Università della Terza Età Cinisello Balsamo Storia dell'Arte Contemporanea a.a. 2019 2020 - Dott.ssa Francesca Andrea Mercanti - UTE

Pagina creata da Maria Colombo
 
CONTINUA A LEGGERE
Università della Terza Età Cinisello Balsamo Storia dell'Arte Contemporanea a.a. 2019 2020 - Dott.ssa Francesca Andrea Mercanti - UTE
Università della Terza Età
Cinisello Balsamo

Storia dell’Arte Contemporanea
a.a. 2019 – 2020

Dott.ssa Francesca Andrea Mercanti
Università della Terza Età Cinisello Balsamo Storia dell'Arte Contemporanea a.a. 2019 2020 - Dott.ssa Francesca Andrea Mercanti - UTE
1. L’arte e la guerra. La salvaguardia delle
 opere d’arte durante la Seconda Guerra
                  Mondiale
Università della Terza Età Cinisello Balsamo Storia dell'Arte Contemporanea a.a. 2019 2020 - Dott.ssa Francesca Andrea Mercanti - UTE
La guerra per l’arte una guerra che vede affrontarsi due eserciti: il primo, desideroso di impadronirsi
      della bellezza (e dell’anima) dell’avversario con il denaro o con la forza, per cancellarne
       l’identità; il secondo formato da truppe sparute e spesso isolate che combattono per farsela
                                                      restituire.
È una dinamica consolidata, che si ripete uguale a ogni conflitto: durante la Seconda guerra mondiale il
     territorio italiano fu messo a ferro e fuoco dagli opposti schieramenti e per necessità strategiche,
                 spesso inesistenti, molti monumenti storici, piccoli e grandi, furono distrutti.
      Tra queste, la torre trecentesca su cui si era inerpicato Leonardo da Vinci per disegnare il porto
   canale di Cesenatico, abbattuta da mine naziste in ritirata, la monumentale abbazia benedettina di
  Montecassino, rasa al suolo da un disastroso bombardamento alleato il 15 febbraio 1944 e le migliaia
    di tesori che, sfuggiti al fuoco degli eserciti, furono considerati bottino di guerra e portati all’estero.
Il pittore mancato Hitler e il suo vice, l’avido collezionista Hermann Göring, misero a segno in Europa –
     e in Italia con la complicità di Mussolini – il più grande furto della storia, confiscando oltre cinque
      milioni di opere d’arte ai paesi occupati, prelevandole, oltre che da chiese e musei, da collezioni
 private di oppositori del regime e di ebrei. «Solo le opere confiscate dai nazisti a questi ultimi valevano
  intorno ai 2,5 miliardi di dollari dell’epoca» computa nel 1998 Philippe de Montebello, direttore
  del Metropolitan Museum di New York, prescelto come capo di una speciale task force impegnata nel
        processo di restituzione che include le organizzazioni ebraiche e i maggiori musei del mondo.
Università della Terza Età Cinisello Balsamo Storia dell'Arte Contemporanea a.a. 2019 2020 - Dott.ssa Francesca Andrea Mercanti - UTE
La popolazione locale contribuì come poteva a difendere i propri tesori: musei, chiese e edifici storici di notevole
  valore artistico furono protetti con impalcature di sacchetti di terra e di sabbia e rinsaldati con contrafforti e
                                       pilastri capaci di resistere ai colpi più violenti.
 Gli stessi americani, fin dallo sbarco in Sicilia, costituirono un organismo di tutela, la Monuments, Fine Arts and
    Archives Section, con lo scopo di salvaguardare il patrimonio culturale italiano dallo scempio della guerra.
  Tra tutti, il contributo decisivo arrivò dai salvatori dell’arte italiani, figure eroiche, spesso isolate, che con scarsi
mezzi riuscirono a sottrarre ai nazisti migliaia di tesori: si tratto di giovani soprintendenti, funzionari del ministero
 dell’Educazione nazionale (e ministri che «tifavano» perché i nostri capolavori restassero in Italia), 007 dei
     servizi segreti fascisti, professori di lettere che, animati da coraggio e amore per l’arte, misero in atto piani
ingegnosi, a metà tra una spy story e un racconto di guerra, pur di salvare il patrimonio artistico italiano. Si tratta
       di Pasquale Rotondi, Emilio Lavagnino, Rodolfo Siviero, Giulio Carlo Argan e molti altri eroi dimenticati.
  La più emblematica è l’Operazione Salvataggio (questo il suo nome in codice) condotta su incarico del ministro
Bottai da Pasquale Rotondi : egli dal 1939 al 1944 riuscì a portare in salvo ben 6509 capolavori dei geni italiani, la
                       più grande raccolta di beni culturali mai realizzata nella storia dell’umanità.
 Rotondi arriva alla rocca rinascimentale di Sassocorvaro, dove poche settimane prima lui stesso, soprintendente
 ai Beni artistici delle Marche e della Dalmazia con sede a Urbino, aveva ricevuto ordini da Roma di nascondere le
    principali opere d’arte italiane. Dai musei delle principali città italiane – Venezia, Milano, Bergamo, Treviglio,
 Roma, Ancona, il resto delle Marche e la Dalmazia – erano partiti camion con tele del Tintoretto, di Tiziano, di
                   Piero della Francesca, di Lorenzo Lotto, arrotolate nel più completo anonimato.
Università della Terza Età Cinisello Balsamo Storia dell'Arte Contemporanea a.a. 2019 2020 - Dott.ssa Francesca Andrea Mercanti - UTE
Università della Terza Età Cinisello Balsamo Storia dell'Arte Contemporanea a.a. 2019 2020 - Dott.ssa Francesca Andrea Mercanti - UTE
Arrivate a Sassocorvaro, le opere erano sparite nel buio dei sotterranei del castello coperte dal silenzio degli
   abitanti della piccola cittadina, tutti schierati in un unico grande segreto solidale per salvare il patrimonio
                                                   artistico italiano.
Le truppe di Hitler però arrivano a Carpegna, dove riprenderanno il saccheggio. Rotondi con la sua piccola Fiat
  Balilla sa che non può salvare tutte le opere nascoste e , avvicinandosi alle casse, solleva una cassa leggera
       avvolgendola nel cappotto e con la scatola sotto il braccio risale le scale delle segrete del castello.
               Poche ore dopo, la Tempesta del Giorgione è a casa Rotondi, nascosta sotto il letto.

[Rotondi morirà nel 1991, travolto da una moto in una notte romana e solo grazie alle sue numerose pagine di
  diario è stato possibile ricostruire con precisione il numero e la caratura delle opere da lui fortunatamente
                                                      salvate].

     Nel giugno del 2007, in una cassaforte della Zürcher Kantonalbank di Zurigo, viene ritrovata parte della
collezione di Göring: si tratta di quindici dipinti in tutto, fra cui opere di Dürer, Kokoschka, Monet, Renoir, Sisley.
A depositarli era stato nel 1978 Bruno Lohse, un esperto d’arte che aveva fatto da consulente a Göring e ad altri
  gerarchi all’epoca della «grande razzia». Il ritrovamento si deve alla denuncia da parte di un’anziana signora,
  erede della famiglia ebrea Fischer, alla quale i nazisti avevano confiscato l’intero patrimonio. In seguito alla
morte di Lohse, avvenuta nel 2007, alla signora era stato restituito in forma anonima un capolavoro di Pissarro
 facente parte della collezione di famiglia. Da lì sono partite le indagini che hanno portato al ritrovamento della
                                                        cassaforte.
