Limes orientalis: di Svevo o della redenzione linguistica degli irredenti.
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Marco Carmello (Universidad Complutense – Madrid) Limes orientalis: di Svevo o della redenzione linguistica degli irredenti. L’argomento di quest’articolo è di non immediata definizione, richiede una premessa: è ben noto come l’unità politica del paese, progettata nella prima metà del XIX sec. e finalmente raggiunta nella seconda, provochi una profonda crisi della cultura italiana, crisi il cui segno sembra essere dato soprattutto dalla difficile definizione di uno spazio sociale e geo-politico in termini di unità e condivisione culturale. Uno dei centri problematici di tale crisi è proprio la lingua. Il problema del frazionamento linguistico della Penisola si è costantemente posto nel corso della storia culturale italiana 1(Migliorini 1958, Coletti 1993, recentemente Trifone 2010). È soprattutto la fase umanistico-rinascimentale a determinare il corso successivo degli eventi. La soluzione che Bembo 2 diede alla questione dell’unitarietà linguistica privilegia la salvaguardia della tradizione culturale a scapito del continuum sociolinguistico, che viene rotto con l’istituzione di una differenza fra correttezza della lingua (scritta e letteraria) e impurità dell’uso dalla quale, ben presto, sorgerà l’opposizione polarizzante lingua/dialetto3. La soluzione bembesca ha una valenza non solo linguistica, ma anche latamente ideologica: nell’assenza di qualsiasi altro riferimento, sarà infatti l’osservanza di un certo codice linguistico, che si declina nell’istituzione di una linea di forza retorico/letteraria che permetterà di definire il grado di eccentricità di un’opera o di un autore, a definire il concetto stesso di “ italianità”. A seguito dell’assunzione dell’Unità la soluzione bembiana entra a sua volta in crisi: da una parte si vuole mantenere l’insolubilità dello stretto nesso intercorso fra lingua ed identità culturale, dall’altra non si può non riconoscere che il bisogno di coesione linguistica di una società unitaria non può essere soddisfatto da un rarefatto linguaggio letterario; si pone così il problema della creazione di una lingua nazionale unitaria per l’intera società italiana. Tale questione, le cui vicende sono ben note, assume immediatamente l’aspetto di una disputa intorno al problema della diglossia italiana, riassumibile nella semplice domanda: come considerare il parlato dialettale? Schematizzando radicalmente possiamo ridurre a due le risposte possibili: quella, ampiamente maggioritaria, del Manzoni, per cui ad una patria deve corrispondere una lingua; quella minoritaria dell’Ascoli, secondo cui il “bilinguismo de’ figliuoli” ben lungi dall’essere un difetto è anzi un vantaggio per il loro incivilimento e quindi, indirettamente, anche per l’Italia 4. Le due posizioni non sono in realtà specularmente equivalenti: mentre quella dell’Ascoli è scientificamente ispirata, e contrasta quella manzoniana sulla base di argomenti strettamente 1 Tre sono i grandi periodo critici: il primo consiste nel passaggio in Toscana dei poeti della corte di Federico II; il secondo è rappresentato dalla crisi rinascimentale, il terzo dall’unità d’Italia; si potrebbe proporre una periodizzazione a quattro tempi, col momento attuale come quarto stadio di una crisi dell’italiano (mi sembra che vadano in questa direzione tutte le analisi dell’attuale situazione italiana improntate a forte pessimismo verso l’unitarietà, se non addirittura verso le capacità di “resilienza” della lingua, come il già citato Trifone 2010). In realtà, una delle morali che si possono trarre dal classico De Mauro (1970), che funge da sfondo teorico di questo lavoro, è che il momento attuale rappresenta una parte di quella crisi unitaria che qui si prende in considerazione. 2 Non discuto in questa sede se altre soluzioni alternative a quella bembiana (Trissino e Gelli, sopra tutti) fossero praticabili: basti dire che, dati i termini del problema – conservazione di una continuità e di un’identità culturali in assenza di una base politica che potesse “ideologicamente” garantirle – la soluzione proposta nelle Prose si rivela estremamente efficiente. 3 Dunque, si potrebbe definire Bembo padre della lingua (sua figlia legittima) ma anche padre, o per lo meno patrigno, del dialetto (figlio illegittimo e bastardo). Si veda a riguardo anche la polemica nuovo/novo condotta dall’Ascoli a proposito del fiorentino. 4 Si veda a riguardo il Proemio all’Archivio glottologico italiano (1873/1975). Non a caso anche Ascoli è un irredento; proviene da un ambiente simile a quello di Michelstaedter, con cui forse aveva vaghi legami di parentela, e di Svevo.
