Perché Mass Effect: Andromeda ha fallito - GameCompass

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Perché Mass Effect: Andromeda ha fallito

La saga di Mass Effect è probabilmente una delle più riuscite storie a tema sci-fi, non solo per il
meta videoludico. L’opera di Bioware, firmata Casey Hudson ha appassionato milioni di
videogiocatori, attratti da un contesto fantascientifico ottimamente costruito in cui i background dei
personaggi si intersecano a intrighi politici, antiche leggende e perché no, relazioni amorose. Ma
oggi non parleremo di questo: a un certo punto infatti, qualcosa si è rotto, ben prima che Mass
Effect: Andromeda entrasse in sviluppo. Cerchiamo di capire cosa non ha funzionato e magari,
cosa aspettarci da prossimo capitolo, in sviluppo in parallelo assieme al prossimo Dragon Age.

Un finale imperfetto

Per chi non conoscesse la storia, Mass Effect narra di Jonh (o Jane) Shapard, comandante
dell’Alleanza terrestre nel 2183. Dopo alcune vicissitudini si scopre che la nostra galassia potrebbe
essere ben presto sotto attacco da un’antica forza, in grado di estinguere ogni forma organica.
Anche se a livello narrativo non presenta particolari picchi, è la sua profondità a colpire: già il primo
capitolo vanta oltre 20.000 linee di dialogo, in cui pesa molto più l’atteggiamento con cui si
interagisce piuttosto che il cosa si comunica. Mass Effect è dunque qualcosa in grado di regalare
centinaia d’ore di gameplay di alto livello, ricca di mondi da scoprire e storie di interi popoli da
approfondire. Ma Bioware non è mai stata immune da critiche: col passaggio a Mass Effect 2, molte
delle componenti RPG vennero messe da parte, in favore di una maggiore attenzione sulle fasi di
shooting e l’azione in generale. Questo non piacque all’inizio alla maggior parte del pubblico,
accusando la software house di essersi in qualche modo “adeguata alla massa”; ma come accade
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solitamente, ci si concentrò su quel singolo aspetto piuttosto che sull’intero progetto e questo, come
vedremo, si è ripetuto più volte. Se è vero che Mass Effect 2 vanta un maggiore focus sull’azione è
altrettanto vero che l’intero impianto narrativo e soprattutto il gameplay, è di gran lungo superiore
al suo predecessore, trovando il culmine nella Missione Suicida, uno dei picchi più alti della storia
videoludica recente: in questo frangente infatti, ogni vostra scelta intrapresa nel corso
dell’avventura può decidere la vita o la morte definitiva dei vostri compagni che, di conseguenza,
non troveranno posto nel sequel.
Dopo diversi anni, Mass Effect 2 è forse riconosciuto come il migliore della trilogia, nonostante
Mass Effect 3 ne abbia migliorato ogni caratteristica. Perché? La risposta risiede in un solo e unico
motivo: il finale. Mass Effect è una storia di sacrifici, dove si è disposti a sacrificare un’intera specie
pur di avere una possibilità di salvare la galassia. Ogni scelta intrapresa, sin dal primo capitolo,
trova culmine in queste immense battaglie per la sopravvivenza e il cui epilogo si suddivide in
diversi finali. Benché abbiamo tutti un senso ben preciso, è il modo che non è andato giù ai fan,
trovando le conclusioni forse un po’ sbrigative e poco chiare, tanto che le speculazioni su quanto
avveniva rivaleggiarono con quelle di Dark Souls (ne parleremo in futuro).
Bioware corse ai ripari, fornendo gratuitamente a tutti i possessori di Mass Effect 3 il DLC
Extended Cut, con cutscene più strutturate, ma anche qualche variazione in grado di modificare le
reali conclusioni della saga. Se per alcuni, la software house canadese è stata da elogiare per aver
ascoltato e ben interpretato il volere dei fan, dall’altro si è palesata una mancanza di personalità, in
grado di difendere il proprio lavoro. Perché alla fine – diciamocelo – le variazioni apportate sono
dovute a un manipolo di persone che come noi, hanno semplicemente goduto da spettatori
l’immensità dell’opera.
Qualcosa dunque cominciava a scricchiolare e, su queste crepe, venne sviluppato Mass Effect:
Andromeda.

Un’enorme occasione mancata
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Dopo il termine di una trilogia così importante, costruirne un seguito non è affatto semplice. Infatti
prima del suo reale annuncio, molte furono le teorie dei fan, di cui alcune vertevano verso “antichi”
prequel o futuribili sequel. Andromeda è, a conti fatti, un sequel datato 600 anni dopo gli eventi
della prima trilogia ma che trova il suo incipit ben prima del termine di Mass Effect 3, con la galassia
che escogita un “piano B” qualora le cose si mettessero male: vennero infatti costruite enormi Arche,
che avrebbero portato le specie nella vicina galassia di Andromeda, salvandole dall’estinzione.
Incredibilmente, presero il via entrambi i piani. Eppure, tutti questi enormi cambiamenti all’interno
del gioco, non sembrano tangibili.
Non parleremo di Scott o Sara Ryder, i protagonisti, ma di come alcune scelte cozzano
violentemente con quanto costruito in precedenza; non parliamo di lore o di incongruenze narrative
ma piuttosto di scelte di design vere e proprie.
Partiamo con qualcosa di leggermente soggettivo: il nostro lavoro è quello di essere Pionieri e
scovare una nuova casa per le specie sopravvissute. Ci capiterà di scandagliare pianeti disabitati, ma
c’è un però: il nostro compito di Pionieri è essenzialmente inutile. Questo perché sappiamo già
quale pianeta sarà predisposto alla colonizzazione escludendo completamente la scelta del
giocatore, compromettendo così non solo il ruolo che ci viene affibbiato ma il senso stesso del gioco.
Qual è il senso appunto, di esplorare nuovi pianeti, decidere se sono adatti o meno alla vita, quando
la scelta è del tutto assente? Questo problema è forse uno dei più invisibili, abituati forse a seguire,
percorsi prestabiliti; eppure è un Mass Effect e di nuova generazione per giunta.
L’esser Pionieri fa pendant con un’altra scelta ampliamente discutibile: siamo nella galassia di
Andromeda, una galassia evolutasi in maniera completamente indipendente dalla Via Lattea.
Eppure, una volta reclutato un’Angara, una specie autoctona, avrà gli stessi poteri a disposizione
dei nostri. Questa leggerezza mina pesantemente la credibilità del titolo, creato da un team
solitamente estremamente puntiglioso con i dettagli.
Ma l’occasione mancata più grande è il non sapere cosa accade alla nostra galassia dopo aver
passato tre capitoli a gestire il destino dei suoi abitanti in relazione a un arco temporale di ben 600
anni. Curare o no la Genofagia dei Krogan a cosa ha portato ad esempio? Si sono estinti o hanno
ricominciato a dar battaglia a chiunque li ostacoli? In mancanza di una minaccia comune, i popoli
della galassia sono ancora in pace? Non lo sapremo mai e questo non saperlo, è probabilmente il
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fallimento più grande. La storia di Mass Effect si svolge su più cicli di distruzione della durata
complessiva di milioni di anni, con un’attenzione riservata in special modo al tempo in cui giochiamo
ovviamente, ma anche a quanto accaduto prima, narrando eventi di migliaia di anni fa.
600 anni in Mass Effect sono un’inezia ma sufficienti per mostrare le conseguenze delle nostre scelte
e sacrifici, fulcro centrale della saga. Mancando questo, Mass Effect: Andromeda si è mostrato
inadeguato a portare avanti un progetto lungo 10 anni, nonostante il titolo sia valido sotto moltissimi
punti di vista.
Complice questi elementi, oltre ad alcuni problemi tecnici e un data di rilascio in mezzo a The
Legend of Zelda: Breath to the Wild, NieR: Automata, Horizon Zero Dawn e Nioh, Mass Effect:
Andromeda fu un fiasco, non riuscendo a conquistare ne il cuore dei fan ne nuovo pubblico. Non si
sa ancora se il prossimo sarà Mass Effect: Andromeda 2, nonostante un finale del primo capitolo
che faceva presagire l’inizio di una nuova trilogia. Attendiamo riscontri, magari dal prossimo E3,
sperando che le critiche abbiano risollevato uno dei team migliori in circolazione.