Università della Terza Età Cinisello Balsamo Storia dell'Arte Contemporanea a.a. 2019 2020 - Dott.ssa Francesca Andrea Mercanti - UTE
Giorgione, Tempesta,
1502 – 1503, tempera a
uovo e olio di noce su
tela, Venezia, Gallerie
dell’Accademia
Università della Terza Età Cinisello Balsamo Storia dell'Arte Contemporanea a.a. 2019 2020 - Dott.ssa Francesca Andrea Mercanti - UTE
Hermann Göring, un dipinto nella mano
sinistra e sigaro nella destra, seduto a
guardare due dipinti di Henri Matisse,
presentatigli da Bruno Lohse. In piedi, alla
sinistra di Göring, il suo consulente d'arte,
Walter Andreas Hofer.                           Interno del Castello di Carinhall
Università della Terza Età Cinisello Balsamo Storia dell'Arte Contemporanea a.a. 2019 2020 - Dott.ssa Francesca Andrea Mercanti - UTE
Henri Matisse, Danseuse au Tambourine
Henri Matisse, Margherite, 1939, olio su      (Armonia in blu), 1926,olio su tela,
tela, Chicago, The Art Institute of Chicago   Pasadena, Norton Simon Museum
Università della Terza Età Cinisello Balsamo Storia dell'Arte Contemporanea a.a. 2019 2020 - Dott.ssa Francesca Andrea Mercanti - UTE
Nel novembre del 2013 arriva la notizia di un nuovo ritrovamento. In un appartamento di Monaco di Baviera è
 stato scovato un tesoro di 1500 opere d’arte, per un valore stimato di oltre un miliardo di euro, che erano state
   confiscate dai nazisti durante il Terzo Reich e che si credevano ormai perdute. Fra i dipinti riportati alla luce,
capolavori di Chagall, Klee e Matisse accatastati in un ripostiglio, tra cassette di frutta e barattoli di fagioli, della
 polverosa casa dell’ormai ottantenne Cornelius Gurlitt, figlio dello storico mercante d’arte Hildebrand Gurlitt. La
polizia è arrivata alla scoperta dopo che nel settembre del 2010 Cornelius era stato fermato su un treno di ritorno
dalla Svizzera con 9000 euro in contanti, in una delle sue sporadiche trasferte per vendere esemplari minori della
  sua collezione, sempre alla luce del sole e in modo legale: una sorta di rendita del patrimonio paterno che gli
   aveva permesso di sopravvivere nell’ombra per decenni, senza mai un lavoro, una pensione né un numero di
  previdenza sociale. La casa di Monaco non era l’unico nascondiglio. In un altro appartamento di Salisburgo le
     autorità tedesche hanno trovato altre 60 opere della collezione, tra cui dipinti di Picasso, Renoir e Monet.
    Nonostante i fortunati ritrovamenti di Zurigo, Monaco e Salisburgo e i tanti sforzi eroici di antichi e moderni
  Monuments men – da quelli delle forze alleate angloamericane, ai salvatori dell’arte italiani, fino agli eroi più
         recenti – sono però ancora tante le opere d’arte «prigioniere di guerra» che mancano all’appello.

 Restando solo ai beni trafugati in Italia durante il fascismo e la Seconda guerra mondiale, l’elenco è lunghissimo.
   Non sono mai tornati almeno 1653 pezzi: 800 dipinti, decine di sculture, arazzi, tappeti, mobili, strumenti
                            musicali, tra cui violini Stradivari, e centinaia di manoscritti.
  Le opere trafugate si trovano ancora in Germania e Austria e, in parte, nella ex Unione Sovietica, dove furono
     portate dall’Armata rossa dopo il crollo del Terzo Reich e l’invasione dei suoi ex territori. Tra queste,
capolavori di Michelangelo, del Perugino, di Marco Ricci, oltre a sculture greche e romane e a tavole di primitivi di
                                                     ottima fattura.
Edouard Manet, Natura morta con              Gustave Courbet, Jean Journet, 1850,
frutta, 1870 ca., olio su tela, Collezione   olio su tela, Collezione Gurlitt
Gurlitt
Jean Honoré Fragonard, Il Trionfo di
Jan Baegert, Adorazione dei Magi, 1490   Venere, 1790 ca., carboncino su carta,
ca., olio su tela, Collezione Gurlitt    Collezione Gurlitt
Jan Brueghel il
Giovane, Paesaggio
fluviale, 1660 ca.,
Collezione Gurlitt
Dal 3 al 9 maggio 1938 il Führer lasciò la Germania per uno dei suoi primi viaggi all’estero, una visita di Stato per incontrare
l’alleato Benito Mussolin. Da Roma, capitale del neoproclamato impero, Hitler ripartirà con le idee chiare sulla maestosità che il
      suo architetto personale, Albert Speer, avrebbe dovuto conferire a Berlino e al sognato impero del Reich. A commuovere il
    Führer fu la vista delle numerose opere d’arte ospitate in quei palazzi del centro storico che avevano assistito alla nascita del
                                 Rinascimento e che accoglievano il cuore pulsante della cultura d’Europa.
 Accompagnato da una guida d’eccezione, l’archeologo senese Ranuccio Bianchi Bandinelli, e tallonato da un Mussolini che
non era mai entrato in un museo per piacere in tutta la sua vita, Hitler rifiutò di affrettarsi e trascorse più di tre ore nei maggiori
      edifici d’arte, ammirando stupefatto i capolavori del museo e persino commuovendosi, lui che da giovane aveva sognato di
      diventare artista: un sogno infranto quando era stato respinto all’Accademia di belle arti di Vienna. Ora Berlino, la capitale
                                                dell’impero, sarebbe diventata la sua Roma.
    Ma un artista-imperatore aveva bisogno anche di una sua Firenze. E Hitler sapeva dove costruirla: in quella Linz, nella nativa
        Austria. Lì sarebbe nato il Führermuseum, la più grande e spettacolare raccolta di opere d’arte del mondo, una visione
        culminata in un modellino tridimensionale opera di Speer. In quelle stanze avrebbe raccolto la sua collezione privata,
     accumulata in anni di acquisizioni e destinata ad arricchirsi con opere provenienti da tutto il mondo. Acquistate, confiscate,
  requisite o depredate alle famiglie ebraiche, come sancì con le leggi dello stesso 1938; una prassi di saccheggio concretizzata
                 dal gerarca Alfred Rosenberg e poi applicata a ogni museo, casa d’aste, galleria, salotto o bunker segreto.
    L’insaziabile ambizione del maresciallo collezionista Hermann Göring, vice di Hitler, avrebbe fomentato la razzia e favorito
    l’arrivo in Germania dei capolavori europei da convogliare a Linz. A perfezionare il progetto, l’incarico ufficiale assegnato da
Hitler a Hans Posse con una lettera del 26 giugno 1939: «Incarico il dottor Posse, direttore della Galleria di Dresda, di costruire il
          nuovo museo d’arte di Linz Donau. Tutti i servizi del Partito e dello Stato hanno l’ordine di assistere il dottor Posse
                                                   nell’adempimento della sua missione».
   Il flusso di capolavori artistici dall’Europa e dall’Italia verso la Germania del Terzo Reich fu incontenibile. Si stima che le opere
  convogliate nei ricoveri tedeschi in attesa di essere catalogate ed esibite nel più spettacolare museo mai allestito fossero circa
                                                                 cinque milioni.
In realtà fino a prima del 1943, Hitler riuscì a mettere insieme la propria collezione in maniera completamente
 legale, grazie ad antiquari e mercanti d’arte (per evidenti motivi di arricchimento) e, per captatio benevolentiae,
     dai governanti alleati, Mussolini in testa. Infatti Giulio Carlo Argan, allora giovane funzionario del ministero
     dell’Educazione, ricorda che: «Prima che noi ci ritirassimo dalla guerra, rompendo l’alleanza con i tedeschi,
  operava in Italia un gruppo di persone, capeggiato dal principe Filippo d’Assia, che aveva come tecnico un certo
      dottor Posse, conoscitore abbastanza competente. Costoro cercavano di comprare beni artistici e storici di
 proprietà privata, ma molto importanti. Fortunatamente il ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai si
 oppose all’esportazione di questi beni, che furono comunque fatti uscire dall’Italia per ordini superiori. Dopo la
 guerra, la Commissione alleata considerò che queste opere, esportate contro il parere del ministro per ordine di
Mussolini o del genero del duce, il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, oppure con treni militari o con valigie
 diplomatiche, fossero state abusivamente sottratte al patrimonio nazionale italiano. Solo così è stata possibile
                                            la restituzione di gran parte di esse».
