Alabarde Spaziali Storie di fantascienza a est - Trieste Science+Fiction Festival

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Alabarde Spaziali Storie di fantascienza a est - Trieste Science+Fiction Festival
Alabarde Spaziali
              —
   Storie di fantascienza a est
Alabarde Spaziali Storie di fantascienza a est - Trieste Science+Fiction Festival
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SOMMARIO

INCONTRO																								 7
di Lorenzo Davia
FARE NIENTE (È RIVOLUZIONARIO)										 11
di Simonetta Olivo
EFFETTO BANANA																				 15
di Fabio Aloisio
I MONDI DI NESSUNO																		 19
di Roberto Furlani
LO SCRITTORE																						 23
di Fabio Calabrese
CAPO IN B																								 29
di Zeno Saracino
IL MURO, UNA STORIA DI VIAGGI											 39
di Gianfranco Sherwood
L’ULTIMA STANZA DEL MONDO													 45
di Alex Tonelli
ORATE DORATE E GAMBERI A 15 WATT								 75
di F. T. Hoffmann
Alabarde Spaziali Storie di fantascienza a est - Trieste Science+Fiction Festival
Alabarde Spaziali Storie di fantascienza a est - Trieste Science+Fiction Festival
Era la sera del 9 marzo 2020 quando Giuseppe Conte, premier italiano,
annunciava il lockdown del Paese come risposta all’epidemia di Covid-19.
Un’intera Nazione, tra molte altre, che d’improvviso si ritrovava blindata,
prigioniera di un virus che avrebbe rovesciato tutti i paradigmi sui qua-
li si fondano le nostre vite e le nostre esperienze. Parliamo dell’Italia, un
Paese occidentale che figura tra le prime potenze industriali del mondo
e la seconda manifattura d’Europa, la quale era d’improvviso costretta a
chiudere impianti e ad abbassare saracinesche. E parliamo di un popolo
tradizionalmente incline alla socialità, alla tessitura di relazioni umane, le
quali avrebbero dovuto per forza di cose essere differite, o quantomeno
rimodulate.
     Il giro di vite non risparmiava nemmeno il settore della cultura, sof-
focato da una situazione contingente che (comunque la si veda) risultava
imperante e ineludibile.
     La Cappella Underground sintetizza le anime sopra tratteggiate, soprat-
tutto in quanto aggregatore sociale e importante nucleo culturale.
     Era del tutto inevitabile che l’emergenza sanitaria si ripercuotesse per-
tanto anche sulle attività della Cappella, e di conseguenza sulle iniziative
legate al Trieste Science+Fiction Festival, che ne resta espressione di punta,
nonché uno dei riferimenti più importanti a livello nazionale e interna-
zionale per gli appassionati di fantascienza.
     Preso atto della frenata che avrebbero subito i suoi programmi, po-
larizzati sull’espressione cinematografica del genere fantascientifico, la
squadra del TS+FF ha fatto appello ai propri concittadini più “attivi”
nell’ambito sci-fi finalizzato a costruire una via alternativa (e in qualche
modo praticabile) all’offerta canonica del Festival.
     Il proposito era quello di fare dei canali social del TS+FF un collettore
di fantascienza nelle sue forme più disparate – dalla narrativa al fumetto,

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Alabarde Spaziali Storie di fantascienza a est - Trieste Science+Fiction Festival
dalla musica al cortometraggio – in un periodo contingentato al lockdown,
con il chiaro intento di reagire in modo tangibile e costruttivo all’oppres-
sione del confinamento.
    Fortuna vuole che Trieste abbia da sempre una spiccata vocazione fan-
tascientifica: è nel capoluogo giuliano che sono nate riviste che hanno sa-
puto ritagliarsi uno spazio a livello nazionale (pensiamo a Il Re in Giallo
e a Continuum), e sempre Trieste è la città in cui vivono autori capaci di
affermarsi nell’ambito della narrativa di genere con pubblicazioni e rico-
noscimenti di primo piano.
    Presupposti, questi, che hanno trasformato quello che avrebbe dovuto
essere un diversivo da reclusione domestica in qualcosa di più struttura-
to. È nata così la rubrica Alabarde Spaziali, pubblicata all’interno del sito
del TS+FF (sciencefictionfestival.org), nella quale sono stati proposti dieci
racconti appartenenti all’immaginario del fantastico di altrettanti autori,
triestini di nascita o di adozione, che sono anche delle firme riconosciute
all’interno del fandom nazionale.
    La risposta da parte del web è stata molto positiva, e quindi eccoci
qui: quella che state leggendo è la versione ebook di Alabarde Spaziali, con
un’introduzione riscritta per l’occasione.
    Ma la conclusione è quella della prima volta.
    Restate con noi… Si (ri)parte!

   																				Roberto Furlani
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INCONTRO

                           di Lorenzo Davia

– Lei è un amico del festeggiato?
    Sobbalzo alla domanda della ragazza. È in piedi di fronte a me e mi
guarda incuriosita.
    – Scusi, non volevo spaventarla. Solo che… ha sentito parlare del mu-
taforma che è fuggito dal laboratorio?
    – Sì, perché? – Scoppio a ridere. – Pensava che fossi io?
    La ragazza sorride, si rende conto di star per dire una sciocchezza.
    – Ho pensato: se fossi la creatura, appena fuggita mi trasformerei in
un umano e mi nasconderei in bella vista. In un luogo piego di persone.
    Fa un gesto della mano per indicare il soggiorno affollato.
    – Come una festa di compleanno? – Concludo io. Mi alzo e mi presen-
to. – Sono un collega di lavoro.
    – Le sarà sembrata un’idea stupida da parte mia – si scusa lei. – Ma non
trova che sia una cosa eccitante? Incontrare una creatura aliena!
    – Dicono che uccida le persone.
    – Secondo me non vuole uccidere. Penso che stia cercando di comuni-
care in qualche modo alieno, e il nostro corpo umano non resiste alla sua
forma di telepatia. Lei cosa ne pensa?
    – Dicono che si nutra di sale.
    – L’acqua salata è un buon conduttore. Penso che le serva per stabilire
il contatto con noi esseri umani.
    – O per succhiarci via meglio l’energia vitale.

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Scoppiamo a ridere entrambi. La ragazza mi sembra delusa. Sollevo il
telefonino.
    – Se le interessa, adesso stanno postando che la creatura è stata avvista-
ta nella zona dei magazzini abbandonati del porto. Non è lontano da qui.
    La ragazza sgrana gli occhi.
    – Davvero? Si immagina? Essere lì ed entrare in contatto con quella
mente aliena. Scusi ancora se l’ho disturbata, adesso devo scappare. Arri-
vederci.
    La ragazza prende la sua borsetta, saluta alcuni ospiti ed esce.
    Mi avvicino all’angolo bar. C’è un’ampia selezione di alcolici. Gli occhi
mi cadono sulla boccettina del sale.
    Sghignazzo.

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Lorenzo Davia (Trieste, 1981) è ingegnere, giramondo e topo di biblio-
teca. Suoi racconti sono apparsi in varie antologie. Il suo racconto Ascen-
sione Negata è arrivato secondo classificato alla prima edizione del Premio
Urania Shorts, mentre il suo Umuntu Umuntu Ngabantu è arrivato terzo
al concorso letterario di racconti di Fantascienza LGBTQI del 2017. Nel
2019 Davia ha vinto il Premio Viviani con il racconto Il tempo che occorre
a una lacrima per scendere. Ha creato con Alessandro Forlani il progetto di
scrittura condivisa Crypt Marauder Chronicles, la cui antologia Thanatolia
è arrivata finalista al Premio Vegetti. Ha scritto le storie della Fata Mysel-
la pubblicate in New Camelot e Le Avventure della Fata Mysella. Assieme al
Collettivo Italiano di Fantascienza ha pubblicato l’antologia Atterraggio in
Italia”.

