IL MUSEO DEL RISORGIMENTO A BERGAMO DI LIA CORNA

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IL MUSEO DEL RISORGIMENTO A BERGAMO DI LIA CORNA

                        La questione dell’identità italiana e il mito risorgimentale - Fin dall’unificazione la
 questione dell’identità italiana fu oggetto d’interesse da parte della classe dirigente al governo, ben
 consapevole della dicotomia tra il paese «reale» e il paese «legale».
 L’Italia era costituita da realtà disomogenee tra loro, caratterizzate da particolarismi locali e con una
 popolazione, che, incalzata da problemi legati alla sopravvivenza quotidiana, poco si interessava a questioni
 ideologiche, come l’appartenenza ad una sola patria.
 Ecco che così le classi governative diedero vita ad una forma di pedagogia politica, che mirava a creare
 coesione all’interno del paese tramite un sistema fatto di immagini simboliche evocative, tutte afferenti ad una
 visione quasi sacrale del processo risorgimentale e dei suoi protagonisti.

 Nello specifico, l’operato in questo senso della Destra storica si scontrò con la vicinanza temporale delle
 vicende che portarono all’Unità. In quegli anni, infatti, dominava un dualismo interpretativo per cui il
 Risorgimento poteva evocare il mito ufficiale imperniato sul ruolo centrale della monarchia sabauda, così come,
 in altri frangenti, si attribuiva invece il merito dei successi risorgimentali alla tradizione democratico
 repubblicana d’ispirazione mazziniana. L’unico significativo provvedimento assunto dalla Destra nell’ottica di
 legittimare il ruolo monarchico nella creazione dello Stato italiano fu la promulgazione della legge del 5 maggio
 1861, con la quale si decretò la celebrazione obbligatoria della festa dello Statuto. L’iniziativa rappresentò una
 novità, dal momento che fu imposta dall’alto un’unica celebrazione per tutto il paese, cui si diede un preciso
 segno di carattere patriottico, in quanto «la festa nazionale doveva rispondere all’esigenza di riprodurre una
 ciclicità incentrata su un evento fondante dello stato su "un grande e celeberrimo avvenimento da cui ripeta la
 sua presente felicità"» 1. La festa, dunque, doveva rappresentare valori condivisi per produrre un diffuso
 sentimento nazionale in tutto il territorio, istituzionalizzando rituali politici comuni. L’applicazione delle
 disposizioni anche finanziarie per la sua realizzazione fu disomogenea e difforme nei vari comuni italiani,
 sintomo questo, ancora una volta, di quello che alcuni studiosi chiamano l’«accentramento imperfetto» della
 nazione. L’impatto della nuova festività sulla popolazione non fu dei più felici, sia per la sovrapposizione con
 altre festività di carattere religioso, radicate secolarmente nell’immaginario collettivo, che per la concorrenza di
 altre ricorrenze legate all’epopea risorgimentale più strettamente connesse con il territorio.

 L’avvento al governo della Sinistra storica smussò le divergenze nel proporre il mito risorgimentale, poiché
 molti suoi esponenti provenivano da una militanza democratica ed erano per formazione culturale
 maggiormente legati alla tradizione risorgimentale. Si cominciò a dar vita a tutta una serie di iniziative di tipo
 celebrativo-monumentale, pervase da un’ansia pedagogica di fondo e volte non solo ad estendere l’adesione
 allo stato nazionale, ma anche a impedire che il discorso educativo sfuggisse al controllo della classe dirigente.
 Ebbe un’enorme fortuna, proprio a partire da questi anni, la visione «conciliatorista» del Risorgimento, che
 offriva un’immagine sincretica del processo storico, in cui alla monarchia dei Savoia era attribuito il merito di
 aver fatto convergere le diverse forze politiche che avevano caratterizzato il difficile processo unitario. Il
 progetto di educazione nazional-patriottica fu attuato a livello scolastico, primo gradino dell’istruzione
 nazionale, in maniera abbastanza marginale e comunque diversamente efficace per la popolazione del paese.
 Fu per lo più in maniera informale che si cercò di sollecitare l’interesse della popolazione per la patria, con la
 creazione di spazi appositamente ideati per celebrare il processo di formazione dello stato unitario e dei suoi
 eroi. Si trattò di educare all’«amor patrio» operando sull’emotività e modificando l’aspetto dei luoghi urbani. Si
 pensi al caso di Roma che, scelta come capitale del regno e radicalmente modificata con riassetti urbani tra il
 1875 e il 1895, fu costellata di opere monumentali e architettoniche che misero in rilievo la sua nuova funzione
 di «città eterna». Provvedimenti simili riguardarono anche Milano e numerosi altri centri urbani, che divennero

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meta di visite guidate e gite scolastiche volte a formare il senso di appartenenza alla patria: secondo l'ottica di
 fondo le città rappresentavano le mete di una sorta di pellegrinaggio civile «come luogo visivo di patriottismo e
 di testimonianza delle glorie nazionali»2.
 Sempre in questa prospettiva si inserì l’opera di riordinamento della toponomastica in tutti i centri urbani italiani.
 La figura di Garibaldi, insieme a quella di Vittorio Emanuele II, anche nella toponomastica cittadina svolse il
 ruolo di fulcro: non vi fu centro abitato che non ebbe una via o una piazza intitolate all’Eroe dei due mondi (si
 pensi al caso bergamasco di piazza Vecchia trasformata in piazza Garibaldi proprio in quegli anni). Si sviluppò
 inoltre il fenomeno della costruzione degli ossari, finanziati grazie alle sottoscrizioni promosse in tutto il paese,
 in genere da comitati locali, nei luoghi dove si combatterono le battaglie risorgimentali. In sostanza il mito
 risorgimentale fu alla base di una vera e propria religione civile, imperniata su immagini e valori attinti alla sfera
 del sacro. Un eloquente esempio è offerto dal pellegrinaggio alla tomba di Vittorio Emanuele II del 9 maggio
 1884, organizzato capillarmente, per il quale si utilizzarono termini come «fede», riferendosi al rapporto tra
 cittadini e istituzioni, «sepolcro e altare della fede» per la tomba del sovrano e «benedizione» della memoria
 per coloro che operarono per l’unificazione d’Italia insieme a lui.

