seguaci, come i cosiddetti “piagnoni”, quale fonte di ogni male e ogni corru-
zione, specie sul suo versante profano. Basti rammentare le opere, memorabili
e bellissime, di un Botticelli o un Piero di Cosimo, in cui, tra l’altro, il nudo
                                                                                  17
femminile era in tale evidenza da poter facilmente giudicare tali opere come
sconvenienti, per non dire di peggio, dai severi tutori della pubblica moralità.

                 La Morte di Procri, olio su tavola (65,4x184,2 cm) di Piero di Cosimo,
                              ( 1495 circa), National Gallery di Londra.

Eppure le cose non stavano proprio così e per comprendere sul serio il signifi-
cato artistico religioso di un dipinto come il S. Sebastiano di Andrea del Sarto,
nato a distanza di una trentina d’anni dagli eventi che portarono al falò delle
vanità savonaroliano (avvenuto, ma non fu l’unico del genere in quel periodo,
martedì grasso 7 febbraio 1497, quando migliaia di oggetti preziosi e meno pre-
ziosi, ma pur sempre giudicati vani, vennero bruciati durante una cerimonia
che coinvolse varie piazze di Firenze, dall’aspetto, stando alle fonti del tempo,
vagamente dionisiaco), occorre anche sfatare qualche luogo comune che oggi
rende più problematica la nostra analisi della situazione vera di quel momento
storico e che, invece, dovette risultare chiarissima agli occhi di un fanciullo,
quale Andrea era in quel tempo, sicuramente ben consapevole della realtà so-
stanziale dei fatti, un po’ diversa da quello che la storiografia attuale tende a
credere.
Non c’era una contrapposizione così netta tra gli artisti “profani” e il Savona-
rola o, per meglio dire, c’era, ma non nei termini che ancora adesso si tende a
considerare incontrovertibili. Emblematica, in proposito, è la testimonianza del
Botticelli che, essendo stata riportata da un suo familiare, dovrebbe essere con-
siderata attendibile. È ben noto, in proposito, come la storiografia antica abbia
adombrato l’ipotesi che il Botticelli, dopo una adesione a una linea, appun-
to profana e del tutto aliena da contenuti religiosi, con opere indubbiamente
memorabili e indimenticabili come la Primavera o la Nascita di Venere (ope-
re presumibilmente dipinte quando Andrea del Sarto non era ancora nato),
avesse avuto una profonda crisi religiosa, aderendo appunto al movimento dei
piagnoni (ancorché il moderno termine “movimento” non rifletta esattamente
il significato inerente agli intenti di quel gruppo di persone), e producendo,
sul finire della sua vita, opere a forte contenuto spirituale attestanti una sorta
di conversione. E tali opere furono effettivamente eseguite del Botticelli quan-
do Andrea si stava avviando alla carriera di pittore e non è fuor di luogo, per
  18
inquadrare nel modo migliore, gli elementi formativi che dovettero essere de-
terminanti per Andrea, ricordare come l’opera forse più importante eseguita
da Botticelli in relazione alla sua drammatica e intensissima crisi spirituale, la
cosiddetta Natività mistica, oggi conservata a Londra National Gallery, è datata
1501, quando Andrea era un adolescente di quindici anni ormai in procinto di
intraprendere la grande carriera che lo avrebbe potato ai vertici dell’arte, men-
tre il Botticelli stesso era un uomo di cinquantasei anni che stava per terminare
la sua gloriosa parabola, finita ben prima dell’anno della sua morte (il 1510)
chiudendosi in un sorta di penoso e triste isolamento. Ma quando il Botticelli
seppe del rogo del Savonarola pare avesse commentato con estrema sobrietà
l’evento, sostenendo soltanto la tesi di una sostanziale innocenza del frate, ma
senza manifestare un’esplicita adesione alle sue tesi e alla sua propaganda po-
litica. L’episodio gli apparve l’ennesima dimostrazione dell’arbitrio e dell’igno-
minia morale che governa il mondo e del destino dei giusti per i quali non c’è
giustizia.
Questo per dire come non ci fosse quella contrapposizione tra un Savonarola
inflessibile e, in definitiva, cupo moralista, che la storia ci ha consegnato con
notevole arbitrio, e un mondo artistico fiorentino laico e sprezzante della spiri-
tualità e della dottrina cristiana. Andrea del Sarto, se, per una sorta di assurda,

                La Natività mistica di Sandro Botticelli, tempera su tela (108,5x75 cm),
                              datato 1501, National Gallery di Londra.

