Il San Sebastiano nell'ultimo capolavoro, Il congedo spirituale di Andrea del Sarto - di Claudio Strinati
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Il San Sebastiano nell’ultimo capolavoro, Il congedo spirituale di Andrea del Sarto di Claudio Strinati
Esposizione “San Sebastiano” di Andrea d’Agnolo detto del Sarto 22 febbraio 2018 - 31 maggio 2018 Chiesa di San Carlo Borromeo, Via Nassa 26 - Lugano mercoledì 11 aprile 2018 dalle ore 18.00 lectio magistralis del Professor Claudio Strinati L’editore è a disposizione degli aventi diritto per eventuali immagini di cui non è stato possibile reperire la fonte 3
“San Sebastiano”, Olio su tavola, 86.5 x 62.2 cm (1529-30), Andrea d’Agnolo detto del Sarto (Firenze, 16 luglio 1486 – Firenze, 29 settembre 1530) collezione privata ticinese 5
Il Prof. Claudio Strinati è un protagonista indiscusso nel mondo dell’arte inter- nazionale dalle molteplici sfaccettature. Egli ha saputo brillantemente coniu- gare la capacità dirigenziale propria di un ex soprintendente del Polo museale romano, che ha permesso una valida riorganizzazione dei musei storici romani e la riapertura di Palazzo Barberini al pubblico insieme alla promozione del restauro e la catalogazione delle opere d’arte di Roma e del Lazio rendendole quindi accessibili agli studiosi attraverso un sistema informatico in costante aggiornamento, a quella dell’ideatore e curatore di grandi esposizioni di succes- so – quale p.es. la mostra su Sebastiano del Piombo a Palazzo Venezia (Roma, 2008) di seguito esportata a Berlino, quella sul Il Quattrocento romano (2008) sempre a Roma o l’esposizione su Caravaggio organizzata alle Scuderie del Qui- rinale (2010). Tuttavia l’abilità più nota al pubblico più ampio è quella di autore di innumerevoli pubblicazioni, che spaziano dal breve articolo sul giornale a imponenti monografie. Il comune denominatore dei suoi scritti? Il saper attin- gere da un enorme bagaglio culturale interpretando i dati soggettivi in maniera sapiente, originale e divulgativa. Allo stesso modo il Prof. Claudio Strinati ha affrontato anche in questo caso magistralmente il tema del dipinto esposto riassumendo le sue interessanti ri- flessioni in questo saggio presentato di seguito in via esclusiva. 6
Il San Sebastiano nell’ultimo capolavoro, Il congedo spirituale di Andrea del Sarto di Claudio Strinati È molto bella e com- movente la storia della Giorgio Vasari Ritratto di Andrea del Sarto (Incisione) dalle Vite creazione dell’ultima opera di Andrea del Sarto nel racconto di Giorgio Vasari nella Vita di Andrea del Sarto contenuta nella terza par- te delle Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani da Cimabue insino a’ tempi nostri, presente nella prima edizione delle Vite quella stampata a Firenze nel 1550 per i tipi di Lorenzo Torrentino. Vasari racconta che Andrea negli ultimi tempi della sua breve vita (morì il 19 novembre 1530 all’età di quarantadue anni) frequentava assiduamente la Com- pagnia di san Sebastiano installata dietro la chiesa dei Servi a Firenze, chiesa per la quale aveva tanto lavorato nel corso della sua vita e che annoverava molti suoi amici. Era un periodo triste della sua esistenza, preludio purtroppo alla prematura scomparsa, perché all’inizio di quell’anno 1530 che lo avrebbe poi portato alla morte, aveva ricevuto lo sgradevole, ma molto ben pagato, incarico di rappre- sentare sulle facciate esterne del Palazzo del Podestà e dell’altro Palazzo affac- ciantesi sulla cosiddetta Piazza della Mercatanzia Vecchia, una serie di ritratti di alcuni capitani dell’esercito fiorentino che erano scappati durante l’assedio di Firenze, portando con sé soldi rubati, sostanzialmente, ai commilitoni loro inferiori, tradendo ignobilmente la repubblica. Tali ritratti sarebbero rimasti a eterna memoria dei ribelli additati alla cittadinanza appunto come traditori. Andrea, pur lusingato dall’incarico, non voleva però fare la figura che aveva già fatta, un secolo prima, un suo illustre predecessore peraltro suo omonimo, Andrea del Castagno, quando costui, artista sommo e rispettatissimo, dovette eseguire una serie di ritratti di impiccati che pure avevano tradito la patria e si erano macchiati di reati gravissimi, affinché restasse imperitura la memoria di quei mascalzoni nella coscienza collettiva. Solo che Andrea del Castagno si era così guadagnato il nomignolo di “Andrea degli Impiccati” ed ora Andrea del Sarto non voleva che si ironizzasse su di lui in modo simile. Scelse così la via 7
più facile per lui che aveva una fiorentissima bottega con un numero cospicuo di allievi, che avrebbero potuto espletare l’incarico molto bene. Individuò in uno in particolare la persona più giusta e Vasari ne cita il nome: si trattava di un brillantissimo giovane pittore chiamato Bernardo del Buda. Non sappiamo quasi nulla di questo pittore, collaboratore di Andrea del Sarto, ma quel che è certo è che Andrea lo aiutò fornendogli alcuni disegni (qualcuno si conserva ancora oggi), ma l’esecuzione fu affidata in toto a lui che condusse il lavoro magistralmente tanto che il Vasari racconta che quelle figure sembravano vive e naturali. Oggi queste pitture sono perdute perché ben presto vennero poi im- biancate o distrutte, e già Vasari, che scrive appena venti anni dopo questi even- ti, dichiara che le pitture sul Palazzo della Mercatanzia vecchia non si vedevano più perché scialbate cioè, appunto, imbiancate con la calce per coprirle. Ma Andrea soffriva moltissimo per la situazione creatasi in quell’anno a Fi- renze dove scorrazzavano i soldati e il cibo diventava sempre più razionato. La sua salute, già un po’ declinante, ne ebbe un colpo terribile, ma questo non gli impedì di lavorare ancora a qualcosa di bello e la cosa più bella fu appunto il quadro che volle fare per la Compagnia di san Sebastiano in segno di omag- gio, di affetto e di devozione verso quella Congregazione. È ancora una volta il Vasari che racconta la vicenda: era Andrea molto familiare d’alcuni che gover- nano la Compagnia di san Bastiano dietro i Servi, i quali desiderosi di avere una testa di San Bastiano di mano sua dal bellico in su, fu lor fatta da Andrea con grandissima arte, sforzandosi la natura ed egli quasi indovinando che quest’opere avessino ad essere l’ultime pennellate ch’e- gli avessi a dare. Ed effettivamente fu proprio così perché dopo pochi mesi da questo incarico An- drea moriva, quasi di indigenza. Il testo del Vasari è determinante per ca- pire come andarono veramente le cose rispetto a questa mezza figura del San Se- bastiano. Gli storici, per lo più, si limita- no a notare che di questa immagine esi- stono molte versioni, alcune conservate in raccolte pubbliche (come quella nel Museo degli Innocenti a Firenze o quella nella Pinacoteca del Comune di Prato), molte altre, invece, in raccolte private e “San Sebastiano”, Olio su tavola, (1529-30), l’elenco delle versioni oggi note è mol- Andrea d’Agnolo detto del Sarto to lungo. Solo che, con grande sorpresa collezione privata ticinese 8
