Perché Mass Effect: Andromeda ha fallito - GameCompass
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Perché Mass Effect: Andromeda ha fallito La saga di Mass Effect è probabilmente una delle più riuscite storie a tema sci-fi, non solo per il meta videoludico. L’opera di Bioware, firmata Casey Hudson ha appassionato milioni di videogiocatori, attratti da un contesto fantascientifico ottimamente costruito in cui i background dei personaggi si intersecano a intrighi politici, antiche leggende e perché no, relazioni amorose. Ma oggi non parleremo di questo: a un certo punto infatti, qualcosa si è rotto, ben prima che Mass Effect: Andromeda entrasse in sviluppo. Cerchiamo di capire cosa non ha funzionato e magari, cosa aspettarci da prossimo capitolo, in sviluppo in parallelo assieme al prossimo Dragon Age. Un finale imperfetto Per chi non conoscesse la storia, Mass Effect narra di Jonh (o Jane) Shapard, comandante dell’Alleanza terrestre nel 2183. Dopo alcune vicissitudini si scopre che la nostra galassia potrebbe essere ben presto sotto attacco da un’antica forza, in grado di estinguere ogni forma organica. Anche se a livello narrativo non presenta particolari picchi, è la sua profondità a colpire: già il primo capitolo vanta oltre 20.000 linee di dialogo, in cui pesa molto più l’atteggiamento con cui si interagisce piuttosto che il cosa si comunica. Mass Effect è dunque qualcosa in grado di regalare centinaia d’ore di gameplay di alto livello, ricca di mondi da scoprire e storie di interi popoli da approfondire. Ma Bioware non è mai stata immune da critiche: col passaggio a Mass Effect 2, molte delle componenti RPG vennero messe da parte, in favore di una maggiore attenzione sulle fasi di shooting e l’azione in generale. Questo non piacque all’inizio alla maggior parte del pubblico, accusando la software house di essersi in qualche modo “adeguata alla massa”; ma come accade
solitamente, ci si concentrò su quel singolo aspetto piuttosto che sull’intero progetto e questo, come vedremo, si è ripetuto più volte. Se è vero che Mass Effect 2 vanta un maggiore focus sull’azione è altrettanto vero che l’intero impianto narrativo e soprattutto il gameplay, è di gran lungo superiore al suo predecessore, trovando il culmine nella Missione Suicida, uno dei picchi più alti della storia videoludica recente: in questo frangente infatti, ogni vostra scelta intrapresa nel corso dell’avventura può decidere la vita o la morte definitiva dei vostri compagni che, di conseguenza, non troveranno posto nel sequel. Dopo diversi anni, Mass Effect 2 è forse riconosciuto come il migliore della trilogia, nonostante Mass Effect 3 ne abbia migliorato ogni caratteristica. Perché? La risposta risiede in un solo e unico motivo: il finale. Mass Effect è una storia di sacrifici, dove si è disposti a sacrificare un’intera specie pur di avere una possibilità di salvare la galassia. Ogni scelta intrapresa, sin dal primo capitolo, trova culmine in queste immense battaglie per la sopravvivenza e il cui epilogo si suddivide in diversi finali. Benché abbiamo tutti un senso ben preciso, è il modo che non è andato giù ai fan, trovando le conclusioni forse un po’ sbrigative e poco chiare, tanto che le speculazioni su quanto avveniva rivaleggiarono con quelle di Dark Souls (ne parleremo in futuro). Bioware corse ai ripari, fornendo gratuitamente a tutti i possessori di Mass Effect 3 il DLC Extended Cut, con cutscene più strutturate, ma anche qualche variazione in grado di modificare le reali conclusioni della saga. Se per alcuni, la software house canadese è stata da elogiare per aver ascoltato e ben interpretato il volere dei fan, dall’altro si è palesata una mancanza di personalità, in grado di difendere il proprio lavoro. Perché alla fine – diciamocelo – le variazioni apportate sono dovute a un manipolo di persone che come noi, hanno semplicemente goduto da spettatori l’immensità dell’opera. Qualcosa dunque cominciava a scricchiolare e, su queste crepe, venne sviluppato Mass Effect: Andromeda. Un’enorme occasione mancata
Dopo il termine di una trilogia così importante, costruirne un seguito non è affatto semplice. Infatti prima del suo reale annuncio, molte furono le teorie dei fan, di cui alcune vertevano verso “antichi” prequel o futuribili sequel. Andromeda è, a conti fatti, un sequel datato 600 anni dopo gli eventi della prima trilogia ma che trova il suo incipit ben prima del termine di Mass Effect 3, con la galassia che escogita un “piano B” qualora le cose si mettessero male: vennero infatti costruite enormi Arche, che avrebbero portato le specie nella vicina galassia di Andromeda, salvandole dall’estinzione. Incredibilmente, presero il via entrambi i piani. Eppure, tutti questi enormi cambiamenti all’interno del gioco, non sembrano tangibili. Non parleremo di Scott o Sara Ryder, i protagonisti, ma di come alcune scelte cozzano violentemente con quanto costruito in precedenza; non parliamo di lore o di incongruenze narrative ma piuttosto di scelte di design vere e proprie. Partiamo con qualcosa di leggermente soggettivo: il nostro lavoro è quello di essere Pionieri e scovare una nuova casa per le specie sopravvissute. Ci capiterà di scandagliare pianeti disabitati, ma c’è un però: il nostro compito di Pionieri è essenzialmente inutile. Questo perché sappiamo già quale pianeta sarà predisposto alla colonizzazione escludendo completamente la scelta del giocatore, compromettendo così non solo il ruolo che ci viene affibbiato ma il senso stesso del gioco. Qual è il senso appunto, di esplorare nuovi pianeti, decidere se sono adatti o meno alla vita, quando la scelta è del tutto assente? Questo problema è forse uno dei più invisibili, abituati forse a seguire, percorsi prestabiliti; eppure è un Mass Effect e di nuova generazione per giunta. L’esser Pionieri fa pendant con un’altra scelta ampliamente discutibile: siamo nella galassia di Andromeda, una galassia evolutasi in maniera completamente indipendente dalla Via Lattea. Eppure, una volta reclutato un’Angara, una specie autoctona, avrà gli stessi poteri a disposizione dei nostri. Questa leggerezza mina pesantemente la credibilità del titolo, creato da un team solitamente estremamente puntiglioso con i dettagli. Ma l’occasione mancata più grande è il non sapere cosa accade alla nostra galassia dopo aver passato tre capitoli a gestire il destino dei suoi abitanti in relazione a un arco temporale di ben 600 anni. Curare o no la Genofagia dei Krogan a cosa ha portato ad esempio? Si sono estinti o hanno ricominciato a dar battaglia a chiunque li ostacoli? In mancanza di una minaccia comune, i popoli della galassia sono ancora in pace? Non lo sapremo mai e questo non saperlo, è probabilmente il