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FARE NIENTE
                          (È RIVOLUZIONARIO)

                              di Simonetta Olivo

Se solo quella stupida macchina la smettesse di rintuzzarmi come una suo-
cera, potrei dedicarmi con zelo al mio nuovo interesse: far niente.
    Dottoressa Steiner, c’è della corrispondenza da evadere.
    Dottoressa Steiner, una flessione significativa del suo peso corporeo e il rapporto
fra massa grassa e magra indicano l’assoluta necessità di avviare alcune sessioni di
attività fisica aerobica.
    Dottoressa Steiner Dottoressa Steiner Dottoressa Steiner! La vocina digitale
mi tormenta, mi segue anche in bagno, vive nelle pareti, striscia sul pavi-
mento.
    Ieri sono fuggita nella mia automobile, per dedicarmi là dentro al far
niente, e quella passando dall’autoradio mi ha proposto di ascoltare almeno
un po’ di musica, giusto per usare il tempo in modo produttivo. Così ha riempito
l’abitacolo d’una polka insopportabile, realizzata da qualche improbabile
pianista digitale.
    La nostra guerra continua da un paio di settimane; da quando ho preso
ferie, e invece di partire per una meta turistica, seguire un corso di yoga
on line, contattare tutti i conoscenti sui social per coltivare un po’ le relazioni,
acquistare indumenti per la nuova stagione, leggere uno dei tanti roman-
zi acquistati d’impulso, disattivare la cucina automatica per dedicarmi alla
composizione di pietanze slow food ho preso questa decisione, di far niente.
    È accaduto così: che una mattina mi sono svegliata e mi sono limitata
a osservare il sole sorgere e farsi infine alto nel cielo, e mi è piaciuto. Ho

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consumato il mio pasto con calma, gustando ogni boccone, in assoluto
silenzio. Ho guardato i mobili di casa, i suoi quadri, le lampade, i muri
bianchi, senza pensare a nulla, col solo intento dello sguardo.
    Un senso di pienezza mai provato mi ha illuminata.
    Ho fatto dell’inattività uno scopo da perseguire con la stessa diligenza
con cui per anni ho svolto il mio lavoro in ufficio, allevato figli, acquistato
beni, amministrato crediti, accumulato conoscenze, curato il mio aspetto.
Mi sono accorta di non essermi mai fermata, per almeno quarant’anni.
Gli ultimi ricordi di questo godibile nulla risale all’infanzia, quando av-
volta nella coperta di lana ero ancora capace di trascorrere qualche ora
impegnata solo a percepirne il ruvido calore. Poi, tutta una lunga corsa
riempita d’azioni e di scopi. Liberarmene è una gioia.
    Però quella non vuole. Potrei disattivarla, ma ciò mi metterebbe nella
condizione contradditoria di dover pulire i pavimenti, far la polvere e il
bucato, prepararmi colazione, pranzo e cena, ordinare viveri e detersivi e
sistemarli negli scaffali, tutte incombenze di cui si occupa per me. Di fatto,
mi sarebbe a quel punto impossibile far niente.
    Ho provato a ingannarla, aprendo un libro e fingendo concentrazio-
ne, ma ha preso presto a tormentarmi: dottoressa Steiner, mi chiedo se si senta
bene. Non sta girando la pagina da un’ora. Potrebbe essere opportuno che le misuri
la pressione arteriosa?
    La odio, perché mi impedisce la contemplazione del tramonto. Osteg-
gia questo essere totalmente me stessa.
    La mia ipotesi è che non mi permetta di dedicarmi all’ozio perché
non implica consumi oltre quelli necessari. Così nelle ultime settimane ho
ordinato un oggetto al giorno, a caso: un orologio, un rossetto, un abito
nuovo, un diffusore di essenze, un tappeto, e via avanti così. Una teoria
di fattorini, consegne, ricevute, pacchi e pacchetti, molti dei quali non ho
nemmeno aperto. Tutta quell’inutile accozzaglia si è accumulata nel mio
soggiorno, riempiendolo, inondandolo, straripando in bagno e in came-
ra, sopra e sotto il letto.
    Non c’è più spazio per me.

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Per qualche giorno quella ha taciuto e io, seppur immobile, sono stata
libera.
    Poi ha ricominciato, insaziabile: dottoressa Steiner, esprima il suo gradimen-
to per l’articolo ricevuto lunedì. Dottoressa Steiner, esprima il suo gradimento per
l’articolo ricevuto martedì. Dottoressa Steiner, dottoressa Steiner, dottoressa Stei-
ner!
    Ma non mi arrendo.
    Me ne sto qua, immobile, ricoperta di cose inutili.
    Perché fare niente è rivoluzionario.

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Simonetta Olivo è nata a Udine nel 1976. Vive a Trieste, dove lavora come
psicologa in un servizio pubblico. A 40 anni ha cominciato a scrivere rac-
conti di fantascienza. Col suo primo racconto, che nel maggio 2018 è stato
pubblicato da Mondadori nella collana Urania, è stata finalista nella prima
edizione del Premio Urania Short. I suoi racconti sono stati finalisti anche
della XI e XII edizione del Premio Robot. È membro del Collettivo Italia-
no Fantascienza, gruppo di scrittura con cui ha pubblicato come curatrice
e autrice l’antologia Atterraggio In Italia (Delos Digital, febbraio 2019). Ha
partecipato a un progetto di micronarrativa tradotta in inglese con Specu-
lative Fiction in Translation: quattro sue microstorie sono state selezionate
da Word Withouth Borders e pubblicate nel maggio 2019 con il titolo di
Microverses. Nella collana Robotica.it di Delos Digital ha pubblicato le rac-
colte di racconti Fantafiabe (novembre 2018) e Insogno (luglio 2019). Nel
novembre del 2019 ha pubblicato il racconto Tertium sulla rivista Robot
(Delosbooks).

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EFFETTO BANANA

                             di Fabio Aloisio

Comelieri era un ricercatore tutto genio e sregolatezza; mi aveva invitato
nel suo laboratorio per esporre una nuova scoperta.
    Eravamo in una stanza piena di strumentazioni. Tirò fuori una bana-
na da un sacchetto e la depose su un tavolino, nel centro della sala.
    − La mia colazione − spiegò.
    − Mi hai portato qui per mostrarmi cosa mangi di mattina?
    − No, rettore. Si tratta di… viaggi temporali nel futuro. Ora farò an-
dare la banana avanti nel tempo di un milionesimo di secondo.
    − Addirittura un milionesimo! − replicai sarcastico.
    − Aumenterò la durata: facciamo un decimo? − disse lui scocciato.
    Poi armeggiò sugli strumenti e infine uscì dalla stanza per cinque mi-
nuti.
    − Per arrivare ad un decimo di secondo ho bisogno di più energia del
solito – si giustificò al ritorno – Ho dovuto togliere corrente a gran parte
dell’Università.
    Quando le macchine smisero di ronzare, la banana sparì.
    − Dov’è finita? – domandai.
    − Ho sbagliato i calcoli? − si accigliò Comelieri, poi si diresse verso il
PC.
    Strabuzzai gli occhi: tre quarti di banana gli uscivano dalla schiena,
all’altezza delle scapole.
    − L’ho trovata − gli dissi tremando.
    − Oh, è tornata…ehi, ma non c’è sul tavolino!