linguistici, la prima, quella del Manzoni, è a tutti gli effetti una posizione politica che parte dal ben noto assunto per cui unità nazionale significa essere “uni di patria, di lingua e d’altare”5. Questo nesso fra unitarietà linguistica ed unità politica ispira, a prescindere dall’adozione delle varie ed effettive soluzioni proposte o sussunte dai singoli, l’intera pratica letteraria, critica, filologica, editoriale dell’Italia post-unitaria fino alla prima guerra mondiale 6. Al di là delle soluzioni scelte, delle scuole di appartenenza, vi è la condivisa assunzione di un atteggiamento – di segno pesantemente antiascoliano – secondo cui l’unitarietà linguistica è fatto troppo importante, di troppa vitale rilevanza perché possa essere lasciato alla semplice evoluzione della vita nazionale (come suggeriva Ascoli): dovrà esservi una classe di “intellettuali”, operante a livello alto e basso 7 che approverà e sanzionerà gli usi secondo un’idea di lingua pura, corretta, veramente italiana. Nasce così una vera e propria ideologia della lingua italiana. È questa ideologia il nostro argomento indiretto: dico indiretto perché uno degli approcci possibili a questo tema, che rimane nel cono d’ombra di molta bibliografia specializzata, è quello di analizzarlo a partire dall’esterno, ma da un esterno particolare, che fa da soglia allo spazio culturale italiano: quello della pratica letteraria degli autori italofoni politicamente “irredenti” che, pur guardando all’Italia, ne sono “fuori”, vivendo immersi in una realtà politica multietnica, multiculturale, multilingue, scossa dallo scontro interno fra un’autorità unificatrice e centripeta, sempre in lotta contro ogni declinazione di nazionalismo - compreso quello linguistico - e più istanze centrifughe, nazionaliste, anche linguisticamente nazionaliste, in lotta verticalmente contro il potere centrale ed orizzontalmente in opposizione fra di loro. La situazione asburgica, con la sua variabilità molteplice e complessa di rapporti, si rivela dunque ideale per compiere un’opzione linguistica che non sia però anche un’opzione di ideologia linguistica; è dunque questo il senso dell’inversione di vettore dell’irredentismo proposta nel titolo: sono proprio gli “irredenti” a redimersi linguisticamente, potendo usare l’italiano senza quelle remore culturali che appesantiscono lo sviluppo letterario e, più generalmente, linguistico in patria. Tale libertà linguistica è favorita anche dalla ben nota propensione all’uso del dialetto triestino come simbolo di italianità opposto al tedesco ed all’ungherese del potere politico, burocratico e militare ed alle lingue (sloveno, croato) degli altri autoctoni, gli slavi8: si pensi a quel che dice indirettamente riguardo all’uso linguistico di Trieste l’Emilio Brentani di Senilità, quando riprende le affettazioni linguistiche di Angiolina dicendo: “Ella toscaneggiava con affettazione e ne risultava un accento piuttosto inglese che toscano. ‘Prima o poi’ diceva Emilio ‘le leverò tale difetto che m’infastidisce’…”. (Senilità, ed. Mondadori, p. 54) 5 Si consideri che tutte le posizioni “intermedie” fra i due, a partire da quella più nota e meglio argomentata, ossia quella del D’Ovidio, tentano di impiantare sulla base ideologica manzoniana argomenti linguistici provenienti dal mondo di degli studi linguistico/dialettologici inaugurati dall’Ascoli. 6 Significativamente, fino alla fine della prima guerra mondiale, la pratica legislativa dello stato monarchico post- unitario non trasformerà il problema dell’unitarietà linguistica in un problema di nazionalismo linguistico. Complice l’originaria natura bilingue degli stati dei Duchi di Savoia e Re di Sardegna e l’assenza di rilevanti minoranze linguistiche dopo la cessione dei territori francofoni (Savoia e Nizzardo) alla Francia di Napoleone III, non verrà infatti sentita la necessità di una legislazione vessatoria contro le minoranze. L’entrata entro i confini nazionali di territori compattamente germanofoni (Alto Adice/Südtirol) e slavofoni (Trieste e Gorizia, e, fra le due guerre, Istria e città di Zara), in concomitanza con l’ascesa del Fascismo, interrompe la pratica di tolleranza linguistica – pienamente ripresa dalla Repubblica – tradizionale . Curiosamente però, nei regolamenti parlamentari di Camera e Senato, permane la norma – spesso usata dal Cavour stesso - già del parlamento Sabaudo, che consente ai parlamentari di potersi esprimere in francese, oltre che in italiano. Per la Camera la norma sarà abrogata nel 1939, in seguito alla trasformazione della Camera dei Deputati in Camera dei fasci e delle corporazioni, per il Senato del Regno invece la regola rimarrà in vigore fino al 2 giugno 1946, quando, con l’entrata in vigore della Repubblica, il Senato del Regno cessa di esistere (notizie in De Mauro 1970). 7 Si pensi a riguardo al senso dell’opera di un letterato di “consumo” come De Amicis, dal Libro dell’idioma gentile, alle relazioni di viaggio ai Racconti di vita militare, fino al famigerato Cuore. 8 Si veda De Mauro (1970).