di tutti gli esperti, mentre le versioni sono numerose e molte sono di altissima qualità formale, nessuno è mai riuscito a chiarire quale di queste molte versioni cono- sciute sia il vero originale di Andrea del Sarto e quali siano le copie, le derivazioni, le imitazioni del prototipo. Dal punto di vista iconografico le varie versioni sono quasi uguali. Si vede, come nel caso del dipinto oggetto della nostra trattazione, il santo ignudo a mezzo busto (dunque dall’ombelico in su, come racconta il Vasari) raffigurato come un bellissimo giovinetto che stringe nella mano destra due frecce, del tipo turco con la coda ad aletta, che sono le frecce che vennero conficcate nel Particolare: suo petto dai torturatori senza tuttavia provocarne la due frecce del tipo turco con morte. Lo sguardo è rivolto al cielo nella posa classica del la coda ad aletta fervente devoto, il disegno del corpo è perfetto come era sempre stato tipico di Andrea del Sarto, il fondo compatto, in alcune versioni più chiaro, in altre più scuro. Un’opera, insomma, di estrema sobrietà, raffinatezza, sensibilità. Non c’è poi dubbio che Andrea esprimesse in questa immagine una devozione ardente e insieme modesta, uno slancio verso il divino intensissimo e coinvolto e un’angoscia appena velata dall’attesa del martirio e riscattata insieme dalla certezza del Regno, come fu realmente nella vicenda terrena del milite Seba- stiano. Ma come mai ci sono così tante versioni e come mai sovente sono di alta qua- lità e di ben probabile, anche se talvolta parziale, autografia? Perché il Vasari fa capire bene nel suo racconto che quando Andrea ricevette il graditissimo incarico dalla Compagnia di san Sebastiano, sentendosi vicino al suo ultimo giorno, dovette come identificarsi nel martire e volle moltiplicare le versioni del prototipo che tanto piacque ai confratelli come a voler sfidare la morte, soffermandosi sullo stesso soggetto che costituiva per lui una sorta di memento mori, di attesa della fine, ma di un’attesa fervida, serena, lieta e sicura, come fu quella del protomartire. Quasi indovinando che quest’opere avessino a essere l’ultime pennellate che egli avessi a dare. Vasari cioè parla di queste opere, non di una sola, ma si riferisce al san Sebastiano, non ad altri dipinti. Senza dirlo esplicitamente fa capire al lettore che, ricevuto l’incarico di eseguire un san Sebastiano che fungesse quasi da emblema della Compagnia fiorentina, egli ne fornisse una serie di versioni, come se avesse pensato a un brano musicale che, arrivato alla fine, termina con un grande accordo conclusivo reiterabile più volte o lungamente prolungato fino a che la musica non si ode più e il brano è finito. Una tecnica musicale, peraltro, molto in uso anche nella Firenze del tem- 9
po quando capitava sovente di ascoltare un madrigale profano o un mottetto religioso, che si concludono su una stessa nota o gruppo di note, che i cantori ripetono più volte, magari con intensità diverse, fino a che il brano termina in un senso di acquietamento e di pace interiore. E proprio l’acquietamento e la pace interiore promanano dall’immagine del san Sebastiano che quindi fu pensato da Andrea del Sarto per essere ripetuto più volte onde approfondire la minima variazione di sentimento, di impulso inti- mo, di meditazione profonda che l’immagine vuole esprimere. Una ulteriore conferma di questa tesi viene sempre dal testo vasariano. Infatti il famoso passo in cui Vasari enumera e illustra i moltissimi allievi che Andrea del Sarto ebbe nella sua operosa e attivissima bottega, si trova imme- diatamente dopo il racconto del san Sebastiano, come a voler legare i due con- cetti: l’ultima opera di Andrea fu il san Sebastiano, ma lo fece insieme con gli al- lievi migliori, ognuno dei quali partecipò forse alla stesura di una delle versioni principali senza che nessuna prevaricasse l’altra e qualcuno potesse poi dire: «questa versione l’ha fatta tutta Andrea, quest’altra è invece del tale discepolo, quest’altra ancora è per metà di Andrea e per metà di un certo altro allievo o collaboratore». Il discorso del Vasari è ben diverso e vuole saldare nella nostra mente questi due concetti: le versioni del san Sebastiano sono come tanti figli gemelli, si as- somigliano tutti e sono tutti figli di uno stesso padre e una stessa madre ma poi, a ben vedere, ed è questo il secondo concetto, ognuno ha in sé delle piccole e determinanti differenze che ne fanno un individuo a sé stante, pur avendo tanti fratelli vicinissimi a lui. Ed è proprio il caso del dipinto di cui raccontiamo qui la storia. Andrea del Sarto, Ritratto di sua moglie La moglie viene descritta Lucrezia de Baccio Del Fede dal Vasari come un arpia, (1513-14) fredda ed egoista. 10
Anche se c’è un risvolto divertente e alquanto malizioso che è tipico del Vasari e del suo modo di scrivere. Nel ricordare, infatti, quanti e quali magnifici allievi Andrea del Sarto avesse avuto, coglie l’occasione per tirare una frecciatina alla consorte del Maestro. Erano così tanti, dice il Vasari, che disturbavano alquanto la quiete familiare perché il Maestro passava la maggior parte del tempo con loro e la moglie se ne lagnava non poco. Ecco il testo del Vasari: furono i discepoli suoi infiniti, i quali chi poco chi assai vi dimorarono per colpa non sua ma della donna di esso, per le frequenti tribulazio- ni ch’ella nel comandar gli dava loro non riguardando nessuno. L’elenco degli allievi (e dei migliori perché molti nomi sono omessi dal Vasari) è in effetti notevolissimo e ci fa comprendere come certamente tra questi vi furono alcuni che di certo collaborarono alla stesura del nostro san Sebastiano. Val la pena di riportare l’elenco: Jacopo da Pontormo, pittore divenuto poi cele- berrimo, vicinissimo al Maestro e da annoverare trai migliori pittori del secolo; Andrea Sguazzella, che lavorò moltissimo con Andrea specie in Francia duran- te il breve, ma intensissimo, periodo che Andrea del Sarto trascorse a Parigi in un momento storico cruciale nei rapporti tra la Francia, il Papato e la Signoria di Firenze; Francesco de’ Rossi detto il Salviati, un altro gigante della pittura che molto dovette ad Andrea in quanto a gusto, raffinatezza, eleganza, eccellenza del disegno e del colore; Antonio di Giovanni da Settignano detto il Solosmeo, un maestro che fu pittore e scultore la cui figura è oggi poco chiarita dagli sto- rici, ma che fu anch’egli artista di primissimo piano; Pier Francesco di Jacopo di Sandro, pittore anch’egli raffinatissimo che negli ultimi tempi della sua vita fu attivo anche a Roma dove lasciò opere egregie; Jacopo del Conte, sommo ritrattista, maestro