Food Party: prodotti alimentari nei
videogiochi

L’alimentazione è un bisogno primario degli esseri umani e, da giocatori, possiamo dire che è forse
più forte nei gamer. Dobbiamo pur smettere di giocare, spegnere la console o il PC per poi
addentare un bel panino, goderci un gustoso piatto di pasta o, visto che le calorie bruciate di fronte
allo schermo non sono tantissime, rifocillarci con della sana frutta. Non tutti i videogiochi ci
spingono a mangiare: magari passando da tutti quei fast food in Dead Rising o guardando quei
cosciotti di maiale in Castlevania potrebbe venirci un insolito languorino, ma che succede quando il
cibo stesso diventa il protagonista del gioco? Oggi, un po’ come abbiamo fatto tempo fa con le
celebrità, vogliamo fare un excursus di sapori – più o meno sani – e gaming dando uno sguardo ad
alcuni titoli il cui fine non è necessariamente la produzione di un gioco avvincente ma venderti un
prodotto! In questo articolo troverete dei giochi il cui fulcro è la promozione di un brand
alimentare, perciò, salvo casi eccezionali, non parleremo di casi product placement come il
KFC in Crazy Taxi, le promozioni e gli oggetti speciali di Subway in Uncharted 3: Drake’s
Deception o le mentine Airway in Splinter Cell: Chaos Theory. Al solito, la lista non sarà
completissima perciò se ci dimentichiamo qualcosa fatecelo sapere pure nei commenti!

(COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA!)

Domande esistenziali
Sin dall’alba della nascita dei prodotti di consumo l’uomo è da sempre stato messo di fronte una
domanda tanto semplice quanto decisiva: Coca Cola o Pepsi? Sin dal loro arrivo sul mercato, più o
meno intorno alla fine del ‘800, le due compagnie si sono letteralmente odiate, una guerra
combattuta prodotto su prodotto. Nel 1983, visto che Pepsi nel 1975 diede un duro colpo alla
compagnia rivale con dei test a occhi bendati nei supermercati americani, Coca Cola distribuiva alle
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convention un gioco per Atari 2600 senza etichetta, insieme alla console (che per la crisi, tanto,
costavano pochissimo), intitolato Coke Wins ma più in là rinominato dal pubblico Pepsi Invaders
per via della sua estrema somiglianza con Space Invaders (tanto che, infatti, il titolo nasce dal
codice madre del gioco Taito ed è pertanto considerabile, in tutto e per tutto, un hack). Il titolo,
sviluppato da Atari stessa, mirava a promuovere il marchio Coca Cola, infatti lo scopo del gioco era
annientare la schiera di navicelle che in cielo formavano sei pericolosissime scritte “PEPSI“,
capitanate da altrettanti alieni residuati da Space Invaders, e quando si vinceva appariva la
scintillante scritta “Coke Wins“; tuttavia, essendo il marchio del nemico così in bella vista,
sembrava che stessero promuovendo la compagnia rivale anziché il promotore stesso e perciò oggi
in molti vedono in questo gioco l’esempio lapalissiano di un colpo di zappa sui piedi. Il gioco non fu
mai venduto al pubblico ed è pertanto uno dei più rari di sempre: delle copie sono state vendute su
eBay per prezzi che oscillavano dai 1000 ai 2000 dollari americani. Se volete provare questo
rarissimo gioco vi converrà ovviamente provarlo su un emulatore… oppure, potreste comprare una
Coca Cola per 2 euro al bar!

Nel 1983, su Atari 2600 e Intellivision, ci fu un’altra famosa promozione, stavolta per un prodotto
assente nei supermercati italiani: parliamo di Kool-Aid Man, gioco che promuove la famosa
bevanda fruttata americana “fai-da-te”. Su Atari 2600 controlleremo la famosa brocca animata che
da tanti anni promuove il brand e lo scopo del gioco è evitare i Thirsties in corsa, perché altrimenti
verremo schiantati a destra e a manca nell’area di gioco e fermarli quando allungano le cannucce
per bere dalla pozza di Kool-Aid nel fondo. Poco tempo dopo, per Intellivision, uscì un gioco in cui
il nostro obiettivo era quello di controllare due bambini intenti a collezionare i tre ingredienti
principali per fare una bella brocca di Kool-Aid (la bustina con la polvere, dello zucchero e una
brocca di acqua ghiacciata… sbaglio o stiamo facendo pubblicità gratuita?). Anche qui, i Thirsties, i
nemici di Kool-Aid Man, saranno alle nostre calcagna e se ci prendono due volte per noi sarà game
over; ma se riusciremo a preparare la bevanda in tempo chiameremo la cara brocca sorridente e
goderci il Kool-Aid in santa pace!
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(Oh yeah!)

Basta aperitivi, abbiamo fame!
Avete fame? Non vi va di andare in cucina a preparavi un hamburger? A quanto pare, nell’anno 2025
(dunque fra sette anni, tenetevi forte!), i ricercatori Burger King creeranno un Whopper così
buono che non dovrete spostarvi dal divano, sarà lui a venire da voi! In Whopper Chase, gioco del
1987 per Commodore 64, ZX Spectrum e MSX, controlleremo il famoso hamburger di casa
Burger King alla volta delle fauci di un avventore che lo chiama per telefono; per strada dovremo
eliminare pomodori e cetrioli ostili e chef gelosi a colpi di maionese in eccesso (sapete, quella che
scola via ai lati del panino morso dopo morso). Il gioco è stato prodotto in Spagna su musicassetta ed
era possibile ottenerlo con un Whopper solo nei Burger King spagnoli; al di là dell’intento
commerciale la diffusione è stata un successo e come conseguenza i prezzi su eBay, oggi, non sono
per niente proibitivi nonostante la circoscrizione al territorio iberico. Di sicuro, nel 1987, i bimbi
spagnoli saranno andati ben più volentieri al Burger King con questa scusa (e forse saranno anche
ingrassati parecchio)!