                                                                                           19
metafisica ipotesi, fosse stato a conoscenza di questa chiave interpretativa della
storiografia moderna rispetto alle vicende del suo tempo, si sarebbe non poco
stupito perché non avrebbe riconosciuto in tale interpretazione i presupposti
veri su cui sorsero la sua arte e il suo pensiero estetico.
Quell’arte e quel pensiero estetico che, negli ultimi anni della sua vita, lo misero
in grado di eseguire un quadro come il s. Sebastiano in cui si compendiavano
un rovello e un’esperienza che erano in effetti sorti sulle ceneri del rogo delle
vanità. Ceneri, però, il cui significato profondo non era mai sfuggito ad Andrea
e che gli permisero di costruire la sua carriera su presupposti che effettivamente
furono provocati da quel rogo e dalla crisi degli artisti della vecchia generazio-
ne talmente traumatizzati da quell’evento da abbandonare quasi la attività, non
riuscendo a concepire una strada diversa da quella che avevano percorso.
Andrea, invece, quella strada la individuò da subito e la percorse coerentemen-
te fino in fondo.
Ma, allora, qual è il punto effettivo su cui si giocò tutta la partita dell’arte a
seguito delle sollecitazioni del Savonarola? Non era, infatti, la condanna savo-
naroliana delle arti belle in sé, condanna che lo stesso frate ferrarese conside-
rava fondamentalmente una sorta di grimaldello intellettuale per scuotere le
coscienze e arrivare a conclusioni socio-politiche di ben altra rilevanza; il pun-
to effettivo era un intrinseco difetto inerente alla produzione artistica nel suo
insieme su cui i pittori attivi in quel tempo si erano tutti più o meno adagiati e
che la predicazione savonaroliana fece esplodere in tutta la sua evidenza, pro-
vocando una specie di terremoto che di fatto andò tutto a vantaggio delle belle
arti e permise, sia pure in maniera alquanto traumatica, di uscire da una serie
di equivoci che si erano in effetti accumulati fino a provocare una significativa

          La Vocazione dei primi apostoli è un affresco (349x570 cm) di Domenico Ghirlandaio e aiuti,
          (1481-1482), parte della decorazione del registro mediano della Cappella Sistina in Vaticano.

  20
e preoccupante flessione al limite della sterilità, che minacciava seriamente la
creazione artistica, ben più delle severe censure savonaroliane.
Questa sterilità ha un nome ben preciso e una data ben precisa: il nome è quello
del Perugino e la data è quella della affrescatura della Cappella Sistina in Vati-
cano, che vide il Perugino tra i massimi protagonisti insieme con il Botticelli e
Domenico Ghirlandaio, a cominciare dal 1481, cioè da una data che precede di
poco la nascita di Andrea del Sarto.
C’è in proposito una testimonianza fondamentale che permette di compren-
dere con precisione i presupposti concettuali e morali su cui Andrea del Sar-
to intraprese il suo lavoro di artista, chiarendo bene il luogo comune inerente
all’influsso savonaroliano. Si tratta della Cronica rimata di Giovanni Santi, una
personalità, che sempre più chiaramente è emersa come cruciale nell’ambito
dei grandi temi culturali e artistici dibattuti in Italia nel momento di passaggio
tra il secolo quindicesimo e il secolo sedicesimo. Nell’anno 1492, quando viene
scoperta l’America, quando Alessandro VI Borgia assume il trono pontificale e
quando muore Piero della Francesca, venerato e insigne pittore–scienziato, che
aveva lasciato un insegnamento di enorme rilevanza nella cultura artistica del
suo tempo, Giovanni Santi dedicò al suo grande mecenate e protettore Federico
da Montefeltro Duca di Urbino, questo scritto chiamato appunto la Cronica
rimata offre tali e tanti spunti di conoscenza da poter essere annoverata tra i
precedenti illustri delle Vite del Vasari, pubblicate più di cinquanta anni dopo.