indiscusso, autorevolissimo erede del Sarto; Nannoccio del- la Costa di san Giorgio, un altro importante collaboratore di Andrea durante il suo periodo francese, oggi meno conosciuto; Il Tribolo, eccelso scultore, di cui restano oggi poche opere, ma importante per attestare la presenza anche di scultori notevoli nella operosissima bottega di Andrea; Jacopo di Giovanni Francesco detto Jacone, pittore molto importante e alquanto misterioso che fu membro dell’Accademia di san Luca a Roma, la cui figura ancora oggi è poco chiara agli storici ma è chiarissimo che dovette essere maestro di primo piano; Domenico Conti, allievo prediletto ed esecutore testamentario del sommo Ma- estro; e molti altri ancora. È logico, dunque, che tra queste elette personalità debbano essere individuati coloro i quali aiutarono il Maestro Andrea ad eseguire la serie dei dipinti del san Sebastiano. Ma come riconoscerli? Indubbiamente non è facile perché tutti lavorarono sul san Sebastiano secondo il disegno del Maestro e si attennero al suo stile, alla sua sensibilità, al suo no- 11
bilissimo animo. E quindi adeguarono sicuramente le loro singole maniere di dipingere indivi- duali all’obbiettivo di realizzare una serie di opere che fossero molto simili le une alle altre, garantendo però quello che oggi potremmo chiamare il copyright del Maestro Andrea. E così fu. Ma questa nuova versione da cui siamo partiti ha in effetti delle caratteristiche così interessanti, che merita di essere esaminata con attenzione e approfondi- mento, tanto che molto probabilmente possiamo circoscrivere i termini della questione nel modo migliore, e proclamare che tale versione (fino ad oggi non indagata dalla storiografia e non conosciuta dagli esperti stessi) è fulgida testi- monianza della creatività di Andrea del Sarto e del suo metodo di lavoro. Per comprendere meglio un tale assunto occorre ripercorrere alcuni aspetti cruciali della personalità di Andrea del Sarto, specie nel momento della attività in Francia che precede di una decina d’anni l’esecuzione del san Sebastiano. Il periodo francese è purtroppo poco e mal documentato al punto che, dei tre quadri insigni posseduti oggi dal Louvre di mano del Maestro Andrea, sol- tanto uno, un autentico capolavoro raffigurante la Carità, è stato sicuramente eseguito dal grande maestro durante il periodo francese. Le fonti ci dicono che Andrea trascorse circa un anno in Francia (dal maggio del 1518 all’ot- tobre del 1519) invitato dal re Fran- cesco I in persona, lavorando molto e con gran soddisfazione della corte. Qui Andrea fu accompagnato e aiuta- to soprattutto dal bravissimo allievo Andrea Sguazzella. Il re certamente vedeva in Andrea del Sarto il più alto esponente dell’arte fiorentina attivo in quel momento e, in conseguenza, il più importante pittore d’Europa. La corte di Francia, infatti, aveva stretto un rapporto fortissimo con la fami- glia Medici di Firenze e quindi l’arte fiorentina era considerata il fulcro stesso dell’arte mondiale. Il papa re- gnante era Leone X, figlio di Lorenzo La Carità (185x137 cm) di Andrea del Sarto, firmato, datato il Magnifico, e appunto all’inizio di 1518, olio su tavola trasferita su tela, Museo del Louvre di Parigi maggio di quel fatale anno 1518 l’alle- 12
anza solidissima tra il papato (e quindi la famiglia Medici) e il Regno di Francia era stata suggellata dal matrimonio della nipote prediletta del Re, Maddalena de La Tour d’Auvergne con Lorenzo de’ Medici, duca di Urbino, nipote di Papa Leone X. È pur vero che Leone X in occasione di un così fausto evento aveva inviato da Roma al re di Francia alcune opere pregevolissime eseguite dal suo artista di corte, Raffaello Sanzio di Urbino, ma è altrettanto vero che Raffaello non era fiorentino come il papa, mentre Andrea del Sarto era in quel momento l’esponente più illustre della patria delle arti, Firenze, e quindi egli arrivò in Francia sull’onda di questo strepitoso successo provocato dall’alleanza Firenze- Roma-Francia, come pittore degno di essere protagonista dell’arte presso la pri- ma corte del mondo, quella appunto di Parigi. Era la conseguenza di una carriera, cominciata già nei primissimi anni del Cin- quecento, che aveva consentito ad Andrea di qualificarsi come il pittore più colto, intelligente, dotato e autorevole della sua generazione, come e forse ancor più di Raffaello. Tutte le opere, dunque, che Andrea eseguì a Parigi e successi- vamente, nell’ultimo decennio della sua vita, sono ispirate a questo concetto: essere Andrea una sorta di equivalente, nel campo dell’arte, della figura del re- gnante, del Re in persona che governa i destini della pittura, la più regale delle arti, e traccia la strada agli altri, una strada su cui tutti coloro che sanno cosa sia veramente l’arte in sé si possano incamminare per proseguire verso una via tracciata egregiamente. In realtà c’erano delle profonde motivazioni che spiegano molto bene il profon- do significato che un’opera estrema, come il san Sebastiano, ebbe poi agli occhi dei contemporanei e dei successori. Se si paragona al san Sebastiano la regale immagine della Carità del Louvre si possono trarre deduzioni interessanti. La Carità, grande e indiscusso capo- lavoro, molto probabilmente vuole adombrare la felice nascita del Delfino di Francia avvenuta appunto in quel momento storico, il 25 aprile 1518, tanto che Silvie Béguin ha ipotizzato che nelle fattezze della Madonna si possano intra- vedere quelle della Regina Claudia di Francia, che aveva appena dato alla luce suo figlio. L’opera costruita con una classica struttura piramidale, manifesta ad altissimo livello quella competenza disegnativa del maestro che fu giudicata dai contemporanei fonte di sublime bellezza, specie se unita a un trattamento della gamma cromatica così limpida e nel contempo fluida e nettamente percepibile in un’atmosfera tersa e luminosa, che lasciava alle spalle il fascino dello sfumato leonardesco. Va ricordato che Leonardo da Vinci scomparve proprio nell’anno 1519 in Fran- cia, amatissimo, a sua volta, dal re Francesco I, ma non più attivo come pittore data una infermità che aveva funestato i suoi ultimi anni. Andrea del Sarto, dunque, con un’opera maestosa e bellissima come la Carità 13