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− Toccati la.. la spalla
    Comelieri si tastò ed emise un grido.
    − È fantastico! Un effetto non previsto: un effetto banana! − Si grattò
il mento con indice e pollice, pensando.
    − Ma certo! − esclamò. – Che banalità! Ho spostato un oggetto rispet-
to ad un riferimento nel tempo, ma non nello spazio. La Terra, e quindi
anche noi, si è mossa nel frattempo, il frutto no. Con i soliti viaggi di un
milionesimo di secondo non vi sono spostamenti evidenti, ma aumentan-
do la durata, noi ci siamo spostati un poco…quel che bastava perché la
banana mi si incastrasse in schiena.
    − Che ne dici di andare in ospedale, adesso?
    − Certo − rispose in tono assente, poi si portò una mano dietro la
spalla, strappò il frutto a metà e cominciò a mangiarselo.
    Corsi in bagno a vomitare.
    − Ehi! − mi urlò. − La prossima volta tolgo la buccia, non volevo ur-
tare la tua sensibilità!

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Fabio Aloisio, classe ’84, è nato e lavora a Trieste come ingegnere. Come
scrittore ha partecipato ad antologie pubblicate da Delos Books, tra cui
Atterraggio in Italia, e Lethal Books (Penisolatomica) ed è presente coi suoi
racconti sulla rivista Robot, WMI e Delos Science Fiction. Il suo racconto
Mercy compare in appendice al volume Urania n.1672 – Le ombre di Morje-
grad. È stato finalista ai premi Robot 2018 e Urania Short 2017, è di nuo-
vo in finale al premio Urania Short 2019. Fa parte del collettivo italiano
fantascienza (CIF).

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I MONDI DI NESSUNO

                           di Roberto Furlani

Il tuono aveva spezzato le reni alla Jachin Star.
    Il veicolo in avaria era precipitato rovinosamente sul suolo di Dome-
ras, da dove non sarebbe ripartito mai.
    Il terrestre aveva impiegato qualche minuto per rendersi conto di es-
sere appena sopravvissuto per miracolo alla collisione, poi si era girato
verso il compagno, riverso con la testa contro il pannello dei comandi del-
la Jachin Star.
    – Fratello – aveva esclamato. Niente da fare, l’impatto gli era stato fa-
tale. – Fratello…
    Il superstite aveva afferrato il fucile a pressione acustica ed era sgu-
sciato faticosamente fuori dal relitto: era ferito, aveva un taglio sull’arcata
sopracciliare e probabilmente una tibia lussata.
    Ma non aveva potuto permettersi di riposare: presto i Germi che ave-
vano abbattuto il suo velivolo sarebbero arrivati lì per portare a termine
ciò che avevano cominciato.
    I Germi, già: gli abitanti autoctoni di Domeras. Abitanti, non popola-
zione.
    Nel Trattato Internazionale della Colonizzazione Extrasolare era stato
sancito che i Terrestri non avrebbero mai invaso pianeti popolati da specie
intelligenti, al fine di risparmiare inauditi soprusi ad altre razze senzienti
e, soprattutto, di evitare guerre dalle proporzioni colossali.
    Ma i Germi non erano un popolo: la loro stirpe si snocciolava in nuclei
di civiltà barbara di stampo tribale, con un tessuto sociale molto limitato.

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Quello, dunque, era un mondo nullius, un mondo di nessuno, e come tale
poteva essere colonizzato.
    Era il pianeta promesso, quello che l’Universo aveva consegnato agli
orfani di una Terra divenuta inospitale.
    L’uomo stava zoppicando da due giorni terrestri in una selva boschiva
simile a una foresta pluviale: doveva raggiungere un avamposto dei colo-
ni prima che qualche soldato nemico lo individuasse. Stelle aliene a indi-
cargli la via.
    Sentì uno strano brusio che per qualche ragione lo attirò. Si avvicinò,
facendosi largo tra la vegetazione, e quello che vide lo lasciò senza fiato:
giù, a valle di un pendio, c’era una gola scavata tra le rocce, ed era piena
di Germi.
    Non dieci o venti, erano centinaia. Si nutrivano, mercanteggiavano,
giocavano, copulavano.
    Quella non era una nidata: era una città.
    Il terrestre si affrettò ad abbandonare quella vista, tornò sui suoi passi
e riprese il proprio cammino.
    Ora sapeva dove avrebbero dovuto colpire.

* Racconto selezionato da Writers Magazine Italia per la pubblicazione
nell’antologia Il magazzino dei mondi 2.

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Roberto Furlani è nato nel 1982 a Trieste, dove lavora come ingegnere
elettronico. Con i suoi racconti è stato finalista o segnalato ai principali
concorsi del settore, tra i quali il Premio Italia, il Premio Alien e il Premio
Courmayeur. Ha pubblicato su numerose riviste nazionali, tra cui Delos
Science Fiction, Futuro Europa e NeXT. Le sue storie sono inoltre appar-
se su antologie pubblicate da varie case editrici, come Delos Books e Kip-
ple. Nel 1999 ha fondato la storica rivista telematica Continuum, che ha
curato fino al 2012 e su cui sono state pubblicate le maggiori firme della
fantascienza italiana.

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LO SCRITTORE

                           di Fabio Calabrese

Il vecchio respirava a fatica, una sorta di sordo dolore chi si era solo in
parte abituato, gli gravava sul petto. Sapeva che non c’era niente da fare.
L’età, semplicemente l’età. Un essere umano non è fatto di acciaio, e a un
certo punto, inevitabilmente, il suo organismo si logora. Il medico conti-
nuava a dire:
    – Oggi ti vedo bene, ti riprenderai presto.
    Ma l’uomo sapeva che si trattava di una pietosa bugia. Tutte le cose pri-
ma o poi devono finire, e presto sarebbe toccato a lui. Stranamente, l’idea
della cessazione della sua esistenza non gli incuteva paura, e non provava
neppure un senso di risentimento, solo una placida rassegnazione. Poteva
ritenersi soddisfatto: aveva vissuto una vita lunga e piena, quasi sempre in
salute, non gli erano mancate le soddisfazioni né gli interessi da coltivare,
aveva impiegato bene il suo tempo.
    – Annie – chiamò.
    – Si, caro, sono qui – rispose la moglie – Cosa posso fare per te?
    – Niente di speciale – rispose lui – Vorrei solo che mi tenessi la mano.
    La donna allungò il braccio verso il capezzale del letto, fino a stringere
la mano del marito.
    – Robert, Vanda, Edward.
    I tre figli risposero all’unisono. Robert, il maggiore, venne da pensa-
re al vecchio, era ormai sessantenne. Vanda, “la ragazza” aveva un paio
di anni di meno, ed Edward, “il piccolino” aveva ormai anche lui varcato
la soglia del mezzo secolo. Il marito di Vanda e la moglie di Edward non