 L’intento pedagogico che caratterizzò l’Italia postunitaria si concretizzò anche nell’allestimento di mostre
 storiche, in un primo tempo provvisorie, ma destinate successivamente a sedimentarsi nella costituzione di
 musei permanenti. La prima e più significativa iniziativa di questo genere fu l’Esposizione generale italiana,
 inaugurata nel parco del Valentino di Torino il 26 aprile 1884. Essa si articolò in una serie di padiglioni, nei quali
 vennero presentate le innovazioni tecnologiche del periodo e la situazione industriale e scientifica del paese.
 Prima di accedere a questi spazi però i visitatori furono invitati a riflettere sulla grandezza del passato recente e
 in particolare sul processo di formazione dello stato unitario: si allestì uno spazio interamente dedicato al
 Risorgimento nazionale, creando un parallelismo tra la gloria passata e il progresso auspicato per il futuro. Nel
 padiglione del Risorgimento furono esposti materiali reperiti grazie ad un appello esteso per la prima volta a
 tutta Italia. Le tipologie di oggetti e documenti raccolti furono le più varie: autografi, pubblicazioni, atti ufficiali,
 armi, bandiere e, in particolare, le cosiddette «reliquie». Queste ultime comprendevano numerosi capi di
 vestiario: il poncho, il cappello, la spada, le calze e gli stivali indossati da Garibaldi in Aspromonte; il fazzoletto
 da lui utilizzato durante l’assedio di Roma; il berretto di Emilio Bandiera; la tunica di Luciano Manara con il
 segno della pallottola che lo uccise; l’ultima «pezzuola» usata da Cavour. Oltre a tali indumenti, si scelse di
 mostrare al pubblico una serie di oggetti piuttosto bizzarri e talvolta raccapriccianti: la chitarra di Mazzini,
 l’arredo completo della camera di Carlo Alberto in esilio ad Oporto, l’anello di ferro a cui fu incatenato Felice
 Orsini, una ciocca di capelli di Goffredo Mameli, la mano imbalsamata di una patriota romana uccisa nel 1849
 e, per finire, i tarocchi costruiti in prigionia dal milanese Giovanni Battista Zafferoni e colorati con sangue, orina,
 magnesia, raschiatura di mattoni e fuliggine.
 L’ottica con la quale venne presentato il periodo risorgimentale fu quella «conciliatorista», incentrata
 sull’immagine della monarchia dei Savoia. Il padiglione del Risorgimento ebbe il compito di esaltare la funzione
 dinamica e decisiva della dinastia regnante nel processo di unificazione e poi nello sviluppo dell’Italia unita, con
 un richiamo anche alla sua antica origine medioevale.

 Una volta terminato l’evento torinese, i comitati costituitisi in numerose città italiane per la ricerca e la raccolta
 dei materiali non si sciolsero e i nuclei di testimonianze reperiti furono l’apporto di base per l’istituzione di
 musei. Inizialmente si trattò di semplici raccolte di cimeli e documenti, esposte in piccole sale dei musei civici
 accanto a raccolte di oggetti relativi alla storia dell’arte o all’archeologia.
 In Lombardia e in Emilia i primi tentativi avvennero tra il 1887 e il 1893 e furono indirizzati verso la laicizzazione
 politica e culturale della società nel tentativo di eludere l’interpretazione del Risorgimento in chiave sabauda. In
 particolare, a Milano, l’ottica interpretativa ed espositiva dominante si ricollegò alla tradizione nobiliare-

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illuministica di fine Settecento. Invece Torino fu la depositaria di un’interpretazione moderata del periodo
 risorgimentale, essendo la città-simbolo della monarchia sabauda: il locale museo divenne il primo del
 Risorgimento nazionale nel 1901. A Pavia l’indirizzo politico assegnato fu chiaro grazie al conferimento della
 presidenza onoraria a Benedetto Cairoli.
 Una sorta di continuità tra i vari musei è riscontrabile nelle figure dei direttori, accomunati da alcuni tratti tipici,
 come la predilezione per la storia locale, l’elevazione del Risorgimento a elemento cardine del discorso
 pedagogico volto all’educazione nazionale e l’abnegazione nello svolgimento del proprio lavoro, che generò
 talvolta una concezione 'privatistica' dell’assetto museale.

 La svolta liberale giolittiana coincise con un ridimensionamento del mito del Risorgimento, che nell’ultimo
 ventennio dell’Ottocento aveva conosciuto il suo periodo più florido. In quegli anni la promozione del
 sentimento patriottico e della memoria risorgimentale fu istituzionalizzata: nel 1905 la prima cattedra di storia
 del Risorgimento venne conferita a Michele Rosi e il 17 maggio 1906 fu istituito il Comitato nazionale per la
 storia del Risorgimento italiano. Poco prima del Comitato nacque la Società nazionale per la storia del
 Risorgimento italiano nell’ambito del primo Congresso di storia del Risorgimento, tenutosi a Milano dal 6 al 9
 novembre 1906. La Società operò per mantenere vivo il sentimento di devozione alla patria e,
 contemporaneamente, per promuovere uno studio più serio ed approfondito del periodo risorgimentale; si dotò
 inoltre di una propria rivista, si impegnò per potenziare i musei del Risorgimento e per promuovere conferenze,
 commemorazioni e manifestazioni riguardanti la storia nazionale.
 Il Comitato e la Società si distinsero nell’operato così come nelle intenzioni: il primo fu «espressione del
 liberalismo governativo e procedette nell’attuazione del proprio programma lungo una linea dedicata
 prevalentemente alla raccolta di materiale documentario»3; la Società, invece, fu più eterogenea e
 caratterizzata da un interesse pedagogico molto spiccato. Ad esempio essa operò per la diffusione
 dell’interesse storico e del senso di appartenenza nazionale nel Meridione, tanto da fissare nel 1912 il proprio
 congresso annuale a Napoli, nella speranza di dare un impulso alla fondazione di una rete di studi
 risorgimentali nel Mezzogiorno.
 A partire dal congresso del 1906, i musei del Risorgimento furono oggetto di dispute molto accese,
 principalmente tra i sostenitori di due concezioni museologiche contrapposte. Da una parte vi fu chi sosteneva
 la necessità di una maggiore correttezza scientifica nella selezione dei cimeli da esporre, sottolineando
 l’importanza dei musei per la ricerca storica e per la consultazione; dall’altra vi erano i sostenitori della valenza
 pedagogica dei musei e della loro capacità di dar vita a sentimenti patriottici. In particolare si distinse tra i
 sostenitori della prima tesi Alessandro Luzio, che al congresso del 1906 auspicò la riforma del sistema museale
 secondo tre punti essenziali:

 1. Accertamento scrupoloso dell’autenticità di ogni soggetto 2. Discrezione e tatto nello stabilire la storicità del
 soggetto, ossia il suo diritto indisputabile alla conservazione 3. Ordinamento sistematico, che concilii le ragioni
 del sentimento con quelle degli studi; mettendo in grado i musei d’esercitare degnamente la lorO duplice
 funzione, da un lato verso i visitatori che vanno ad attingere una rapida e schietta emozione; dall’altro verso gli
 studiosi che vi cercano un archivio prezioso e ben disposto per le loro indagini storiche4.