prendeva in un certo senso il posto di Leonardo in una prospettiva più moder- na di solidità delle immagini, semplicità del sentimento, regalità e autorevolez- za della pittura, destinate a recare soddisfazione, gloria, piacevolezza dell’esi- stenza e certezza del potere. La Carità di Andrea mostra una immagine femminile umile e modesta, ma nello stesso tempo maestosa e grandiosa. È l’immagine stessa dell’interiorità e della consapevolezza. Allatta soltanto uno dei bambini, come è coerente con l’iconografia, ma non contempla nessuno dei tre. Abbraccia il secondo figlio che si protende sorridente verso di lei, mentre il terzo fanciullo è separato dalla madre e sembra dormire o forse addirittura piangere per l’abbandono. Attende di ascendere verso la madre e, come è consuetudine nell’arte di Andrea del Sarto, vi è leggibile una condizione di latente angoscia, di disagio, di tormento proprio in un contesto che dovrebbe ispirare soltanto felicità, quiete e dolcezza del vivere. La Carità è virtù teologale nella dottrina cattolica che proprio in quel tempo si stava consolidando e evolvendo sotto i colpi dell’appena emerso luteranesimo, se consideriamo come dalla cosiddetta affissione delle Tesi di Wittenberg da parte di Martin Lutero alla nascita del Delfino di Francia passa appena un anno. Andrea del Sarto, con un’opera come la Carità del Louvre, veniva a consacrare una sorta di ortodossia, di linea “giusta” della pittura, una linea che aveva per- fezionato fin dagli anni della prima giovinezza e che adesso gli permetteva di rivendicare a sé il ruolo di guida e signore della pittura. Una impostazione che rimase ferrea fino all’ultimo giorno, come testimonia perfettamente il prototipo del san Sebastiano, che attesta al meglio la continuità e la coerenza di questo modo di fare arte. In effetti protagonisti assoluti della pittura di Andrea, dalle prime opere fino alle ultime, sono le figure dei santi e quella della Vergine e non si tratta di una casuale circostanza, ma di una scelta che garantì l’eccellenza della sua opera quale vero e proprio baluardo della arte sacra nell’Italia sconvolta da crisi in- terne ed esterne, contestazioni dottrinali e sociali, aspri scontri sul piano dell’i- deologia e della politica, ben attestati da un capolavoro come il Principe del fiorentino Machiavelli, composto nel 1513 quando Andrea si trovava nella fase iniziale della sua carriera e pubblicato poi molti anni dopo nel 1532, a due anni dalla morte del grande pittore. Si potrebbe quasi sostenere la tesi, in proposito, che l’arte di Andrea del Sarto abbia costituito una sorta di contraltare estetico al discorso politico di un Ma- chiavelli, là dove il segretario fiorentino tese a dare una vivida immagine delle contraddizioni della più laica di tutte le attività, la politica, mentre Andrea co- struì, nel corso degli anni, un tema artistico destinato a dare corpo e significato diverso alle immagini più nobili della tradizione religiosa, infondendovi uno 14
spirito nuovo, vivificante che assunse il carattere di una vera e propria dottrina in immagine. Tale immagine rifulge proprio nell’amorevole attenzione alla fi- gura della Vergine e a quella dei Santi della Chiesa cattolica rappresentati, l’una e gli altri, come vere e proprie immagini di eroi, baluardi della Fede e della Bellezza inestricabilmente collegati in una superiore concezione dell’arte, che consente a ognuno di noi di aspirare a un rinnovamento totale dell’individuo nella prospettiva del Bene e del Giusto. E proprio sull’argomento della Madonna con i fanciulli si era dipanata gran parte della carriera del Maestro, che su quel tipo di tematica aveva condotto l’arte fiorentina a riappropriarsi di un ruolo che le competeva fin dai tempi di Giotto e che era stato messo in durissima crisi dalla predicazione del frate fer- Il falò delle vanità avvenne il 7 febbraio 1497 e Vasari lo descrisse: « il carnovale seguente, che era costume della città far sopra le piazze alcuni capannucci di stipa et altre legne, e la sera del martedì per antico costume arderle queste con balli amo- rosi… si condusse a quel luogo tante pitture e sculture ignude molte di mano di Maestri eccellenti, e parimente libri, liuti e canzonieri che fu danno grandissimo, ma particolare della pittura, dove Baccio portò tutto lo studio de’ disegni che egli aveva fatto degli ignudi, e lo imitò anche Lorenzo di Credi e molti altri, che avevon nome di piagnoni. » Il rogo in Piazza della Signoria, Anonimo, 1498, Museo di S. Marco, Firenze rarese Gerolamo Savonarola e dal conseguente rogo delle vanità, di cui Andrea bambino aveva certamente avuto cognizione, se non diretta (e non è affatto da escludere) mediata dalle testimonianze dei genitori. Quando si osserva l’impostazione stilistica e iconografica che Andrea ha elabo- rato per il S. Sebastiano, ci si rende conto che alle origini di un’opera del genere ci sono proprio i fatti cui Andrea assistette fanciullo nella Firenze di allora. Andrea, infatti, sembra essere il rappresentante di una forma dì arte cristiana che mette in forte evidenza la devozione, l’estasi, la fede come elementi indi- spensabili per la precisa definizione dell’immagine sacra. E questo è certamente vero, ma ancor più vero se si riflette su quella che fu la predicazione del Savonarola e sulle conseguenze che tale predicazione ebbe sulla attività artistica e culturale non solo della Firenze del tempo, ma dell’Italia e, probabilmente, dell’Europa tutta. Savonarola, per un bambino come Andrea del Sarto, proveniente da una fami- 15
glia che oggi potrebbe essere definita della media borghesia, non poteva non essere la figura di massimo spicco del momento. Il giudizio sul Savonarola è ancora oggi molto controverso e molto controversa è l’esatta interpretazione del suo pensiero e delle vicende che lo riguardarono. Dotato di capacità sicuramente prodigiose, come una memoria ferrea, una for- za di volontà di gran lunga superiore a quella di qualunque altro personaggio del suo tempo e di una cultura sterminata e profondamente metabolizzata, il Savonarola si pose ben presto come una figura profetica, dotata di facoltà pres- soché sovrumane, in grado di condizionare le scelte di principi e potenti, ma anche di indirizzare il popolo verso obbiettivi di quasi utopistica rigenerazione morale e spiritale. Il rapporto con il potere politico fu contro- verso. Da un lato una personalità come Lo- renzo il Magnifico si trovò in grandi difficol- tà nel trattare con un uomo simile, che non aveva mai un atteggiamento diplomatico nel presentare le proprie critiche e non arretrava davanti a nessuna difficoltà; dall’altro il pa- pato era in condizioni quasi di imbarazzo e oggettiva difficoltà di fronte a un religioso domenicano autorevolissimo da un lato, ma troppo esplicitamente contrario alla politica papale da poter essere lasciato in pace, chiu- so nel suo Convento di San Marco a Firenze, Moretto da Brescia. Ritratto ideale di Girolamo onde renderlo innocuo. Savonarola. 1524. Verona. Savonarola sostanzialmente prevedeva per Firenze, per il papato e per l’Europa intera una situazione di vero e proprio collasso che avrebbe potuto travolgere gli equilibri politici, amministrativi, eco- nomici e culturali vigenti in quel momento coincidente con un fatale passaggio tra due secoli (il Quattrocento e il Cinquecento) che videro effettivamente un rivolgimento epocale provocato, tra l’altro, dalla scoperta di un nuovo mon- do avvenuta proprio all’atto dell’insediamento del papa Alessandro VI Borgia (1492), che di questa gigantesca e sbalorditiva apertura di insospettati orizzonti trasse elementi decisivi nell’esercizio del suo pontificato, di cui Savonarola ve- deva con chiarezza il declino morale e religioso. Ma il rapporto tra Savonarola e la Curia romana fu oscillante e ambiguo fino alla fine della vita dello sfortunato monaco ferrarese. Il papa Borgia, in realtà, non era affatto ostile in un primo momento alla predicazione del Savonarola e, anzi, aveva colto in lui un possi- bile alleato in un momento storico in cui il rischio maggiore per il Papato era quello di uno sbilanciamento totale del governo del mondo destinato ad atte- 16