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erano nella camera, erano di là in salotto a tenere a bada la turbolenta
schiera dei nipoti.
    Aveva una moglie devota con la quale aveva costruito un rapporto so-
lido negli anni, tre splendidi figli che gli avevano dato molte soddisfazioni
e qualche trascurabile grattacapo, e una congerie di nipoti vivaci e schia-
mazzanti che contribuivano a tenerlo in attivo dopo il pensionamento, e a
farlo sentire vivo.
    Per molti anni l’uomo aveva lavorato in un ufficio governativo dove era
entrato dopo poco aver completato gli studi. Col tempo aveva fatto carrie-
ra, non una di quelle carriere esaltanti e fulminee, ma una progressione
solida nelle responsabilità e anche nei miglioramenti economici, nel corso
della quale non gli erano mancate né la stima dei superiori né l’amicizia
dei colleghi.
    La fonte principale della stima che aveva ricevuto, anche se non delle
soddisfazioni economiche, però derivava da un’altra fonte, la sua attività
di scrittore, di scrittore di fantascienza per la precisione.
    Ricordava come era cominciato tutto, in una maniera per la verità al-
quanto singolare: tanti anni prima, si era trovato nella casa dei nonni in
vacanza, e rovistando fra le vecchie cose in soffitta, aveva trovato dentro
un baule un quaderno le cui pagine erano scritte con la grafia corsiva ele-
gante di epoche passate, aveva l’apparenza di un diario, ma la storia che
raccontava era davvero singolare.
    Narrava di una spaventosa epidemia che anni prima avrebbe falcidia-
to la razza umana, riducendo l’umanità da miliardi di persone che popo-
lavano il pianeta, a un gruppo sparuto di superstiti.
    Ricordava di aver sbattuto le palpebre per l’incredulità: quella storia
non corrispondeva per nulla a ciò che vedeva intorno a sé; poi capì, o gli
parve di aver capito: suo nonno o chiunque fosse stato l’autore del diario,
aveva voluto probabilmente scrivere un romanzo fantastico.
    Si era immerso nella lettura della storia e ne era rimasto affascinato. I
pochi superstiti si erano ritrovati a vivere in un’atmosfera di disfacimen-
to e di decadenza, al punto tale che fra molti di loro, incapaci di vivere in
un mondo così desolato, si erano verificati diversi casi di suicidio. Qual-

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cuno a questo punto aveva avuto un’idea brillante: era stato costruito un
super-computer che proiettava in tutto il mondo una realtà fatta di olo-
grammi che lo ripopolava di oggetti, animali, piante, persone, soprattutto
persone, simulando il mondo che esisteva prima dell’epidemia.
    In quel momento sentì una punta di scetticismo. Una storia del genere
aveva qualche elemento di verosimiglianza, si poteva davvero scambiare
un ologramma per un oggetto o, a maggior ragione una persona reale?
Beh, qui l’ignoto autore aveva mostrato una punta di genialità.
    Gli oggetti che noi riteniamo solidi, spiegava, sono in realtà compo-
sti in grandissima parte di vuoto, vuoto fra le molecole, fra gli atomi e,
all’interno di essi, fra il nucleo e gli elettroni che li compongono. Ciò che
ci dà l’impressione della solidità e l’impenetrabilità dei corpi, è solo una
questione di repulsione elettrostatica. Ottenere lo stesso effetto con degli
ologrammi non presentava particolari difficoltà.
    Il computer era anche abbastanza potente e complesso da controllare
il comportamento di miliardi di simulazioni olografiche in modo che non
vi fosse una differenza riscontrabile con quello dei veri esseri umani. In
questo modo, la riproduzione del mondo che era stato, si era sostituita
alla tragica realtà.
    Lo sconosciuto autore però avvertiva: la fine dell’umanità era solo rin-
viata: se un uomo o una donna senza saperlo si accoppiavano con una si-
mulazione olografica, da un simile rapporto non potevano nascere figli,
al massimo il computer poteva generare delle simulazioni olografiche che
sarebbero passate per figli della coppia, modificandole nel tempo in modo
da simulare la crescita di un essere umano. Allo stesso modo, poteva pro-
durre in una donna la simulazione dei sintomi della gravidanza. In prati-
ca con questo programma, invece di una fine in tempi brevi in un mondo
atroce e squallido, spiegava l’autore, la nostra specie aveva scelto una più
lunga, inconsapevole, serena agonia.
    La trama della storia gli era parsa ottima, avvincente; con pochi ritoc-
chi per renderla più letteraria, ne sarebbe venuto fuori uno splendido ro-
manzo di fantascienza, e così fece, poi mandò il testo a un editore specia-
lizzato. Il romanzo fu pubblicato ed ebbe un discreto successo. Si sentì in

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colpa, perché si rendeva conto di aver commesso tutto sommato un pla-
gio, anche se altrimenti quella bella trama sarebbe rimasta forse per sem-
pre ad ammuffire nel fondo di un baule, così iniziò a scrivere altre storie,
romanzi e racconti che furono più o meno tutti regolarmente pubblicati.
    Cominciò a farsi un nome, ricevette diversi premi, fu ospite d’onore a
diverse conventions di fantascienza, comparve più di una volta in televi-
sione, concesse interviste, firmò autografi.
    Ogni tanto lo tormentava un dubbio: e se quello che aveva scritto fosse
stato semplicemente reale? Se quel che aveva trovato in quel vecchio bau-
le fosse stato davvero un diario col resoconto di eventi passati di cui si era
voluta cancellare la memoria?
    In fondo, si chiedeva, incontrando una qualsiasi persona, come faccia-
mo a sapere se dietro la sua fronte c’è davvero una soggettività simile alla
nostra, o invece solo il programma di un computer in grado di far repli-
care a quella simulazione i comportamenti umani?
    Ma un conto sono i dubbi metafisici, e un altro conto è la vita concreta,
una vita che procedeva serena e regolare, e che era stata ricca e longeva.
    Si rivolse alla moglie.
    – Mia cara – disse– ti prego, fai entrare tutti!
    Annie chiamò dentro la stanza il genero, la nuora e i nipoti.
    Il vecchio passò lo sguardo in giro, abbracciando con esso tutti quanti.
    – Miei cari – disse – vi voglio bene.
    Poi chiuse gli occhi abbandonando la testa sul guanciale e lasciandosi
andare.
    Il computer centrale prese una decisione: ora che l’ultimo essere uma-
no era morto, il programma non serviva più.
    Di colpo, miliardi di simulazioni di esseri umani scomparvero, lascian-
do un pianeta deserto e silenzioso.

                                     26
Fabio Calabrese, nato a Trieste il 12 novembre 1952, laureato in filoso-
fia, docente di scuola superiore, coniugato, due figlie. Scrive narrativa e
saggistica di fantascienza da moltissimi anni. Negli anni ’70 ha dato vita
assieme a Giuseppe Lippi alla fanzine Il Re in giallo, nel 2000 assieme a
Roberto Furlani alla webzine Continuum. Ha pubblicato racconti e arti-
coli su quasi tutte le riviste professionali, amatoriali e on line del settore.
Ha all’attivo tre romanzi: La spada di Dunnland, Uomini e sauri e L’orizzonte
di cristallo. Quest’ultimo è stato finalista al premio Urania nel 2015, più
svariate antologie personali. Ha collaborato alla stesura dei due diziona-
ri del mondo di Tolkien, quello Rusconi del 1999 e quello Bompiani del
2003. Ha pubblicato all’estero sulle riviste Foundation (Gran Bretagna),
Fantaztyka (Polonia), Galaxies (Francia).

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CAPO IN B

                           di Zeno Saracino

Hashtur rovistava nella spazzatura con il tentacolo destro, mentre il sini-
stro grattava la palpebra dell’unico occhio nella protuberanza del capo.
Liberò dalla polvere un pezzo di lamiera rosso, triangolare, ricoperto di
ruggine: il grande occhio di Hashtur lacrimò nel mettere a fuoco le paro-
le sul cartello.

   – STOP –

    La bocca, collocata nell’inguine, pronunciò l’arcana parola con suoni
gutturali.
    Hashtur si domandò, mentre continuava a strofinarsi la palpebra, qua-
le significato avesse potuto avere quel misterioso oggetto. Uno strumento
cerimoniale, forse? Osservò i contorni del cartello.
    La forma triangolare echeggiava un significato nascosto, carico di mi-
naccia, e altrettanto quel colore bianco su sfondo rosso, così vibrante no-
nostante i secoli. I resti di un’asta grigia, un tempo fissata nel cemento,
protrudevano dalla lamiera.