fallimento più grande. La storia di Mass Effect si svolge su più cicli di distruzione della durata complessiva di milioni di anni, con un’attenzione riservata in special modo al tempo in cui giochiamo ovviamente, ma anche a quanto accaduto prima, narrando eventi di migliaia di anni fa. 600 anni in Mass Effect sono un’inezia ma sufficienti per mostrare le conseguenze delle nostre scelte e sacrifici, fulcro centrale della saga. Mancando questo, Mass Effect: Andromeda si è mostrato inadeguato a portare avanti un progetto lungo 10 anni, nonostante il titolo sia valido sotto moltissimi punti di vista. Complice questi elementi, oltre ad alcuni problemi tecnici e un data di rilascio in mezzo a The Legend of Zelda: Breath to the Wild, NieR: Automata, Horizon Zero Dawn e Nioh, Mass Effect: Andromeda fu un fiasco, non riuscendo a conquistare ne il cuore dei fan ne nuovo pubblico. Non si sa ancora se il prossimo sarà Mass Effect: Andromeda 2, nonostante un finale del primo capitolo che faceva presagire l’inizio di una nuova trilogia. Attendiamo riscontri, magari dal prossimo E3, sperando che le critiche abbiano risollevato uno dei team migliori in circolazione. Food Party: prodotti alimentari nei videogiochi L’alimentazione è un bisogno primario degli esseri umani e, da giocatori, possiamo dire che è forse più forte nei gamer. Dobbiamo pur smettere di giocare, spegnere la console o il PC per poi addentare un bel panino, goderci un gustoso piatto di pasta o, visto che le calorie bruciate di fronte allo schermo non sono tantissime, rifocillarci con della sana frutta. Non tutti i videogiochi ci spingono a mangiare: magari passando da tutti quei fast food in Dead Rising o guardando quei cosciotti di maiale in Castlevania potrebbe venirci un insolito languorino, ma che succede quando il cibo stesso diventa il protagonista del gioco? Oggi, un po’ come abbiamo fatto tempo fa con le celebrità, vogliamo fare un excursus di sapori – più o meno sani – e gaming dando uno sguardo ad alcuni titoli il cui fine non è necessariamente la produzione di un gioco avvincente ma venderti un prodotto! In questo articolo troverete dei giochi il cui fulcro è la promozione di un brand alimentare, perciò, salvo casi eccezionali, non parleremo di casi product placement come il KFC in Crazy Taxi, le promozioni e gli oggetti speciali di Subway in Uncharted 3: Drake’s Deception o le mentine Airway in Splinter Cell: Chaos Theory. Al solito, la lista non sarà completissima perciò se ci dimentichiamo qualcosa fatecelo sapere pure nei commenti! (COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA, COMPRA!) Domande esistenziali Sin dall’alba della nascita dei prodotti di consumo l’uomo è da sempre stato messo di fronte una domanda tanto semplice quanto decisiva: Coca Cola o Pepsi? Sin dal loro arrivo sul mercato, più o meno intorno alla fine del ‘800, le due compagnie si sono letteralmente odiate, una guerra combattuta prodotto su prodotto. Nel 1983, visto che Pepsi nel 1975 diede un duro colpo alla compagnia rivale con dei test a occhi bendati nei supermercati americani, Coca Cola distribuiva alle
convention un gioco per Atari 2600 senza etichetta, insieme alla console (che per la crisi, tanto, costavano pochissimo), intitolato Coke Wins ma più in là rinominato dal pubblico Pepsi Invaders per via della sua estrema somiglianza con Space Invaders (tanto che, infatti, il titolo nasce dal codice madre del gioco Taito ed è pertanto considerabile, in tutto e per tutto, un hack). Il titolo, sviluppato da Atari stessa, mirava a promuovere il marchio Coca Cola, infatti lo scopo del gioco era annientare la schiera di navicelle che in cielo formavano sei pericolosissime scritte “PEPSI“, capitanate da altrettanti alieni residuati da Space Invaders, e quando si vinceva appariva la scintillante scritta “Coke Wins“; tuttavia, essendo il marchio del nemico così in bella vista, sembrava che stessero promuovendo la compagnia rivale anziché il promotore stesso e perciò oggi in molti vedono in questo gioco l’esempio lapalissiano di un colpo di zappa sui piedi. Il gioco non fu mai venduto al pubblico ed è pertanto uno dei più rari di sempre: delle copie sono state vendute su eBay per prezzi che oscillavano dai 1000 ai 2000 dollari americani. Se volete provare questo rarissimo gioco vi converrà ovviamente provarlo su un emulatore… oppure, potreste comprare una Coca Cola per 2 euro al bar! Nel 1983, su Atari 2600 e Intellivision, ci fu un’altra famosa promozione, stavolta per un prodotto assente nei supermercati italiani: parliamo di Kool-Aid Man, gioco che promuove la famosa bevanda fruttata americana “fai-da-te”. Su Atari 2600 controlleremo la famosa brocca animata che da tanti anni promuove il brand e lo scopo del gioco è evitare i Thirsties in corsa, perché altrimenti verremo schiantati a destra e a manca nell’area di gioco e fermarli quando allungano le cannucce per bere dalla pozza di Kool-Aid nel fondo. Poco tempo dopo, per Intellivision, uscì un gioco in cui il nostro obiettivo era quello di controllare due bambini intenti a collezionare i tre ingredienti principali per fare una bella brocca di Kool-Aid (la bustina con la polvere, dello zucchero e una brocca di acqua ghiacciata… sbaglio o stiamo facendo pubblicità gratuita?). Anche qui, i Thirsties, i nemici di Kool-Aid Man, saranno alle nostre calcagna e se ci prendono due volte per noi sarà game over; ma se riusciremo a preparare la bevanda in tempo chiameremo la cara brocca sorridente e goderci il Kool-Aid in santa pace!