 Fino alle soglie del primo conflitto mondiale l’approccio nella sistemazione dei musei del Risorgimento fu
 scientifico: essi continuarono ad essere visti come 'strumenti' capaci di far rivivere le vicende storiche e di
 suscitare emozioni, ma, allo stesso tempo, crebbe l’attenzione per la loro qualità. Il mito risorgimentale continuò
 a riproporsi secondo gli stessi schemi, tuttavia i connotati ideologici di fondo erano mutati radicalmente:
 l’anticlericalismo, nota dominante di fine Ottocento, andò smorzandosi, la presenza cattolica si fece più visibile.

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In seguito alla diffusione degli stereotipi nazionalisti, manifestatisi a partire dall’impresa libica, in vista del primo
 conflitto mondiale i musei del Risorgimento furono mobilitati a favore dell’intervento. Infatti il nucleo ideologico
 alla base dell’interventismo si andò formando intorno alla rivendicazione della continuità tra la guerra appena
 apertasi e i conflitti risorgimentali: si decise di ristampare i proclami delle guerre d’indipendenza; si
 organizzarono conferenze storiche per rafforzare le motivazioni morali dei soldati in partenza per il fronte; il
 “Bollettino della Società per il Risorgimento” iniziò a proporre citazioni di esponenti del Risorgimento di
 intonazione antiaustriaca e anche il Comitato nazionale per la storia del Risorgimento sostenne l’intervento
 italiano, presentando il conflitto come opportunità di completare l’unificazione nazionale. La guerra fu riproposta
 essenzialmente in chiave monarchica e il Risorgimento come un movimento da portare a conclusione
 attraverso il rafforzamento dell’immagine internazionale del paese, obiettivo raggiungibile tramite l’affermazione
 dell’Italia sul piano militare. Questa concezione del conflitto si incrinò definitivamente con la disfatta di
 Caporetto, quando la guerra si trasformò da offensiva in difensiva: da allora il mito del Risorgimento fu
 riproposto secondo i canoni della partecipazione emotiva, fondata sul recupero dello slancio idealistico di
 stampo mazziniano. Come risaputo, il progetto di suscitare maggiore adesione ai valori risorgimentali e
 presentare il conflitto come «quarta guerra d’indipendenza», nella quale finalmente era attiva anche la massa
 del popolo, fallì perché si giunse a formulare quest’ipotesi troppo tardi e soprattutto non furono coinvolte le
 classi più umili.

 La ripresa del pensiero mazziniano continuò ad essere la chiave interpretativa del periodo risorgimentale anche
 con l’affermazione al potere del Fascismo. Si auspicava, infatti, la «rivoluzione integrale», teorizzata da Mazzini
 e interpretata dal regime in chiave nazionalista e tramite il coinvolgimento effettivo delle masse nel nuovo stato
 totalitario. Particolare attenzione fu dedicata alla figura di Garibaldi, riproposta come simbolo del volontarismo,
 capace però di sottostare al potere costituito. Cavour fu presentato quale promotore e anticipatore della politica
 nazionale attuata poi da Mussolini.
 Se il Risorgimento era considerato il precedente alla «rivoluzione nazionale», poi realizzatasi nel Fascismo, il
 periodo postunitario fu oggetto di una feroce critica da parte del regime, che verteva soprattutto sull’instabilità
 generata dal parlamentarismo, dal sistema elettorale e dall’avvento del pluripartitismo. La distorsione dei
 presupposti ideali del Risorgimento comportò il recupero da parte fascista del primato civile dell’Italia sul
 mondo: tale principio fu sfruttato per reinterpretare anche la Grande guerra, arrivando a trasformare la patria in
 una divinità vivente secondo i canoni di una vera e propria «religione politica»5.

 Il Museo del Risorgimento a Bergamo. 1916-1917: dal progetto alla realizzazione

                        La commissione per il Museo - Il contesto nel quale prese forma l’idea di fondare un
 Museo del Risorgimento a Bergamo fu l’esperienza del primo conflitto mondiale. La città conobbe un clima di
 forte adesione all’entrata in guerra, sulla scia della sentita tradizione garibaldina:

 C’era tutta l’atmosfera di quella che si diceva la quarta guerra d’indipendenza, in procinto di afferrare nelle sue
 immani spire una generazione, che era cresciuta spiritualmente scossa, anche perché le era parso di essere
 solo spettatrice dei frutti dell’epopea del Risorgimento6.

 Il riferimento alle nuove generazioni non era certo casuale, il bisogno di passare all’azione era profondamente
 condiviso da tutti quei giovani che lamentavano la mancanza di un’occasione per eguagliare le imprese di chi si
 era sacrificato per unificare il paese. Il legame tra il Risorgimento e il nuovo conflitto si identificava così nella

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continuità ideale dello slancio emotivo tra i giovani. Come osserva Banti «è quando si è giovani che si 'scopre'
 la nazione. È da giovani che si abbraccia l’idea di battersi per essa»7.
 Il Museo bergamasco si inserì in una ormai consolidata tradizione museografica sul periodo risorgimentale e
 risentì di una temperie politico-culturale molto delicata, per cui era necessario «lo slancio della motivazione
 ideale, la fiducia in un corpo di valori che unisse le nuove generazioni in un abbraccio ideale con quelle
 passate»8. Significativa in questo senso fu, il 5 novembre 1914, la visita di Cesare Battisti, che era stato
 invitato da Cristoforo Scotti, allora presidente della sezione cittadina della società Dante Alighieri, con queste
 parole:

 Venga dai buoni bergamaschi, che dettero il maggior numero dei Mille e che forse potrebbero dare ancora
 buon numero di volontari per la guerra di liberazione delle terre irredente9.

 Se dunque nel novembre 1914 Cristoforo Scotti in certo qual modo parve augurarsi la partecipazione di
 volontari italiani al conflitto allora già in atto, leggendolo come occasione di liberazione delle terre irredente, il
 25 maggio 1915, giorno successivo all’entrata in guerra dell’Italia, il sindaco di Bergamo, Sebastiano Zilioli, in
 un discorso alla cittadinanza osservò:

 L’Italia si vede costretta a dichiarare guerra all’Austria-Ungheria. … Sia grato e dolce l’incontrare questi sacrifici
 e l’adempiere questi doveri, nel pensiero della patria che i nostri maggiori ci hanno data e che da noi attende di
 essere finalmente integrata e compiuta nei suoi confini, fra i suoi mari, per la libertà di tutti i suoi figli e per il più
 efficace adempimento della sua civile missione. Viva l’Italia! Viva il Re!10