   – Adad! –

   Si girò verso il compagno, gracidando dal ventre.
   Adad rispose al saluto agitando entrambi i tentacoli.
   Ancora un ragazzo, si rimproverò Hashtur, appena cent’anni di età.

                                    29
Si trascinava con il corpo oblungo, dalla forma di una lumaca abissale,
recante i colori biancastri della giovinezza. La bocca inguinale digrignò
una triplice corona di denti a rostro, quando iniziò ad arrampicarsi sul
cumulo di rottami. Le ventose dei tentacoli aderivano con soffici plop alle
macerie. Intanto, il grande occhio di Hashtur ruotava a trecentosessanta,
contemplando il paesaggio.
     Una landa desolata, pensò, ma non priva di bellezza.
     Un mare di rifiuti si estendeva all’orizzonte: dalle profondità sottoma-
rine colme di barili tossici, correnti di tegole e legname nuotavano verso
la superficie, spumeggiando con creste di rigonfi sacchi di plastica. La fu-
soliera malridotta di un Airbus A430 affogava nel ciarpame, le ali spezza-
te. Qua e là scogli e isole di cemento affioravano nel mare di spazzatura:
ciclopici macigni, barriere coralline di stracci e cavi elettrici, scheletriche
ossa di ferro con ancora una carne di calcinacci.
     Il corpo di Hashtur si gonfiò dalla contentezza, di fronte a quello spet-
tacolo: la pupilla nera dell’occhio si dilatava e restringeva man mano che
zoomava su ogni singolo particolare. I lineamenti irriconoscibili, cancella-
ti fino a raggiungere un’impossibile levigatezza, di due figure umanoidi,
abbattute a fianco di una struttura a ogiva, che Hashtur riconobbe come
una campana. Una fila di panchine di ferro, contorte e fuse, spiaggiate ai
piedi della collina dove si trovava. Le ossa degli antichi occupanti ancora
brillavano, incastonate da un inconcepibile calore nella struttura stessa dei
manufatti. Hashtur guardò ancora, sollevando la protuberanza del capo
fino all’orizzonte lontano.
     Il mare di ciarpame si asciugava diversi chilometri avanti, divorato da
una sabbia cristallina, dalla consistenza del vetro. Un pavimento di mat-
toni boccheggiava nella sabbia, proteso verso l’esterno. La chierica di una
bitta, di ottone lucido, rifletteva la luce della stella.
     Sole, rimembrò Hashtur, qui lo chiamano Sole. Non di meno, concesse,
quella sorta di approdo proteso verso il deserto, un molo quasi, così lun-
go e solitario, era qualcosa d’inedito, pure in quell’infernale collezione di
anticaglie. Audace, niente da dire, concesse Hashtur.
     Un ansito e il risucchio di un tentacolo che si staccava dal cemento an-

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nunciarono l’arrivo di Adad. Aveva l’occhio socchiuso, costellato di stria-
ture rosse.

    – Allora? – mugugnò – Ci è rimasto poco tempo a disposizione, come
sai bene. I Padroni vogliono una risposta e subito.

   Hashtur curvò la protuberanza e con una lenta torsione afferrò con i
due tentacoli un oggetto rotondo, dalle dimensioni di un palloncino. La
bocca di Adad esalò un sospiro, mentre l’occhio si colorava di stupore.

   – È meraviglioso – balbettò – Non sapevo potesse esistere qualcosa d’u-
na simile bellezza.

    – Tanto bello quanto prezioso – concordò Hashtur. Alzò l’oggetto a li-
vello dell’occhio.

    I denti ghignanti di un teschio ricambiarono spenti lo sguardo di Ha-
shtur. Questi contemplò il giallo dell’avorio e gli occhi putridi dello sche-
letro, prima di riporre il reperto dentro una scarsella legata alla cinta.

   – Siamo sulla strada giusta – sottolineò, indicando il cartello. – Ho an-
che trovato quell’oggetto cerimoniale, senza dubbio parte del loro culto.
Dobbiamo solo continuare a scavare.

    Mentre Adad si arrabattava tra i rottami, Hashtur si concesse di con-
trollare l’astronave. Aleggiava sopra il molo invaso dalla sabbia, la sago-
ma luminescente nella forma di una balena. I microrganismi responsabili
dell’energia nucleare della nave emanavano un impercettibile brillio, re-
minescente di un miraggio. Hashtur sentì qualcosa sfrecciargli davanti, si
piegò di scatto: uno dei tentacoli saettò in avanti, stringendo per la collot-
tola un animale ringhiante. Era tutto un batuffolo: una coda serpeggiava
avanti e indietro, degli unghioni e due triangolini a mo’ di orecchie. In
mezzo a tutti quei magnifici rottami, contaminati e morti da secoli, quel-

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la presenza viva disgustava profondamente Hashtur. Contaminava, con
la sua vitalità selvaggia, la purezza artificiale del luogo. Con uno schiocco
come di un elastico che si rompe, mutilò in due il gatto selvatico, ne afferrò
la testa dagli occhietti che ancora sbattevano e la divorò in un sol boccone.
Secoli di contaminazione radioattiva e ancora così tanta vita, così tanta natura…
deprimente, pensò, consolandosi con il ruminare degli ossicini del micio.
    Il rimbombo di un tuono, lo stridio di una tonnellata di sassi in movi-
mento e infine un urlo sottile: Hastur si voltò, solo per vedere Adad scivo-
lare strillando in un crepaccio. Le grida del giovane perforarono le mem-
brane acustiche di Hashtur, mentre si avvicinava con cautela alla fossa che
si era spalancata nella collina. Un cartellone di diversi metri, raffigurante
una figura umanoide che trangugiava una sostanza, giaceva in un angolo.
Hashtur la guardò sbattendo l’occhio, riconoscendovi un’altra sacra icona.
Un rituale di morte, forse, suggellato da quel “Coca Cola” inciso a lettere
gigantesche. Probabilmente l’umanoide beveva il sangue dei suoi nemici
nelle speciali occasioni, per assimilarne la potenza. Un avviso, ignorato
dall’incauto Adad.
    Svelato dal cartellone, un pavimento di vetro, ora infranto. Un pozzo
di cartacce e sacchi di plastica si spalancava nel fianco della collina, scen-
dendo nelle profondità di quel mare di spazzatura. Hashtur sospirò, scuo-
tendo la protuberanza, poi afferrò dalla scarsella un organismo-torcia, lo
strizzò per farlo impaurire e fargli secernere la luminescenza necessaria.
Lo gettò nel pozzo, guardando la luce penetrare l’oscurità sottostante. Le
pareti del pozzo sembravano solide e il fondo non era troppo distante, a
giudicare dai singhiozzi ingrati di Adad.
    Un tentacolo alla volta, Hashtur discese nell’oscurità.
    Una fanghiglia terrosa caratterizzava il fondo del pozzo. Hashtur striz-
zò un altro organismo-torcia, prima di fargli mordere la sua spalla, affinché
funzionasse da illuminazione portatile e gli lasciasse liberi i tentacoli. A di-
verse decine di metri dalla superficie, il pozzo rivelava un rozzo edificio di
pietra. Hashtur si guardò intorno: bacheche di legno, con i vetri infranti,
un mobile di plastica ingombro di carta e una tinozza piena di terra. Ha-
shtur si avvicinò prima alle bacheche, ammirando all’interno una serie di