starsi fuori del territorio italiano. E così in effetti accadde pochissimi anni dopo la morte del Savonarola, quando le istanze di riforma e rigenerazione totale, che il Savonarola stesso aveva ardentemente auspicato, ma restando nell’ambito del contrasto, tutto interno alla realtà italiana, tra Roma, Napoli, Firenze, Ve- nezia e Milano, si spostarono con risultati pressoché irreversibili verso il nord dell’Europa nella complessa dialettica che divenne supremazia tra il regno di Francia, i riformatori protestanti luterani e calvinisti, l’Impero Asburgico e la Corona d’Inghilterra, tutti, per un motivo o per un altro, intenzionati a confi- nare la potenza economica e culturale italiana, in una marginalità che avrebbe condannato anche la nostra cultura a una posizione minoritaria nel corso del secolo successivo e dei tempi a venire. Di fatto questa situazione non si verificò così come si era configurata nelle men- ti di un Lutero all’inizio del Cinquecento o, alla fine di quello stesso secolo, di una Regina Elisabetta di Inghilterra, ma resta il fatto che nell’immediato, cioè subito dopo la morte di Savonarola, molti intellettuali e uomini di cultura eb- bero la netta percezione, in Italia e fuori d’Italia, che si fosse rotto in modo defi- nitivo quell’equilibrio su cui era fiorita, durante tutto il Quattrocento, una delle più alte civiltà che la storia dell’Umanità ricordasse, quella, cioè, delle grandi corti dell’Umanesimo italiano tra cui la Curia romana stessa poteva ben essere annoverata e al massimo livello, avvicinandosi la fine di quel secolo, di elabora- zione culturale e artistica. Andrea del Sarto fanciullo ebbe dunque precoce cognizione di questo gran- dioso rivolgimento e dovette percepire con grande chiarezza la critica severa e spietata che il Savonarola, proprio negli anni dell’infanzia del futuro pittore, aveva sferrato in particolare verso il mondo dell’arte bollato quale supremo cor- ruttore delle coscienze per la produzione di lusso, ornamento, ostentazione e decorativismo, tutti fattori contrari all’esercizio della vita religiosa e moralmen- te ineccepibile quale quella predicata dal Savonarola per contrastare un mondo allo sfascio, almeno dal suo punto di vista. Nell’ultima fase della predicazione savonaroliana, insomma, gli artisti e gli arti- giani fiorentini, ma anche gli orafi, massima gloria del mondo toscano, gli arre- datori, i produttori di codici miniati, altra mirabile attività creativa del tempo, vennero travolti dall’accusa di corruttori delle coscienze. L’arte, tanto più bella e seducente si presentava, tanto più tendeva, secondo il Savonarola, a distogliere gli uomini dalla loro più vera e autentica vocazione alla spiritualità, al rigore morale, alla severità dei costumi. Naturalmente era la pittura l’arte che più di ogni altra poteva apparire agli occhi del Savonarola e dei suoi, talvolta fanatici, seguaci, come i cosiddetti “piagnoni”, quale fonte di ogni male e ogni corru- zione, specie sul suo versante profano. Basti rammentare le opere, memorabili e bellissime, di un Botticelli o un Piero di Cosimo, in cui, tra l’altro, il nudo 17
femminile era in tale evidenza da poter facilmente giudicare tali opere come sconvenienti, per non dire di peggio, dai severi tutori della pubblica moralità. La Morte di Procri, olio su tavola (65,4x184,2 cm) di Piero di Cosimo, ( 1495 circa), National Gallery di Londra. Eppure le cose non stavano proprio così e per comprendere sul serio il signifi- cato artistico religioso di un dipinto come il S. Sebastiano di Andrea del Sarto, nato a distanza di una trentina d’anni dagli eventi che portarono al falò delle vanità savonaroliano (avvenuto, ma non fu l’unico del genere in quel periodo, martedì grasso 7 febbraio 1497, quando migliaia di oggetti preziosi e meno pre- ziosi, ma pur sempre giudicati vani, vennero bruciati durante una cerimonia che coinvolse varie piazze di Firenze, dall’aspetto, stando alle fonti del tempo, vagamente dionisiaco), occorre anche sfatare qualche luogo comune che oggi rende più problematica la nostra analisi della situazione vera di quel momento storico e che, invece, dovette risultare chiarissima agli occhi di un fanciullo, quale Andrea era in quel tempo, sicuramente ben consapevole della realtà so- stanziale dei fatti, un po’ diversa da quello che la storiografia attuale tende a credere. Non c’era una contrapposizione così netta tra gli artisti “profani” e il Savona- rola o, per meglio dire, c’era, ma non nei termini che ancora adesso si tende a considerare incontrovertibili. Emblematica, in proposito, è la testimonianza del Botticelli che, essendo stata riportata da un suo familiare, dovrebbe essere con- siderata attendibile. È ben noto, in proposito, come la storiografia antica abbia adombrato l’ipotesi che il Botticelli, dopo una adesione a una linea, appun- to profana e del tutto aliena da contenuti religiosi, con opere indubbiamente memorabili e indimenticabili come la Primavera o la Nascita di Venere (ope- re presumibilmente dipinte quando Andrea del Sarto non era ancora nato), avesse avuto una profonda crisi religiosa, aderendo appunto al movimento dei piagnoni (ancorché il moderno termine “movimento” non rifletta esattamente il significato inerente agli intenti di quel gruppo di persone), e producendo, sul finire della sua vita, opere a forte contenuto spirituale attestanti una sorta di conversione. E tali opere furono effettivamente eseguite del Botticelli quan- do Andrea si stava avviando alla carriera di pittore e non è fuor di luogo, per 18