 La decisione di dotare Bergamo di un Museo del Risorgimento fu adottata nel corso del 1916 proprio dalla
 giunta capeggiata da Zilioli, nella quale collaboravano liberalmoderati e cattolici11, in carica dal 15 luglio 1914
 al 5 novembre 1920.
 Risale al 16 giugno 1916 l’atto di insediamento della Commissione per il museo, presieduta dall’assessore per
 la pubblica istruzione Ciro Caversazzi e composta da sette tra i più insigni esponenti del panorama culturale
 bergamasco, accomunati dall’orientamento liberalconservatore. Il conte Cesare Camozzi Vertova, figlio di
 Giovan Battista Camozzi Vertova garibaldino e senatore del Regno, diede il suo contributo non solo
 partecipando attivamente ai lavori della Commissione, ma soprattutto donando il nucleo fondamentale dei
 cimeli dell’erigendo museo.
 Anche Giuseppe Locatelli Milesi fu tra i primi donatori: attento studioso del Risorgimento, in seguito
 corrispondente del Comitato nazionale per la storia del Risorgimento nazionale e del Museo polacco
 diVarsavia, fu membro della Società di studi trentini e collaborò all’edizione nazionale degli scritti di Garibaldi.
 Grazie alla competenza in materia, divenne il conservatore del museo dal momento della fondazione fino alla
 morte (15 agosto 1939).
 Gaetano Mantovani aveva partecipato direttamente come volontario alle guerre d’indipendenza, combattendo
 tra le file dei garibaldini nella campagna di Bezzecca del 1866. A lungo presidente dei Soci bergamaschi caduti
 e reduci dell’indipendenza, si dedicò poi all’insegnamento e soprattutto agli studi archeologici.
 Angelo Mazzi, famoso esperto di storia medioevale, ricopriva dal 1897 l’incarico di bibliotecario della Civica
 biblioteca Angelo Mai, da cui pervennero numerosi cimeli per il Museo.
 Era invece un esperto storico dell’arte Angelo Pinetti, ispettore onorario per le belle arti nella provincia di
 Bergamo.
 Elemento politicamente qualificante della Commissione, il conte Gianforte Suardi, di orientamento
 liberalconservatore, era stato sindaco della città per due legislature (1884-1886 e 1887-1889). Nel 1890 era
 divenuto deputato del Parlamento del Regno per il primo collegio di Bergamo e nel 1919 fu nominato senatore.

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Tra i suoi incarichi parlamentari ricordiamo la partecipazione al Comitato d’indagine sugli scandali bancari del
 1892 e la carica di sottosegretario all’agricoltura, industria e commercio nel ministero di Di Rudinì dall’aprile
 1897 al giugno 1898.
 Infine Achille Zappa, volontario nel 1859 dell’esercito regolare nel primo reggimento Granatieri di Sardegna,
 aveva partecipato come caporale maggiore alla battaglia di S. Martino e, in seguito, alla spedizione garibaldina
 in Sicilia e a quella nell'ambito della terza guerra d'indipendenza. Presidente della Lega bergamasca per
 l’educazione del popolo, fondata nel 1891 insieme a Ciro Caversazzi, era a capo anche della sezione cittadina
 della Società veterani e reduci delle patrie battaglie, che fornì al museo un importante nucleo di cimeli.
 Tutti i membri della Commissione, dunque, erano accomunati da un rilevante coinvolgimento personale nelle
 imprese risorgimentali e da un interesse appassionato per gli studi storiografici. Appartenevano a quella che
 Baioni ha definito la tipologia dell’«intellettuale nascosto», dei cultori di storia locale, che offriva «una sorta i
 anello di congiunzione tra l’elaborazione ufficiale del mito risorgimentale e la sua distribuzione ramificata nella
 rete sociale della media e piccola borghesia»12.

                      Le prime donazioni - Il 1 luglio del 1916 la cittadinanza venne informata dell’inizio dei
 lavori della Commissione per il «Museo e archivio del Risorgimento» con l’affissione di manifesti municipali:

 I documenti dunque e le memorie della nostra rivoluzione ci appaiono doppiamente sacri, e perché
 costituiscono il testimonio del popolo sperante, congiurato e combattente, e perché contengono il manifesto dei
 doveri della nazione. Ora all’amministrazione cittadina è parso tempo di raccogliere, ordinare e conservare in
 luogo degno e aperto al pubblico gli sparsi cimelii delle vicende del patrio riscatto, dal 1789 ai giorni nostri: fiere
 e vittoriose vicende, traverso le quali il calpestato diritto italiano venne creando a se stesso quella forza
 magnanima onde oggi armato rompe l’orgoglioso furore austriaco13.

 Il legame tra i moti risorgimentali e le vicende del periodo della creazione del museo è qui sottolineato con il
 triplice riferimento al sempre presente nemico austriaco e alla sacralità della patria, valorizzata ed enfatizzata
 dal nazionalismo di inizio secolo. La nascita del museo proprio durante il conflitto mondiale fece sì, infatti, che
 si fondasse su una sorta di appiattimento interpretativo delle vicende risorgimentali in funzione della
 propaganda antiaustriaca e su un’interpretazione fuorviante del concetto di patriottismo, che idealmente si
 ricollegava all’idea di patria a partire dalla Rivoluzione francese fino ad arrivare al nazionalismo di quegli anni.

 I manifesti affissi dal Municipio si concludevano informando i cittadini che era stata istituita la Commissione per
 il museo e che l’offerta di cimeli era già iniziata con le donazioni delle raccolte del conte Cesare Camozzi
 Vertova e della Società veterani e reduci; la Giunta Municipale invitava poi chi fosse in possesso di oggetti
 «della nostra resurrezione» a volerli offrire al museo.

 La selezione dei materiali da esporre fu dall’inizio volta a suscitare la partecipazione emotiva del visitatore,
 partendo da raccolte che erano frutto dell’opera di collezionismo dei donatori. Il museo nacque dalla fusione di
 tre nuclei separati di documenti e cimeli: quello appartenuto al conte Giovan Battista Camozzi Vertova, quello
 del professor Giuseppe Locatelli Milesi e quello proveniente dalla Società veterani e reduci.
 Il primo, di maggior consistenza, era stato conservato fino al 1916 nel castello di famiglia di Costa Mezzate del
 conte Cesare Camozzi Vertova: costituito da 341 pezzi, era ordinato cronologicamente per annate e conteneva
 anche alcune sezioni tematiche. In particolare, per l’anno 1848, oltre ad un numero rilevante di armi, è
 interessante notare la presenza di una variata tipologia di oggetti, come un cucchiaino da caffè in argento
 proveniente dal saccheggio del palazzo milanese dove alloggiava il maresciallo Radetzky e recante le sue
 iniziali sormontate dalla corona comitale; oppure la lanterna da campo di un volontario viennese, abbandonata