  Ciclo di affreschi di Giovanni Santi. Sacra conversazione e Resurrezione. Part. Cristo risorto nella cappella Tiranni,
                                          Chiesa di San Domenico di Cagli (PU)
                                                                                                                      21
Nelle Cronica Rimata Giovani Santi dimostra chiara consapevolezza delle gran-
di linee di tendenza del suo tempo in campo artistico e rimarca con precisione
il ruolo primario di Firenze nella dinamica generale delle Belle Arti in Italia
di quella fase storica, mettendo in evidenza le personalità più importanti che
la storiografia successiva fino ai nostri giorni ha confermato come realmente
primarie e determinanti. E qui Giovanni Santi sostiene come uno dei centri
artistici più rimarchevoli nell’Italia della seconda metà del Quattrocento fosse
stata la bottega del Verrocchio a Firenze. Questa primazia dell’arte fiorentina
nella dialettica complessiva della produzione architettonica, pittorica e scul-
torea dell’età dell’Umanesimo, è oggi una sorta di luogo comune storiografico
di solido fondamento. Un luogo comune che già di per sé giustifica appieno la
rilevanza della figura del fiorentinissimo Andrea del Sarto per le generazioni
successive a quella di Giovanni Santi che fiorentino non era, ma aveva una vi-
sione limpida e approfondita del suo tempo.

    Il Battesimo di Cristo, olio e tempera su tavola          L’angelo di Leonardo da Vinci (Part da) Battesimo di
        (177x151 cm) di Andrea del Verrocchio,                          Cristo di Andrea del Verrocchio
Leonardo da Vinci e altri pittori di bottega, (1475 -1478),
             Galleria degli Uffizi a Firenze.
Il Verrocchio compendiava in sé la quintessenza dell’artista fiorentino e appa-
riva agli occhi di Giovanni Santi perfettamente legittimato alla qualificazione
di maestro supremo, capace di far maturare all’interno della sua bottega i più
eletti ingegni destinati a loro volta a rendere sempre più grande e rinomata
l’arte fiorentina.
Quando Giovanni Santi scriveva, Verrocchio era scomparso da poco tempo,
nel 1488 per esattezza, ma la sua scuola era più fiorente che mai. Giovani Santi
e Verrocchio, peraltro, appartenevano alla stessa generazione, erano anzi prati-
camente coetanei, essendo nato Giovanni nel 1433 e Verrocchio nel 1435. Ma
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Giovanni Santi sapeva bene che Verrocchio non aveva affatto una visione asfit-
ticamente “fiorentinocentrica” del suo lavoro, ma al contrario tendeva a espan-

            San Sebastiano, olio su tavola di quercia (176x116 cm) di Pietro Perugino, 1495 circa ,
                                           Museo del Louvre a Parigi