     Argan chiarisce anche il metodo di pagamento: «Venivano pagate ai proprietari e ai mercanti in lire italiane.
  Correva voce che si trattasse di soldi frutto di un lungo giro geofinanziario: pare fosse moneta presa dagli inglesi
      nelle banche libiche e rivenduta per due soldi agli svizzeri, che a loro volta l’avevano rivenduta ai tedeschi,
guadagnandoci sopra. Tra le opere acquistate con questo metodo ricordo una Leda di scuola leonardesca, pagata
otto milioni. In altri casi i tedeschi ricevettero le opere come regalo personale di Mussolini: fu il caso del trittico del
                                   pittore austriaco Hans Makart, La peste a Firenze».
  I tedeschi ottennero allo stesso modo anche il Ritratto di Giovanni Carlo Doria a cavallo di Rubens, proveniente
    dalla collezione Doria D’Angri di Napoli, messo all’asta nel 1939 e acquistato da una certa Maria Termini (una
       prestanome) per essere poi donato da Mussolini a Hitler. Regalava Mussolini, vendevano gli antiquari.
Hans Mackart, La peste a Firenze, 1868, olio su tela, Vienna, Österreichische Galerie
                                    Belvedere
Cesare da Sesto (?), Leda col cigno, 1510 – 1515,   Pieter Paul Rubens, Ritratto di Giovanni Carlo Doria
tempera su tela, Roma, Galleria Borghese            a cavallo, 1606, olio su tela, Genova, Galleria
                                                    Nazionale di Palazzo Spinola
Nel 1998 il Congresso mondiale ebraico ha pubblicato un dossier, rimasto segreto per cinquant’anni, con i nomi degli
           antiquari che si arricchirono commerciando oltre duecentomila opere rubate dai nazisti alle vittime dei lager.
L’elenco (Art Looting Investigation Unit Final Report) fu compilato dai servizi segreti americani (l’Oss, il precursore della Cia) in
   un arco di quattro mesi, nel 1946. La Francia è il paese più rappresentato, ma anche l’Italia si classifica ai primi posti,
                                      dopo Germania, Austria, Francia, Svizzera,Olanda e Belgio.
 Tra i tanti che non si piegarono a questo vile mercato dell’arte, compare anche il ministro Bottai che, pur dichiarandosi «pronto
  all’obbedienza a Mussolini» fu anche difensore del prestigio culturale e quindi oppositore leale all’accaparramento dei tesori
     d’arte da parte dei tedeschi. Lui, insomma, tifa per Pasquale Rotondi e non per Mussolini. Questo comportamento affiora
      proprio in occasione della cessione del Ritratto virile di Hans Memling al duce. Egli l’11 giugno 1941, tramite il genero, il
  ministro Galeazzo Ciano, gli scrive che «aderendo a un desiderio espressogli dal Führer per il tramite del principe d’Assia», ha
        autorizzato la vendita e l’esportazione del quadro del Memling. Nonostante tutte le rimostranze e le preoccupazioni
                  pronunciate da Bottai in numerose leggere, il dipinto comunque avrà il destino di lasciare l’Italia.
  Il cuore di Bottai, dicevamo, batte per Pasquale Rotondi, ed ecco le righe che lo provano. Sono tratte dalla lusinghiera lettera
 che il ministro, il 14 gennaio 1943, indirizza al soprintendente di Urbino impegnato, su suo incarico, tramite il funzionario del
      ministero Giulio Carlo Argan, nell’Operazione Salvataggio dei principali capolavori italiani nel Montefeltro marchigiano:
«Il Regio soprintendente alle Antichità di Ancona, nel trasmettere il verbale di verifica delle opere d’arte ricoverate nella Rocca
di Sassocorvaro – di cui si è constatato l’ottimo stato di conservazione –, ha messo in evidenza l’opera intelligente e alacre da Voi
 svolta per l’attrezzatura dei locali e per tutte le opere necessarie per la migliore conservazione del materiale salvaguardato nel
       ricovero da Voi prescelto. Mentre prendo atto di questa Vostra particolare, lodevole attività, Vi esprimo il mio più vivo
                                                            compiacimento».
 Meno di un mese dopo, Bottai non è più ministro. Il 25 luglio aderirà con altri diciannove gerarchi all’ordine del giorno Grandi,
                                            una mozione che mette in minoranza Mussolini.
Sarà per questo condannato a morte al processo di Verona, nel 1944, da un tribunale della neocostituita Repubblica sociale
 italiana. Condanna in contumacia, perché nel frattempo Bottai, con il consenso delle autorità francesi, si arruola nella Legione
             straniera («Parto per espiare le mie colpe di non aver saputo fermare in tempo la degenerazione fascista»).
Dalla parte di Rotondi si schierò anche il ministro che sostituì Bottai, l’ex rettore dell’Università
                                           Normale di Pisa Carlo Alberto Biggini.
  La prima volta che nel diario di Rotondi compare il nome di Biggini è in una data storica: il 25 luglio 1943. Quel
   giorno l’allora soprintendente di Urbino annota: «Mi è giunto oggi dal ministero dell’Educazione nazionale un
 telegramma contenente l’elogio rivoltomi dal Consiglio superiore per l’opera da me data per la salvaguardia del
        patrimonio artistico italiano. È firmato da Carlo Alberto Biggini, il nuovo ministro, succeduto a Bottai».
   Poche ore dopo la partenza di quel telegramma, cade il ventennale regime fascista di Mussolini in seguito alla
                    mozione Grandi, e Biggini consegna la carica al nuovo ministro, Leonardo Severi.
     Dopo l’8 settembre 1943, giorno del proclama di armistizio di Badoglio con gli angloamericani, il ministero
            dell’Educazione della Repubblica sociale di Salò viene assegnato a Biggini e trasferito a Padova.
Il 26 ottobre di quell’anno cruciale per la storia italiana Rotondi viene informato della proposta fatta da Biggini di
     creare a Venezia un deposito generale, «soluzione che è la sola garanzia di poter fare un’azione autonoma
      italiana; e di mettere una volta per sempre fuori dalla politica un problema, quello della salvaguardia dei
                       capolavori artistici italiani, che non ha nulla a che vedere con la politica».
  A conferma della sua difesa dei beni culturali italiani, ecco come inizia un appunto autografo a sua firma diretto
al duce: «Sono fermamente convinto che la stessa gravità del momento impone di tentare uno sforzo decisivo per
         ottenere che almeno si inizi, magari con mezzi nostri, il recupero delle opere d’arte depositate dalla
                       Generalverwaltung tedesca a Campo Tures e a San Leonardo di Passiria».
 L’intento è di riunire tutte le opere dei ricoveri sparsi sul territorio, soprattutto nel Centro Italia. Sotto l’incalzare
    dei bombardamenti (e delle rapine tedesche) e di fronte alle esitazioni del nuovo ministro Severi, i coraggiosi
funzionari decidono però di agire in autonomia e avviano trattative segrete sia con il Vaticano sia con il comando
                        tedesco per mettere i capolavori al sicuro tra le neutrali mura pontificie.
PASQUALE ROTONDI
L’azione e il contributo di Pasquale Rotondi sono ricordati nella Rocca di Sassocorvaro – capolavoro d’architettura
 del senese Francesco di Giorgio Martini, maestro di Leonardo da Vinci, fatta costruire nella seconda metà del
  Quattrocento nell’omonimo borgo a cinquanta chilometri dalla riviera adriatica, nel Montefeltro, tra Pesaro e
 Urbino – dove in una stanza che s’affaccia sul cortile, in un angolo per terra, si trova un piccolo tassello in legno
                                      con una scritta tutta incisa in maiuscolo:

                                          IN QUESTE STANZE,
                   DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE, EBBERO RICOVERO E SALVEZZA
                       QUASI DIECIMILA OPERE D’ARTE PROVENIENTI DA TUTTA ITALIA.