(Oh yeah!) Basta aperitivi, abbiamo fame! Avete fame? Non vi va di andare in cucina a preparavi un hamburger? A quanto pare, nell’anno 2025 (dunque fra sette anni, tenetevi forte!), i ricercatori Burger King creeranno un Whopper così buono che non dovrete spostarvi dal divano, sarà lui a venire da voi! In Whopper Chase, gioco del 1987 per Commodore 64, ZX Spectrum e MSX, controlleremo il famoso hamburger di casa Burger King alla volta delle fauci di un avventore che lo chiama per telefono; per strada dovremo eliminare pomodori e cetrioli ostili e chef gelosi a colpi di maionese in eccesso (sapete, quella che scola via ai lati del panino morso dopo morso). Il gioco è stato prodotto in Spagna su musicassetta ed era possibile ottenerlo con un Whopper solo nei Burger King spagnoli; al di là dell’intento commerciale la diffusione è stata un successo e come conseguenza i prezzi su eBay, oggi, non sono per niente proibitivi nonostante la circoscrizione al territorio iberico. Di sicuro, nel 1987, i bimbi spagnoli saranno andati ben più volentieri al Burger King con questa scusa (e forse saranno anche ingrassati parecchio)! Ronald McDonald alla riscossa! Poteva McDonald’s tirarsi fuori dalla guerra dei software digitali per promuovere i loro ristoranti fast food per famiglie? Nel 1992 arriva M.C. Kids (non Mc Kids…) su Nintendo Entertainment System, noto come McDonald’s Land in Europa, un grazioso platformer ispirato primariamente a Super Mario Bros. 3 per quel che riguarda il design dei livelli e l’overworld diviso in sette mondi. Contrariamente a quel che si possa pensare, il gioco non mette in risalto i prodotti McDonald’s ma
di certo è una gran bella presentazione delle mascotte dei loro ristoranti come Ronald McDonald, Birdie, Grimace e l’avido Hamburglar che in questo gioco ruba una borsa magica al famoso (e spaventoso) clown. Per avanzare nell’overworld ci servirà collezionare delle carte da consegnare alle mascotte una volta terminato un livello – gameplay che verrà ripreso anni più tardi nel terribile Spartan per Nintendo Switch –; di certo non è fra i platformer migliori che il NES possa offrire ma per essere un gioco su licenza e, in tutto questo, anche una chiara trovata commerciale per promuovere i ristoranti McDonald’s il risultato non è male e il gioco, nonostante alcuni difetti, risulta tuttavia godibile. Dopo questo titolo, McDonald’s rientrò nel mondo dei videogiochi con altri due platformer per Sega Mega Drive o Genesis in Nord America: il primo è Global Gladiators del 1992, un gioco in cui due ragazzini di nome Mick e Mack vengono catapultati nel loro fumetto preferito (guarda caso pieno di doppi archi dorati) grazie a una magia di Ronal McDonald, e l’altro è McDonald’s Treasure Land Adventure del 1993. L’ultimo titolo è davvero niente male, specialmente perché dietro allo sviluppo di tale gioco c’è il leggendario studio Treasure, noto per aver prodotto alcuni dei migliori videogiochi mai sviluppati come Gunstar Heroes, Dynamite Headdy, Guardian Heroes, Radiant Silvergun e Ikaruga! Che dire? Anche i migliori hanno bisogno di un Big Mac di tanto in tanto!
I’ vogl na pizz!… Ai napoletani sicuramente non piacerà ma per gli americani è una garanzia quando non ci si vuole avventurare in un ristorante italiano sconosciuto: Domino’s Pizza è un brand molto famoso negli Stati Uniti e dal 2015 è presente anche nel territorio italiano con otto ristoranti a Milano e uno a Bergamo. Il titolo che vedremo adesso è Yo! Noid, videogioco con protagonista il Noid, protagonista e mascotte delle pubblicità di questo popolare brand americano. A differenza dei giochi McDonald’s il gioco, che in realtà era un titolo per Famicom di Capcom originariamente uscito come Kamen no Ninja Hanamaru, risulta molto carente sia sul piano della dinamicità, offrendo un gameplay poco bilanciato per il fatto che il Noid viene annientato solo dopo un colpo e una grafica buona ma confusionaria sul piano dell’uso dei layer di scorrimento. Ad aggravare la situazione sono presenti le orrende sezioni dei pizza eating contest in cui bisognerà mangiare più pizza di un altro Noid; queste sono delle vere e proprie boss battle in cui regna la casualità, in quanto i due partecipanti pescheranno in maniera radomica un numero da un selettore e, il partecipante col numero più alto aggiungerà un punto sul suo pizza meter. Meglio andare a mangiare una pizza!
… e una Pepsi! Più tardi, nel 1999, anche Pepsi si buttò nel mercato videoludico proponendo un titolo a oggi molto discusso, una vera e propria bestia rara, visto che uscì solo in Giappone, ma molto divertente e soprattutto bizzarra. Sviluppato dallo studio giapponese KID, Pepsiman per PlayStation è una sorta di gioco d’azione in cui controlleremo l’iconico (non in Italia) supereroe gasato nel intento di portare una Pepsi a chi ne ha bisogno, come un militare nel deserto; il gioco si presenta come uno runner sullo stile di Metro Cross o Penguin Adventure – oggi sarebbe un gioco ideale per smartphone – e bisognerà evitare bizzarri ostacoli come dei lavori in corso per strada, stendibiancheria nei giardini, camion carichi di Pepsi e lattine giganti che ci inseguono come il masso all’inizio di Indiana Jones e i Predatori dell’Arca Perduta. Stranamente, il gioco è interamente doppiato in inglese, il che lo rende tranquillamente giocabile per chi non parla giapponese, e con alcune cutscene girate a Los Angeles che includono la presenza dell’attore Mike Butters, ricordato per essere stata la prima vittima del killer in Saw: l’Enigmista; a quanto pare era programmata una release internazionale ma alla fine il gioco rimase relegato al Giappone. Il gioco, tuttavia, non segna la prima apparizione di Pepsiman in un videogioco; il supereroe era presente nel picchiaduro Fighting Vipers nel 1996 per Sega Satun (di cui potrete vedere un footage nel fondo di questo articolo sul Polymega, anche se Pepsiman non è presente) dove divenne un personaggio sbloccabile grazie a un accordo pubblicitario fra Pepsi e Sega.
Prima di concludere il discorso di questi particolari titoli promozionali vogliamo parlare un secondo dei “videogiochi originali” presenti nelle confezioni delle merendine Ferrero. A oggi è molto difficile tracciare tutte le “release” di questi titoli, che comprendono titoli del calibro de Gli Straspeed e la Strarace e il videogioco de i Magicanti, delle mascotte Ferrero durate per poco tempo, ma vale la pena di ricordare lo spettacolare Fresh Adventure, un lentissimo e davvero scadente platform con il pinguino del Kinder Pinguì e Fetta al latte; perché spettacolare? Per questo esatto motivo: GameCompass per la vostra salute Ci sono ancora molti giochi che promuovono brand alimentari, come Cool Spot per le console 16 bit che promuoveva la 7-Up, Chester Cheetah: Wild Wild Quest per Sega Mega Drive e Super Nintendo che promuoveva il brand di chips Cheetos e persino i recenti Dash of Destruction e Crash Course per Xbox 360 per promuovere il brand Doritos. Tuttavia, i giochi che abbiamo promosso finora contengono prodotti ipercalorici che nel peggiore dei casi, possono portare a malattie come il diabete. Per scongiurare casi come questi la Novo Nordisk, una compagnia danese specializzata nel trattamento del diabete e nella produzione di insulina, si è buttata nel ring nel 1992 con Captain Novolin per SNES, un titolo sviluppato da Sculptured Software per sensibilizzare i bambini affetti da diabete (ma solo quelli col Super Nintendo. Al diavolo quelli col Mega Drive o i computer!).