Parlare italiano fuori d’Italia, e decidere di scrivere in italiano fuori d’Italia, comporta dunque una duplice libertà culturale: libertà nell’uso della lingua, da cui consegue la possibilità, ancora una volta doppia, di accostarsi alla forma romanzo senza pagare dazio a Manzoni 9 o, come invece fa D’Annunzio 10, alla pregressa tradizione letteraria; libertà nella concezione della lingua e della sua funzione. È quella libertà che Michelstaedter definisce nella nota opposizione tracciata nella sua tesi di laurea mancata fra retorica e persuasione, dove al primo opposto (la retorica) troviamo il mondo della lingua formalizzata, rinsecchita resa artificiosa da un uso lontano dal vivere, ed al secondo (la persuasione) troviamo invece ciò che forse, forzando il concetto terraciniano 11, potremmo chiamare la “libertà linguistica”, ossia, per Michelstaedter, l’uso linguistico inteso come adesione alla realtà del dolore umano non più ammantata dall’inganno retorico (non a caso sono forti nel filosofo goriziano le lezioni di Leopardi e del Petrarca dei Trionfi, solitamente relegato ad un posto ampiamente secondario rispetto al pater linguae del Canzoniere). Comunque la si intenda, il grande nemico di questi irredenti, Michelstaedter, ma anche Ascoli e lo stesso Svevo, è quella “retorica”, che si declina sempre in aspetto prettamente linguistico, che trattiene la volontà creativa, il percorso liberatorio, culturalmente liberatorio, della loro parabola artistica. Fuori dalle grandi enunciazioni teoriche, cui rimane sempre sostanzialmente estraneo, per Svevo la questione sembra porsi esclusivamente nei termini del “fare scrittura”, come risulta evidente nel primo romanzo (Una vita), forse più che in ogni altro luogo dell’opera sveviana. La vita di Alfonso Nitti, impiegato aspirante scrittore, è infatti interamente dominata dalla scrittura, che egli cerca di attingere, senza riuscirvi, al livello alto della creatività artistico-letteraria, ed invece subisce a livello basso in una triplice maniera. Anzitutto come scrittura d’ufficio, in cui l’immagine stessa della ricerca stilistica, l’oraziano labor limae, ritorna deformata nella figura del capo-corrispondente Sanneo, la cui auctoritas sanzionatoria, quasi parodia di quella stessa censura linguistica che andava esercitandosi nella coeva Italia da parte di scrittori, filologi, letterati ed eruditi a vario titolo, pesa sugli impiegati rendendo quasi impossibile non solo il corso ordinario del lavoro ma persino il loro vivere. Vi è poi l’opposizione più volte intrecciata fra la lingua stereotipa del romanzo, o romanzetto d’appendice, che non può certo soddisfare l’aspirazione di Svevo/Nitti verso la creazione artistica, e quella altrettanto incerta che proviene dalla scuola; questi sono gli altri due pesi linguistici che schiacciano Nitti. La stereotipicità della lingua dei prodotti letterari di consumo, la “retorica” , potremmo dire con Michelstaedter, del romanzo d’appendice, è rappresentata dall’improbabile collaborazione fra Alfonso ed Annetta Maller nella scrittura di un ancor più improbabile romanzo, che sembra anche guardare, oltre che all’allora pervasivo modello francese, a contemporanei esiti italiani, cui fa pensare un rilievo secondo cui, nel momento in cui Alfonso riduce la sua collaborazione con Annetta alla sola correzione, lo fa perché, pur non avendo: “nessuno dei due … gusti troppo raffinati in fatto di lingua” (Una vita, p. 181) giunge alla conclusione che: “… svolto a quel modo, 9 Come facevano i molti manzoniani lombardi e non, ma anche tanti Scapigliati, od eccentrici, che al Manzoni devono, per antitesi, la formazione della loro scrittura. 10 È questo, mi pare, il senso dello scavo nella lingua “dei padri” (da cui derivano i ben noti preziosismi lessicali, ma forse anche qualche giro di frase) che il Pescarese, quasi obbligato dal suo antimanzonismo, compie con puntigliosa ossessione lessicale, anche se si tratta più di ossessione per i lessici, i vocabolari, le liste di parole che di vera e propria frequentazione dei testi “della buona lingua antica”. 