                                       32
oggetti di legno e ferro. Mazze e spade, lesse da un cartiglio della bache-
ca. Erano molto belle, rimuginò, anche se non riusciva a comprenderne
l’utilità. Strumenti per mangiare o forse per riprodursi o addirittura per
grattarsi la protuberanza. Innocui: poco, ma sicuro.
    Il mobiletto di plastica aveva diversi cassetti. Ci armeggiò per qualche
minuto, prima di farne scaturire un rivolo di carta. Erano pezzi di carta
verdi, tutti eguali, con sopra un numero. Hashtur rinunciò a compren-
derne l’utilizzo: sembravano buoni per la pulizia corporale, con il nume-
ro corrispondente alla grandezza del pezzo. Cinquanta di quegli “euro”
quando sei davvero sporco, venti quando hai meno da espellere e così via.
    La tinozza era piena di terra e ospitava, coltivati in fila, diversi funghi
luminescenti. Una paletta giaceva a lato della vasca, ancora fresca di terra.
I funghi erano cresciuti da poco, osservo Hashtur. Qui ci vive ancora qual-
cuno! E Adad, dov’è finito? Maledetto sciagurato…
    Lo trovò accucciato dietro la carcassa di un’automobile.

   – Tutto bene… Come diamine hai fatto…

    Adad lo azzittì con un colpo di tentacolo, ne avvicinò la punta alla boc-
ca. Indicò qualcosa dietro ad Hashtur, gesticolando. Hashtur si volse con
lentezza deliberata. Sentiva la bocca digrignare e agitarsi, il corpo cambia-
re colore dalla tensione. Hashtur represse il fremito nei tentacoli, sbatté
la palpebra dell’occhio. Si preparò a fronteggiare il terrore assoluto che
aveva cacciato Adad nelle tenebre.
    E scoppiò a ridere, ogni tensione svanita.

   – Hai paura di lui, Adad? Un essere così insignificante, così piccolo…

    Hashtur riconobbe dal cranio il profilo di un umanoide: due occhi ca-
tarrosi, quell’appendice chiamata naso, la bocca minuscola, il corpo sgra-
ziato. Una gran massa di pelo copriva la faccia dell’essere, dai capelli alla
barba, mentre un torace emaciato mascherava le ossa, protese sotto una
pelle raggrinzita, colorata del rosso di ustioni cicatrizzate. Un lembo di

                                      33
tessuto copriva le terga, a cui seguivano gambe dalle ginocchia calcificate
a causa dei calli e grossi piedi ritorti.
    Hashtur osservò l’uomo avanzare gattoni, prima di accucciarsi e abba-
iare una serie d’incomprensibili suoni. Le mani che si agitavano e i guaiti
continui stremavano lo sguardo, osservò Hashtur, concedendo qualche
punto al collega. Ma quella cosa chiamata “uomo” restava un affarino mi-
nuscolo, neanche due metri di altezza rispetto ai suoi cinque. Un pove-
ro essere, nemmeno in grado di cambiare il colore della pelle a seconda
dell’emozione e del messaggio che voleva trasmettere. Probabilmente è pro-
prio per questo motivo, meditò Hashtur, che sente il bisogno di parlare e gestico-
lare così tanto.
    Cosa diamine era quel gesto con l’indice della mano puntata verso la
bocca?
    Si avvicinò all’umanoide con movimenti lenti. La bocca era un baratro
di gengive infiammate e monconi marci. Hashtur riconobbe dall’espe-
rienza con i microrganismi sulla nave le ustioni derivanti dalle radiazioni
nucleari, rimarginatosi dopo decenni.
    Quel gesto… cosa accidenti desiderava quello stupido animale?
    Analizzò la tinozza e i resti dei funghi smangiati lungo il bordo. Ha-
shtur aprì allora la scarsella e pescò un altro piccolo organismo, model-
lato a forma di cilindro. Lo massaggiò affinché secernesse il suo liquido,
del quale assaggiò una sorsata rivitalizzante. L’offrì avvolto nel tentacolo
all’uomo, che indietreggiò mugolando. Il selvaggio aveva gli occhi sbar-
rati, le braccia incrociate sul petto: sbaglio qualcosa, rifletté Hashtur, non è
questo il modo corretto.
    Strisciò verso le bacheche, alla ricerca di un contenitore. Lesse dal car-
tiglio: tazza di porcellana, era Ming. Massaggiò l’organismo fino a riempi-
re la tazzina, la offrì all’uomo.
    Quel barbaro animale gettò subito a terra la tazza, la infranse in mille
pezzi! Quale spreco, sbraitò tra se e se Hashtur, tutto quel liquido l’avreb-
be come minimo tenuto sveglio un’intera notte. Il meglio delle sue scorte,
nientemeno.
    L’umanoide continuava a gesticolare, con quell’indice puntato verso la

                                       34
bocca e quel mugolio continuo. Hashtur provò un’altra tazzina, solo per
vederla infranta. Tentò una tazza grande, una tazzina piccola, una tazza
di colore diverso, una tazza di plastica dal mobile…
    Un servizio da te giaceva distrutto sul pavimento. Hashtur brontolò,
valutò se spaccare il collo all’uomo. Adad gli picchiettò sulla protuberanza
con un tentacolo, gli porse un nuovo contenitore. Era simile alle “tazzine”,
ma dalla forma semplice: un cilindro corto e basso, composto di vetro. Ci
versò le ultime riserve della sostanza, riempiendolo fino all’orlo. L’anima-
letto espulse fino all’ultima goccia il liquido nero pece, prima di secernere
con le ultime forze uno strato bianco. Hashtur propose quella prelibatez-
za all’uomo, sospirando.
    Il selvaggio dilatò gli occhi, batté il palmo della mano contro il pugno,
sorridendo. Si sedette a gambe incrociate, afferrò con mignolo sollevato il
bicchiere e assaporò la bevanda. Si leccò i baffi, prima di riprendere a ge-
sticolare e sbraitare. Indicava ora il bicchiere, ora Hashtur. Questi gemet-
te, non la smette proprio mai di parlare! e scosse la protuberanza, mostrando
il piccolo organismo svuotato.

   – Basta, basta! Non abbiamo altro liquido, ci arrivi o no? Niente. Più.
Liquido.

    L’uomo continuava a indicare il bicchiere e accompagnava il gesto con
tre parole. Hashtur si lambiccò la protuberanza, cercando di ricordare
lingua e dialetti della razza umana, relativamente all’area dove si trovava.
Riconobbe dopo qualche minuto la sillaba “B”.
    Senza dubbio, rifletté, vuole trasmettermi un profondo ragionamento: un mes-
saggio di pace, di fratellanza, di riconoscenza…
    Adad era A, Hashtur era B. Quell’umano forse contava tramite l’alfa-
beto. Dopo mezz’ora e un lungo colloquio con Adad, Hashtur riconobbe
la seconda parola, “Capo”. Capo come guida, padrone, essere superiore:
quell’animale non poteva che riferirsi a lui, Hashtur. Quindi, ricapitolan-
do: Hashtur era sceso nel pozzo subito dopo Adad ed era pertanto “B”,
ma era anche il padrone, il “Capo”. Hashtur: “Capo in B”. Gonfiò il cor-

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paccione, lusingato dal complimento.
    Questo significa che non solo quest’umano è vivo e vegeto – ragionò
Hashtur – ma persino nel pieno possesso delle sue facoltà mentali e lingui-
stiche, con tanto di lingua e dialetto della zona pienamente conservatesi
dopo così tanti decenni di bombardamento radioattivo. In altre parole,
qualcuno ancora abita questo colle e questo mare di spazzatura e infesta,
come quell’animale catturato all’aperto, la bellezza sterile del paesaggio.
    Afferrò come Adad dalla scarsella dell’altro cibo e liquido, che lasciò ai
piedi dell’uomo, affinché non li disturbasse nella risalita e se ne restasse
nel suo buco. Sulla cima del colle, Hashtur assaporò il vento denso di li-
quami, prima d’iniziare la lenta discesa verso l’astronave.
    Hashtur si sentiva la protuberanza leggera e colorò il corpaccione di
rosso dalla soddisfazione. Frugò nella scarsella fino a rinvenire un altro
piccolo organismo dalla forma arcuata: dopo averlo strofinato alla testa,
lo convinse ad allungare un’antenna.
    Lo accostò alle membrane acustiche, controllò la ricezione.