Nel gioco ci verranno spiegate le migliori soluzioni per trattare questa brutta malattia e per proseguire le avventure dell’unico supereroe affetto da diabete di tipo 1 bisognerà di tanto in tanto rispondere a qualche domanda sull’argomento; sia genitori che bambini hanno trovato questo gioco molto utile nonostante il gameplay poco interessante ma bisogna anche ammettere che mirare alla sensibilizzazione a un problema così grande e spesso sottovalutato è un obiettivo veramente nobile… il vero problema, giusto per concludere in bellezza, era che il gioco veniva venduto a prezzo pieno e nessuna parte dei proventi venne investita per la ricerca; dunque, alla fine dei conti, il vero obiettivo del gioco era venderti l’insulina della Novo Disk! Dunque, state attenti a cosa mangiate, non andate a mangiare cibo spazzatura di frequente o altrimenti vi toccherà giocare con Captain Novolin! (Bene Captain Novolin, ha salvato il mondo! Per festeggiare che ne direbbe di un bel pezzo di tor… ops…) Ode a Sega Dreamcast «It’s better to burn out than to fade away» diceva Neil Young in My my, hey hey, citata anche da Kurt Cobain dei Nirvana nella sua lettera di suicidio. “Meglio ardere in una fiamma piuttosto che spegnersi lentamente” probabilmente era anche la mentalità di Sega verso la fine degli anni ‘90, quando per riprendersi dal fallimento commerciale e, in parte, progettuale che è stato il Saturn tirarono fuori dal cilindro il Dreamcast. L’ultima console che ho veramente amato, insieme al Gamecube di Nintendo, ma questa è un’altra storia…
Le cause del fallimento commerciale di Dreamcast sono note a tutti gli appassionati: una campagna marketing discutibile come, per esempio, la sponsorizzazione sulle maglie da calcio dell’Arsenal, Sampdoria, Saint-Etienne e Deportivo La Coruña. L’assenza del supporto di due grosse case di terze parti come Electronic Arts e Squaresoft (la fusione con Enix sarebbe arrivata solamente nel 2003), il formato del GD-ROM, più economico di un ancora acerbo DVD, ma che spalancava le porte a una pirateria forsennata, e soprattutto una macchina e un marchio inarrestabile come PlayStation che si era imposta con forza sul mercato grazie a un marketing aggressivo e una libreria di giochi completa come raramente s’era vista prima di allora. Ma non siamo qui a parlare delle cause del ritiro di Sega dal mercato hardware: piuttosto, ci concentreremo su quanto Dreamcast sia stata una console rivoluzionaria, capace di sfornare idee che all’epoca potevano sembrare un azzardo, ma che in realtà hanno modellato il mondo dei videogiochi in quello che è al giorno d’oggi. Può sembrare assurdo, ma pensiamoci: Dreamcast arrivava nelle case con il pieno supporto a Windows CE (direttamente sviluppato da Microsoft stessa, con tanto supporto alle DirectX!) e con un modem a 56kbps. Il sistema operativo della casa di Redmond era più pensato per gli sviluppatori rispetto all’utente medio, visto che l’inclusione sulla console Sega era atta a facilitare una conversione dei giochi Dreamcast verso il PC. Ma includeva alcune chicche da non poco, come, per esempio, la possibilità di importare file immagine direttamente nelle VMU (le particolari memory card dotate di schermo LCD e plancia di comando in stile Game Boy) per poi usarle in giochi come Jet Set Radio (a tal proposito, il primo gioco in grafica cel-shading). Un’accoppiata desktop-console che è stata riproposta ben diciotto anni dopo con l’avvento di, Xbox Play Anywhere e la combo Xbox One-Windows 10. Il modem incluso nella console anticipò solamente di pochi mesi la direzione intrapresa dai concorrenti: se la stessa Microsoft con la prima Xbox e il lancio di Xbox Live dettò i tempi per il futuro del gaming online su console, fu Sega a muovere il primo passo, con il lancio di SegaNet. Servizio in abbonamento a quasi 22$ al mese, permetteva agli utenti di navigare sul web, chattare e mandare email, oltre a giocare a titoli inclusi nell’abbonamento (PlayStation Plus e Xbox Play With Gold docet). Purtroppo, non si andò mai oltre al solo Chu Chu Rocket tra i giochi presenti dal servizio, ma Dreamcast poteva dire la sua grazie a NFL 2K1, i buoni port da PC di Quake III
Arena e Unreal Tournament, e soprattutto, il primo MMORPG per console: Phantasy Star Online. Vorrei soffermarmi un attimo proprio su quest’ultimo: purtroppo non ho mai avuto la possibilità di giocarci online, visto che i servizi di Dreamcast in Italia erano gestiti da Albacom (!!!), però mi accontentavo delle quest offline e delle guide spulciate sul web e su riviste come Dreamcast Arena (del quale custodisco gelosamente gli ultimi due numeri). Bastava questo a un allora ragazzo tredicenne per sognare epiche storie come quelle che succedevano su PC con titoli come Ultima Online o Dark Age of Camelot. Se adesso su PlayStation 4 abbiamo la possibilità di giocare a MMORPG come Final Fantasy XIV: Stormblood, si deve tutto a Phantasy Star Online. Mettendo da parte le innovazioni sull’hardware, come il controller per la pesca che poteva esser usato per giocare a Soul Calibur grazie ai sensori di movimento inclusi, rendendolo di fatto un Wiimote ante litteram o il Dreameye, una webcam che avrebbe anticipato di molti anni la Eyetoy di Sony, di Dreamcast si può lodare soprattutto la filosofia libera di Sega data alle case di sviluppo, interne e non, che decidevano di supportarne la causa. Se dal freddo lato del marketing, il mancato supporto dato da sviluppatori influenti è stato una delle cause della sua fine prematura, dal lato che più ci interessa, quello del giocatore, ne è stata la sua fortuna. Senza la presenza di Electronic Arts non avremmo avuto gli sportivi di Visual Concepts da cui sarebbero nate le serie sportive di 2K e NBA. Niente JRPG di Squaresoft? Nessun problema: largo agli eccezionali Skies of Arcadia, Grandia II e l’innovazione dei quick time event arrivata con i due Shenmue di Yu Suzuki. Strada libera a prodotti visionari come Jet Set Radio, Rez e soprattutto a perle arcade convertite alla perfezione come Ikaruga, Sega Rally 2, Virtua Striker 2, e Street Fighter III: 3rd Strike su tutti. Soprattutto quest’ultimo è considerato uno dei titoli più “longevi” della console, grazie allo status di culto di cui gode nel circuito professionistico dei picchiaduro. Stare qui a scrivere di quanto avrebbe potuto dare Dreamcast al mondo videoludico, dopo vent’anni dalla sua uscita in Giappone, e diciannove dall’arrivo nel vecchio continente, fa quasi male. Forse il più spettacolare autogol della storia videoludica. Una console nata sotto una cattiva stella che,
nonostante tutto, continua a raccogliere consensi anche postuma. Sia grazie a una libreria dalla qualità veramente alta e con tante killer application, che grazie al continuo lavoro di piccoli sviluppatori e homebrew che continuano a far uscire titoli ancora oggi. Mi piace paragonare Dreamcast a Jeff Buckley, uno dei talenti più cristallini della musica degli ultimi 30 anni, che abbiamo perso troppo presto e solamente dopo un incredibile e, purtroppo unico, disco come Grace. La macchina dei sogni di Sega resta l’ultimo epitaffio dell’azienda di Tokyo sul lato hardware, e nonostante si sia convertita con successo come software house e publisher di titoli come Yakuza, Bayonetta e Football Manager, il vuoto lasciato da Dreamcast resta ancora incolmabile nel mio animo di videogiocatore. Dal 2001 a oggi non sono più riuscito a trovare interesse nel mercato console: troppo uniforme e poco propenso ad alternative videoludiche di spessore, se non contiamo le gemme indie. È sotto questo punto di vista che sento la mancanza di una console come quella di Sega, capace di tenermi incollato per ore davanti al televisore. Bono Vox degli U2 disse di Buckley che era una goccia pura in un oceano di rumore. Credo che non ci sia definizione migliore che possa accomunare il cantautore americano e Sega Dreamcast. Calcio e videogiochi: un legame radicato nel tempo Negli ultimi anni il fenomeno degli eSport ha dimostrato quanto sia forte il legame tra il mondo dei videogiochi e quello dello sport, soprattutto se consideriamo il formarsi di squadre e leghe professionistiche, come la Overwatch League o il tesseramento di molti pro player da parte delle squadre di calcio, com’è successo in Italia con Mattia “Lonewolf92” Guarracino tesserato dalla Sampdoria. In realtà, questi due mondi avevano già molte cose in comune, già a partire dalla metà degli anni ‘80: stiamo parlando delle sponsorizzazioni di vari publisher e sviluppatori sulle maglie di molte squadre di calcio dal blasone nazionale e internazionale. In questo numero di EVOL faremo un excursus storico su questo tema.