dere le cognizioni e le competenze della sua bottega nelle più varie direzioni,
specie verso Roma, verso tutta l’area centrale italiana e verso Venezia.
Infatti quando Giovanni Santi mette in evidenza nella Cronica i nomi dei due
migliori allevi del Verrocchio degli ultimi tempi cita due giovani che definisce
par d’etati e par d’ amori che sono Leonardo da Vinci e Perugino. Considerato
che la data di nascita di Leonardo è certa (1452) e quella del Perugino no, si
può dare retta alla testimonianza di Giovanni Santi e ritenere che i due giovani,
pressoché coetanei dunque, siano stati in bottega insieme da Verrocchio intor-
no alla metà degli anni sessanta del Quattrocento quando erano in età tra i dieci
e i quindici anni.
Ovviamente Pietro Vannucci detto il Perugino era quindi un fiorentino di ado-
                                                                                                      23
zione, eppure, per l’evoluzione dell’arte fiorentina che porta poi fino ad Andrea
del Sarto, fu forse più importante lui dello stesso Leonardo da Vinci che prese
poi una strada ben diversa.
Il Perugino ci porta proprio nel cuore del problema legato alla Cappella Sisti-
na a Roma, alla questione savonaroliana e alla successiva nascita dell’arte di
Andrea del Sarto, creando così un ponte forte e consequenziale tra la cultura
espressa dalla bottega del Verrocchio e quella espressa poi da Andrea nel corso
di tutta la sua parabola fino all’immagine del s. Sebastiano, la cui filiazione,
dunque, dagli ideali della bottega verrocchiesca, deve essere qui proclamata.
Perugino, in effetti, si impose precocemente nell’ambiente fiorentino proprio
perché, sulla base della severa istruzione verrocchiesca, inventò, letteralmente
inventò, un nuovo modello di arte sacra, fortemente spostato verso la perfezio-
ne della forma pittorica echeggiante la solidità plastica della forma scultorea
(proprio come l’aveva appresa presso il Verrocchio) che conferì alle sue im-
magini un formidabile e sconcertante equilibrio tra la verosimiglianza della
presenza delle immagini nello spazio (mutuando questa dimensione anche
dall’influsso fiammingo molto forte nella Firenze di fine Quattrocento). Nello
stesso tempo questo modello così robusto e impeccabile dal punto di vista della
stesura e della materia pittorica, veramente comparabile a una fulgida gemma
modellata da un orefice (e l’oreficeria era ovviamente una delle massime spe-
cializzazioni verrocchiesche) consentiva al Perugino di inventare tipologie di
figure sacre (soprattutto santi e immagini pietose e dolorose della Vergine e del
Cristo) spiranti intima devozione, sospirosa interiorità, morbida e delicatissi-
ma sensibilità.
Il tipo del santo che guarda estatico in cielo portando la mano al petto per
colmo di compunta devozione, circonfuso di una luminosità eterea e quasi me-
tafisica, atono quasi per il suo totale coinvolgimento nella contemplazione del
divino, fu ben presto consacrato dal Perugino come il prototipo stesso di un’ar-
te che a tutti gli effetti vuole e deve definirsi cristiana e cattolica in particolare,
dove i principi della Fede, della Speranza e della Carità, cioè delle tre Virtù
Teologali, sembrano incarnarsi in un tipo fisico che scaturisce proprio dall’e-
sercizio di quelle virtù supreme, confinando, quindi, con il rischio dell’eccesso,
dell’ipocrisia, della vera e propria manipolazione del consenso, utilizzando una
conseguita e indubbiamente sublime bellezza come “instrumentum regni” e su-
bliminale mezzo di coercizione della coscienze.
È proprio questo rischio che coniuga insieme la seduzione della bellezza e la
severità, apparente almeno, della dottrina, che provocò lo sconcerto e poi la
rabbia funesta di un Savonarola, quando egli vedeva, proprio nel punto culmi-
nante dell’arte sacra, perfettamente rappresentato dal Perugino e anche da altri
artisti come Lorenzo di Credi, che si muovevano in direzione analoga nel dot-
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tissimo ambiente fiorentino, il sospetto di una profanità pericolosa che avrebbe
spostato l’attenzione del popolo sui valori prettamente estetici, amorali quindi,
se non immorali, occultando invece quello che avrebbe dovuto ai suoi occhi es-
sere il fine supremo dell’arte: quello di annullarsi quasi per lasciare il posto alla
bellezza non della pittura o della scultura ma a quella, puramente concettuale,
del Buono e del Giusto, valori morali che sono in sé degni di essere contemplati.
Ma contemplati con gli occhi della mente che deve rifuggire dalle lusinghe della
bellezza fisica che, mentre ci manifesta le verità della Fede, ci porta in realtà
lontano da quella verso una mondanità che è all’opposto, appunto, delle virtù
teologali e quindi dall’esercizio della vita cristiana che non ammette compro-
messi o deviazioni.

                                        La Madonna di Piazza,
                    tempera su tavola di Andrea del Verrocchio e Lorenzo di Credi,
                                      databile al 1474-1486 circa
                                   Cattedrale di San Zeno a Pistoia