Ronald McDonald alla riscossa!
Poteva McDonald’s tirarsi fuori dalla guerra dei software digitali per promuovere i loro ristoranti
fast food per famiglie? Nel 1992 arriva M.C. Kids (non Mc Kids…) su Nintendo Entertainment
System, noto come McDonald’s Land in Europa, un grazioso platformer ispirato primariamente a
Super Mario Bros. 3 per quel che riguarda il design dei livelli e l’overworld diviso in sette mondi.
Contrariamente a quel che si possa pensare, il gioco non mette in risalto i prodotti McDonald’s ma
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di certo è una gran bella presentazione delle mascotte dei loro ristoranti come Ronald McDonald,
Birdie, Grimace e l’avido Hamburglar che in questo gioco ruba una borsa magica al famoso (e
spaventoso) clown. Per avanzare nell’overworld ci servirà collezionare delle carte da consegnare alle
mascotte una volta terminato un livello – gameplay che verrà ripreso anni più tardi nel terribile
Spartan per Nintendo Switch –; di certo non è fra i platformer migliori che il NES possa offrire ma
per essere un gioco su licenza e, in tutto questo, anche una chiara trovata commerciale per
promuovere i ristoranti McDonald’s il risultato non è male e il gioco, nonostante alcuni difetti,
risulta tuttavia godibile.

Dopo questo titolo, McDonald’s rientrò nel mondo dei videogiochi con altri due platformer per
Sega Mega Drive o Genesis in Nord America: il primo è Global Gladiators del 1992, un gioco in
cui due ragazzini di nome Mick e Mack vengono catapultati nel loro fumetto preferito (guarda caso
pieno di doppi archi dorati) grazie a una magia di Ronal McDonald, e l’altro è McDonald’s
Treasure Land Adventure del 1993. L’ultimo titolo è davvero niente male, specialmente perché
dietro allo sviluppo di tale gioco c’è il leggendario studio Treasure, noto per aver prodotto alcuni
dei migliori videogiochi mai sviluppati come Gunstar Heroes, Dynamite Headdy, Guardian
Heroes, Radiant Silvergun e Ikaruga! Che dire? Anche i migliori hanno bisogno di un Big Mac di
tanto in tanto!
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I’ vogl na pizz!…
Ai napoletani sicuramente non piacerà ma per gli americani è una garanzia quando non ci si vuole
avventurare in un ristorante italiano sconosciuto: Domino’s Pizza è un brand molto famoso negli
Stati Uniti e dal 2015 è presente anche nel territorio italiano con otto ristoranti a Milano e uno a
Bergamo. Il titolo che vedremo adesso è Yo! Noid, videogioco con protagonista il Noid, protagonista
e mascotte delle pubblicità di questo popolare brand americano. A differenza dei giochi McDonald’s
il gioco, che in realtà era un titolo per Famicom di Capcom originariamente uscito come Kamen
no Ninja Hanamaru, risulta molto carente sia sul piano della dinamicità, offrendo un gameplay
poco bilanciato per il fatto che il Noid viene annientato solo dopo un colpo e una grafica buona ma
confusionaria sul piano dell’uso dei layer di scorrimento. Ad aggravare la situazione sono presenti le
orrende sezioni dei pizza eating contest in cui bisognerà mangiare più pizza di un altro Noid; queste
sono delle vere e proprie boss battle in cui regna la casualità, in quanto i due partecipanti
pescheranno in maniera radomica un numero da un selettore e, il partecipante col numero più alto
aggiungerà un punto sul suo pizza meter. Meglio andare a mangiare una pizza!
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… e una Pepsi!
Più tardi, nel 1999, anche Pepsi si buttò nel mercato videoludico proponendo un titolo a oggi molto
discusso, una vera e propria bestia rara, visto che uscì solo in Giappone, ma molto divertente e
soprattutto bizzarra. Sviluppato dallo studio giapponese KID, Pepsiman per PlayStation è una
sorta di gioco d’azione in cui controlleremo l’iconico (non in Italia) supereroe gasato nel intento di
portare una Pepsi a chi ne ha bisogno, come un militare nel deserto; il gioco si presenta come uno
runner sullo stile di Metro Cross o Penguin Adventure – oggi sarebbe un gioco ideale per
smartphone – e bisognerà evitare bizzarri ostacoli come dei lavori in corso per strada,
stendibiancheria nei giardini, camion carichi di Pepsi e lattine giganti che ci inseguono come il
masso all’inizio di Indiana Jones e i Predatori dell’Arca Perduta. Stranamente, il gioco è
interamente doppiato in inglese, il che lo rende tranquillamente giocabile per chi non parla
giapponese, e con alcune cutscene girate a Los Angeles che includono la presenza dell’attore Mike
Butters, ricordato per essere stata la prima vittima del killer in Saw: l’Enigmista; a quanto pare
era programmata una release internazionale ma alla fine il gioco rimase relegato al Giappone.
Il gioco, tuttavia, non segna la prima apparizione di Pepsiman in un videogioco; il supereroe era
presente nel picchiaduro Fighting Vipers nel 1996 per Sega Satun (di cui potrete vedere un
footage nel fondo di questo articolo sul Polymega, anche se Pepsiman non è presente) dove
divenne un personaggio sbloccabile grazie a un accordo pubblicitario fra Pepsi e Sega.
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Prima di concludere il discorso di questi particolari titoli promozionali vogliamo parlare un secondo
dei “videogiochi originali” presenti nelle confezioni delle merendine Ferrero. A oggi è molto difficile
tracciare tutte le “release” di questi titoli, che comprendono titoli del calibro de Gli Straspeed e la
Strarace e il videogioco de i Magicanti, delle mascotte Ferrero durate per poco tempo, ma vale la
pena di ricordare lo spettacolare Fresh Adventure, un lentissimo e davvero scadente platform con
il pinguino del Kinder Pinguì e Fetta al latte; perché spettacolare? Per questo esatto motivo:

GameCompass per la vostra salute
Ci sono ancora molti giochi che promuovono brand alimentari, come Cool Spot per le console 16 bit
che promuoveva la 7-Up, Chester Cheetah: Wild Wild Quest per Sega Mega Drive e Super
Nintendo che promuoveva il brand di chips Cheetos e persino i recenti Dash of Destruction e
Crash Course per Xbox 360 per promuovere il brand Doritos. Tuttavia, i giochi che abbiamo
promosso finora contengono prodotti ipercalorici che nel peggiore dei casi, possono portare a
malattie come il diabete.
Per scongiurare casi come questi la Novo Nordisk, una compagnia danese specializzata nel
trattamento del diabete e nella produzione di insulina, si è buttata nel ring nel 1992 con Captain
Novolin per SNES, un titolo sviluppato da Sculptured Software per sensibilizzare i bambini affetti
da diabete (ma solo quelli col Super Nintendo. Al diavolo quelli col Mega Drive o i computer!).
Nel gioco ci verranno spiegate le migliori soluzioni per trattare questa brutta malattia e per
proseguire le avventure dell’unico supereroe affetto da diabete di tipo 1 bisognerà di tanto in
tanto rispondere a qualche domanda sull’argomento; sia genitori che bambini hanno trovato questo
gioco molto utile nonostante il gameplay poco interessante ma bisogna anche ammettere che mirare
alla sensibilizzazione a un problema così grande e spesso sottovalutato è un obiettivo veramente
nobile… il vero problema, giusto per concludere in bellezza, era che il gioco veniva venduto a prezzo
pieno e nessuna parte dei proventi venne investita per la ricerca; dunque, alla fine dei conti, il vero
obiettivo del gioco era venderti l’insulina della Novo Disk!