Partiamo dagli inizi: dobbiamo la palma di pionieri del genere alla Commodore, allora tra i leader del settore videoludico. Dal 1988 fino al ‘92/’93, l’azienda fondata da Jack Tramiel è apparsa sulle maglie del Chelsea: i tempi dei petrodollari di Roman Abramovich e del tatticismo di Maurizio Sarri erano ancora lontani, visto che la squadra londinese retrocesse in Second Division (la attuale Championship) alla fine della stagione ‘87/’89, salvo poi ritornare in First Division (ora Premier League) dopo un anno per poi veleggiare in zone di metà classifica. Nella stagione ‘93/’94 vi fu una piccola sostituzione: da Commodore si passò ad Amiga, però senza cambiare risultati, visto che la squadra allora allenata da Glenn Hoddle finì la stagione al quattordicesimo posto, perdendo inoltre la finale di FA Cup contro il Manchester United. Commodore nel frattempo finì anche sulle maglie del Bayern Monaco in Germania dal 1984 fino al 1989, ottenendo risultati decisamente migliori rispetto ai blues, visto che i bavaresi vinsero ben quattro scudetti, una coppa e una supercoppa di Germania. Risultati analoghi anche in Francia, visto che il Paris Saint Germain, dal 1991 al 1995, vinse due coppe di Francia, una coppa di lega e un campionato nazionale. Passiamo a Sega, che cominciò a sponsorizzarsi in casa con il JEF United, squadra di Ichihara che dal 1992 al 1996 ottenne solamente dei risultati da mezza classifica. Ben più celebre, invece, l’operazione di marketing che portò Arsenal, Deportivo La Coruña, Saint-Etienne e Sampdoria ad avere il logo di Sega Dreamcast sulle maglie. Fu un’operazione che per molti decretò il flop dell’ultima console della casa giapponese, anche a causa del costoso accordo con i “gunners”. Alla fine, solamente la squadra allenata ai tempi da Arsene Wenger ottenne dei buoni risultati nel triennio che va dal 1999 al 2002, con un Charity Shield (oggi Community Shield), una FA Cup e un campionato vinto. La Sampdoria finì quinta in Serie B per le due stagioni (1999-2002), mentre la singola stagione (2001) della console Sega sulle maglie della squadra francese e spagnola non regalarono molte gioie, visto che il Deportivo arrivò secondo e staccato di sette punti dal Real Madrid e, il Saint-Etienne, addirittura retrocesse in Ligue 2. Curiosamente, Sega aveva già avuto legami con il calcio nel nostro paese, con le indimenticabili pubblicità di Master System II, Game Gear e Mega Drive con protagonisti Walter Zenga, Gianluigi Lentini e l’attuale CT della nazionale italiana Roberto Mancini, allora stella della
Sampdoria campione d’Italia nel 1991. Dopo Sega è il turno di Nintendo: l’associazione più nota è quella con la Fiorentina dal 1997 fino al 1999, anni dove i viola finirono nella parte alta della classifica andando a un passo dallo scudetto nel 1998 (alla fine ottennero un terzo posto), sfumato per il grave infortunio ai danni di Gabriel Omar Batistuta, capitano e stella della squadra. Ben prima invece, nella stagione 1992-1993 il Siviglia di Diego Armando Maradona, sponsorizzato dal Super Nintendo, concluse la stagione al dodicesimo posto. Invece, in madrepatria, l’azienda di Kyoto detiene il 16,6% della proprietà del Kyoto Sanga FC, squadra che vivacchia in seconda divisione e che ha avuto il suo piccolo momento di gloria nel 2002, con la vittoria della Coppa dell’Imperatore. Storia travagliata, invece, per quanto riguarda Atari: se gli appassionati si ricorderanno della maglia del Lione dal 1999 al 2001 con i loghi dell’azienda, oltre che di Infogrames, e capace di vincere una coppa di lega francese, pochi sapranno che la compagnia fondata da Nolan Bushnell e Ted Dabney era coinvolta, sotto l’agglomerato di aziende della Warner Corporations, in una importante fetta dei New York Cosmos e della North American Soccer League. All’epoca il calcio statunitense era fortemente amatoriale, ma grazie alla mostruosa disponibilità economica derivante dal gruppo Warner, i Cosmos riuscirono ad acquistare Pelè, probabilmente il più forte calciatore di tutti i tempi. La compagine della grande mela riuscì a vincere ben tre campionati dal 1977 al 1980, non solo grazie all’apporto di “o rey”, ma anche con l’arrivo di vecchie glorie sulla via del ritiro, come Franz Beckenbauer o la leggenda della Lazio, Giorgio Chinaglia. Purtroppo la NASL, l’allora campionato di calcio nordamericano, cessò di esistere nel 1984, con squadre soffocate da debiti e con sponsor sull’orlo del fallimento: tra di esse vi era proprio Atari, reduce dal flop commerciale del tie-in di E.T. che, non solo causò il celebre crash dei videogiochi, ma anche il fallimento sia dei New York Cosmos, che della NASL stessa.
L’unica big che manca al riassunto è Sony: pur essendo conosciuta anche per il marketing rivoluzionario e al passo con i tempi, l’azienda giapponese ha solamente sfruttato il marchio PlayStation per sponsorizzare l’Auxerre, squadra francese che milita attualmente in Ligue 2 e che, dal 1999 al 2006 ha solamente vinto due coppe di Francia. Ben più nota invece, la sponsorizzazione dell’azienda madre sulle maglie della Juventus dal 1995 fino al 1998, anni dove la “vecchia signora” vinse due scudetti, due supercoppe italiane, una supercoppa UEFA, una coppa intercontinentale e la Champions League del 1996, vinta contro l’Ajax. Concludiamo con un rapido excursus riguardanti altre compagnie: Capcom sulle maglie del Cerezo Osaka dal 1994 al 1996, Konami su quella dei Tokyo Verdy dal 1999 al 2001, la brevissima parentesi natalizia di Pro Evolution Soccer 2009 con la Lazio, il rivale FIFA con lo Swindon Town dal 2011 al 2014, Football Manager sponsor del Watford nella stagione 2012-2013, Ocean Software che sponsorizza Jurassic Park nelle maglie dell’FC Martigues nel 1993 e la partnership tra Eidos e il Manchester City dal 1999 al 2002.