inquadrare nel modo migliore, gli elementi formativi che dovettero essere de- terminanti per Andrea, ricordare come l’opera forse più importante eseguita da Botticelli in relazione alla sua drammatica e intensissima crisi spirituale, la cosiddetta Natività mistica, oggi conservata a Londra National Gallery, è datata 1501, quando Andrea era un adolescente di quindici anni ormai in procinto di intraprendere la grande carriera che lo avrebbe potato ai vertici dell’arte, men- tre il Botticelli stesso era un uomo di cinquantasei anni che stava per terminare la sua gloriosa parabola, finita ben prima dell’anno della sua morte (il 1510) chiudendosi in un sorta di penoso e triste isolamento. Ma quando il Botticelli seppe del rogo del Savonarola pare avesse commentato con estrema sobrietà l’evento, sostenendo soltanto la tesi di una sostanziale innocenza del frate, ma senza manifestare un’esplicita adesione alle sue tesi e alla sua propaganda po- litica. L’episodio gli apparve l’ennesima dimostrazione dell’arbitrio e dell’igno- minia morale che governa il mondo e del destino dei giusti per i quali non c’è giustizia. Questo per dire come non ci fosse quella contrapposizione tra un Savonarola inflessibile e, in definitiva, cupo moralista, che la storia ci ha consegnato con notevole arbitrio, e un mondo artistico fiorentino laico e sprezzante della spiri- tualità e della dottrina cristiana. Andrea del Sarto, se, per una sorta di assurda, La Natività mistica di Sandro Botticelli, tempera su tela (108,5x75 cm), datato 1501, National Gallery di Londra. 19
metafisica ipotesi, fosse stato a conoscenza di questa chiave interpretativa della storiografia moderna rispetto alle vicende del suo tempo, si sarebbe non poco stupito perché non avrebbe riconosciuto in tale interpretazione i presupposti veri su cui sorsero la sua arte e il suo pensiero estetico. Quell’arte e quel pensiero estetico che, negli ultimi anni della sua vita, lo misero in grado di eseguire un quadro come il s. Sebastiano in cui si compendiavano un rovello e un’esperienza che erano in effetti sorti sulle ceneri del rogo delle vanità. Ceneri, però, il cui significato profondo non era mai sfuggito ad Andrea e che gli permisero di costruire la sua carriera su presupposti che effettivamente furono provocati da quel rogo e dalla crisi degli artisti della vecchia generazio- ne talmente traumatizzati da quell’evento da abbandonare quasi la attività, non riuscendo a concepire una strada diversa da quella che avevano percorso. Andrea, invece, quella strada la individuò da subito e la percorse coerentemen- te fino in fondo. Ma, allora, qual è il punto effettivo su cui si giocò tutta la partita dell’arte a seguito delle sollecitazioni del Savonarola? Non era, infatti, la condanna savo- naroliana delle arti belle in sé, condanna che lo stesso frate ferrarese conside- rava fondamentalmente una sorta di grimaldello intellettuale per scuotere le coscienze e arrivare a conclusioni socio-politiche di ben altra rilevanza; il pun- to effettivo era un intrinseco difetto inerente alla produzione artistica nel suo insieme su cui i pittori attivi in quel tempo si erano tutti più o meno adagiati e che la predicazione savonaroliana fece esplodere in tutta la sua evidenza, pro- vocando una specie di terremoto che di fatto andò tutto a vantaggio delle belle arti e permise, sia pure in maniera alquanto traumatica, di uscire da una serie di equivoci che si erano in effetti accumulati fino a provocare una significativa La Vocazione dei primi apostoli è un affresco (349x570 cm) di Domenico Ghirlandaio e aiuti, (1481-1482), parte della decorazione del registro mediano della Cappella Sistina in Vaticano. 20
e preoccupante flessione al limite della sterilità, che minacciava seriamente la creazione artistica, ben più delle severe censure savonaroliane. Questa sterilità ha un nome ben preciso e una data ben precisa: il nome è quello del Perugino e la data è quella della affrescatura della Cappella Sistina in Vati- cano, che vide il Perugino tra i massimi protagonisti insieme con il Botticelli e Domenico Ghirlandaio, a cominciare dal 1481, cioè da una data che precede di poco la nascita di Andrea del Sarto. C’è in proposito una testimonianza fondamentale che permette di compren- dere con precisione i presupposti concettuali e morali su cui Andrea del Sar- to intraprese il suo lavoro di artista, chiarendo bene il luogo comune inerente all’influsso savonaroliano. Si tratta della Cronica rimata di Giovanni Santi, una personalità, che sempre più chiaramente è emersa come cruciale nell’ambito dei grandi temi culturali e artistici dibattuti in Italia nel momento di passaggio tra il secolo quindicesimo e il secolo sedicesimo. Nell’anno 1492, quando viene scoperta l’America, quando Alessandro VI Borgia assume il trono pontificale e quando muore Piero della Francesca, venerato e insigne pittore–scienziato, che aveva lasciato un insegnamento di enorme rilevanza nella cultura artistica del suo tempo, Giovanni Santi dedicò al suo grande mecenate e protettore Federico da Montefeltro Duca di Urbino, questo scritto chiamato appunto la Cronica rimata offre tali e tanti spunti di conoscenza da poter essere annoverata tra i precedenti illustri delle Vite del Vasari, pubblicate più di cinquanta anni dopo. Ciclo di affreschi di Giovanni Santi. Sacra conversazione e Resurrezione. Part. Cristo risorto nella cappella Tiranni, Chiesa di San Domenico di Cagli (PU) 21
Nelle Cronica Rimata Giovani Santi dimostra chiara consapevolezza delle gran- di linee di tendenza del suo tempo in campo artistico e rimarca con precisione il ruolo primario di Firenze nella dinamica generale delle Belle Arti in Italia di quella fase storica, mettendo in evidenza le personalità più importanti che la storiografia successiva fino ai nostri giorni ha confermato come realmente primarie e determinanti. E qui Giovanni Santi sostiene come uno dei centri artistici più rimarchevoli nell’Italia della seconda metà del Quattrocento fosse stata la bottega del Verrocchio a Firenze. Questa primazia dell’arte fiorentina nella dialettica complessiva della produzione architettonica, pittorica e scul- torea dell’età dell’Umanesimo, è oggi una sorta di luogo comune storiografico di solido fondamento. Un luogo comune che già di per sé giustifica appieno la rilevanza della figura del fiorentinissimo Andrea del Sarto per le generazioni successive a quella di Giovanni Santi che fiorentino non era, ma aveva una vi- sione limpida e approfondita del suo tempo. Il Battesimo di Cristo, olio e tempera su tavola L’angelo di Leonardo da Vinci (Part da) Battesimo di (177x151 cm) di Andrea del Verrocchio, Cristo di Andrea del Verrocchio Leonardo da Vinci e altri pittori di bottega, (1475 -1478), Galleria degli Uffizi a Firenze. Il Verrocchio compendiava in sé la quintessenza dell’artista fiorentino e appa- riva agli occhi di Giovanni Santi perfettamente legittimato alla qualificazione di maestro supremo, capace di far maturare all’interno della sua bottega i più eletti ingegni destinati a loro volta a rendere sempre più grande e rinomata l’arte fiorentina. Quando Giovanni Santi scriveva, Verrocchio era scomparso da poco tempo, nel 1488 per esattezza, ma la sua scuola era più fiorente che mai. Giovani Santi e Verrocchio, peraltro, appartenevano alla stessa generazione, erano anzi prati- camente coetanei, essendo nato Giovanni nel 1433 e Verrocchio nel 1435. Ma 22