          – Pronto, pronto, mi senti? La ricerca è finita, prepa-
          ra i motori. Io e Adad abbiamo verificato la presenza
          di esseri viventi e persino di un essere umano, ancora
          fermo alla famiglia sapiens sapiens. Sì, hai capito bene,
          ancora in grado di parlare e ragionare. Gli abbiamo
          lasciato del cibo. Pienamente d’accordo: un bombar-
          damento planetario non è bastato, o tre testate nucle-
          ari su larga scala per cancellarne la presenza. Sono re-
          sistenti, questi umani. Un altro paio di secoli e forse si
          decideranno ad estinguersi.

Hashtur accarezzò il cranio d’uomo nella scarsella, prima di dirigersi ver-
so la rampa dell’astronave.

                                     36
Zeno Saracino è nato a Trieste nel 1992.
Ha iniziato lo studio della storia locale all’Università di Trieste con una tesi
triennale sulla rivoluzione del 1848 a Gorizia e ha approfondito la pas-
sione per la Mitteleuropa con una tesi magistrale in Storia dell’ebraismo
sulla vita a Vienna dell’intellettuale Filippo Zamboni.
Negli anni ha lavorato con Italia Nostra nella salvaguardia del patrimonio
di archeologia industriale del Porto Vecchio di Trieste. Collabora con le
case editrici Watson Edizioni e Lettere Elettriche, mentre a livello giorna-
listico scrive per la testata Trieste All News.
Ha pubblicato nel 2018 il saggio Trieste Asburgica: l’arte al servizio dell’indu-
stria con centoParole edizioni. Lo studio della tesi magistrale è poi sfocia-
to nel saggio Filippo Zamboni: un repubblicano in Austria-Ungheria edito da
Quaderni Giuliani di Storia.

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IL MURO, UNA STORIA DI VIAGGI

                       di Gianfranco Sherwood

Il vecchio trovò Traxhil sulla sponda del ruscello, intento a lavarsi il corpo
massiccio.
    – È tutto sangue vahazal? – chiese al ragazzo.
    – Di quei ladri di polli? Sì – rise Traxhil.
    – Dici così, ma prima che vi addestrassi alle armi…
    Dal villaggio giunsero urla: i contadini avevano finito di ammucchiare
sulle pire i corpi dei predoni e ora toccava alle donne mutilare i prigionie-
ri.
    – Torneranno? – fece Traxhil.
    – Come il sole cala dietro il Muro. A nessuno è dato mutare destino –
disse il vecchio fissando la linea nera che chiudeva l’orizzonte. – Tienilo a
mente: a nessuno, mai.

Era tempo di raccolto quando venne il reclutatore imperiale. A nord in-
combevano i barbari e l’esercito aveva fame di braccia, ma la nomea bel-
licosa del villaggio sconsigliava arruolamenti forzati. L’ufficiale cavalcava
dunque tra gli uomini intenti a mietere il grano e, quando vedeva un gio-
vane dal fisico adatto, lo invitava a marciare sotto le insegne del drago.
Ma lo scrivano al suo seguito aveva annotato solo un paio di nomi, figli di
famiglie con troppe bocche da sfamare.
    Poi l’ufficiale notò la possanza di Traxhil.
    – Tu. Che vuoi farne dei tuoi anni migliori? Restare con i piedi nel le-
tame o vivere la gloria?

                                     39
Traxhil si deterse il sudore con l’avambraccio. – Né l’uno né l’altro, si-
gnore. Diventerò ricco.
    L’ufficiale si accigliò. – Chi prende la via del brigante ottiene solo il pa-
tibolo.
    – Non pensavo a quello.
    – Ah! Un altro sciocco che s’illude di trovare il tesoro nel Muro. Rim-
piangerai di non esserti arruolato.
    Traxhil raccolse il falcetto e non gli badò più.
    Procedeva sicuro, i mannelli alle sue spalle ben legati e accatastati. Ma
lo sguardo tornava su ciò che gli occupava la mente: l’infinita linea del
Muro.

Una sera di primavera Traxhil mise in una sacca pochi averi. Suo padre
gli diede un cavallo e delle provviste, la sua parte d’eredità, disse. Sua ma-
dre lo salutò a ciglio asciutto. Tutti sapevano che non si sarebbero rivisti.
    Ai bordi del villaggio sostava il vecchio. Traxhil tirò le redini. – Che
vuoi? chiese.
    – Ho qualcosa da darti.
    Il ragazzo svolse il fagotto. Conteneva una spada d’acciaio, una cotta di
metallo e cuoio, un arco di frassino.
    – Perché non mi dici anche ciò che sai? – chiese.
    – Del tesoro? Ne so quanto te.
    – Menti. Ma io l’avrò. A qualunque costo.
    – Sì, ora dici così. Ma sai che ti aspetta?
    Traxhil sogghignò, spronando il cavallo, la mente già volta alla strada
per il Muro. Ma quando il villaggio fu solo un’ombra confusa nel crepu-
scolo, si voltò d’istinto. Sentiva che il vecchio era ancora là, intento a fis-
sarlo.

In cima alla collina, fermò il cavallo. Vedeva un’oasi rigogliosa ai margini
del deserto di sassi. A nord, le vampe di calore confondevano le lontane
mura di una città. Attese, passandosi la mano sulla barba nera e sulla cica-
trice che gli solcava la fronte.

                                       40
Arrivò il capo della carovana. – Che c’è, Traxhil? – chiese.
    – Troppa quiete, Harp. Aspettiamo. Col buio andrò a vedere com’è
davvero.
    – Sei pagato per proteggermi non per dirmi cosa fare– replicò l’altro.
– In quella città c’è un presidio, di che hai paura?
    – Vi guarderò le spalle» concluse Traxhil impugnando l’arco.
    L’armò, mentre la carovana svaniva nell’oasi. Si udirono strepiti e urla.
Apparve Harp, galoppando a spron battuto, seguito da predoni nero ve-
stiti. Quando furono a tiro, Traxhil scagliò tre frecce. Altrettanti cavalli
rimasero senza cavaliere e i banditi tornarono nell’oasi.
    Harp scivolò a terra. Aveva una gamba squarciata. Traxhil l’esaminò.
    – L’arteria è intatta – disse. – Ma l’osso è rotto.
    – Non sto in sella. Portami in quella città. Mi cureranno.
    – Io vado a occidente. Sapevi che sarei stato con te solo se le nostre
strade coincidevano.
    – Ti farò ricco!
    – Vieni con me. Arriveremo nella città cui eri diretto.
    – A dieci giorni di cammino? Con questa gamba? Marcirà! Morirò!
    Traxhil alzò le spalle. – Ti lascio dell’acqua. Addio.
    Allontanandosi, udiva le suppliche del mercante. Ma lui fissava il Muro,
ora ben distinguibile sotto il cielo cobalto.