Ebbene non c’è dubbio che, dopo il rogo delle vanità, Andrea del Sarto riprese
in mano questa problematica per svilupparla e riannodarla da par suo ad un
passato che sembrava ormai destituito di ogni valore e gravato da una condan-
na senza appello. Era insomma quel passato, recentissimo, ma avvertito come
remotissimo nel tempo dell’infanzia di Andrea. Quello appunto rappresentato
da un Perugino e da tutta la genia uscita dalla bottega verrocchiesca che invece
Andrea rivalutò ma in una luce completamente rinnovata e fonte di rigene-
razione estetica e morale. Fece questo per tutta la sua vita di artista e, quando
pose mano al s. Sebastiano, i suoi convincimenti e le sue idee sull’arte erano
rimaste quelle che aveva maturato nei primissimi suoi anni dopo la crisi savo-
naroliana e che avevano guidato per tutta la vita il suo lavoro di pittore.
                                                                                     25
Non si era mai smentito, anzi aveva fatto della coerenza la sua arma principale
a difesa dell’arte e della verità e legittimazione dell’arte stessa, ed ora il s. Seba-
stiano, opera estrema, veniva a chiudere degnamente quel percorso come una
sorta di retaggio prezioso lasciato ai posteri.
Un retaggio costituito di principi solidissimi, tutti calati nell’invenzione di
quell’immagine solenne. Uno soprattutto, che era la più eletta risposta alle
critiche savonaroliane e la consacrazione dell’insegnamento della bottega ver-
rocchiesca che Andrea raccoglieva e consegnava alla posterità. Quel supremo
principio si chiama il disegno.
Per intendere bene il senso di questa affermazione bisogna nuovamente rifarsi
al Vasari e alla sua vita di Andrea del Sarto, fonte preziosissima per conoscere
al meglio l’artista che Vasari conobbe a fondo e valutò con estrema precisione
e perspicacia.

                                      Lapide di Andrea del Sarto
                            (Firenze il 16 luglio 1486 - 29 settembre 1530)
                         Il chiostro della Basilica di SS. Annunziata, Firenze