Giovanni Santi sapeva bene che Verrocchio non aveva affatto una visione asfit- ticamente “fiorentinocentrica” del suo lavoro, ma al contrario tendeva a espan- San Sebastiano, olio su tavola di quercia (176x116 cm) di Pietro Perugino, 1495 circa , Museo del Louvre a Parigi dere le cognizioni e le competenze della sua bottega nelle più varie direzioni, specie verso Roma, verso tutta l’area centrale italiana e verso Venezia. Infatti quando Giovanni Santi mette in evidenza nella Cronica i nomi dei due migliori allevi del Verrocchio degli ultimi tempi cita due giovani che definisce par d’etati e par d’ amori che sono Leonardo da Vinci e Perugino. Considerato che la data di nascita di Leonardo è certa (1452) e quella del Perugino no, si può dare retta alla testimonianza di Giovanni Santi e ritenere che i due giovani, pressoché coetanei dunque, siano stati in bottega insieme da Verrocchio intor- no alla metà degli anni sessanta del Quattrocento quando erano in età tra i dieci e i quindici anni. Ovviamente Pietro Vannucci detto il Perugino era quindi un fiorentino di ado- 23
zione, eppure, per l’evoluzione dell’arte fiorentina che porta poi fino ad Andrea del Sarto, fu forse più importante lui dello stesso Leonardo da Vinci che prese poi una strada ben diversa. Il Perugino ci porta proprio nel cuore del problema legato alla Cappella Sisti- na a Roma, alla questione savonaroliana e alla successiva nascita dell’arte di Andrea del Sarto, creando così un ponte forte e consequenziale tra la cultura espressa dalla bottega del Verrocchio e quella espressa poi da Andrea nel corso di tutta la sua parabola fino all’immagine del s. Sebastiano, la cui filiazione, dunque, dagli ideali della bottega verrocchiesca, deve essere qui proclamata. Perugino, in effetti, si impose precocemente nell’ambiente fiorentino proprio perché, sulla base della severa istruzione verrocchiesca, inventò, letteralmente inventò, un nuovo modello di arte sacra, fortemente spostato verso la perfezio- ne della forma pittorica echeggiante la solidità plastica della forma scultorea (proprio come l’aveva appresa presso il Verrocchio) che conferì alle sue im- magini un formidabile e sconcertante equilibrio tra la verosimiglianza della presenza delle immagini nello spazio (mutuando questa dimensione anche dall’influsso fiammingo molto forte nella Firenze di fine Quattrocento). Nello stesso tempo questo modello così robusto e impeccabile dal punto di vista della stesura e della materia pittorica, veramente comparabile a una fulgida gemma modellata da un orefice (e l’oreficeria era ovviamente una delle massime spe- cializzazioni verrocchiesche) consentiva al Perugino di inventare tipologie di figure sacre (soprattutto santi e immagini pietose e dolorose della Vergine e del Cristo) spiranti intima devozione, sospirosa interiorità, morbida e delicatissi- ma sensibilità. Il tipo del santo che guarda estatico in cielo portando la mano al petto per colmo di compunta devozione, circonfuso di una luminosità eterea e quasi me- tafisica, atono quasi per il suo totale coinvolgimento nella contemplazione del divino, fu ben presto consacrato dal Perugino come il prototipo stesso di un’ar- te che a tutti gli effetti vuole e deve definirsi cristiana e cattolica in particolare, dove i principi della Fede, della Speranza e della Carità, cioè delle tre Virtù Teologali, sembrano incarnarsi in un tipo fisico che scaturisce proprio dall’e- sercizio di quelle virtù supreme, confinando, quindi, con il rischio dell’eccesso, dell’ipocrisia, della vera e propria manipolazione del consenso, utilizzando una conseguita e indubbiamente sublime bellezza come “instrumentum regni” e su- bliminale mezzo di coercizione della coscienze. È proprio questo rischio che coniuga insieme la seduzione della bellezza e la severità, apparente almeno, della dottrina, che provocò lo sconcerto e poi la rabbia funesta di un Savonarola, quando egli vedeva, proprio nel punto culmi- nante dell’arte sacra, perfettamente rappresentato dal Perugino e anche da altri artisti come Lorenzo di Credi, che si muovevano in direzione analoga nel dot- 24
tissimo ambiente fiorentino, il sospetto di una profanità pericolosa che avrebbe spostato l’attenzione del popolo sui valori prettamente estetici, amorali quindi, se non immorali, occultando invece quello che avrebbe dovuto ai suoi occhi es- sere il fine supremo dell’arte: quello di annullarsi quasi per lasciare il posto alla bellezza non della pittura o della scultura ma a quella, puramente concettuale, del Buono e del Giusto, valori morali che sono in sé degni di essere contemplati. Ma contemplati con gli occhi della mente che deve rifuggire dalle lusinghe della bellezza fisica che, mentre ci manifesta le verità della Fede, ci porta in realtà lontano da quella verso una mondanità che è all’opposto, appunto, delle virtù teologali e quindi dall’esercizio della vita cristiana che non ammette compro- messi o deviazioni. La Madonna di Piazza, tempera su tavola di Andrea del Verrocchio e Lorenzo di Credi, databile al 1474-1486 circa Cattedrale di San Zeno a Pistoia Ebbene non c’è dubbio che, dopo il rogo delle vanità, Andrea del Sarto riprese in mano questa problematica per svilupparla e riannodarla da par suo ad un passato che sembrava ormai destituito di ogni valore e gravato da una condan- na senza appello. Era insomma quel passato, recentissimo, ma avvertito come remotissimo nel tempo dell’infanzia di Andrea. Quello appunto rappresentato da un Perugino e da tutta la genia uscita dalla bottega verrocchiesca che invece Andrea rivalutò ma in una luce completamente rinnovata e fonte di rigene- razione estetica e morale. Fece questo per tutta la sua vita di artista e, quando pose mano al s. Sebastiano, i suoi convincimenti e le sue idee sull’arte erano rimaste quelle che aveva maturato nei primissimi suoi anni dopo la crisi savo- naroliana e che avevano guidato per tutta la vita il suo lavoro di pittore. 25
Non si era mai smentito, anzi aveva fatto della coerenza la sua arma principale a difesa dell’arte e della verità e legittimazione dell’arte stessa, ed ora il s. Seba- stiano, opera estrema, veniva a chiudere degnamente quel percorso come una sorta di retaggio prezioso lasciato ai posteri. Un retaggio costituito di principi solidissimi, tutti calati nell’invenzione di quell’immagine solenne. Uno soprattutto, che era la più eletta risposta alle critiche savonaroliane e la consacrazione dell’insegnamento della bottega ver- rocchiesca che Andrea raccoglieva e consegnava alla posterità. Quel supremo principio si chiama il disegno. Per intendere bene il senso di questa affermazione bisogna nuovamente rifarsi al Vasari e alla sua vita di Andrea del Sarto, fonte preziosissima per conoscere al meglio l’artista che Vasari conobbe a fondo e valutò con estrema precisione e perspicacia. Lapide di Andrea del Sarto (Firenze il 16 luglio 1486 - 29 settembre 1530) Il chiostro della Basilica di SS. Annunziata, Firenze Occorre, allora, riferirsi a quanto il Vasari ricorda dei fatti immediatamente succedutisi dopo la morte del Maestro. Vasari dunque parla della sepoltura di Andrea nella Chiesa dei Servi e cita la commovente lapide scritta da Pier Vitto- ri, grande letterato del tempo che rimarca la vicinanza di Andrea con gli anti- chi suoi predecessori. È una formula convenzionale, va riconosciuto, e tuttavia, in un caso come questo, assume grandissimo significato, dando una ulteriore 26