 Rotondi è stato un salvatore dell’arte e dell’anima dell’Italia. Quanti oggi si incantano davanti alla Tempesta del
  Giorgione o al Tesoro di San Marco, o ai dipinti di Tiziano e Tintoretto, Piero della Francesca, Raffaello e tanti
    altri geni dell’arte, sappiano che devono principalmente a lui questo privilegio. Fu Rotondi, nel corso della
  Seconda guerra mondiale, a salvare ben 6509 capolavori italiani dalla barbarie del conflitto e dalle mire di
Hitler, che non vedeva l’ora di raccogliere il prezioso patrimonio nel Führermuseum, un ideale museo universale
   con sede a Linz, città austriaca prossima al suo paese natale; infatti è essenzialmente grazie a lui che si deve
  l’«Operazione Salvataggio» con cui tra 1940 e 1944 il ministero dell’Educazione nazionale italiano dispose di
portare in salvo, sotto la sua responsabilità, un inestimabile patrimonio di opere d’arte (tra questi, tredici quadri
di Tiziano, diciassette di Tintoretto, quattro di Piero della Francesca e altre opere di Carlo Crivelli e Lorenzo Lotto,
                        Raffaello e Mantegna, Veronese e Rubens, Tiepolo, Guardi e Canaletto).
Memore dell’esperienza del conflitto del 1915-1918, il ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai dispose
    nel 1939 il ricovero dei principali tesori d’arte italiani in terraferma, in una base nazionale allora segreta, da
  indicare nei documenti ufficiali come «Ricovero» con la R maiuscola, a differenza degli altri ricoveri di interesse
    regionale e locale, indicati con la minuscola. Era questa l’ «Operazione Salvataggio» ordinata a partire dal 18
settembre 1939 con un incontro a Roma tra Rotondi e Giulio Carlo Argan. Nel diario di Rotondi si legge: «Argan mi
    ha comunicato che la direzione generale ha in animo di costituire in Urbino, qualora l’Italia entri in guerra, un
    grande ricovero di opere d’arte colà raggruppate da ogni parte del territorio nazionale. Le amplissime sale del
  Palazzo ducale si sarebbero meravigliosamente prestate ad accogliere, sulle loro pareti, i più celebri quadri delle
gallerie e delle chiese d’Italia, che perciò avrebbero potuto essere custoditi durante la guerra senza rimanere chiusi
negli imballaggi, col vantaggio notevolissimo di poter essere quotidianamente sorvegliati nella loro conservazione
    e integrità. Da parte sua, data anche la sua posizione topografica, Urbino avrebbe potuto essere facilmente
                                riconosciuta, con un accordo internazionale, città libera.»
 Ma ecco presentarsi una circostanza imprevista a questo programma apparentemente perfetto: la stessa Urbino,
    culla del Rinascimento, è un obiettivo militare a causa dei depositi di munizioni dell’aeronautica nascosti nel
   sottosuolo. Un dettaglio non trascurabile, di cui si rende immediatamente conto Rotondi quando il 1° ottobre
                           1939 arriva da Roma per prendere possesso del suo nuovo ufficio.
 Scrive sul diario in quella data: «Da Roma sono arrivato questa mattina in Urbino, dopo aver passato la notte
     in treno. Nella piccola stazione ferroviaria vedo un folto gruppo di soldati dell’aeronautica che danno
  l’assalto alla corriera in partenza per la città. A metà strada l’automezzo si ferma e i soldati scendono. Chiedo al
 fattorino come mai in Urbino si trovino i militari. La risposta è sconcertante per me che sapevo Urbino lontana da
    ogni obiettivo di guerra: un grande deposito di munizioni dell’aeronautica è in via di allestimento nella lunga
 galleria ferroviaria che si sviluppa nelle viscere del colle su cui sorge la città, galleria rimasta chiusa al traffico fin
   da quando rimase sospesa la costruzione della strada ferrata per Santarcangelo di Romagna. I soldati che ho
         visto fanno parte del distaccamento cui è affidato il compito di allestire il deposito e di sorvegliarlo».
È un deposito di gas venefici ed esplosivi, a meno di cinquecento metri in linea d’aria dal Palazzo ducale, autorizzato dal
    ministero dell’Aeronautica nonostante l’appello accorato del soprintendente all’Arte medievale e moderna delle Marche,
Guglielmo Pacchioni, predecessore di Pasquale Rotondi, poi trasferito a Milano. Le conclusioni a cui arriva il neosoprintendente
  Rotondi sono rapide: «A causa di questo deposito la stessa Urbino deve essere considerata obiettivo militare, tutt’altro che
                                adatta a ospitare e a proteggere, in caso di guerra, capolavori artistici!»
   Scartato il palazzo di Urbino per questo inatteso ostacolo, Rotondi dall’ottobre del 1939 al giugno del 1940 si aggira per le
     Marche cercando un luogo sicuro ove ricoverare il patrimonio artistico. Orienta la sua ricerca verso altri siti marchigiani
    basandosi su questa griglia di requisiti prioritari: «Indispensabile doveva essere innanzitutto la lontananza del ricovero da
   centri industriali e ferroviari, o addirittura militari di interesse bellico. I locali prescelti dovevano presentare, inoltre, una
  perfetta idoneità per la solidità delle loro strutture, in modo da dare di per se stessi una sufficiente garanzia nell’eventualità,
 sia pur ipotetica, di attacchi aerei. Loro essenziale condizione doveva poi essere una perfetta assenza di umidità, in modo che
le opere d’arte non avessero a subire il benché minimo danno durante la loro permanenza in ricovero. Né doveva esservi, nella
       località prescelta, scarsezza d’acqua neppure nei mesi d’estate: perché di fatto tale scarsezza avrebbe impedito il
     funzionamento degli impianti idrici da istituire a scopo antincendio. Così pure i locali da adibire a ricovero non dovevano,
  possibilmente, essere troppo isolati dal centro abitato, potendo il loro isolamento compromettere la sicurezza del materiale
   dalla possibilità di furti: un rapido pensiero all’ingente valore delle cose da custodire era sufficiente a giustificare questa
auspicata prerogativa dell’istituendo ricovero. Così pure, sempre per rendere più efficace la sorveglianza e la sicurezza del
 prezioso deposito, non pareva che si potesse scegliere una località troppo lontana da Urbino, ove la Soprintendenza ha sede.
 La vicinanza avrebbe permesso un controllo maggiore sui servizi di custodia del ricovero attraverso frequenti e facili contatti».
      Dopo lunghe ricerche condotte principalmente nel centro Italia, Rotondi isola due edifici, la Rocca quattrocentesca di
  Sassocorvaro e il vicino Palazzo dei Principi di Carpegna. Furono questi i siti dove cominciarono a confluire migliaia di quadri,
                           sculture, disegni, mobili, arredi e oggetti preziosi dai musei di gran parte d’Italia.
  Sarà un piccolo ma decisivo dettaglio a favorire uno dei due luoghi contendenti: il fatto che la Rocca di Sassocorvaro fosse un
   edificio di proprietà comunale e la sua maggiore vicinanza a Urbino la fecero preferire al Palazzo dei Principi di Carpegna. Il
        luogo destinato a rimanere segreto nelle carte ufficiali per entrare nella storia sarà dunque la Rocca di Sassocorvaro.
Francesco di Giorgio Martini, Rocca di Sassocorvaro, 1475
Dal diario, alla data del 5 giugno 1940, appena cinque giorni prima della dichiarazione di guerra da parte
di Mussolini alla Francia e alla Gran Bretagna, si legge: «Mi arriva dal ministero un telegramma con
 l’ordine di porre in atto il programma di salvaguardia delle opere d’arte mobili appartenenti al territorio
                                    giurisdizionale della mia Soprintendenza».