Dunque, state attenti a cosa mangiate, non andate a mangiare cibo spazzatura di frequente o
altrimenti vi toccherà giocare con Captain Novolin!

(Bene Captain Novolin, ha salvato il mondo! Per festeggiare che ne direbbe di un bel pezzo di tor… ops…)

Ode a Sega Dreamcast

«It’s better to burn out than to fade away» diceva Neil Young in My my, hey hey, citata anche da
Kurt Cobain dei Nirvana nella sua lettera di suicidio. “Meglio ardere in una fiamma piuttosto che
spegnersi lentamente” probabilmente era anche la mentalità di Sega verso la fine degli anni ‘90,
quando per riprendersi dal fallimento commerciale e, in parte, progettuale che è stato il Saturn
tirarono fuori dal cilindro il Dreamcast. L’ultima console che ho veramente amato, insieme al
Gamecube di Nintendo, ma questa è un’altra storia…
Le cause del fallimento commerciale di Dreamcast sono note a tutti gli appassionati: una campagna
marketing discutibile come, per esempio, la sponsorizzazione sulle maglie da calcio dell’Arsenal,
Sampdoria, Saint-Etienne e Deportivo La Coruña. L’assenza del supporto di due grosse case di
terze parti come Electronic Arts e Squaresoft (la fusione con Enix sarebbe arrivata solamente nel
2003), il formato del GD-ROM, più economico di un ancora acerbo DVD, ma che spalancava le porte
a una pirateria forsennata, e soprattutto una macchina e un marchio inarrestabile come PlayStation
che si era imposta con forza sul mercato grazie a un marketing aggressivo e una libreria di giochi
completa come raramente s’era vista prima di allora.
Ma non siamo qui a parlare delle cause del ritiro di Sega dal mercato hardware: piuttosto, ci
concentreremo su quanto Dreamcast sia stata una console rivoluzionaria, capace di sfornare idee
che all’epoca potevano sembrare un azzardo, ma che in realtà hanno modellato il mondo dei
videogiochi in quello che è al giorno d’oggi. Può sembrare assurdo, ma pensiamoci: Dreamcast
arrivava nelle case con il pieno supporto a Windows CE (direttamente sviluppato da Microsoft
stessa, con tanto supporto alle DirectX!) e con un modem a 56kbps. Il sistema operativo della casa
di Redmond era più pensato per gli sviluppatori rispetto all’utente medio, visto che l’inclusione sulla
console Sega era atta a facilitare una conversione dei giochi Dreamcast verso il PC. Ma includeva
alcune chicche da non poco, come, per esempio, la possibilità di importare file immagine
direttamente nelle VMU (le particolari memory card dotate di schermo LCD e plancia di comando
in stile Game Boy) per poi usarle in giochi come Jet Set Radio (a tal proposito, il primo gioco in
grafica cel-shading). Un’accoppiata desktop-console che è stata riproposta ben diciotto anni dopo
con l’avvento di, Xbox Play Anywhere e la combo Xbox One-Windows 10.
Il modem incluso nella console anticipò solamente di pochi mesi la direzione intrapresa dai
concorrenti: se la stessa Microsoft con la prima Xbox e il lancio di Xbox Live dettò i tempi per il
futuro del gaming online su console, fu Sega a muovere il primo passo, con il lancio di SegaNet.
Servizio in abbonamento a quasi 22$ al mese, permetteva agli utenti di navigare sul web, chattare e
mandare email, oltre a giocare a titoli inclusi nell’abbonamento (PlayStation Plus e Xbox Play
With Gold docet). Purtroppo, non si andò mai oltre al solo Chu Chu Rocket tra i giochi presenti dal
servizio, ma Dreamcast poteva dire la sua grazie a NFL 2K1, i buoni port da PC di Quake III
Arena e Unreal Tournament, e soprattutto, il primo MMORPG per console: Phantasy Star
Online.

Vorrei soffermarmi un attimo proprio su quest’ultimo: purtroppo non ho mai avuto la possibilità di
giocarci online, visto che i servizi di Dreamcast in Italia erano gestiti da Albacom (!!!), però mi
accontentavo delle quest offline e delle guide spulciate sul web e su riviste come Dreamcast Arena
(del quale custodisco gelosamente gli ultimi due numeri). Bastava questo a un allora ragazzo
tredicenne per sognare epiche storie come quelle che succedevano su PC con titoli come Ultima
Online o Dark Age of Camelot. Se adesso su PlayStation 4 abbiamo la possibilità di giocare a
MMORPG come Final Fantasy XIV: Stormblood, si deve tutto a Phantasy Star Online.
Mettendo da parte le innovazioni sull’hardware, come il controller per la pesca che poteva esser
usato per giocare a Soul Calibur grazie ai sensori di movimento inclusi, rendendolo di fatto un
Wiimote ante litteram o il Dreameye, una webcam che avrebbe anticipato di molti anni la Eyetoy
di Sony, di Dreamcast si può lodare soprattutto la filosofia libera di Sega data alle case di sviluppo,
interne e non, che decidevano di supportarne la causa.
Se dal freddo lato del marketing, il mancato supporto dato da sviluppatori influenti è stato una delle
cause della sua fine prematura, dal lato che più ci interessa, quello del giocatore, ne è stata la sua
fortuna. Senza la presenza di Electronic Arts non avremmo avuto gli sportivi di Visual
Concepts da cui sarebbero nate le serie sportive di 2K e NBA. Niente JRPG di Squaresoft? Nessun
problema: largo agli eccezionali Skies of Arcadia, Grandia II e l’innovazione dei quick time event
arrivata con i due Shenmue di Yu Suzuki. Strada libera a prodotti visionari come Jet Set Radio,
Rez e soprattutto a perle arcade convertite alla perfezione come Ikaruga, Sega Rally 2, Virtua
Striker 2, e Street Fighter III: 3rd Strike su tutti. Soprattutto quest’ultimo è considerato uno dei
titoli più “longevi” della console, grazie allo status di culto di cui gode nel circuito professionistico
dei picchiaduro.
Stare qui a scrivere di quanto avrebbe potuto dare Dreamcast al mondo videoludico, dopo vent’anni
dalla sua uscita in Giappone, e diciannove dall’arrivo nel vecchio continente, fa quasi male. Forse il
più spettacolare autogol della storia videoludica. Una console nata sotto una cattiva stella che,
nonostante tutto, continua a raccogliere consensi anche postuma. Sia grazie a una libreria dalla
qualità veramente alta e con tante killer application, che grazie al continuo lavoro di piccoli
sviluppatori e homebrew che continuano a far uscire titoli ancora oggi.
Mi piace paragonare Dreamcast a Jeff Buckley, uno dei talenti più cristallini della musica degli
ultimi 30 anni, che abbiamo perso troppo presto e solamente dopo un incredibile e, purtroppo unico,
disco come Grace. La macchina dei sogni di Sega resta l’ultimo epitaffio dell’azienda di Tokyo sul
lato hardware, e nonostante si sia convertita con successo come software house e publisher di titoli
come Yakuza, Bayonetta e Football Manager, il vuoto lasciato da Dreamcast resta ancora
incolmabile nel mio animo di videogiocatore. Dal 2001 a oggi non sono più riuscito a trovare
interesse nel mercato console: troppo uniforme e poco propenso ad alternative videoludiche di
spessore, se non contiamo le gemme indie. È sotto questo punto di vista che sento la mancanza di
una console come quella di Sega, capace di tenermi incollato per ore davanti al televisore.
Bono Vox degli U2 disse di Buckley che era una goccia pura in un oceano di rumore. Credo che
non ci sia definizione migliore che possa accomunare il cantautore americano e Sega Dreamcast.