E attualmente? Le uniche presenze videoludiche nel calcio attuale sono limitate solamente a due squadre: una è l’AFC Wimbledon, squadra di League One inglese (il corrispettivo della nostra Lega Pro, per intenderci) che, dal 2002 a oggi viene sponsorizzata da Football Manager, venendo pure usata nelle immagini dimostrative del popolare manageriale calcistico di Sports Interactive. L’altra squadra ad avere forti legami col settore videoludico sono i Seattle Sounders della Major League Soccer americana, sponsorizzati da Microsoft: nel 2009-2010 con il logo di Xbox Live e dall’anno successivo semplicemente dalla console di casa Redmond. I Sounders vantano nel loro palmares una vittoria della MLS nel 2016 e una U.S. Open Cup nel 2014. La storia ci insegna che il calcio, ma anche molti altri sport (su tutti il wrestling, e cito due nomi: Xavier Woods e Kenny Omega, quest’ultimo addirittura nei panni di Cody in un trailer per Street Fighter V) hanno un legame fortissimo con i videogiochi, e il recente interessamento del CIO per gli eSport ha radice ben più profonde del semplice interesse economico. Hi,my name is… Gōichi Suda In quali termini e in quale misura un creativo può essere definito “autore”? Accade quando crea qualcosa di innovativo e originale? O quando plasma un proprio personale linguaggio all’interno del medium di riferimento? Se dovessimo dare una risposta affermativa a queste domande, allora Gōichi Suda (in arte Suda51) rientrerebbe di diritto nella categoria. Classe 1968, Suda51 è riconosciuto all’unanimità come uno dei più eccentrici game designer della storia videoludica.
Il suo percorso lavorativo inizia nella Human Entertainment come scenario writer per la serie wrestling Super Fire Pro Wrestling su Super Nintendo. Ben presto si rende conto che lavorare per conto di terzi e avere poco margine creativo all’interno della produzione non è il massimo delle sue aspirazioni. Con un gesto provocatorio conclude la sua esperienza alla Human scrivendo il controverso finale del quarto capitolo della saga sportiva, creando un cortocircuito narrativo senza precedenti per quei tempi. Trasferisce la sua passione altrove entrando a far parte della Grasshopper Manufacture, divenendone presto CEO e produttore esecutivo. Qui Goichi è libero di esprimersi al meglio ed è qui che crea il suo primo personalissimo lavoro: The Silver Case (1999). Si tratta di una visual novel dalla forti tinte thriller, nella quale saremo chiamati a investigare su una serie di macabri omicidi procedendo parallelamente attraverso due punti di vista diversi. Uscito nel solo mercato orientale sulla prima PlayStation, il gioco è il chiaro esempio della visione proto-punk del game designer. Declinando un’estetica forte e stridente a un gameplay molto semplice nelle meccaniche, quasi minimale nella sua voglia incontrollata di porre il giocatore nella condizione di spettatore passivo dei fatti narrati, concedendo una limitata interazione attraverso puzzle ambientali. Nel 2017, un po’ a sorpresa, produce un sequel-remake per console di attuale generazione: The 25th Ward: The Silver Case, mantenendo intatta quell’aurea inquietante tipica del primo capitolo. Chiusa la parentesi Silver Case, Suda ha ancora voglia di sperimentare con il genere delle avventure grafiche in terza persona. Inizia a lavorare così a un progetto insolito: un misto tra Alice nel Paese delle meraviglie e un incubo lisergico à la David Lynch; quello che ne viene fuori è lo strambo Flower, sun and rain (2001). Uscito ai tempi di PlayStation 2 solo sul mercato giapponese, il gioco vede protagonista l’enigmatico Sumio Mondo, un tuttofare abile nel risolvere qualsiasi tipo di problema attraverso l’uso di una valigetta capace di connettersi (letteralmente) a tutto ciò che circonda il protagonista. Dietro storie di fantasmi, persone scomparse, attacchi terroristici, spiagge dorate e piscine luccicanti si nasconde un gameplay vecchio stampo, focalizzato nella risoluzione di puzzle matematici disseminati nell’area d’azione. Il giocatore questa volta ha una maggiore possibilità di interazione, dialogando con le strane personalità che popolano il suggestivo hotel da cui prende
nome il gioco. Il designer calca la mano sulle assurde situazioni in cui si viene a trovare Mondo e gli strampalati dialoghi con i personaggi secondari, dai quali estrarre indizi per la soluzione dell’enigma. Suda riesce a creare un’atmosfera rilassata e solare ma allo stesso tempo ambigua, con dettagli e tinte alle volte disturbanti. Il tutto accompagnato dalle splendide composizioni di Masafumi Takada. Sette anni dopo l’uscita su PS2 la casa di produzione decide di lanciare un remake per la portatile Nintendo DS, aggiornando il sistema di controllo al touch screen e con un adattamento sul fronte tecnico, dando questa volta la possibilità anche ai giocatori europei e americani di mettere mani al gioco. Passano quattro anni prima che Suda51 ritorni dietro la cabina di regia. In questo tempo trascorso la GH dietro la sua direzione produce numerosi giochi dall’esito commerciale altalenante: si passa dal prodotto discreto che riesce a trovare un posto nel mercato, al fallimento su tutta la linea (chi ha avuto modo di giocare a Michigan: Report from Hell ne sa qualcosa). Poco budget e tempi di sviluppo molto stretti per un piccolo team che spesso viene affiancato da sviluppatori esterni quando si tratta di giochi su commissione. È nel 2005 che Goichi torna sulle scene con il suo titolo più conosciuto e controverso. Sono i tempi in cui Nintendo rincorreva le terze parti per tappare i buchi del parco titoli del suo Game Cube, siglando un accordo con Capcom per una serie di 5 esclusive (quasi tutte temporanee) che avrebbero fatto la gioia dei consumatori. Tra i titoli si nascondeva un allora misterioso Killer 7, gioco di cui si sapeva molto poco e quel tanto che si conosceva non faceva altro che confondere ulteriormente le acque. Uno sparatutto su binari in terza persona con grafica cel-shading, iper violento e oscuro. Dietro il progetto si nascondeva Goichi in qualità di director sotto la supervisione attenta della Capcom, lasciando però ogni libertà creativa. Probabilmente l’opera più matura e personale di Suda, nonché il gioco che ha sdoganato il suo nome in tutto il mondo, rendendolo una figura atipica nel settore. Il gameplay di Killer 7 fonda le sue basi sulla possibilità di controllare sette diversi personaggi (i sette Killer Smith), ognuno con il suo corredo di skill e abilità esclusive. Si corre in corridoi stretti e claustrofobici, seguendo percorsi prestabiliti che a loro volta si diramano in bivi e strade secondarie. Il giocatore mantiene la concentrazione sull’eventuale presenza degli Heaven Smile, disturbanti creature antropomorfe che avanzeranno verso il giocatore fin quando verranno abbattute sparando in precisi target point utili per guadagnare blood da spendere nel potenziamento delle caratteristiche dei personaggi giocabili. In tutto questo non mancano i classici puzzle ambientali da risolvere tramite il ritrovamento di oggetti lungo il percorso. Con Killer 7 la follia visionaria di Suda raggiunge traguardi altissimi creando un corollario di personaggi secondari inquietanti e moralmente ambigui. La trama che sorregge il tutto è volutamente criptica e soggetta a diverse interpretazioni, toccando temi importanti come lo smercio di armi chimiche, i giochi di potere politico e le violenze psico-fisiche insite nella società dei tempi moderni. Pone continue riflessioni sulla natura sadica dell’animo umano e sul rapporto che questo ha con le entità superiori; domande che sapientemente vengono lasciate in sospeso. Non un gioco perfetto, nei suoi limiti tecnici e strutturali funziona solo discretamente, ma rappresenta di certo una mosca bianca nel panorama videoludico, riuscendo a mantenere il suo fascino morboso ancora oggi: è notizia recente che la Grasshopper rilascerà il gioco sulla piattaforma Steam nell’arco del 2018, tredici anni dopo la prima release.