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il 29 maggio durante il combattimento di Curtatone; o ancora una pipa in schiuma di mare appartenuta al
 luogotenente dei Cacciatori tirolesi, che, al ponte di Goito, «feria con una palla alla guancia il generale
 Alessandro Ferrero La Marmora, il creatore dei bersaglieri che morì di colera in Crimea»14.
 Spesso sui registri di entrata del Museo le donazioni non venivano soltanto annotate, ma anche commentate e
 spiegate: ad esempio, in riferimento ad una baionetta si aggiunse che fu «raccolta a Castelnuovo dopo la
 strage ivi commessa dagli austriaci». Frequentemente, in queste brevi note di commento, si sottolineavano
 l’efferatezza e la crudeltà del nemico austriaco, suggerite e dimostrate dalla tipologie di cimeli conservati, che
 erano quasi esclusivamente armi, molto spesso bombe o schegge di bombe. Più diversificate le testimonianze
 relative ai patrioti italiani, che comprendevano anche medagliette, come quelle distribuite dal duca di Toscana,
 Leopoldo, ai volontari che combatterono a Curtatone, oppure «un enveloppe con sigillo in ceralacca con cifre e
 collo scritto terra di Lombardia», dell’agosto 1848, contenente una zolla di terra.
 Attraverso la scelta collezionistica e i commenti veniva creato un netto distacco tra un 'noi' patriottico e 'l’altro', il
 nemico, un 'noi' espressione di nobiltà d’animo che, per contrasto, faceva emergere il disvalore degli avversari.
 Lo stesso meccanismo interpretativo scattò a proposito degli oggetti riguardanti i Borbone.
 La 'crudeltà' del nemico austriaco era rappresentata da due cimeli molto significativi: un «piccolo astuccio
 contenente una palla di stutzen austriaco, la quale uccideva nella sua camera nella primavera del 1848 la
 giovane Teresa Offredi mentre leggeva un libro devozionale» e «una cassetta contenente un teschio di
 ragazza uccisa durante le cinque giornate di Milano». Questi due reperti testimoniano il carattere feticistico e
 reliquiario che i musei del Risorgimento avevano conservato fino a quel momento e che continuò a
 caratterizzarli ancora per parecchi anni.
 Meno numerosi erano i cimeli riguardanti il 1849: alcune baionette, di cui una utilizzata dal conte Giovan
 Battista Camozzi Vertova al suo rientro in Lombardia; palle di cannone, razzi incendiari e bombe lanciati dagli
 austriaci dal forte della Rocca di Bergamo sulla colonna dei volontari guidati da Gabriele Camozzi, fratello di
 Giovan Battista, poi confluiti alla difesa di Brescia durante le dieci giornate. Erano presenti anche alcuni cimeli
 riguardanti l’assedio di Venezia: una medaglia coniata dalla rappresentanza della città, detta della «difesa ad
 ogni costo» e addirittura un pezzo di pane.
 Una vera e propria reliquia era il pendaglio a forma di cuore contenente i capelli e un pezzo di stoffa di
 linointriso del sangue di Luciano Manara, nobile milanese, di origine bergamasca, ucciso durante la difesa della
 Repubblica romana.
 Anche per il 1855 gli oggetti non erano molti e riguardavano soprattutto l’assedio della fortezza diSebastopoli,
 come, ad esempio, un pezzo di filo elettrico che «servì a far saltare la mina del forte Malakoff,un libro raccolto a
 Sebastopoli e una medaglia russa colla data 1795 trovata nelle rovine della fortezza». I materiali storici
 venivano presentati come testimonianze degli eventi, anche se non particolarmenterilevanti in sé per sé,
 proprio per il motivo di essere stati rinvenuti nei luoghi dove si era combattuto. Appare evidente anche per gli
 oggetti relativi alla seconda guerra di indipendenza: un cacciavite raccolto a Palestro dopo la battaglia del 30-
 31 maggio; proiettili di fucile estratti dalle ferite di alcuni soldati, curati all’ospedale di Pavia dopo il
 combattimento di Montebello; una spallina di divisa del terzo reggimento della Guardia imperiale francese
 rinvenuta a Melegnano l’8 agosto; bottoni d’uniforme provenienti dai campi di Solforino e S. Martino il 24
 giugno; una berretta da zuavo francese trovata a Solferino che «è perforata da una palla di fucile e porta tracce
 di sangue». Frequenti gli oggetti, come quest'ultimo, che offrivano una testimonianza concreta e sofferta della
 battaglia. Oltre a quelli macchiati di sangue venivano commentati, con dovizia di particolari, i proiettili estratti ai
 feriti – «una palla estratta dal corpo del generale Nino Bixio ferito durante la campagna del 1859» – e i diversi
 oggetti personali rinvenuti sui cadaveri – un «anello d’argento con guerriero in riposo appoggiato a uno scudo,
 carico di rosso, a leone d’oro rampante, tolto dal dito di uno scheletro, sembra di ufficiale»–.
 Anche per la Spedizione dei Mille ne abbiamo un esempio: la «pippa15 trovata sul cadavere di un milite
 borbonico a Milazzo».

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Tra gli oggetti datati 1860 vi erano cimeli ornati dal tricolore: vari tipi di armi, alcune bandiere, medaglie, tra le
 quali quelle distribuite ai Mille garibaldini per la spedizione in Sicilia, e l’elenco dei cittadini bergamaschi che
 parteciparono all'impresa.
 La prima sezione tematica del fondo Camozzi Vertova riguardava i «ricordi del brigantaggio dal 1860 al 1868»
 e comprendeva, oltre a pugnali di briganti arrestati o uccisi dall’esercito, anche, curiosamente, alcune immagini
 sacre trovate sul corpo di uno di questi.
 Per quanto riguarda le donazioni relative agli anni 1862 e 1866, un nucleo rilevante testimoniava come anche
 nella città dei Mille fosse avvenuto il processo di mitizzazione dei personaggi risorgimentali che ebbe il suo
 culmine nella «deificazione» dell’uomo-eroe Garibaldi16. Ne sono un esempio un «segnalibro di origine
 inglese, di seta tessuta col ritratto del gen. G. Garibaldi» e una «corona di quercia con bacche d’alloro dorate in
 carta, gettate nella carrozza del gen. G. Garibaldi a Bergamo durante i tumulti provocati nel mancato tentativo
 detto di Sarnico».
 È interessante la nota introduttiva all’elenco degli oggetti riguardanti il biennio 1870-1871, che rivela la
 connotazione fatalistica e deterministica con cui si proposero le vicende storiche, caratteristica all’interno dei
 musei del Risorgimento:

 N.b.: Si collocarono nella presente raccolta alcuni ricordi della guerra franco-prussiana e delle relative
 conseguenze, poiché tali avvenimenti si collegarono ai fatti storici italiani, dando cioè modo al governo del re
 nostro di abbattere definitivamente il potere temporale dei papi e proclamare Roma capitale d’Italia17.