Calcio e videogiochi: un legame radicato nel
tempo

Negli ultimi anni il fenomeno degli eSport ha dimostrato quanto sia forte il legame tra il mondo dei
videogiochi e quello dello sport, soprattutto se consideriamo il formarsi di squadre e leghe
professionistiche, come la Overwatch League o il tesseramento di molti pro player da parte delle
squadre di calcio, com’è successo in Italia con Mattia “Lonewolf92” Guarracino tesserato dalla
Sampdoria.
In realtà, questi due mondi avevano già molte cose in comune, già a partire dalla metà degli anni
‘80: stiamo parlando delle sponsorizzazioni di vari publisher e sviluppatori sulle maglie di molte
squadre di calcio dal blasone nazionale e internazionale. In questo numero di EVOL faremo un
excursus storico su questo tema.
Partiamo dagli inizi: dobbiamo la palma di pionieri del genere alla Commodore, allora tra i leader
del settore videoludico. Dal 1988 fino al ‘92/’93, l’azienda fondata da Jack Tramiel è apparsa sulle
maglie del Chelsea: i tempi dei petrodollari di Roman Abramovich e del tatticismo di Maurizio
Sarri erano ancora lontani, visto che la squadra londinese retrocesse in Second Division (la attuale
Championship) alla fine della stagione ‘87/’89, salvo poi ritornare in First Division (ora Premier
League) dopo un anno per poi veleggiare in zone di metà classifica. Nella stagione ‘93/’94 vi fu una
piccola sostituzione: da Commodore si passò ad Amiga, però senza cambiare risultati, visto che la
squadra allora allenata da Glenn Hoddle finì la stagione al quattordicesimo posto, perdendo inoltre
la finale di FA Cup contro il Manchester United.
Commodore nel frattempo finì anche sulle maglie del Bayern Monaco in Germania dal 1984 fino al
1989, ottenendo risultati decisamente migliori rispetto ai blues, visto che i bavaresi vinsero ben
quattro scudetti, una coppa e una supercoppa di Germania. Risultati analoghi anche in Francia,
visto che il Paris Saint Germain, dal 1991 al 1995, vinse due coppe di Francia, una coppa di lega e
un campionato nazionale.

Passiamo a Sega, che cominciò a sponsorizzarsi in casa con il JEF United, squadra di Ichihara che
dal 1992 al 1996 ottenne solamente dei risultati da mezza classifica. Ben più celebre, invece,
l’operazione di marketing che portò Arsenal, Deportivo La Coruña, Saint-Etienne e Sampdoria
ad avere il logo di Sega Dreamcast sulle maglie. Fu un’operazione che per molti decretò il flop
dell’ultima console della casa giapponese, anche a causa del costoso accordo con i “gunners”. Alla
fine, solamente la squadra allenata ai tempi da Arsene Wenger ottenne dei buoni risultati nel
triennio che va dal 1999 al 2002, con un Charity Shield (oggi Community Shield), una FA Cup e un
campionato vinto. La Sampdoria finì quinta in Serie B per le due stagioni (1999-2002), mentre la
singola stagione (2001) della console Sega sulle maglie della squadra francese e spagnola non
regalarono molte gioie, visto che il Deportivo arrivò secondo e staccato di sette punti dal Real
Madrid e, il Saint-Etienne, addirittura retrocesse in Ligue 2.
Curiosamente, Sega aveva già avuto legami con il calcio nel nostro paese, con le indimenticabili
pubblicità di Master System II, Game Gear e Mega Drive con protagonisti Walter Zenga,
Gianluigi Lentini e l’attuale CT della nazionale italiana Roberto Mancini, allora stella della
Sampdoria campione d’Italia nel 1991.

Dopo Sega è il turno di Nintendo: l’associazione più nota è quella con la Fiorentina dal 1997 fino
al 1999, anni dove i viola finirono nella parte alta della classifica andando a un passo dallo scudetto
nel 1998 (alla fine ottennero un terzo posto), sfumato per il grave infortunio ai danni di Gabriel
Omar Batistuta, capitano e stella della squadra. Ben prima invece, nella stagione 1992-1993 il
Siviglia di Diego Armando Maradona, sponsorizzato dal Super Nintendo, concluse la stagione al
dodicesimo posto. Invece, in madrepatria, l’azienda di Kyoto detiene il 16,6% della proprietà del
Kyoto Sanga FC, squadra che vivacchia in seconda divisione e che ha avuto il suo piccolo momento
di gloria nel 2002, con la vittoria della Coppa dell’Imperatore.

Storia travagliata, invece, per quanto riguarda Atari: se gli appassionati si ricorderanno della maglia
del Lione dal 1999 al 2001 con i loghi dell’azienda, oltre che di Infogrames, e capace di vincere
una coppa di lega francese, pochi sapranno che la compagnia fondata da Nolan Bushnell e Ted
Dabney era coinvolta, sotto l’agglomerato di aziende della Warner Corporations, in una
importante fetta dei New York Cosmos e della North American Soccer League. All’epoca il
calcio statunitense era fortemente amatoriale, ma grazie alla mostruosa disponibilità economica
derivante dal gruppo Warner, i Cosmos riuscirono ad acquistare Pelè, probabilmente il più forte
calciatore di tutti i tempi. La compagine della grande mela riuscì a vincere ben tre campionati dal
1977 al 1980, non solo grazie all’apporto di “o rey”, ma anche con l’arrivo di vecchie glorie sulla via
del ritiro, come Franz Beckenbauer o la leggenda della Lazio, Giorgio Chinaglia. Purtroppo la
NASL, l’allora campionato di calcio nordamericano, cessò di esistere nel 1984, con squadre
soffocate da debiti e con sponsor sull’orlo del fallimento: tra di esse vi era proprio Atari, reduce dal
flop commerciale del tie-in di E.T. che, non solo causò il celebre crash dei videogiochi, ma anche il
fallimento sia dei New York Cosmos, che della NASL stessa.
L’unica big che manca al riassunto è Sony: pur essendo conosciuta anche per il marketing
rivoluzionario e al passo con i tempi, l’azienda giapponese ha solamente sfruttato il marchio
PlayStation per sponsorizzare l’Auxerre, squadra francese che milita attualmente in Ligue 2 e che,
dal 1999 al 2006 ha solamente vinto due coppe di Francia. Ben più nota invece, la sponsorizzazione
dell’azienda madre sulle maglie della Juventus dal 1995 fino al 1998, anni dove la “vecchia signora”
vinse due scudetti, due supercoppe italiane, una supercoppa UEFA, una coppa intercontinentale e la
Champions League del 1996, vinta contro l’Ajax.