Dopo l’exploit Killer 7, Suda si concede qualche anno di stop tornando a produrre con la sua piccola casa di sviluppo. Tra i tanti titoli a marchio Grasshopper è sicuramente Contact (2006) a farsi notare maggiormente. Sviluppato per la portatile a due schermi di Nintendo, Contact è un bizzarro GDR con fasi gestionali; vede come protagonista uno sventurato ragazzino sperduto sopra un’isola deserta accompagnato da un singolare scienziato rinchiuso nella sua astronave. Un piccolo gioiello di stile che vede il nostro Goichi come collaboratore esterno nella creazione del concept e nell’elaborazione del gameplay. Nel 2007, il genio inquieto di Suda51 ritorna prepotentemente con l’uscita di No More Heroes per la nuova console Nintendo Wii. L’idea del designer era di riuscire a sfruttare a dovere i sensori di movimento della nuova macchina Nintendo, senza rinunciare alle sue classiche trovate fuori dagli schemi ed alla sua ossessiva ricerca per l’estetica a 8 bit. Quello che ne viene fuori è un godibilissimo action in terza persona interrotto qua e là da alcuni minigiochi facilmente dimenticabili e da una pessima fase open world. Con No More Heroes (come l’omonimo album degli The Stranglers) Suda consegna alla storia del videogioco uno personaggi più carismatici e meglio riusciti della sua carriera. La figura di Travis Touchdown colpisce per la svogliata personalità, il linguaggio sboccato e la sua ossessione costante per il gentil sesso. Travis dovrà scalare la classifica mondiale dei più grandi cacciatori di taglie nel tentativo di portarsi a letto l’organizzatrice dell’evento. Tutto questo si traduce in una struttura di gioco molto classica: livello da esplorare, mob da uccidere e il boss di fine zona da deflagrare senza pietà. Il gameplay regge bene per metà del percorso se non fosse per la noiosa fase di accumulo di denaro, passaggio obbligatorio per proseguire nella scalata della classifica. A metà dell’avventura, la pesantezza e la ripetività delle azioni iniziano a farsi sentire non poco. Per quanto riguarda lo stile grafico, Suda si diverte a infarcire il gioco di citazioni Pop e conferisce all’intera produzione un sapore vintage godibilissimo ( i retrogamer ne andranno pazzi). Fu un discreto successo commerciale, tanto da convincere la produzione a lavorare ad un seguito (No More Heroes 2: Desperate Struggle, non diretto da lui personalmente) e un remake per console in alta definizione. Considerato da gran parte della critica come il manifesto stilistico del designer nipponico, NMH è sicuramente un buon inizio per conoscere la visione distorta di questo autore, oltre ad essere il suo brand più famoso.
Arriviamo così al 2011, l’anno in cui Suda ci ha fatto sognare ad occhi aperti disattendendo, però, le speranze di molti giocatori. Electronic Arts annuncia di aver in cantiere un horror affidato a un dream team che, per i nomi coinvolti, avrebbe dovuto scatenare un terremoto nel mercato PS3 e Xbox360. All’interno del gruppo figuravano personalità come Shinji Mikami e Akira Yamaoka, rispettivamente il director di Resident Evil e il compositore della saga di Silent Hill. Quello che ne viene fuori è Shadow of the Damned, sparatutto horror in terza persona sulla falsa riga del ben più grande Resident Evil 4. Protagonista della vicenda è Garcia Hotspur, un efferato cacciatore di demoni che si ritrova, suo malgrado, a dover rincorrere il Signore delle Mosche colpevole di aver rapito la sua psicotica ragazza. Il giocatore dovrà scendere negli abissi dell’inferno per salvare la sua amata e tornare ad una vita normale. Il gameplay fa il suo compito in maniera discreta, prendendo quanto di buono fatto con RE4, svecchiandone le meccaniche e aggiungendo qualche simpatica novità. Quello che colpisce di più è tutto il contesto scenico e attoriale del gioco, partorito direttamente dalla mente malsana di un Suda in apparente stato di grazia (?). L’inferno ricreato è disturbante, acidissimo e con una punta di ironica crudeltà. I colori saturi si sposano perfettamente con l’evolversi degli eventi raccontati; tutto è studiato in modo tale da colpire il giocatore e coglierlo di sorpresa, proponendo situazioni al limite dell’assurdo e personaggi improbabili che si fanno amare sin da subito per la loro simpatica follia. Il tocco da maestro, però, è da cercare nell’accompagnamento sonoro e nell’effettistica affidata alle sapienti mani di Yamaoka (che, orfano di una Konami sempre più ottusa, decide di volare dalle parti della Grasshopper, diventando un membro fisso dello staff). Certamente non si tratta del capolavoro che tutti aspettavano, a ragion veduta, ma secondo il parere di chi scrive è uno dei prodotti più originali e divertenti della scorsa generazione. E scusate s’è poco.