 Le ultime donazioni del fondo Camozzi Vertova erano raggruppate in quattro sezioni tematiche. La prima
 riguardava l’Eritrea e comprendeva pochi pezzi, per lo più armi, trovate a Dogali il 26 gennaio 1887.
 La sezione della «Spedizione di China, guerra internazionale 1900-1901» era costituita da testimonianze della
 campagna: «una fotografia del riparto Genio militare del tenente Modugno nelle carte di un chinese
 espugnato», «quadri contenenti una stoffa di seta azzurra, ricamata ed ornata delle bandiere degli alleati con
 una collana d’argento formata di tante piccole monete inglesi e degli alleati». Seguiva la sezione dedicata alla
 guerra di Libia, che comprendeva monete antiche raccolte a Lebda (Leptis Magna), cartuccere, giubbe e coltelli
 arabi, nonché una medaglia commemorativa dell'impresa italiana a Tripoli.
 L’ultima sezione, intitolata «Guerra 1915-1916», comprendeva già cimeli relativi ai primi anni del conflitto
 mondiale. Anche qui il nemico austriaco era rappresentato dalle sue armi: una cassa contenente proiettili e
 schegge proveniente dal Carso e una «carta topografica trovata sopra un cadavere austriaco», di nuovo un
 oggetto considerato significativo per essere stato rinvenuto sul corpo del nemico.

 Il secondo nucleo di cimeli fu donato al museo dalla Società veterani e reduci delle patrie battaglie. Con una
 lettera del 24 luglio 1916 il presidente Achille Zappa comunicò all’assessore Caversazzi che la Società cedeva
 «la propria raccolta di oggetti svariati pertinenti all’epoca del Risorgimento nazionale, perciò possa formare
 colla ricca collezione Camozzi Vertova un appropriato e degno museo, ed insieme servire di maggiore
 eccitamento alla generosità patriottica dei concittadini»18.
 Il materiale risultava composto da un numero ridotto di cimeli, non organizzato organicamente come il
 precedente fondo, ma ispirato dalle medesime prospettive ed intenzionalità. Risalgono ad esempio al 1859 un
 fucile da zuavo trovato a S. Martino e uno scritto autografo «ricco di pensieri patriottici del giovane garibaldino
 Torquato Canetta di Milano, morto in seguito alle ferite riportate nel combattimento di Seriate, l’8 giugno 1859».
 Veniva documentata la spedizione Nullo in Polonia con una fotografia del 20 maggio 1863 raffigurante un
 gruppo di volontari deportati in Siberia.

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Il fondo comprendeva una serie di caricature satiriche inerenti diverse tematiche ed eventi risorgimentali – il
 Congresso di Vienna, il potere temporale della chiesa, il brigantaggio e il Trattato di Campoformio –documenti
 interessanti del dibattito ideologico e del linguaggio propagandistico diffusi all'epoca.
 Vennero donate anche alcune carte da gioco, che simboleggiano personaggi, nazioni o episodi politici e militari
 ottocenteschi: il re di fiori rappresenta lo Statuto albertino del 1848, quello di cuori Garibaldi, quello di quadri
 genericamente il popolo e quello di picche Napoleone a Sedan; la dama di cuori incarna la libertà e quella di
 picche la Spagna.
 Il terzo nucleo che ha permesso la fondazione del Museo è quello proveniente dall’archivio del professore
 Giuseppe Locatelli Milesi.
 La donazione in questo caso era organizzata secondo tipologie: fogli murali, comprendenti avvisi, decreti,
 proclami, e bollettini di guerra dal 1797 al 1866 e del biennio 1915-1916; volantini, di cui facevano parte
 circolari, decreti, discorsi, dispacci, necrologi, satire e canzoni dal 1805 al 1871 e del 1915-1916; giornali; carte
 geografiche dal 1848 al 1866 e del 1915; ritratti di sovrani, ministri e generali di varie nazionalità per il periodo
 1815-1862 e litografie di generali e ufficiali; opuscoli editi in Bergamo; edizioni originali di alcuni inni patriottici
 del 1848; manoscritti, corredati di firme autografe, riferiti ad avvenimenti bergamaschi dal 1832 al 1870.
 La categoria dei cimeli era catalogata in dettaglio, poiché gli oggetti venivano descritti e raggruppati secondo le
 annate di riferimento. Numerosi i cimeli riguardanti Garibaldi: un facsimile di una sua lettera «a Battista
 Camozzi, sindaco di Bergamo, in onore di prodi figli di Bergamo che parteciparono alla prima spedizione di
 Sicilia e Napoli»; un «occhialetto» adoperato dal patriota nella battaglia del Volturno; un sigaro da lui offerto ad
 un membro della Società operai di Trescore e una benda intrisa di sangue, che gli fu applicata sulla ferita ad
 Aspromonte.
 Questi oggetti erano ritenuti significative testimonianze della storia risorgimentale per il semplice fatto di essere
 stati 'toccati' dal duce dei Mille. Relativamente all'anno 1863 il materiale riguardava esclusivamente la
 spedizione in Polonia in cui cadde Francesco Nullo e la successiva deportazione dei suoi compagni in Siberia,
 due episodi che rimasero ben impressi nella coscienza collettiva dei bergamaschi: una fotografia e un po’ di
 terra di Krzykawka, dove morì il Nullo; un pugno di terra del luogo dove fu sepolto; il ritratto di uno dei deportati
 in Siberia e le fotografie di altri volontari deceduti in quella vicenda.
 Le testimonianze documentano quanto fosse diffusa l'ottica reliquiaria nel proporre al pubblico le vicende
 storiche risorgimentali, a discapito dell’approfondimento scientifico. Come osserva Baioni «l’ipoteca ideologica
 accelerata dal conflitto [la prima guerra mondiale n.d.a.] segnò una brusca frenata nello sviluppo della
 museologia storica; accantonati gli inviti all’adozione di principi ordinativi attenti alle regole del procedere
 scientifico, la rappresentazione della storia patria si snodava attraverso il ricordo ed il pathos che emanava
 dagli oggetti appartenuti a personaggi esemplari sino a banalizzarsi nel culto dell’eroe»19.

                          L’inaugurazione - Il Museo venne inaugurato il 20 settembre 1917, nelle sale dell’Ateneo
 di scienze, lettere e arti di Bergamo, alla presenza delle autorità cittadine, i cui discorsi sono particolarmente
 significativi. Il primo a prendere la parola fu l’assessore Ciro Caversazzi, che sottolineò come il Museo avesse
 risposto alla necessità di fare

 la nostra storia, rilevò quanto sia stato patriottico il pensiero di chiamar a risorgere nella memoria i grandi, dei
 quali, pur ricordando le gesta, si sono dimenticati i nomi. Chiude il suo dire auspicando alla nostra vittoria che
 non mancherà se i vivi sapranno prestar orecchio alla parole dei morti20.

 È chiaro quindi che la scelta di inaugurare il Museo proprio il 20 settembre di quell’anno seguì un preciso
 proposito di politica culturale e di politica tout court: l’imperativo era aumentare la coesione della cittadinanza di

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fronte ad una guerra di cui ormai si percepiva la drammaticità. Già l’anno precedente erano state pubblicate le
 seguenti parole:

 la massa è sì contro i “tedeschi”, ma travolta in un nuovo conflitto, in una guerra moderna, che si sapeva, dopo
 un anno dal suo inizio, che sarebbe stata intessuta di grandi sacrifici e di massicci richiami21.