   Rotondi chiede fondi e personale per questa impresa, ma, come nella migliore tradizione italiana, da
 Roma rispondono picche e il 7 giugno 1940 Rotondi arriva a Sassocorvaro dove prende contatto con le
autorità locali: il podestà, il comandante della locale stazione dei Regi carabinieri e il preside della scuola
    media che ha in parte sede nella Rocca (si tratta, coincidenza, di un antico amico di Rotondi, Filippo
                              Martufi, suo corregionale e compagno di università).
      Nel giro di un mese nel rifugio, dopo frenetici spostamenti sui diecimila chilometri quadrati del
   territorio marchigiano, giungono tutte le opere provenienti dai musei delle Marche, «tra le quali ben
         347 di valore universale» annota Rotondi. «Se non sembra utile – perché noioso – elencarli
dettagliatamente, pare però opportuno nominarne a caso qualcuno, affinché possa emergere la grande
    importanza dell’insieme: la grande pala d’altare di Giovanni Bellini del Museo di Pesaro, i Tiziano di
Ancona e quelli di Urbino, il Rubens di Fermo, i Piero e il Paolo Uccello e i Signorelli e il Melozzo e i Giusto
da Urbino, i Lotto di Jesi e i Perugino di Fano e i Crivelli di Ascoli e gli Allegretto di Macerata di Urbino e di
  Fabriano, e il fior fiore delle ceramiche di Pesaro, e i piviali rarissimi di Fermo e di Ascoli, e gli arazzi di
Ancona e di Fabriano. [...] Su un mezzo della marina militare arrivano anche due dipinti appartenenti al
   Duomo dell’isola di Lagosta: uno di Francesco Bissolo e l’altro attribuito a Girolamo da Santacroce.»
Tiziano, Pala Gozzi, 1520, tecnica mista su
Giovanni Bellini, Pala di Pesaro, 1471 –     tavola, Ancona, Pinacoteca civica
1483, olio su tavola, Pesaro, Musei Civici   Francesco Podesti
Tiziano, Resurrezione di Cristo, 1542 – 1544,   Pieter Paul Rubens, Adorazione
olio su tela, Urbino, Galleria Nazionale        dei pastori, 1608, olio su tela,
della Marche Palazzo Ducale di Urbino           Fermo, Pinacoteca Civica
Giusto di Gand e Paolo Uccello, Pala del      Luca Signorelli, Gonfalone dello Spirito
Corpus Domini, 1472 – 1474, olio su tavola,   Santo, 1494, tempera su tela, Urbino,
Urbino, Galleria Nazionale della Marche       Galleria Nazionale della Marche
Palazzo Ducale di Urbino                      Palazzo Ducale di Urbino
Melozzo da Forlì, Cristo
Salvatore, 1480 – 1482, olio
su tela, Urbino, Galleria
Nazionale della Marche
Palazzo Ducale di Urbino
Lorenzo Lotto, Deposizione, 1512, olio su     Lorenzo Lotto, Annunciazione, 1526,
tela, Jesi, Pinacoteca civica e galleria di   olio su tela, Jesi, Pinacoteca civica e
arte contemporanea                            galleria di arte contemporanea
Pietro Perugino, Pala di Fano,
1497, olio su tavola, Fano,
Chiesa di Santa Maria Nuova
Carlo Crivelli, Polittico di Sant’Emidio, 1473,   Nuzi Allegretto, Madonna con Bambino in
tempera e oro su tavola, Ascoli Piceno,           trono e santi, Sant'Antonio Abate, San
Cattedrale di Sant’Emidio                         Venanzio, 1369, tempera su tavola, Macerata,
                                                  Pinacoteca Nazionale
Da Venezia arriva nelle Marche un funzionario della Soprintendenza lagunare, il professor Rodolfo Pallucchini, che
    riporta un’ottima impressione del ricovero e preannuncia l’invio dei capolavori da gallerie e chiese veneziane.
 Dal diario di Rotondi si legge: «Dopo il sopralluogo di Pallucchini sono state approvate e finanziate dal ministero
        queste misure di sicurezza del ricovero di Sassocorvaro, misure già realizzate in gran parte ancor prima
 dell’approvazione ministeriale: costruzione di muri antischegge e anticrolli; impianto di parafulmini; attivazione di
   una pompa di sollevamento dell’acqua dalla cisterna della Rocca ai fini antincendio; costruzione di una cisterna
    fuori della Rocca sempre per gli stessi fini, alimentata dall’acquedotto comunale; acquisto di estintori e idranti;
potenziamento dell’impianto di campanelli elettrici colleganti il ricovero con la stazione dei Regi carabinieri; rinnovo
       degli impianti elettrici della Rocca con speciali cautele antincendio; costituzione di una squadra di pronto
                                                         intervento».
 I locali sono pronti: il 16 ottobre 1940 arrivano da Venezia 54 casse e 16 rulli contenenti più di cento opere d’arte
di eccezionale valore artistico delle Regie Gallerie dell’Accademia, della Ca’ d’Oro e del Museo orientale di Venezia.
    Da questo momento, seguono due anni, tra 1941 e 1943, di verifiche e sistemazioni dell’immenso patrimonio
                                        artistico conservato all’interno della Rocca.
  Il 20 gennaio 1943 Rotondi lascia Urbino per recarsi a Roma per trattare al ministero alcune pratiche. In questo
incontro i due discutono della possibilità di creare nelle Marche un secondo ricovero d’opere d’arte, dato che sono
  molte le preoccupazioni per la salvaguardia dei capolavori della Lombardia. Dall’incontro emerge chiaramente la
      necessità di trovare un altro ricovero per evitare una condensazione di materiale artistico a Sassocorvaro.
Rotondi non ha bisogno di ulteriori ricerche per trovare un secondo edificio robusto e asciuttissimo: si tratta del
       Palazzo dei Principi di Carpegna, edificio già considerato nel 1939 e a cui gli era stata preferita la Rocca di
                                                       Sassocorvaro.
Giovanni Antonio De' Rossi,
Palazzo dei Principi di
Carpegna, 1674
L’edificio sorge al centro dell’abitato e
domina maestoso sul resto delle abitazioni
comunali e sull’intera conca verde ai piedi del
monte Carpegna (1415 metri di altezza). Fu
fatto erigere sul finire del Seicento dal
cardinale Gaspare di Carpegna, discendente
della gloriosa famiglia di principi che porta lo
stesso nome del borgo: i principi di Carpegna
Falconieri. Una nuova residenza signorile
destinata a quella nobiltà che da prima
dell’anno Mille, e fino al 1819, quando il
feudo fu inglobato dallo Stato pontificio,
aveva reso Carpegna uno Stato a tutti gli
effetti indipendente.
Da questo momento arrivano a Carpegna numerose casse contenenti opere d’arte provenienti dalla Lombardia e
 dal nord Italia: 87 casse contenenti centinaia di opere appartenenti al Castello sforzesco (dipinti, sculture, pezzi
      archeologici, ceramiche, porcellane eccetera) consegnate da Fernanda Wittgens nell’aprile ‘43; 47 casse
    contenenti opere di primaria importanza delle Gallerie dell’Accademia, della Ca’ d’Oro e di alcune chiese di
Venezia e 23 casse contenenti i vari oggetti del Tesoro di San Marco consegnate da Vittorio Moschini nel maggio
   ’43; 29 casse con opere appartenenti alla Galleria Borghese, alla Galleria Corsini, al Museo di Tarquinia, alla
     collezione Gualino e ad alcune chiese di Roma consegnate da Aldo De Rinaldis nella metà del giugno ‘43;
    numerose casse contenenti un considerevole numero di capolavori della Galleria di Brera, del Museo Poldi
     Pezzoli, del Museo del Castello sforzesco, dell’Accademia Carrara di Bergamo e del Duomo di Treviglio – si
     annoverano all’interno di questo preziosissimo carico, opere come la Pala di San Bernardino di Piero della
      Francesca, lo Sposalizio della Vergine di Raffaello e il Cristo alla Colonna del Bramante – consegnate da
                                     Guglielmo Pacchioni alla fine del giugno ’43.