Occorre, allora, riferirsi a quanto il Vasari ricorda dei fatti immediatamente
succedutisi dopo la morte del Maestro. Vasari dunque parla della sepoltura di
Andrea nella Chiesa dei Servi e cita la commovente lapide scritta da Pier Vitto-
ri, grande letterato del tempo che rimarca la vicinanza di Andrea con gli anti-
chi suoi predecessori. È una formula convenzionale, va riconosciuto, e tuttavia,
in un caso come questo, assume grandissimo significato, dando una ulteriore
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chiave di lettura per il s. Sebastiano, visto e considerato che il s. Sebastiano ri-
flette indubbiamente l’estremo pensiero di Andrea e chiude degnissimamente
la sua carriera gloriosa. Ma proprio su questo aspetto la notazione del Vasari
è rivelatrice per farci arrivare alla più profonda comprensione dell’opera e del
valore di Andrea del Sarto e del s. Sebastiano in particolare. C’è infatti una
notazione molto particolare in questo punto della narrazione vasariana su cui
bisogna soffermarsi.
Ecco i fatti: Vasari racconta che, compilata la bellissima lapide, accadde un epi-
sodio increscioso. Andrea, suggerisce lo storico aretino, doveva avere molti ne-
mici in considerazione del fatto che, mentre dal punto di vista artistico il suo
valore era universalmente riconosciuto e addirittura da molti venerato, sotto
il profilo più squisitamente umano la sua fama non era affatto buona. Aveva
condotto una vita, pare, non certamente ispirata a quelle cristalline virtù da lui
così mirabilmente rappresentate e aveva nel corso degni anni scontentato non
poche persone e creato talvolta situazioni difficili, sia nei suoi rapporti con le
donne, molto discutibili a giudizio del Vasari, sia nei rapporti con gli amici e
con gli stessi sostenitori con i quali non sempre aveva adeguatamene onorato
gli impegni.
Non è strano tutto ciò, perché è quasi all’ordine del giorno, nello studio della
storia dell’arte, il fatto che la vita di un artista non corrisponda mai, o quasi mai,
con l’opera. Un artista, più grande è e più immette nell’opera che crea tutti gli
eletti valori che possiede in sé. Può capitare, così, che la vita quotidiana sia, se
non l’opposto, in contraddizione rispetto a ciò che si vede nell’opera. Il benefi-
cio che l’artista dona all’Umanità risiede sostanzialmente nell’opera creata. La
vita personale può addirittura essere indebolita quando la dedizione all’arte è
totale e così fu certamente per Andrea del Sarto che è tutto dentro la sua opera.
Fatto sta che alcuni malevoli brigarono, racconta il Vasari, a che la tomba re-
stasse vuota adducendo che non era stata concessa l’autorizzazione relativa per
l’inumazione. E qui il commento del Vasari assurge a pura teoresi che apre la
strada ad una possibile interpretazione del s. Sebastiano quale emblema supre-
mo di un’intera vita d’artista: basta che se egli fu di animo basso nelle azioni della
vita (…) egli per questo non è che nell’arte non fussi e d’ingegno elevato e speditis-
simo e pratico in ogni lavoro; avendo con le opere sue, oltra l’ornamento che elle
fanno ai luoghi dove elle sono, fatto grandissimo giovamento ai suoi artefici nella
maniera, nel disegno e nel colorito, con manco errori ch’altro pittore fiorentino,
per avere inteso benissimo le ombre e i lumi, e lo sfuggire le cose nelli scuri, dipinte
con una dolcezza molto viva, oltra lo aver mostro il modo del lavorare in fresco,
con quella unione e senza ritoccar troppo a secco che fa parere fatto l’ opera sua
tutta in un medesimo giorno.
Qui c’è la quintessenza del tema artistico di Andrea del Sarto che ci spinge ad
                                                                                    27
approfondire il tema del disegno in particolare come sua peculiarità suprema.
Vasari insiste su una tematica apparentemente contraddittoria. Andrea, a suo
dire, avrebbe fornito un vero e proprio modello per le generazioni a venire
elaborando una maniera (oggi diremmo uno stile) fondata sulla perfezione del
disegno e corroborata dalla capacità, sua tipica, di contemperare le luci e le
ombre per un effetto finale del quadro che, però, è anch’esso un effetto di carat-
tere prettamente grafico-disegnativo; nel dare, cioè, prospettiva alle immagini
come fondendole insieme in una dolce atmosfera che dà a chi guarda l’idea
di una perfezione della rappresentazione in cui è impossibile trovare anche il
minimo errore. Se, in altri termini, sovente nella vita Andrea cadde in errore
nei comportamenti quotidiani, mai gli accadde qualcosa di simile nel concreto
esercizio della sua arte.
Questo concetto dell’errore, anzi della mancanza dell’errore, è fondato appunto
sul disegno ed è la chiave di volta per intendere al meglio una raffigurazione
come quella del s. Sebastiano.
Occorre riflettere bene su cosa possa significare la dimensione dell’errore per
un artista come Andrea del Sarto.
Andrea da bambino aveva conosciuto un mondo sconvolto, su cui la figura
del Savonarola si ergeva come una sorta di testimone del tempo, di profeta, di
visionario combattente, finito però in una tragedia spaventevole.
Savonarola combatteva quelli che riteneva essere gli errori tremendi cui le per-
sone viventi in quel momento tendevano a cadere senza possibilità di salvez-
za o riscatto, ancorché proprio la sua figura profetica apparisse a molti come
quella di un uomo giunto per portare l’Umanità verso un destino felice, che,
però, appare lontano e difficilmente attingibile. Andrea del Sarto deve essere
stato marcato per tutta la vita da quegli eventi e il suo comportamento, a detta
del Vasari non irreprensibile e sottoposto a continue difficoltà e disavventure,
potrebbe essere largamente giustificato da quella sorta di trauma iniziale che
egli certamente superò, ma che è ben possibile abbia continuato a incidere su di
lui a livello subliminale. E allora questa constatazione spiega ancora meglio la
ricerca della assoluta perfezione dell’opera artistica da lui realizzata perché è lì,
su quel piano, che egli veramente superò in modo definitivo e felice i tormenti,
i dubbi, gli errori appunto, che avevano funestato le generazioni a lui prece-
denti. In tal senso l’arte di Andrea del Sarto è proprio un supremo riscatto e un
ingresso in una terra felice e pacificata che, nel concreto dell’esistenza, Andrea
non poteva certamente raggiungere.
E lo strumento principe per compiere un tale percorso era nel pieno recupe-
ro dell’aspetto più importante della tradizione artistica fiorentina: un peculiare
utilizzo dell’arte del disegno per costruire un mondo artistico in cui l’utopia del
raggiungimento di una sorta di perfezione inattingibile nella vita reale potesse
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