 L’articolo di “L’eco di Bergamo” proseguiva citando l’intero discorso del prefetto, che, utilizzando uno stile
 retorico e carico di prestiti lessicali, attinti alla sfera del sacro, sottolineò come, fino allo scoppio della guerra,

 i lembi di bandiera strappati all’oppressore, i fogli vergati nella concitazione di un comando, il peana di vittoria
 sorgente dalle spontanee manifestazioni popolari, erano cose sacre come il ricordo di lontana epopea; noi ci
 inchinavamo riverenti, come dinnanzi ad irraggiungibili altezze del pensiero.

 Il primo conflitto mondiale veniva delineato quale possibilità di sentirci

 degni di chi ci ha dato una patria, degni di chi ha segnato a noi, ai nostri figli il luminoso cammino, sgombro da
 ogni viltà, che diritto conduce alla dignità di vita e fa un popolo forte e rispettato. […] Tempi eroici, che ci fanno
 sentire degni dei nostri maggiori, qui ricordati: superba eredità da lasciarsi ai posteri, i quali ritroveranno nello
 spirito di latinità antica, di Roma che oggi festeggiamo italiana, di quella che volle quello che noi ora
 ardentemente desideriamo, che al giorno della vittoria, attesa con sicura fede, si possa “a pacisque imponere
 morem, parcere subiectis et debellare superbos”.

 Il concetto di dignità era qui ribadito con incisività e presentato come raggiungibile solo attraverso il sacrificio
 della guerra, che creava una continuità secolare nelle vicende del paese e portava al culmine il processo di
 sacralizzazione della patria. Come sostiene Emilio Gentile, «la guerra, di per se stessa, fu interpretata come un
 grande evento apocalittico e rigeneratore voluto da Dio, accrescendo così la legittimazione della violenza per il
 trionfo del bene»22.
 Il discorso del sindaco, Zilioli, pronunciato nella stessa occasione, si soffermò sulla lapide collocatanell’atrio
 della biblioteca dell’Ateneo, lo stesso giorno, in memoria dei diciassette soldati italiani fucilati dagli austriaci a
 Trento nel 1848. Zilioli sottolineò come il loro anonimato aggiungesse valore alla grandezza di questi «eroi»
 non identificati e chiuse l'intervento sostenendo che, con la fine della «guerra delle nazioni», avrebbe potuto
 finalmente regnare una pace solida, perché creata tramite l’affermazione del principio equilibratore della
 nazionalità.
 La cerimonia si concluse con la lettura di un telegramma inviato al generale Luigi Cadorna, in cui il sindaco,
 informandolo dell’inaugurazione, riconfermava a nome della cittadinanza l’intento di perseverare
 nell’osservanza del «vostro sacro monito resistere fino alla vittoria finale».

 1918-1933: Bergamo 'patriottica' tra liberalismo e fascismo

                       La prima sede nell’Ateneo di scienze, lettere e arti - Il Museo fu collocato nella sede
 dell’Ateneo di scienze, lettere e arti di Bergamo. Lo spazio a disposizione era molto ridotto: le pareti della prima
 sala erano riservate al Lapidario romano e quelle della seconda a ritratti di bergamaschi illustri. È possibile
 conoscere la disposizione dei materiali e la soluzione espositiva grazie ad un articolo di Locatelli Milesi
 dell’agosto 192123.
 Le bacheche raccoglievano i reperti per annate, per quanto riguarda gli eventi risorgimentali; ne seguiva poi
 una in cui erano rappresentati eventi storici in qualche modo legati a quelle vicende con cimeli della Repubblica

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cisalpina, del primo Impero napoleonico, del brigantaggio borbonico, della guerra austroprussiana e di quella
 franco-prussiana, nonché dell’assedio alla Comune di Parigi.
 Numerosi erano i ritratti, tra cui uno di Armando Diaz con dedica a Bergamo, definita «città dei Mille» decenni
 prima della concessione del titolo da parte del presidente della repubblica Gronchi; un altro, firmato, di Luigi
 Cadorna e uno di Pietro Badoglio.
 Locatelli Milesi introduceva la sezione dedicata alla prima guerra mondiale definendola significativamente
 «l’ultima nostra lunga, gloriosa e vittoriosa guerra d’indipendenza che ci è costata e ancora ci costa sacrifici
 immensi». Essa comprendeva cimeli riguardanti anche l’ultimo anno del conflitto, il 1918: tra gli altri alcuni
 ricordi austriaci del Basso Piave, la fotografia di una distribuzione di ricompense da parte dell’imperatore Carlo
 I, una mazza ferrata proveniente da Vittorio Veneto, il timbro d’ufficio dell’ultimo governatore austriaco a
 Trieste, armi di soldati russi prigionieri degli ungheresi.
 Per mancanza di spazio, altri oggetti donati al Museo furono collocati nell’atrio dell’ex-Istituto tecnico in piazza
 Garibaldi24: tra questi un cannone austriaco e parti di aeroplani austriaci abbattuti a Vittorio Veneto. I
 documenti, gli opuscoli, i bollettini, i manifesti furono invece affidati alla Biblioteca civica Angelo Mai.
 Per comprendere meglio l’ottica con la quale il Museo nacque e la sua logica espositiva è utile analizzare
 l’opuscolo di Gaetano Mantovani25, che riporta il discorso da lui tenuto durante la pubblica adunanza della
 Società provinciale Veterani e Reduci del 19 aprile 1918.
 Sul frontespizio dell’opuscolo due citazioni, una di Gabriele D’Annunzio – «Mostrare al popolo le sacre reliquie
 della patria è come accendere nella città un focolare d’eroismo» – e una di Giuseppe Cesare Abba rivolta a
 Francesco Nullo – «Però che solo è grande ed ai fasti dei liberi sortita quella progenie che suoi prodi onora» –.
 La citazione di D’Annunzio compare anche nei quaderni di registrazione delle donazioni a dimostrare che
 anche i curatori del Museo di Bergamo condividevano la concezione e la presentazione del Risorgimento
 secondo i canoni di una religione civile. Il nazionalismo fu, a cavallo tra Ottocento e Novecento, la nuova
 religione laica che portò al «primato della nazione come entità suprema» 26. Si arrivò così alla creazione di una
 nuova politica, che «cercava di rendere concreto il mito astratto della nazione, facendo partecipare i cittadini,
 attraverso simboli, riti e feste collettive, alla religione laica della patria»27. D’Annunzio parlava di reliquie,
 termine attinto volutamente alla sfera del sacro e riutilizzato da Mantovani nel suo discorso: «Le ho chiamate
 appunto reliquie, perché appartennero ai martiri nostri e perché all’immaginazione d’ogni buon cittadino
 sembrano sanguinare ancora. Ora, accostiamoci dunque con affettuosa e grata riverenza ad esse, giacché il
 nuovo museo è uno dei veri altari sacri alla religione inviolabile della patria».
 Mantovani motivò la decisione di esporre nel Museo cimeli a partire dal 1796: «Perché il nostro risveglio
 nazionale non s’è iniziato che dalla Rivoluzione francese al successivo periodo napoleonico». E per spiegare le
 ragioni del ritardo nel formarsi del sentimento nazionale propose una lunga analisi storica, in cui si affermava
 che lo «spirito italiano» nacque con la grandezza dell’Impero romano, ma fu poi disgregato dal «caos
 medioevale derivato dalle invasioni nordiche e dalle importazioni straniere di sangui, costumanze, istituzioni e
 mentalità barbare». La coesione dell’Italia si manifestò soltanto attraverso la cultura, mentre le rivalità politiche
 all’interno della penisola facilitarono le successive invasioni straniere. Fu proprio grazie alla diffusione della
 lingua a partire da Dante, definito il «suo artefice sommo», che l’“italianità” continuò ad esistere e questo
 «sarebbe bastato da solo a sbugiardare, cinque secoli dopo, la altrettanto falsa quanto ridicola affermazione
 del ministro austriaco Metternich: "essere l’Italia una semplice espressione geografica", ma non la patria di una
 nazione». A partire dalla Rivoluzione francese le prime aspirazioni patriottiche e i primi tentativi concreti furono
 messi in atto da gruppi e non più da singoli, ma non si concretizzarono a causa «dell'ignoranza delle masse
 popolari, dell’avversione dei potenti, che si spartivano l’Italia, e, in particolare, del papato».
 Lo studio di Mantovani analizza i periodi che caratterizzarono il Risorgimento e descrive i relativi cimeli, che
 testimoniavano nel Museo «quel nostro nazionale riscatto, che non dubitiamo di vedere appieno raggiunto nella
 presente guerra mondiale, conforme al patrio diritto ed al voto degli avi nostri più illustri».