chiave di lettura per il s. Sebastiano, visto e considerato che il s. Sebastiano ri- flette indubbiamente l’estremo pensiero di Andrea e chiude degnissimamente la sua carriera gloriosa. Ma proprio su questo aspetto la notazione del Vasari è rivelatrice per farci arrivare alla più profonda comprensione dell’opera e del valore di Andrea del Sarto e del s. Sebastiano in particolare. C’è infatti una notazione molto particolare in questo punto della narrazione vasariana su cui bisogna soffermarsi. Ecco i fatti: Vasari racconta che, compilata la bellissima lapide, accadde un epi- sodio increscioso. Andrea, suggerisce lo storico aretino, doveva avere molti ne- mici in considerazione del fatto che, mentre dal punto di vista artistico il suo valore era universalmente riconosciuto e addirittura da molti venerato, sotto il profilo più squisitamente umano la sua fama non era affatto buona. Aveva condotto una vita, pare, non certamente ispirata a quelle cristalline virtù da lui così mirabilmente rappresentate e aveva nel corso degni anni scontentato non poche persone e creato talvolta situazioni difficili, sia nei suoi rapporti con le donne, molto discutibili a giudizio del Vasari, sia nei rapporti con gli amici e con gli stessi sostenitori con i quali non sempre aveva adeguatamene onorato gli impegni. Non è strano tutto ciò, perché è quasi all’ordine del giorno, nello studio della storia dell’arte, il fatto che la vita di un artista non corrisponda mai, o quasi mai, con l’opera. Un artista, più grande è e più immette nell’opera che crea tutti gli eletti valori che possiede in sé. Può capitare, così, che la vita quotidiana sia, se non l’opposto, in contraddizione rispetto a ciò che si vede nell’opera. Il benefi- cio che l’artista dona all’Umanità risiede sostanzialmente nell’opera creata. La vita personale può addirittura essere indebolita quando la dedizione all’arte è totale e così fu certamente per Andrea del Sarto che è tutto dentro la sua opera. Fatto sta che alcuni malevoli brigarono, racconta il Vasari, a che la tomba re- stasse vuota adducendo che non era stata concessa l’autorizzazione relativa per l’inumazione. E qui il commento del Vasari assurge a pura teoresi che apre la strada ad una possibile interpretazione del s. Sebastiano quale emblema supre- mo di un’intera vita d’artista: basta che se egli fu di animo basso nelle azioni della vita (…) egli per questo non è che nell’arte non fussi e d’ingegno elevato e speditis- simo e pratico in ogni lavoro; avendo con le opere sue, oltra l’ornamento che elle fanno ai luoghi dove elle sono, fatto grandissimo giovamento ai suoi artefici nella maniera, nel disegno e nel colorito, con manco errori ch’altro pittore fiorentino, per avere inteso benissimo le ombre e i lumi, e lo sfuggire le cose nelli scuri, dipinte con una dolcezza molto viva, oltra lo aver mostro il modo del lavorare in fresco, con quella unione e senza ritoccar troppo a secco che fa parere fatto l’ opera sua tutta in un medesimo giorno. Qui c’è la quintessenza del tema artistico di Andrea del Sarto che ci spinge ad 27
approfondire il tema del disegno in particolare come sua peculiarità suprema. Vasari insiste su una tematica apparentemente contraddittoria. Andrea, a suo dire, avrebbe fornito un vero e proprio modello per le generazioni a venire elaborando una maniera (oggi diremmo uno stile) fondata sulla perfezione del disegno e corroborata dalla capacità, sua tipica, di contemperare le luci e le ombre per un effetto finale del quadro che, però, è anch’esso un effetto di carat- tere prettamente grafico-disegnativo; nel dare, cioè, prospettiva alle immagini come fondendole insieme in una dolce atmosfera che dà a chi guarda l’idea di una perfezione della rappresentazione in cui è impossibile trovare anche il minimo errore. Se, in altri termini, sovente nella vita Andrea cadde in errore nei comportamenti quotidiani, mai gli accadde qualcosa di simile nel concreto esercizio della sua arte. Questo concetto dell’errore, anzi della mancanza dell’errore, è fondato appunto sul disegno ed è la chiave di volta per intendere al meglio una raffigurazione come quella del s. Sebastiano. Occorre riflettere bene su cosa possa significare la dimensione dell’errore per un artista come Andrea del Sarto. Andrea da bambino aveva conosciuto un mondo sconvolto, su cui la figura del Savonarola si ergeva come una sorta di testimone del tempo, di profeta, di visionario combattente, finito però in una tragedia spaventevole. Savonarola combatteva quelli che riteneva essere gli errori tremendi cui le per- sone viventi in quel momento tendevano a cadere senza possibilità di salvez- za o riscatto, ancorché proprio la sua figura profetica apparisse a molti come quella di un uomo giunto per portare l’Umanità verso un destino felice, che, però, appare lontano e difficilmente attingibile. Andrea del Sarto deve essere stato marcato per tutta la vita da quegli eventi e il suo comportamento, a detta del Vasari non irreprensibile e sottoposto a continue difficoltà e disavventure, potrebbe essere largamente giustificato da quella sorta di trauma iniziale che egli certamente superò, ma che è ben possibile abbia continuato a incidere su di lui a livello subliminale. E allora questa constatazione spiega ancora meglio la ricerca della assoluta perfezione dell’opera artistica da lui realizzata perché è lì, su quel piano, che egli veramente superò in modo definitivo e felice i tormenti, i dubbi, gli errori appunto, che avevano funestato le generazioni a lui prece- denti. In tal senso l’arte di Andrea del Sarto è proprio un supremo riscatto e un ingresso in una terra felice e pacificata che, nel concreto dell’esistenza, Andrea non poteva certamente raggiungere. E lo strumento principe per compiere un tale percorso era nel pieno recupe- ro dell’aspetto più importante della tradizione artistica fiorentina: un peculiare utilizzo dell’arte del disegno per costruire un mondo artistico in cui l’utopia del raggiungimento di una sorta di perfezione inattingibile nella vita reale potesse 28
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