  Alla fine del giugno1943 si legge nel diario di Rotondi: «Dopo le consegne di oggi la consistenza del ricovero di
 Carpegna è la seguente: a pianterreno: 69 casse di Milano. Al piano superiore: 70 casse di Venezia; 43 casse di
 Milano; 29 casse di Roma. In questo momento nei due ricoveri di Sassocorvaro e Carpegna sono depositati circa
  ottomila pezzi: poco meno di quattromila appartengono al settore storico-artistico, poco più di quattromila
                                       appartengono al settore bibliografico.»
Piero della Francesca, Pala di San            Raffaello Sanzio, Sposalizio della Vergine,
Bernardino, 1472, tempera e olio su tavola,   1504, olio su tavola, Milano, Pinacoteca di
Milano, Pinacoteca di Brera                   Brera
Donato Bramante, Cristo alla
colonna, 1490 circa, olio su
tavola, Milano, Pinacoteca di
Brera
Dopo il 25 luglio 1943, giorno in cui Mussolini viene destituito e tratto in arresto dal re dopo una drammatica
seduta del Gran Consiglio, Rotondi e i custodi delle opere conservate a Sassocorvaro e Carpegna credono che le
  opere da loro salvate possano tornare alle loro sedi di provenienza essendo finita la guerra, ma si sbagliano di
 grosso: il 20 ottobre 1943 le truppe tedesche fanno irruzione nel Palazzo dei Principi a Carpegna per accertare
       se in esso vi siano contenute armi e qui trovano l’inestimabile tesoro delle opere salvate da Rotondi.
  Annota Rotondi nel diario: «I tedeschi hanno invaso il ricovero e, poiché i carabinieri avevano tentato una
    certa resistenza, li hanno disarmati e caricati sui loro automezzi, trasferendoli verso Rimini. Ho raggiunto
    immediatamente il ricovero, dove ho trovato i custodi molto impressionati. Essi mi confermano che tutti i
   carabinieri di stanza a Carpegna sono stati portati via e infatti, andato nella loro caserma, vi trovo installati i
 tedeschi, il cui comandante (al quale mi rivolgo per risentirmi per l’allontanamento dei carabinieri dal ricovero)
accoglie con ostentata alterigia le mie proteste. Mi fa dire dall’interprete di stare tranquillo, perché sotto la loro
   custodia le opere saranno più sicure di prima. Tornato al ricovero, mi sincero che il materiale sia tutto al suo
     posto e cerco di fare coraggio ai custodi. Per ora il solo danno arrecato dai tedeschi alle cose del ricovero
  riguarda uno dei suggelli del baule contenente i cimeli di Gioachino Rossini che un soldato germanico ha fatto
saltare nei primi momenti di confusione, quando le SS sono entrate nel ricovero. Dal baule rossiniano viene fuori
     un manoscritto inedito per basso intitolato La purga. I militari tedeschi dicono: “Soltanto cartacce”, e non
                                continuano l’ispezione. Quadri e preziosi sono salvi».
A un certo punto Rotondi si trova costretto, per sicurezza, a caricare sulla sgangherata Balilla (oggi ammirabile nel
Museo dell’auto Fiat a Torino) la Tempesta, il San Giorgio del Mantegna, la Madonna col bambino di Cosmé Tura,
quattro Madonne di Giovanni Bellini (tra cui quella degli Alberetti), la Pietà, il Ritratto Morosini del Tintoretto e il
                                         Ritratto maschile di Lorenzo Lotto.
  Porta i capolavori nella casa di campagna Tortorina, alle porte di Urbino, dove nell’ottobre del 1943 la moglie,
 Zea Bernardini, storica dell’arte e sua ex compagna di studi all’università, farà da vigile sorvegliante alle tele: le
custodirà nella loro stanza da letto e per giorni si fingerà malata per impedire che siano scoperte persino dai figli.

     Nell’inverno del 1943 l’ «Operazione Salvataggio» corre tremendi pericoli: avrà buon esito grazie a due
 rocamboleschi traslochi notturni, il 22 dicembre e il 16 gennaio quando le opere principali saranno trasportate
   con mezzi di fortuna fino ai musei del Vaticano in seguito all’approvazione del piano da parte di Pio XII (con
   l’azione determinante del cardinale Giovan Battista Montini, futuro papa Paolo VI, e di Bartolomeo Nogara,
    direttore generale dei musei e delle gallerie pontificie) e all’intervento di una squadra romana guidata dal
                                   funzionario delle Belle arti Emilio Lavagnino.
Andrea Mantegna, San Giorgio, 1460,    Cosmè Tura, Madonna con il Bambino,
tempera su tavola, Venezia, Gallerie   1470, olio su tavola, Venezia, Gallerie
dell’Accademia                         dell’Accademia
Giovanni Bellini, Madonna degli Alberetti,
1487, olio su tavola, Venezia, Gallerie      Jacopo Tintoretto, Pietà, 1563, olio su tela,
dell’Accademia                               Milano, Pinacoteca di Brera
Jacopo Tintoretto, Ritratto di Battista
Morosini, non datato, olio su tela,       Lorenzo Lotto, Ritratto maschile, 1545
Venezia, Convento dei Canonici            circa, olio su tela, Milano, Pinacoteca di
Lateranensi, ex Convento dei Canonici     Brera
Lateranensi
Per i primi mesi del 1944 la vita presso il ricovero di Sassocorvaro scorre abbastanza tranquilla. In questo
 periodo Rotondi collocherà un episodio singolare accaduto durante una missione: «Da Urbino stavo andando
in un paese in provincia di Ascoli Piceno. A Falerone un carabiniere mi ferma: stavo fotografando un palazzetto
    del Cinquecento, lui mi dice che non si può e mi chiude in una camera di sicurezza. Gli spiego che sono il
     soprintendente di Urbino, gli mostro i documenti, l’ordine ricevuto. C’era scritto che dovevo andare a
 esaminare un polittico di Carlo Crivelli. E lui di rimando: “Ma allora lei viaggia per ragioni politiche”. E così mi
               ha tenuto rinchiuso per sette ore, finché non sono riuscito a parlare con il prefetto».

   Sassocorvaro e l’intera valle del Foglia si riempiono di fortificazioni, bunker e campi minati. La resistenza
   tedesca alle truppe alleate si intensifica proprio all’altezza del Montefeltro marchigiano: è la Linea gotica.
     La fortezza viene colpita dal fuoco delle artiglierie, ma non subisce gravi danni: le sue formidabili mura
   riporteranno solo ferite leggere, tanto che le residue opere ricoverate all’interno (47 casse, 8 rulli e 3 tele
    senza imballaggio) non ne risentirono. Un tentativo delle truppe tedesche di occupare la Rocca e di farci
    caserma, in un quadro di confusione totale («L’esercito germanico è in piena disfatta, ma i tedeschi non
 desistono dalla loro arroganza, anzi l’accentuano» annota Rotondi), viene sventato dal soprintendente, che
          impedisce anche che vi si installi un deposito di munizioni da parte della milizia repubblicana.
I tedeschi pensano di portar via quadri e tele per «trasferirli» al Nord, e a Rotondi chiedono un rapporto sulle
                          opere d’arte presenti ma lui, disubbidendo, non prepara nulla.
                              Il paese di Sassocorvaro è praticamente abbandonato.
Il 9 settembre 1944 nel borgo arrivano le forze angloamericane guidate dal capitano Maxse, che non si avventura
verso la rocca per timore che la strada sia minata. L’ «Operazione Salvataggio» finisce nella soddisfazione generale
con la restituzione dei pezzi d’arte ai rispettivi musei di appartenenza senza che nessun danno sia stato apportato
                                          a uno solo dei beni affidati a Rotondi.