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La guerra, secondo l’autore, non poteva essere evitata dopo secoli di invasioni che avevano portato «i popoli
 nomadi primitivi, barbari e inconsci, su di un continente come il nostro, senza essere guidati che dal moto
 apparente del sole, e dove hanno finito inevitabilmente per dominarsi o frammischiarsi a vicenda con
 detrimento etnico esiziale per tutti». Il conflitto fu voluto e preparato, sempre secondo Mantovani, dal «genio del
 male impersonato nell’organismo politico-militare prussiano», che portò ad una «sconfinata megalomania
 pangermanista», inevitabilmente volte alla conquista. Il testo di Mantovani è paradigmatico di quella che Baioni
 chiama «la campagna di demonizzazione del nemico. […] I discorsi degli oratori e la pubblicistica di guerra si
 affrettarono a dipingere l’esercito austriaco – e più tardi quello tedesco – come un’orda barbarica seminatrice di
 terrore e morte, la cui azione prescindeva da qualsiasi vincolo morale e calpestava il codice bellico
 tradizionale»28. Corollario è l’appello alla resistenza ad ogni costo e l’invito ad ostacolare i presunti «unici»
 responsabili della disfatta di Caporetto, i «disfattisti», aiutati dai cosiddetti «obbligati dal dovere» che, a partire
 dal 1860, furono costretti a servire la patria, pur essendo privi della «fede operosa della nazione».
 Mantovani terminò la sua esposizione augurandosi che «tutto il sangue, versato a torrenti dalle vittime
 innumerevoli di queste carneficine immani, ricada fino all’ultimo fiotto su quei due imperi centrali d’Europa che
 le hanno cagionate, affoghi nel sangue la loro fama e la loro brutale satanica potenza per solenne giustizia di
 dio e della storia, vindici supremi della civiltà tradita e della assassinata umanità».

                        Gli avvenimenti più significativi - Per la vittoria del 4 novembre 1918, la giunta
 municipale pubblicò un manifesto le cui parole sottolinearono, ancora una volta, la continuità che si riteneva
 esistesse tra le guerre d’indipendenza e il conflitto appena terminato:

 Le aspirazioni secolari si adempiono: Trento e Trieste accolgono le insegne materne. Il sangue dei nostri martiri
 piove sul capo dei carnefici; gli Asburgo crollano e ciò che fu l’impero austro-ungarico, mostruosa compagine, è
 polvere ed ombra. […] Il vecchio mondo europeo esce dai suoi cardini. Somma saggezza e somma concordia
 occorrono per edificare le vie dell’avvenire. Viva la convivenza pacifica delle nazioni29.

 Negli anni seguenti la vita politica di Bergamo fu caratterizzata da alcuni scioperi dei lavoratori, culminati
 nell’occupazione dello stabilimento siderurgico della Dalmine nel marzo 1919. In quell'occasione Mussolini,
 fondatore dei Fasci di combattimento, si rivolse agli scioperanti, sottolineando che «Sul pennone dello
 stabilimento avete issato la vostra bandiera, che è il tricolore, e attorno ad essa e al suo garrito avete
 combattuto la vostra battaglia. Bene avete fatto. […] Per essa dal 1821 al 1918 schiere intere di uomini hanno
 sofferto privazioni, prigionia e patiboli»30. Il tricolore, infatti, aveva costituito l’immagine simbolo non solo del
 Risorgimento, ma anche della prima guerra mondiale: «Attraverso il tricolore, la realtà della guerra mondiale si
 saldava alla "memoria" del Risorgimento, in un percorso di riscatto nazionale che era nel contempo ambito di
 identità»31. Negli anni successivi al conflitto, nell'Italia fascista, questo simbolo si trasformò nell’elemento
 fondamentale della «liturgia della patria» e si integrò con «le feste dell’unità nazionale, le solennizzazioni del
 calendario di regime, i riti della rivoluzione fascista»32.

 Le celebrazioni dei caduti per la patria furono numerose in quegli anni a Bergamo: il 15 giugno 1922, alla
 presenza del re Vittorio Emanuele III, si inaugurarono il monumento ai caduti del quinto reggimento degli alpini
 e un busto in bronzo in memoria di Gabriele Camozzi; il 27 ottobre 1924 si inaugurò la Torre dei caduti alla
 presenza di Mussolini, ormai capo del governo.

 Alla fine del mandato del sindaco Zilioli, nelle elezioni provinciali del 20 novembre 1920 prevalse a Bergamo il
 Partito popolare, che amministrò la città fino all’avvento del fascismo. In questo periodo di passaggio dal
 liberalismo al fascismo, la storia del Museo del Risorgimento di Bergamo fu caratterizzata da frequenti contatti

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