Concludiamo con un rapido excursus riguardanti altre compagnie: Capcom sulle maglie del Cerezo
Osaka dal 1994 al 1996, Konami su quella dei Tokyo Verdy dal 1999 al 2001, la brevissima
parentesi natalizia di Pro Evolution Soccer 2009 con la Lazio, il rivale FIFA con lo Swindon
Town dal 2011 al 2014, Football Manager sponsor del Watford nella stagione 2012-2013, Ocean
Software che sponsorizza Jurassic Park nelle maglie dell’FC Martigues nel 1993 e la partnership
tra Eidos e il Manchester City dal 1999 al 2002.
E attualmente? Le uniche presenze videoludiche nel calcio attuale sono limitate solamente a due
squadre: una è l’AFC Wimbledon, squadra di League One inglese (il corrispettivo della nostra Lega
Pro, per intenderci) che, dal 2002 a oggi viene sponsorizzata da Football Manager, venendo pure
usata nelle immagini dimostrative del popolare manageriale calcistico di Sports Interactive. L’altra
squadra ad avere forti legami col settore videoludico sono i Seattle Sounders della Major League
Soccer americana, sponsorizzati da Microsoft: nel 2009-2010 con il logo di Xbox Live e dall’anno
successivo semplicemente dalla console di casa Redmond. I Sounders vantano nel loro palmares
una vittoria della MLS nel 2016 e una U.S. Open Cup nel 2014.

La storia ci insegna che il calcio, ma anche molti altri sport (su tutti il wrestling, e cito due nomi:
Xavier Woods e Kenny Omega, quest’ultimo addirittura nei panni di Cody in un trailer per Street
Fighter V) hanno un legame fortissimo con i videogiochi, e il recente interessamento del CIO per gli
eSport ha radice ben più profonde del semplice interesse economico.

Hi,my name is… Gōichi Suda

In quali termini e in quale misura un creativo può essere definito “autore”? Accade quando crea
qualcosa di innovativo e originale? O quando plasma un proprio personale linguaggio all’interno del
medium di riferimento? Se dovessimo dare una risposta affermativa a queste domande, allora
Gōichi Suda (in arte Suda51) rientrerebbe di diritto nella categoria.
Classe 1968, Suda51 è riconosciuto all’unanimità come uno dei più eccentrici game designer della
storia videoludica.
Il suo percorso lavorativo inizia nella Human Entertainment come scenario writer per la serie
wrestling Super Fire Pro Wrestling su Super Nintendo. Ben presto si rende conto che lavorare per
conto di terzi e avere poco margine creativo all’interno della produzione non è il massimo delle sue
aspirazioni. Con un gesto provocatorio conclude la sua esperienza alla Human scrivendo il
controverso finale del quarto capitolo della saga sportiva, creando un cortocircuito narrativo senza
precedenti per quei tempi. Trasferisce la sua passione altrove entrando a far parte della
Grasshopper Manufacture, divenendone presto CEO e produttore esecutivo. Qui Goichi è libero di
esprimersi al meglio ed è qui che crea il suo primo personalissimo lavoro: The Silver Case (1999).
Si tratta di una visual novel dalla forti tinte thriller, nella quale saremo chiamati a investigare su una
serie di macabri omicidi procedendo parallelamente attraverso due punti di vista diversi. Uscito nel
solo mercato orientale sulla prima PlayStation, il gioco è il chiaro esempio della visione proto-punk
del game designer. Declinando un’estetica forte e stridente a un gameplay molto semplice nelle
meccaniche, quasi minimale nella sua voglia incontrollata di porre il giocatore nella condizione di
spettatore passivo dei fatti narrati, concedendo una limitata interazione attraverso puzzle
ambientali. Nel 2017, un po’ a sorpresa, produce un sequel-remake per console di attuale
generazione: The 25th Ward: The Silver Case, mantenendo intatta quell’aurea inquietante tipica
del primo capitolo.

Chiusa la parentesi Silver Case, Suda ha ancora voglia di sperimentare con il genere delle
avventure grafiche in terza persona. Inizia a lavorare così a un progetto insolito: un misto tra Alice
nel Paese delle meraviglie e un incubo lisergico à la David Lynch; quello che ne viene fuori è lo
strambo Flower, sun and rain (2001).

Uscito ai tempi di PlayStation 2 solo sul mercato giapponese, il gioco vede protagonista
l’enigmatico Sumio Mondo, un tuttofare abile nel risolvere qualsiasi tipo di problema attraverso
l’uso di una valigetta capace di connettersi (letteralmente) a tutto ciò che circonda il protagonista.
Dietro storie di fantasmi, persone scomparse, attacchi terroristici, spiagge dorate e piscine
luccicanti si nasconde un gameplay vecchio stampo, focalizzato nella risoluzione di puzzle
matematici disseminati nell’area d’azione. Il giocatore questa volta ha una maggiore possibilità di
interazione, dialogando con le strane personalità che popolano il suggestivo hotel da cui prende
nome il gioco. Il designer calca la mano sulle assurde situazioni in cui si viene a trovare Mondo e gli
strampalati dialoghi con i personaggi secondari, dai quali estrarre indizi per la soluzione
dell’enigma. Suda riesce a creare un’atmosfera rilassata e solare ma allo stesso tempo ambigua, con
dettagli e tinte alle volte disturbanti. Il tutto accompagnato dalle splendide composizioni di
Masafumi Takada. Sette anni dopo l’uscita su PS2 la casa di produzione decide di lanciare un
remake per la portatile Nintendo DS, aggiornando il sistema di controllo al touch screen e con un
adattamento sul fronte tecnico, dando questa volta la possibilità anche ai giocatori europei e
americani di mettere mani al gioco.

Passano quattro anni prima che Suda51 ritorni dietro la cabina di regia. In questo tempo trascorso la
GH dietro la sua direzione produce numerosi giochi dall’esito commerciale altalenante: si passa dal
prodotto discreto che riesce a trovare un posto nel mercato, al fallimento su tutta la linea (chi ha
avuto modo di giocare a Michigan: Report from Hell ne sa qualcosa). Poco budget e tempi di
sviluppo molto stretti per un piccolo team che spesso viene affiancato da sviluppatori esterni quando
si tratta di giochi su commissione. È nel 2005 che Goichi torna sulle scene con il suo titolo più
conosciuto e controverso.

Sono i tempi in cui Nintendo rincorreva le terze parti per tappare i buchi del parco titoli del suo
Game Cube, siglando un accordo con Capcom per una serie di 5 esclusive (quasi tutte temporanee)
che avrebbero fatto la gioia dei consumatori. Tra i titoli si nascondeva un allora misterioso Killer 7,
gioco di cui si sapeva molto poco e quel tanto che si conosceva non faceva altro che confondere
ulteriormente le acque. Uno sparatutto su binari in terza persona con grafica cel-shading, iper
violento e oscuro. Dietro il progetto si nascondeva Goichi in qualità di director sotto la supervisione
attenta della Capcom, lasciando però ogni libertà creativa.
Probabilmente l’opera più matura e personale di Suda, nonché il gioco che ha sdoganato il suo nome
in tutto il mondo, rendendolo una figura atipica nel settore.