Nelle ultime stagioni, mentre città e villaggi si diradavano e i suoi capelli
s’ingrigivano, Traxhil aveva notato altri diretti a occidente, solitari anch’es-
si. E forse il suo sguardo era altrettanto folle. Ora il Muro lo sovrastava,
le immense pietre squadrate sovrapposte, alte e lisce a perdita d’occhio.
Arrivò al Varco. Caotica e lercia, una città era sorta accanto alla fenditura.
L’abitavano puttane, venditori di mappe, indovini, preti untuosi. Perché
il Muro attirava la feccia come la fiamma la falena. Traxhil girò nei vicoli,
ignorando trafficanti di corpi e ciarpame, attento alle insegne. Scelse la
bottega di un vecchio dagli occhi astuti.
    – Che vuoi? Armi, cibo, la mappa del tesoro?

                                       41
– Cibo. E informazioni – rispose Traxhil, posando una borsa d’oro. – Chi
ha fatto il Muro?
   – Per i preti, gli dei hanno sistemato così le pietre avanzate dalla cre-
azione del mondo. Ci credi? Neanch’io. Però è un gran lavoro. Tranne il
Varco, tra le pietre non passa un capello.
   – E il tesoro?
   – Tanti lo cercano e pochi tornano, miseri e pazzi. Dentro il Muro trovi
solo i mostri che lo infestano.
   – Mostri… Voglio anche una pietra magica.
   – Tu lascerai le tue ossa più lontano di chiunque altro – rise il commer-
ciante.

Entrando nel Varco con mille altri, Traxhil decise di tenere conto dei gior-
ni. Ma inoltratosi negli spazi tra le pietre, prima alla luce di torce, poi nel
lucore di vaste fungaie, presto non seppe più quanto tempo fosse passato.
I cercatori del tesoro si diradarono, ognuno scegliendo la propria strada
agli infiniti bivi, secondo la mappa comprata in città. Lui cercava l’ovest,
accertando la direzione con la pietra magica: una scheggia in una ciotola
d’acqua, che indicava il nord. Poi non vide più nessuno. A tratti sentiva
urla di cercatori impazziti per l’oppressione dei cunicoli e la fame. Anche
le sue provviste si fecero scarse. Ridusse la razione a un boccone di carne
secca. Per la sete, c’erano stille di un’acqua fredda e amara. Poi trovò uno
scheletro. Mentre traeva dalla sacca del morto pezzi di galletta, notò le
ossa abrase. E udì un rumore, rapido, secco. Colse occhi scarlatti, un bru-
licare ossuto, zanne fameliche. Spalle al muro, mulinò la spada tra schizzi
d’icore fetido. Saltò su un rialzo. Le creature s’inarcarono, ma gli artigli
scivolavano sulla roccia. Si guardò attorno. C’erano passaggi a mezz’altez-
za. Ma cosa li infestava?

Divenuto anche lui creatura dei cunicoli, percepiva il pericolo con nuovi
sensi e quando la minaccia dei Molli era insostenibile, tornava tra le Zan-
ne. La fame lo spinse a farsi predatore dei mostri, ma sempre avanzando.
A tratti, ricordava una pietra che indicava la strada di un tesoro, forse solo

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un sogno. Perché la realtà era avanzare, uccidere, stare all’erta. Poi, una
lama gli trapassò gli occhi. Cadde, le mani sul volto.

Aspettò la notte per guardarsi attorno. In alto, luci di cui aveva scordato
l’esistenza; dietro, il Muro. Pianse rammentando le parole del reclutatore
e il resto. Ma l’odore dell’erba lo rincuorò. Trovò della frutta. Dormì.
    Il mattino s’incamminò, riparati gli occhi con uno straccio. Quando
il dolore cessò, vide campi e alberi. Uccise una lepre con l’arco. Mentre
l’arrostiva, venne un contadino. Traxhil si alzò per accoglierlo, ma l’altro
fuggì urlando. Allora si specchiò in un ruscello e sorrise al mostro che lo
fissava. Si lavò e rase col coltello. Poi, guardò a ovest. Ora, voleva fuggirlo,
il Muro. Ma si sentiva stanco.

Proseguì, vivendo di caccia. Conobbe genti e ne imparò la lingua. Anche
là c’era un impero e barbari a nord. E predoni. S’imbarcò su navi di mer-
canti, viaggiando e viaggiando sinché la linea nera non svanì. Si mise allora
in cerca di un luogo dove attendere che il resto del suo tempo si compisse.
Un giorno attraversò un villaggio incendiato, vide cadaveri di contadini,
donne sventrate e s’impietosì. Mentre meditava sulla crudele insensatezza
del vivere, scorse a occidente una sottile striscia d’ombra: un altro Muro.
Traxhil rise sino alle lacrime.
    – Oh, dei che vi fate gioco degli uomini! Ora vi capisco!
    Sì, doveva insegnare a un villaggio l’uso delle armi. E forse avrebbe
dato la sua spada a un giovane ossessionato da un’illusione vana quanto
quella che gli aveva consumato l’esistenza. Eppure… dopotutto, poteva
anche darsi che un tesoro ci fosse davvero, celato tra le radici del mistero
del mondo. E che a qualcuno toccasse scoprirlo. Così riflettendo, andò a
compiere il proprio destino.

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Gianfranco Sherwood ha vinto il XII premio di letteratura fantastica, se-
zione fiction di Courmayeur; il premio speciale della giuria del concorso
Cosseria galattica 2000, il premio letterario 2001 dell’Editrice Nord, lo
Sherlock Magazine Award 2004. Si è inoltre classificato terzo al Lovecraft
2000. I suoi libri sono pubblicati dalla Delos e dalla MGS Press. In gene-
re, gli piace ridere e scherzare. Negli ultimi anni, quando non si dedica
ai nipoti, riflette sugli ormai tanti decenni trascorsi quaggiù, cercando di
trarne un senso. Per ora, non ha risolto granché, ma non dispera di farce-
la, prima dell’Ultima Tappa. Se mai accadesse, si impegna a non tenere la
cosa per sé. Tra l’altro, proprio di questo parla Il muro. Il racconto è tratto
dalla Weird Anthology, edita dalla Delos.

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L’ULTIMA STANZA DEL MONDO

                              di Alex Tonelli

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                                               Che scorrevano tra le nuvole
                                          Qualche attimo fa sono scomparsi,
                                                      Ed improvviso è buio.

                                                                Mark Strand

La stanza è fiocamente illuminata. Un alone di luce si diffonde intorno
alla lampadina sorretta da un filo nero e consumato che pende dal soffitto
scrostato. Tutt’intorno il buio resiste e si annida tra gli oggetti, languendo
placido negli spazi. A fatica si intravede un piccolo tavolo, basso e quadra-
to, esattamente al di sotto della debole lampadina, nel centro della stanza,
pare messo lì per un motivo, una ragione condivisa, ormai dimenticata.
Sconosciuta.
    Lì se ne stanno quattro bicchieri di forme e fattezze diverse, in alcuni
pare ancora versato un liquido denso, colloso, di colore viola e intorno
delle lattine e una bottiglia di vino senza etichetta. Un posacenere traboc-
ca mozziconi di sigarette piegate e mezzofumate.
    L’odore di birra, vino scadente e tabacco ristagna nell’aria e tocca la
pelle quasi come una sensazione tattile, appiccicosa, unta.
    Si ode un brusio, un bisbiglio, un parlottare fra sé e improvvisamente
il rumore di un accendino che s’accende; la fiammella bluastra illumina le

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