11 Ma di vera forzatura si tratta? La figura intellettuale del Terracini teorico della lingua è certamente una di quelle che più ha sofferto del “doppio legame” della cultura italiana con l’ingombrante figura di Benedetto Croce . In realtà l’dea di “libertà linguistica” ha le sue radici anche in quella dialettologia romanza di cui Ascoli, appunto, e Schuchardt possono essere considerati i padri nobili. Il richiamo a Terracini nel caso della riflessione linguistica di Michelstaedter è allora meno peregrino di quanto possa sembrare a prima vista.
il romanzo non poteva essere vestito che di panni dello stesso gusto, melodrammatici e chiassosi” (Op. cit., p. 181), con riferimento chiaro a certa prosa di consumo del tardo XIX sec. italiano. La lingua di scuola, oltre a far capolino nel caso di Annetta, con una notevole punta di polemica verso la pretesa modernità di alcuni italiani contemporanei, come rivela ciò che Macario dice ad Alfonso riguardo a Spalati: … il professore di lingua e letteratura italiana dal quale Annetta prendeva lezioni …. Era verista a credergli ma viceversa poi , quando si trovava alle prese con uno scrittore italiano, indagava pedantescamente se usava parole non legittimate dal Petrarca. (Una vita, a cura di Bárberi Squarotti, p. 99) trova il suo luogo soprattutto nel tentativo di Alfonso di far scuola di lingua alla figlia dei Lanucci, Lucia. È interessante vedere come Alfonso espleti il suo compito: Avevano principiato col Puoti, ma ben presto mutarono programma, ambedue mortalmente annoiati. Lucia non aveva capito niente e Alfonso lo sapeva. Da parecchio tempo Alfonso usava leggere i sinonimi del Tommaseo. Risolse di far studiare a Lucia quelli in luogo della grammatica. – Almeno non si ha da fare con un sistema – le disse. – Per quanto lo si sia, non ci si accorge mai di essere troppo indietro perché non c’è addentellato, ogni pagina ed ogni articolo essendo parti che stanno da sé. Si studiano queste parti ed un bel giorno si scopre con sorpresa di aver edificato un edifizio, conquistata la lingua italiana. (Op. cit., a cura di Bárberi Squarotti, p. 73) Parole, queste di Macario ed Alfonso, in cui si rivela la coscienza culturale di Svevo che quanto la norma italiana dell’epoca offriva non può bastare a lui, come non basta al suo protagonista, per perseguire lo scopo di una scrittura prosastica che imbocchi la strada del romanzo moderno. Certo la macchina narrativa del romanzo era stata, e con successo, tentata dal Manzoni, ma, sembra suggerire Svevo, quella soluzione è unica, “imbattibile” nel senso primo ed etimologico dell’aggettivo, perché impossibile da seguire, dunque incapace di aprire una via sulla quale possa proseguire un serio e continuativo tentativo di prosa romanzesca italiana 12. Un’osservazione autoriale, che promana direttamente dalla voce del narratore Svevo, ci mette sulla giusta pista: all’inizio del X capitolo , l’autore ci informa che: La signora Carolina scriveva ad Alfonso con grande regolarità. Dalle sue lettere trapelava la noia di scrivere e che non c’era che l’alta idea ch’ella s’era fatta della maternità per indurla ad inviare con regolarità al figliuolo le due paginette delle sue zampe di mosca. Soltanto per le persone colte lo scrivere può tenere luogo del parlare. (Op. cit., a cura di Bárberi Squarotti, pp. 104 - 105) Il polo dello scritto e quello del parlato si oppongono qui esemplarmente nella dicotomia affermata implicitamente dalla pesantezza affaticata della “prosa” dell’umile madre di Alfonso Nitti: solo a chi sia “colto” si permette di risolvere quella distanza, ma, ed è qui la presa di posizione compiutamente antimanzonista di Svevo, tale soluzione non passa dall’imporre verso il 12 Se si volesse porre la questione in termini di “fortuna”, non sarebbe del