Esattamente un anno dopo Suda si rimette al lavoro grazie a una partnership con la Warner Bros. Interactive Entertainment. Questa volta collabora alla scrittura con il cineasta americano James Gunn (si proprio quello de I Guardiani della Galassia) da sempre grande fan degli horror di serie b. Lollipop Chainsaw (2012) è un classico gioco d’azione in terza persona, simile nelle meccaniche a NMH ma molto meno funzionale nel risultato. La protagonista, Juliet, è una cheerleader che ha perso il fidanzato a causa di un’apocalisse zombie; tutto quello che rimane di lui è la testa parlante in grado di dispensare ancora consigli su come affrontare la tragedia. Juliet utilizza una gigantesca motosega come unico strumento contro i non-morti, combinata alle sue doti da combattente. Come da tradizione, il gioco è disseminato di collezionabili utili per sviluppare le abilità motorie della protagonista e rendere le combo varie e complesse. Purtroppo tutto questo si riduce ad un convulso button mashing che molto presto si traduce in monotonia e noia. Un vero peccato perché l’ironia di Gunn funziona e le citazioni al cinema italiano di genere faranno la felicità di molti appassionati, ma dietro una simpatica presentazione si nascondono delle falle di gameplay che ingoiano l’intero gioco in una voragine di mediocrità. Anche tecnicamente è un bel passo indietro rispetto al lavoro precedente dei Grasshopper, complice anche un budget molto meno generoso rispetto al recente passato. Probabilmente il punto più basso toccato da Suda51 sino a ora, ma paradossalmente il suo successo commerciale più forte. Da Lollipop Chainsaw Suda ha preferito rimanere in disparte partecipando come consulente esterno a quasi tutte le produzioni della software house (Sine Mora, Killer is Dead, Let it Die) tornando a far parlare di sé solo nel 2018 annunciando in pompa magna uno spin off della serie NMH: Travis is strikes back, in uscita nel corso dell’anno in esclusiva per Nintendo Switch. Goichi Suda è stato e continua a essere una personalità unica e singolarmente vicina ad un modo di concepire il “videogioco” non solo come mero intrattenimento ma anche come espressione di una visione totale, che guarda con molta attenzione al passato (nella estetica) rielaborandolo in maniera del tutto personale. Suda51 non passerà alla storia come un portatore di idee rivoluzionare, come possono esserlo alcuni suoi colleghi, ma mi piace considerarlo alla stregua di quello che rappresentò Lucio Fulci nel cinema italiano: un terrorista del genere, o ancora meglio l’anarco punk più trasgressivo del panorama videoludico. Tra alti e bassi la sua dialettica meta-stilistica continua nel suo percorso di ribellione a delle leggi di mercato che ormai soffocano e costringono il settore ad auto riciclarsi per paura di uscire da quella comfort zone dal guadagno facile ed assicurato. Suda non va incontro al gusto dei giocatori ma sono loro a dover scardinare ogni pregiudizio e categoria mentale per lasciarsi violentare dolcemente da questo pazzo ometto giapponese; tra un giubbotto di pelle ormai demodè ed una canzone degli The Smiths ad accompagnarci nei nostri pomeriggi da videogiocatori. Ha ancora senso Assassin’s Creed? Sin dalla sua comparsa, Assassin’s Creed è stato capace di dividere il pubblico, anche se per motivi diversi. Se il capitolo originale veniva criticato per l’eccessiva ripetitività o elogiato per le novità apportate ai free roaming e per la narrativa, i successivi hanno cominciato a esser presi di mira per le mancate novità, per la poca incisività della trama, pur comunque mantenendo una buona dose di vendite e di critica in generale. Oggi, con l’avvento di Odyssey, la questione è un’altra: il nuovo
capitolo, può essere definito Assassin’s Creed? La mancanza della famosa setta e l’andare così a ritroso nel tempo, ha cominciato a far venire dubbi persino ai fan più accaniti, ma oggi vedremo di analizzare la situazione, concentrandoci prevalentemente sulla narrativa. Un passato pericoloso Partiamo con i periodi storici, punti focali nella saga di Assassin’s Creed: siamo passati dalle Crociate all’Italia Rinascimentale a varie rivoluzioni sino a scoprire l’origine della Setta degli Assassini, nell’Egitto Tolemaico. C’è stato un periodo in cui, a seguito dell’avanzare nel tempo da parte di Ubisoft, il cui sviluppo dei titoli della saga sembrava seguire un progressione temporale costante, molti fan hanno cominciato a sospettare che il brand un giorno avrebbe calcato palcoscenici moderni, magari vedendo Desmond come Maestro Assassino del XXI secolo. Ovviamente sappiamo che non è andata così; Desmond ha trovato il suo destino e con lui la specie umana. Ma se c’è una cosa che è finita nel dimenticatoio, anche per colpa degli stessi sceneggiatori, è un piccolo, grande particolare: la storia degli Assassini ha inizio molto prima della creazione della setta. Se, appunto, in Assassin’s Creed: Origins abbiamo visto la creazione “ufficiale” della congregazione, in realtà l’essere Assassini ha risvolti molto più antichi, un ordine sparso, travagliato, ma con radici molto profonde. Ma ne parleremo dopo. Assassin’s Creed: Odyssey, come sappiamo, è un prequel di Origins e la domanda posta da molti utenti è stata: qual è il senso di un Assassin’s Creed ambientato prima della creazione del Credo? Prima di rispondere con la parola “soldi”, scendiamo un attimo sui particolari: avete notato come, in Origins, Bayek entri in possesso di una Lama Celata? Se ne entra in possesso, quella lama, deve avere qualche origine. Guarda caso Odyssey è ambientato quasi nello stesso periodo in cui la lama fece la sua prima comparsa per opera di Dario, che con quest’arma eliminò Re Serse I. Questo accadde per una ragione semplicissima: Templari e Assassini esistevano già. Il focus non deve
andare dunque sul nome, ma sul credo in sé; l’ideologia, così simile eppure così diversa tra le due sette, è antica come il mondo e poco importa il nome a cui fanno riferimento. Questo dunque ci porta a un altro elemento: andare ancora a ritroso, prima ancora dell’Antica Grecia ha indubbiamente senso e questo potrebbe portare alla prima civiltà umana conosciuta come i Sumeri ad esempio. Eppure non sarebbe ancora abbastanza. Grazie ai ricordi ricostruiti dal Soggetto 16, Clay Kaczmarek, altra cavia dell’Abstergo oltre a Desmond, sappiamo che gli “Assassini” hanno un’origine risalente a più di 75000 anni fa (no, non è un errore di battitura). Che Ubisoft sotto sotto voglia portarci tra le città della prima civilizzazione? Non è da escludere a priori anche se potrebbe essere un titolo ben diverso da come lo conosciamo, per via della tecnologia estremamente avanzata che renderebbe questo ipotetico Assassin’s Creed praticamente fantascientifico. Potete già immaginare lame laser e qualunque cosa partorisca la vostra immaginazione. Assassin’s Creed: Odyssey ha dunque senso senza la setta degli Assassini/Occulti? Certo che sì, e la risposta è contenuta già nel titolo: il Credo degli Assassini è il vero punto focale dell’opera e, volendo essere ancor più precisi, è la parola Creed su cui si concentra davvero tutto il franchise. Cambiare nome del brand è un’altra possibilità ma questo dipende dalle direttive di Ubisoft per il futuro della serie, se si vuole proseguire o meno nella direzione sopracitata o creare titoli prettamente “usa e getta”, con i piccoli collegamenti necessari per giustificare l’utilizzo della proprietà intellettuale. Adamo ed Eva “Coloro che vennero prima” è il fantomatico nome della prima civilizzazione sul pianeta Terra, antecedente ovviamente alla razza umana. Durante gli eventi della prima trilogia di Assassin’s
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