Il gameplay di Killer 7 fonda le sue basi sulla possibilità di controllare sette diversi personaggi (i
sette Killer Smith), ognuno con il suo corredo di skill e abilità esclusive. Si corre in corridoi stretti e
claustrofobici, seguendo percorsi prestabiliti che a loro volta si diramano in bivi e strade secondarie.
Il giocatore mantiene la concentrazione sull’eventuale presenza degli Heaven Smile, disturbanti
creature antropomorfe che avanzeranno verso il giocatore fin quando verranno abbattute sparando
in precisi target point utili per guadagnare blood da spendere nel potenziamento delle
caratteristiche dei personaggi giocabili. In tutto questo non mancano i classici puzzle ambientali da
risolvere tramite il ritrovamento di oggetti lungo il percorso. Con Killer 7 la follia visionaria di Suda
raggiunge traguardi altissimi creando un corollario di personaggi secondari inquietanti e
moralmente ambigui. La trama che sorregge il tutto è volutamente criptica e soggetta a diverse
interpretazioni, toccando temi importanti come lo smercio di armi chimiche, i giochi di potere
politico e le violenze psico-fisiche insite nella società dei tempi moderni. Pone continue riflessioni
sulla natura sadica dell’animo umano e sul rapporto che questo ha con le entità superiori; domande
che sapientemente vengono lasciate in sospeso.
Non un gioco perfetto, nei suoi limiti tecnici e strutturali funziona solo discretamente, ma
rappresenta di certo una mosca bianca nel panorama videoludico, riuscendo a mantenere il suo
fascino morboso ancora oggi: è notizia recente che la Grasshopper rilascerà il gioco sulla
piattaforma Steam nell’arco del 2018, tredici anni dopo la prima release.
Dopo l’exploit Killer 7, Suda si concede qualche anno di stop tornando a produrre con la sua piccola
casa di sviluppo. Tra i tanti titoli a marchio Grasshopper è sicuramente Contact (2006) a farsi
notare maggiormente. Sviluppato per la portatile a due schermi di Nintendo, Contact è un bizzarro
GDR con fasi gestionali; vede come protagonista uno sventurato ragazzino sperduto sopra un’isola
deserta accompagnato da un singolare scienziato rinchiuso nella sua astronave. Un piccolo gioiello
di stile che vede il nostro Goichi come collaboratore esterno nella creazione del concept e
nell’elaborazione del gameplay.

Nel 2007, il genio inquieto di Suda51 ritorna prepotentemente con l’uscita di No More Heroes per
la nuova console Nintendo Wii. L’idea del designer era di riuscire a sfruttare a dovere i sensori di
movimento della nuova macchina Nintendo, senza rinunciare alle sue classiche trovate fuori dagli
schemi ed alla sua ossessiva ricerca per l’estetica a 8 bit. Quello che ne viene fuori è un
godibilissimo action in terza persona interrotto qua e là da alcuni minigiochi facilmente dimenticabili
e da una pessima fase open world. Con No More Heroes (come l’omonimo album degli The
Stranglers) Suda consegna alla storia del videogioco uno personaggi più carismatici e meglio riusciti
della sua carriera. La figura di Travis Touchdown colpisce per la svogliata personalità, il
linguaggio sboccato e la sua ossessione costante per il gentil sesso. Travis dovrà scalare la classifica
mondiale dei più grandi cacciatori di taglie nel tentativo di portarsi a letto l’organizzatrice
dell’evento. Tutto questo si traduce in una struttura di gioco molto classica: livello da esplorare, mob
da uccidere e il boss di fine zona da deflagrare senza pietà. Il gameplay regge bene per metà del
percorso se non fosse per la noiosa fase di accumulo di denaro, passaggio obbligatorio per
proseguire nella scalata della classifica. A metà dell’avventura, la pesantezza e la ripetività delle
azioni iniziano a farsi sentire non poco. Per quanto riguarda lo stile grafico, Suda si diverte a
infarcire il gioco di citazioni Pop e conferisce all’intera produzione un sapore vintage godibilissimo (
i retrogamer ne andranno pazzi). Fu un discreto successo commerciale, tanto da convincere la
produzione a lavorare ad un seguito (No More Heroes 2: Desperate Struggle, non diretto da lui
personalmente) e un remake per console in alta definizione. Considerato da gran parte della critica
come il manifesto stilistico del designer nipponico, NMH è sicuramente un buon inizio per conoscere
la visione distorta di questo autore, oltre ad essere il suo brand più famoso.
Arriviamo così al 2011, l’anno in cui Suda ci ha fatto sognare ad occhi aperti disattendendo, però, le
speranze di molti giocatori. Electronic Arts annuncia di aver in cantiere un horror affidato a un
dream team che, per i nomi coinvolti, avrebbe dovuto scatenare un terremoto nel mercato PS3 e
Xbox360. All’interno del gruppo figuravano personalità come Shinji Mikami e Akira Yamaoka,
rispettivamente il director di Resident Evil e il compositore della saga di Silent Hill. Quello che ne
viene fuori è Shadow of the Damned, sparatutto horror in terza persona sulla falsa riga del ben più
grande Resident Evil 4. Protagonista della vicenda è Garcia Hotspur, un efferato cacciatore di
demoni che si ritrova, suo malgrado, a dover rincorrere il Signore delle Mosche colpevole di aver
rapito la sua psicotica ragazza. Il giocatore dovrà scendere negli abissi dell’inferno per salvare la sua
amata e tornare ad una vita normale. Il gameplay fa il suo compito in maniera discreta, prendendo
quanto di buono fatto con RE4, svecchiandone le meccaniche e aggiungendo qualche simpatica
novità. Quello che colpisce di più è tutto il contesto scenico e attoriale del gioco, partorito
direttamente dalla mente malsana di un Suda in apparente stato di grazia (?). L’inferno ricreato è
disturbante, acidissimo e con una punta di ironica crudeltà. I colori saturi si sposano perfettamente
con l’evolversi degli eventi raccontati; tutto è studiato in modo tale da colpire il giocatore e coglierlo
di sorpresa, proponendo situazioni al limite dell’assurdo e personaggi improbabili che si fanno
amare sin da subito per la loro simpatica follia. Il tocco da maestro, però, è da cercare
nell’accompagnamento sonoro e nell’effettistica affidata alle sapienti mani di Yamaoka (che, orfano
di una Konami sempre più ottusa, decide di volare dalle parti della Grasshopper, diventando un
membro fisso dello staff). Certamente non si tratta del capolavoro che tutti aspettavano, a ragion
veduta, ma secondo il parere di chi scrive è uno dei prodotti più originali e divertenti della scorsa
generazione. E scusate s’è poco.
Esattamente un anno dopo Suda si rimette al lavoro grazie a una partnership con la Warner Bros.
Interactive Entertainment. Questa volta collabora alla scrittura con il cineasta americano James
Gunn (si proprio quello de I Guardiani della Galassia) da sempre grande fan degli horror di serie
b. Lollipop Chainsaw (2012) è un classico gioco d’azione in terza persona, simile nelle meccaniche
a NMH ma molto meno funzionale nel risultato. La protagonista, Juliet, è una cheerleader che ha
perso il fidanzato a causa di un’apocalisse zombie; tutto quello che rimane di lui è la testa parlante
in grado di dispensare ancora consigli su come affrontare la tragedia. Juliet utilizza una gigantesca
motosega come unico strumento contro i non-morti, combinata alle sue doti da combattente. Come
da tradizione, il gioco è disseminato di collezionabili utili per sviluppare le abilità motorie della
protagonista e rendere le combo varie e complesse. Purtroppo tutto questo si riduce ad un convulso
button mashing che molto presto si traduce in monotonia e noia. Un vero peccato perché l’ironia di
Gunn funziona e le citazioni al cinema italiano di genere faranno la felicità di molti appassionati, ma
dietro una simpatica presentazione si nascondono delle falle di gameplay che ingoiano l’intero gioco
in una voragine di mediocrità. Anche tecnicamente è un bel passo indietro rispetto al lavoro
precedente dei Grasshopper, complice anche un budget molto meno generoso rispetto al recente
passato. Probabilmente il punto più basso toccato da Suda51 sino a ora, ma paradossalmente il suo
successo commerciale più forte.