resto fuor di luogo chiedersi quali siano gli eredi propri del Manzoni, ossia quegli in cui lo “stile” del Gran Lombardo intervenga come influenza diretta nella creazione della scrittura personale. Ci si accorgerebbe facilmente che tali non possono essere definiti né i manzoniani d’osservanza, per intenderci gli “stenterelli” che “… tirino quattro paghe per il lesso”, e neppure autori di maggior levatura, come il Fogazzaro o il De Marchi, pur nella loro vicinanza, per temi, sensibilità ed orizzonti culturali al Manzoni. Se allora si dovesse riconoscere che Manzoni scrittore non ha eredi diretti, bisognerebbe anche ritornare con occhio diverso, e più acuto, alle tirate, solo apparentemente “retoriche”, del Carducci critico contro la prosa (si vedano i Discorsi sopra la letteratura nazionale), “tirate” in cui potrebbe annidarsi maggior acume di quanto forse si voglia concedere.
polo basso la norma dotta – il “noioso Puoti” piuttosto che lo sforzo dei lessicografi che rifondono “l’oro della lingua” in ben tornite liste di sinonimi – ma nel trasporre verso l’alto la plasticità del parlato. Per Svevo è lo scritto a: “dover tenere il luogo del parlare”, il che suggerisce un’opposizione di vettore rispetto alla comune posizione manzonista, per cui è una norma prefissata a doversi imporre alla plasticità del parlato, facendo sì che i due termini risultino diametralmente opposti: il parlare in luogo dello scrivere, si potrebbe dire 13. Dunque la soluzione del problema normativo/grammaticale, soluzione che – giova sempre rammentarlo – Svevo dà in termini di pratica della scrittura romanzesca, passa da una mossa in qualche modo pragmatica: forgiare una lingua dello scritto che obbedisca, come quella del parlato, alle esigenze espressive dell’opera, una lingua quindi, per dirla a là Michelstaedter, “persuasiva” e perciò obbediente ad una sorta di normatività interna, in accordo con lo scopo espressivo dell’opera; da qui la liberazione dalle preoccupazioni “retoriche” 14 del “buon uso”. Risolvere il rebus dello scritto in maniera che questo riesca veramente a “tener luogo” di lingua viva, capace di agire con fattitiva attualità estetica nella creazione romanzesca, significa non solo dimostrarsi “colti”, ma anche riuscire a vincere quella “noia di scrivere” verso le cui secche siamo spinti dalle differenti “retoriche” della scrittura mancata. È questa una “noia” pericolosa, persino mortale, come dimostra il suicidio del Nitti, una vera e propria morte “a causa di scrittura”. Va meglio all’Emilio Brentani di Senilità, autore di un romanzo di una certa fama, che è riuscito ad uscire dall’impasse di Alfonso Nitti. Non è un caso che alle molte considerazioni linguistiche di Una vita si oppongano le poche scarne notazioni di Senilità. Mentre Alfonso Nitti cercava di mettere quanto più toscano potesse nell’educazione di Lucia15, Emilo Brentani è ugualmente intollerante delle affettazioni toscaneggianti di Angiolina16, e di quelle contenute nella lettera d’addio del Volpini: “Seguivano poi delle grosse frasi, che, malamente connesse, davano l’impressione della perfetta sincerità del buon uomo e facevano ridere solo per qualche parolona, che doveva esser stata presa di peso da un vocabolario” 17. (Senilità, ed. Mondadori, p. 165) Pare, è vero, di sentire echeggiare in queste rapide parole di Senilità un’anticipazione della polemica contro gli “italianizzanti da strapazzo” iniziata, con un noto articolo del 1927, da Benvenuto Terracini; mi sembra però che l’intento dei due sia opposto: il linguista torinese è interessato – e proprio mentre si approva e si attua la riforma scolastica voluta da Giovanni Gentile - a riaffermare, in linea con la tradizione post-unitaria, la necessità di un’imposizione normativa, l’autore, al contrario, triestino pare invece proclamare l’irrilevanza della norma per la creazione di una lingua di prosa. L’impressione è che Svevo si attenga in maniera rigidamente