    Le ultime due pagine del diario sono dedicate alla fase di restituzione delle opere. Alla data 7 maggio 1946
 Rotondi conclude: «Ho completato oggi la restituzione delle opere di proprietà di chiese e di musei delle Marche
   che all’inizio della guerra erano state ricoverate a Sassocorvaro e che, al contrario delle altre, non erano state
  trasferite in Vaticano. Le verifiche effettuate hanno dimostrato che nessun danno si è verificato durante questo
lungo periodo di emergenza». La riconsegna della rocca alle autorità del comune di Sassocorvaro avviene con una
   cerimonia definita da Rotondi «un po’ triste». Quando una grande storia d’amore si conclude, non può essere
                                                     diversamente.
   Finisce l’ «Operazione Salvataggio» e con essa la storia dell’eroe che, alla stregua di un grande regista, la rese
                                                        possibile.

 [Dopo la morte avvenuta il 2 gennaio 1991 Pasquale Rotondi non ebbe alcun riconoscimento ufficiale per il suo
incredibile servizio nella tutela del patrimonio artistico del nostro paese, fino al novembre 2005 quando alle due
 figlie il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha consegnato una medaglia d’oro al merito culturale
    in memoria del padre, accompagnandola con queste parole preziose: «Investire nella cultura, credere nella
cultura, è una necessità per noi italiani. Se funzionano i nostri musei, se funziona il nostro cinema, il nostro teatro,
              la nostra musica, allora funziona meglio tutta la società italiana, e con essa l’economia». ]
RODOLFO SIVIERO
 Egli ebbe un ruolo fondamentale nella salvaguardia dell’arte italiana, dapprima come agente segreto fascista, poi come uomo
                                      della Resistenza e infine come funzionario della Repubblica.
  Inizia il suo lavoro di agente segreto già nel 1934, diventando ufficiale del Servizio informazioni militari dell’esercito fascista.
L’avversione per il nazismo, esacerbata dalla promulgazione delle leggi razziali, nei primi anni della Seconda guerra mondiale si
     somma allo sconcerto per il furto sistematico dei capolavori dell’arte italiana da parte dei tedeschi. Cosicché, dopo l’8
  settembre, Siviero si schiera con le forze antifasciste, per proseguire la sua attività di agente segreto con il comando militare
                           alleato fino a diventare il punto di riferimento dell’intelligence inglese a Firenze.
Entrato nella Resistenza, Siviero agisce collegandosi ai Monuments men degli Alleati e ai partigiani, e contando su informatori
      interni alla Commissione nazista di «protezione» delle opere d’arte, la Kunstschütz, che in realtà attua una spoliazione
                                               sistematica del patrimonio artistico italiano.
  Siviero è uno 007 instancabile nel prevenire le mosse dei nazisti e nel nascondere e mettere in salvo le opere d’arte. Come
abbiamo visto, l’emorragia era già cominciata nel 1936, quando lo stesso Mussolini, d’accordo con il suo ministro degli Esteri
 Galeazzo Ciano, aveva inviato a Berlino diversi capolavori della pittura rinascimentale per compiacere l’alleato. A nulla erano
    valsi i vincoli e l’opposizione ferma del ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai e così migliaia di opere d’arte
                                        avevano preso la strada del Brennero e della Germania.
  Tra le decine di azioni di salvataggio messe in atto da Siviero c’è quella dell’Annunciazione del Beato Angelico: nel 1944 egli
  viene a conoscenza della richiesta di Göring di entrare in possesso dell’opera d’arte e, con l’aiuto di due frati del convento di
                 piazza Savonarola a Firenze, riesce a nascondere il quadro ai militari tedeschi incaricati del prelievo.
Ma non solo: durante l’occupazione nazista Siviero salva anche i quadri di proprietà di Giorgio De Chirico prelevandoli con uno
       stratagemma dalla villa di Fiesole dove l’artista era stato costretto a scappare insieme alla moglie Isabella a causa dei
                 rastrellamenti nazisti. Tutti i dipinti furono nascosti in un deposito della Soprintendenza fiorentina.
Il 3 luglio 1944 i tedeschi portano in Alto Adige oltre duecento quadri della Galleria degli Uffizi e poco dopo- tra il 25 luglio e
l’11 agosto dello stesso anno – evacuano le sculture degli Uffizi, del Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore e di altri musei
  fiorentini per portarle in Alto Adige, nel castello di Campo Tures. Il servizio informativo di Siviero controlla questi movimenti
    contribuendo così al ritrovamento delle sculture da parte degli Alleati, che nel 1945 le restituiscono a Firenze. Il rientro è
                              salutato con una grande festa tenutasi il 22 luglio in piazza della Signoria.

    Dopo la Liberazione Siviero viene individuato come la persona più idonea ad affrontare il problema della restituzione delle
     opere trafugate. Viene nominato capo dell’Ufficio delle restituzioni, poi trasformato in Delegazione per il recupero delle
opere d’arte e incorporato dal ministero degli Esteri, e dirige la missione diplomatica italiana in Germania. Il 16 dicembre 1953
il capo del governo Alcide De Gasperi lo invia a Bonn, dove Siviero firma con il suo omologo tedesco Friedrich Jantz un accordo
       che gli consente di riportare in Italia molti capolavori che erano stati trasferiti in Germania. Nel 1947 Siviero ottiene la
        restituzione delle opere dei musei napoletani che i tedeschi avevano trafugato nel 1943 dal deposito dell’abbazia di
    Montecassino. Tra queste la Danae di Tiziano del Museo di Capodimonte, che era stata sottratta dai depositi di Spoleto e
      «regalata» a Göring per il suo cinquantunesimo compleanno, nel gennaio del 1944; inoltre molte sculture del Museo
                         archeologico nazionale di Napoli, tra le quali l’Apollo di Pompei e l’Hermes di Lisippo.
   Alla sua tenacia si deve anche il ritorno nel 1948 del famosissimo Discobolo Lancellotti, copia dell’originale greco di Mirone,
    rientrato in Italia dopo la guerra insieme a trentotto opere importanti come la Leda del Tintoretto e il Ritratto di Giovanni
                                                      Carlo Doria a cavallo di Rubens.
                    L’azione di Siviero proseguì anche molti anni dopo e oltrepassò l’ambito dei saccheggi bellici.
                La Madonna con Bambino del Masaccio, per esempio, oggi agli Uffizi, viene recuperata da Siviero una
 prima volta nel 1947 e successivamente il 9 aprile 1973, dopo il furto avvenuto nel marzo del 1971. Nel 1963 Siviero ritrova a
 Los Angeles le due tavolette raffiguranti le Fatiche di Ercole (Ercole e l’idra ed Ercole e Anteo) di Antonio del Pollaiolo, che non
    erano state trovate insieme agli altri capolavori degli Uffizi portati in Alto Adige, perché alcuni soldati tedeschi le avevano
                                                 nascoste e poi portate negli Stati Uniti.
Ci sono poi i pannelli in opus sectile della basilica romana di Giunio Basso e l’Efebo di Selinunte, un bronzo prezioso rubato nel
           1962 dal municipio di Castelvetrano da una banda di ladri e dopo molte peripezie ritrovato a Foligno nel 1968.