Da Lollipop Chainsaw Suda ha preferito rimanere in disparte partecipando come consulente esterno
a quasi tutte le produzioni della software house (Sine Mora, Killer is Dead, Let it Die) tornando a far
parlare di sé solo nel 2018 annunciando in pompa magna uno spin off della serie NMH: Travis is
strikes back, in uscita nel corso dell’anno in esclusiva per Nintendo Switch.

Goichi Suda è stato e continua a essere una personalità unica e singolarmente vicina ad un modo di
concepire il “videogioco” non solo come mero intrattenimento ma anche come espressione di una
visione totale, che guarda con molta attenzione al passato (nella estetica) rielaborandolo in maniera
del tutto personale. Suda51 non passerà alla storia come un portatore di idee rivoluzionare, come
possono esserlo alcuni suoi colleghi, ma mi piace considerarlo alla stregua di quello che rappresentò
Lucio Fulci nel cinema italiano: un terrorista del genere, o ancora meglio l’anarco punk più
trasgressivo del panorama videoludico. Tra alti e bassi la sua dialettica meta-stilistica continua nel
suo percorso di ribellione a delle leggi di mercato che ormai soffocano e costringono il settore ad
auto riciclarsi per paura di uscire da quella comfort zone dal guadagno facile ed assicurato. Suda
non va incontro al gusto dei giocatori ma sono loro a dover scardinare ogni pregiudizio e categoria
mentale per lasciarsi violentare dolcemente da questo pazzo ometto giapponese; tra un giubbotto di
pelle ormai demodè ed una canzone degli The Smiths ad accompagnarci nei nostri pomeriggi da
videogiocatori.

Ha ancora senso Assassin’s Creed?

Sin dalla sua comparsa, Assassin’s Creed è stato capace di dividere il pubblico, anche se per motivi
diversi. Se il capitolo originale veniva criticato per l’eccessiva ripetitività o elogiato per le novità
apportate ai free roaming e per la narrativa, i successivi hanno cominciato a esser presi di mira per
le mancate novità, per la poca incisività della trama, pur comunque mantenendo una buona dose di
vendite e di critica in generale. Oggi, con l’avvento di Odyssey, la questione è un’altra: il nuovo
capitolo, può essere definito Assassin’s Creed? La mancanza della famosa setta e l’andare così a
ritroso nel tempo, ha cominciato a far venire dubbi persino ai fan più accaniti, ma oggi vedremo di
analizzare la situazione, concentrandoci prevalentemente sulla narrativa.

Un passato pericoloso

Partiamo con i periodi storici, punti focali nella saga di Assassin’s Creed: siamo passati dalle
Crociate all’Italia Rinascimentale a varie rivoluzioni sino a scoprire l’origine della Setta degli
Assassini, nell’Egitto Tolemaico. C’è stato un periodo in cui, a seguito dell’avanzare nel tempo da
parte di Ubisoft, il cui sviluppo dei titoli della saga sembrava seguire un progressione temporale
costante, molti fan hanno cominciato a sospettare che il brand un giorno avrebbe calcato
palcoscenici moderni, magari vedendo Desmond come Maestro Assassino del XXI secolo.
Ovviamente sappiamo che non è andata così; Desmond ha trovato il suo destino e con lui la specie
umana. Ma se c’è una cosa che è finita nel dimenticatoio, anche per colpa degli stessi sceneggiatori,
è un piccolo, grande particolare: la storia degli Assassini ha inizio molto prima della creazione
della setta. Se, appunto, in Assassin’s Creed: Origins abbiamo visto la creazione “ufficiale” della
congregazione, in realtà l’essere Assassini ha risvolti molto più antichi, un ordine sparso, travagliato,
ma con radici molto profonde. Ma ne parleremo dopo.
Assassin’s Creed: Odyssey, come sappiamo, è un prequel di Origins e la domanda posta da molti
utenti è stata: qual è il senso di un Assassin’s Creed ambientato prima della creazione del Credo?
Prima di rispondere con la parola “soldi”, scendiamo un attimo sui particolari: avete notato come, in
Origins, Bayek entri in possesso di una Lama Celata? Se ne entra in possesso, quella lama, deve
avere qualche origine. Guarda caso Odyssey è ambientato quasi nello stesso periodo in cui la lama
fece la sua prima comparsa per opera di Dario, che con quest’arma eliminò Re Serse I. Questo
accadde per una ragione semplicissima: Templari e Assassini esistevano già. Il focus non deve
andare dunque sul nome, ma sul credo in sé; l’ideologia, così simile eppure così diversa tra le
due sette, è antica come il mondo e poco importa il nome a cui fanno riferimento.
Questo dunque ci porta a un altro elemento: andare ancora a ritroso, prima ancora dell’Antica
Grecia ha indubbiamente senso e questo potrebbe portare alla prima civiltà umana conosciuta come
i Sumeri ad esempio. Eppure non sarebbe ancora abbastanza.
Grazie ai ricordi ricostruiti dal Soggetto 16, Clay Kaczmarek, altra cavia dell’Abstergo oltre a
Desmond, sappiamo che gli “Assassini” hanno un’origine risalente a più di 75000 anni fa (no, non è
un errore di battitura).
Che Ubisoft sotto sotto voglia portarci tra le città della prima civilizzazione? Non è da escludere a
priori anche se potrebbe essere un titolo ben diverso da come lo conosciamo, per via della tecnologia
estremamente avanzata che renderebbe questo ipotetico Assassin’s Creed praticamente
fantascientifico. Potete già immaginare lame laser e qualunque cosa partorisca la vostra
immaginazione.
Assassin’s Creed: Odyssey ha dunque senso senza la setta degli Assassini/Occulti? Certo che sì, e la
risposta è contenuta già nel titolo: il Credo degli Assassini è il vero punto focale dell’opera e,
volendo essere ancor più precisi, è la parola Creed su cui si concentra davvero tutto il franchise.
Cambiare nome del brand è un’altra possibilità ma questo dipende dalle direttive di Ubisoft per il
futuro della serie, se si vuole proseguire o meno nella direzione sopracitata o creare titoli
prettamente “usa e getta”, con i piccoli collegamenti necessari per giustificare l’utilizzo della
proprietà intellettuale.

Adamo ed Eva

“Coloro che vennero prima” è il fantomatico nome della prima civilizzazione sul pianeta Terra,
antecedente ovviamente alla razza umana. Durante gli eventi della prima trilogia di Assassin’s
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