Apollo Saettante, 100 a.C. – prima del
Tiziano, Danae, 1545, olio su tela, Napoli,   79 d.C., bronzo, Napoli, Museo
Museo Nazionale di Capodimonte                Archeologico Nazionale
Mirone (attribuito a), Discobolo Lancellotti,
Lisippo (attribuito a), Hermes a riposo,   455 a.C., marmo (originale in bronzo),
prima del 79 d.C., bronzo, Napoli, Museo   Roma, Museo nazionale romano di Palazzo
Archeologico Nazionale                     Massimo
Jacopo Tintoretto, Leda e
il cigno, 1550 – 1560
circa, olio su tela, Firenze,
Galleria degli Uffizi
Masaccio, Madonna col Bambino e          Antonio del Pollaiuolo, Ercole e l’Idra, 1475
Sant’Anna, 1424 – 1425, tempera su       circa, tempera grassa su tavola, Firenze,
tavola, Firenze, Galleria degli Uffizi   Galleria degli Uffizi
Antonio del Pollaiuolo, Ercole e Anteo,
1475 circa, tempera grassa su tavola,     Pannelli in opus sectile, 331 d.C.,Roma,
Firenze, Galleria degli Uffizi            Basilica di Giunio Basso
Efebo di Selinunte, V
secolo a.C.,
Castelvetrano, Museo
Civico Selinuntino
EMILIO LAVAGNINO
 Dopo essere diventato funzionario delle Belle arti, prima a Palermo, successivamente a Napoli, poi al Museo di Palazzo Venezia
a Roma, si rifiuta di seguire i fascisti dopo l’8 settembre e quindi viene messo «a riposo» insieme ad altri colleghi «ribelli» come
             Giulio Carlo Argan, Rinaldo De Rinaldis, Palma Bucarelli, Guglielmo De Angelis d’Ossat e Pietro Romanelli.
    Senza lavoro, senza stipendio, praticamente «nessuno» per l’amministrazione, in collaborazione con Argan, da impiegato
                                  amministrativo riesce a procurarsi camion, carburante e permessi.
 Stringe accordi con monsignor Giovan Battista Montini, futuro Paolo VI, e ottiene che lo Stato vaticano assicuri tra le sue mura
                                               neutrali le opere d’arte dello Stato italiano.
    Fra il novembre del 1943 e l’ottobre del 1944 è tutto un andare e venire sotto le bombe, tra mille difficoltà, con mezzi di
                                  fortuna per assicurare la salvezza al patrimonio artistico nazionale.
      La sua è una corsa contro il tempo e talvolta una lotta per vincere la resistenza di parroci e autorità locali, riluttanti a
 consegnare i loro tesori: «È assolutamente inconcepibile come la popolazione dei piccoli centri non riesca a immaginare che
la guerra dovrà necessariamente passare anche nel Lazio, anche in Umbria, anche in Toscana, dovunque. [...] Il destino nostro è
                                 quello di essere stritolati dalla guerra» scrive con profetica amarezza.

                  A Trevignano, uno dei tre paesi che si affacciano sul lago di Bracciano, Lavagnino recupera nella
chiesa dell’Assunta una pregevole Madonna lignea del Trecento detta Bizantina e lo splendido unicum del XII secolo, firmato da
Nicolaus de Petro e Paolo e dal figlio Pietro, pittori conosciuti solo per quest’opera. Per tutto il mese di marzo e aprile, e fino al
14 maggio, Lavagnino percorre paesi e città del Lazio portando in salvo in Vaticano opere d’arte di inestimabile valore storico e
       artistico. Nella cattedrale di Tivoli mette in salvo il Trittico del Santissimo Salvatore e la Madonna, pregevoli opere
   cinquecentesche. Dalla chiesa di San Pietro recupera la Madonna di Antonio del Massaro da Viterbo, detto «il Pastura», e
l’Adorazione. A Bracciano mette in sicurezza nei sotterranei del castello Odescalchi il Trittico del Salvatore. Da Tuscania preleva
                                                           il San Bernardino.
Antonio del Massaro, Madonna con
Bambino in trono tra san Girolamo, san     Antonio del Massaro, Annunciazione, 1450
Francesco d'Assisi e angeli, 1450 – 1516   – 1516, affresco staccato, Orvieto, Palazzo
circa, affresco staccato, Viterbo, Museo   Petrangeli
Civico
Gregorio e Donato d’Arezzo,                Gregorio e Donato d’Arezzo,
1315,Trittico del Salvatore, Bracciano,    1315,Trittico del Salvatore, Bracciano,
olio su tavola, Collegiata di S. Stefano   olio su tavola, Collegiata di S. Stefano
PALMA BUCARELLI
     Compagna di studi di Giulio Carlo Argan e di Pasquale Rotondi, a soli 23 anni era entrata a far parte, come
   ispettore, delle Antichità e Belle arti presso la Galleria Borghese. Dopo un breve periodo a Napoli, tornò nella
                                  capitale a dirigere la Galleria nazionale d’arte moderna.
 Nel 1941, con pochissimi mezzi e poco sostegno da parte del ministero, trasferisce le opere della Galleria presso
                     Palazzo Farnese a Caprarola, credendo in questo modo di metterle al sicuro.
Contando anche su mezzi propri, in 34 viaggi trasporta 672 dipinti e 63 sculture. Si rende però immediatamente
  conto, alla caduta del fascismo, che il maggior pericolo deve ancora arrivare, con i bombardamenti e uno Stato
       allo sbando. Il re e il governo erano a Brindisi, il ministero non rispondeva più alle sue richieste d’aiuto.
I tedeschi non le erano mai piaciuti, si era resa subito conto della loro cupidigia nei confronti delle opere d’arte e
le truppe anglo-americane tardavano ad arrivare: bisognava agire in fretta perché Palazzo Farnese non era più un
 luogo sicuro e lei sentiva la responsabilità davanti alla nazione, che in futuro avrebbe potuto chiedere conto del
                                   patrimonio storico e artistico che le era stato affidato.
 Per fortuna c’erano gli accordi segreti di Lavagnino e Argan con le autorità vaticane: tutto poteva essere messo
   sotto la tutela della Santa sede, e fu lo stesso Pio XII a vincere le ultime perplessità della segreteria di Stato.
    Così, per le opere della Galleria nazionale d’arte moderna, comincia il percorso a ritroso da Caprarola a
     Roma, per trovare posto nella rampa elicoidale di Castel Sant’Angelo. Gli automezzi ancora una volta
mancavano, la burocrazia tedesca intralciava in ogni modo. Si viaggiava di notte temendo il sorgere del sole, fra i
                                     camion sventrati dalle bombe ai lati della strada.
                                I trasporti avvennero tra il 23 febbraio e il 6 marzo 1944.
Nella vita civile i Monuments men, angloamericani operanti in Italia erano storici dell’arte, architetti, artisti,
                   bibliotecari. Alcuni venivano da prestigiose università come Oxford, Yale, Harvard.
    Tra questi Deane Keller, professore di pittura e disegno alla Scuola di belle arti dell’Università di Yale, che fu
      spesso tra i primi a entrare al seguito della Quinta armata nelle città del Lazio e della Toscana liberate ma
                                                  distrutte dalla guerra.
  Si assunse la tutela di Pisa, Lucca, Livorno e delle città e paesi dell’Etruria, e condusse la sua missione anche al
Nord, in particolare a Milano dove, arrivato alla metà di agosto del 1943, trova l’inferno: gli incendi provocati da
 una serie devastante di raid aerei erano divampati per una settimana perché in città non c’era acqua sufficiente
                                                      per estinguerli.
 Il dispaccio di Keller, dopo un primo sopralluogo, è allarmante: era stata centrata la facciata del Museo di Brera,
il cui tetto era stato quasi interamente divorato dalle fiamme (ma i suoi capolavori, per fortuna, insieme a quelli
  del resto di Milano, di Bergamo, di Treviglio erano «emigrati» nel Montefeltro marchigiano, affidati a Pasquale
         Rotondi); il Castello sforzesco aveva subito gravi danni, il teatro della Scala era sventrato e la chiesa di
               Sant’Ambrogio, con i due chiostri rinascimentali del Bramante, era parzialmente distrutta.
      Il 7 maggio Keller scrive alla moglie: «Ho visto il Cenacolo di Leonardo dietro a una parete di sacchetti di
   sabbia; il tetto è stato colpito dalle bombe e nessuno sa ancora in che condizioni sia l’affresco». Più tardi, alla
     notizia riportatagli da un collega (il Cenacolo era salvo «per miracolo» perché le pareti tutt’intorno erano
                               crollate), commenta: «Come dicono gli italiani, meno male»).
Puoi anche leggere