pragmatico/fattitiva all’adagio per cui: “rem tene, verba sequentur”. Il ragionamento implicitamente proposto da Svevo sembra così schematizzabile: in presenza di un codice linguistico pragmaticamente condivisibile, ossia in presenza di un sistema di lingua che possa essere riconosciuto come “italiano” in ogni area 13 È ben noto come la soluzione proposta dal Manzoni passasse da un recupero del parlato, ma di recupero paradossale si trattava: era cioè l’idea che si potesse opporre alla lingua scritta di bembiana ascendenza il parlato della Firenze coeva al Conte, quasi che tutto il problema dell’assenza di uno standard parlato potesse risolversi entro le strette mura della città di Firenze. Alcuni fra i seguaci del Manzoni, in testa il Broglio, procedettero poi anche oltre nel tentativo di fare di Emilia Luti la “nutrice” d’Italia. Come però dimostrano le acute pagine del Proemio ascoliano dedicate al fiorentino ottocentesco ed, ancor più, quelle scritte riguardo il lessico tecnico, il progetto è imperseguibile, non solo, ma se venisse messo in pratica, suggerisce l’Ascoli, pur senza mai dirlo esplicitamente, comporterebbe l’imposizione di uno standard fissato per iscritto alla lingua parlata del resto d’Italia. In questo senso ritengo giusto dire che, per i manzonisti, sia realmente lo scritto a dover “tener luogo” del parlato. 14 Uso sempre il termine a là Michelstaedter. 15 Nome, forse, non casualmente manzoniano. 16 Si veda il passo precedentemente citato. 17 Parole che paiono essere una lampante confutazione dell’uso del dizionario di Tommaseo fatto dal Nitti di Una vita nel suo tentativo di un’educazione di Lucia.
italofona, non importa prendere posizione rispetto al sistema stesso 18, ma importa che il sistema stesso prenda posizione rispetto alla materia della narrazione, divenendo così quell’elemento medio che permette alla scrittura di “tenere il campo” occupato dalla lingua scritta. La conseguenza, come già ho detto, non è la perfetta coincidenza di scritto e parlato 19, ma il fatto che lo scritto venga ad avere la stessa funzionalità dell’orale nei confronti della materia narrata. La lingua, sia essa scritta o parlata, si fa così funzionale alla comunicazione, oscurando se stessa e le sue esigenze “interne”di “stile”, a favore di un’estroversione totale verso la trama ed il percorso diegetico della narrazione, in cui la libertà della voce narrante è la più assoluta. Dunque lingua in pieno “persuasiva”, completamente delibata di ogni scoria “retorica”, le cui potenzialità esplodono pienamente nella Coscienza, non a caso contraffazione di una scrittura privata, intima, di Zeno Cosini: una scrittura generata da un soggetto per se stesso, in cui, almeno nella finzione letteraria, emittente e ricevente coincidono pienamente, col risultato di piegare il codice alla più assoluta soggettività. Non essendo qui possibile un’analisi specifica della lingua della Coscienza e, soprattutto, del meta pensiero linguistico le cui tracce sono sparse nel romanzo, mi limito ad una citazione dall’inizio del capitolo finale del romanzo, Psico-analisi. Due considerazioni, a mo di introduzione, mi paiono pertinenti: la prima, nel finale del romanzo Zeno viene a trovarsi sempre più solo, non solo sono venute meno le persone a cui beneficio Cosini ordisce la sua simulazione – il dottor S, la famiglia, l’Olivi -, ma la barbarie della situazione di guerra ha fatto sì che cadesse anche l’ipocrisia dell’ultimo, fittizio, scrupolo morale che ancora aveva agitato il protagonista nel precedente capitolo (Storia di un’associazione commerciale). Da questa prima considerazione ne discende una seconda, più vicina alle mie considerazioni: per la prima volta, in quest’ultimo capitolo, lo scrivere di Zeno diventa pienamente diaristico, ormai quell’effetto di piegatura referenziale per cui il produttore della scrittura ne diviene anche il suo unico fruitore è pienamente compiuto. Se negli altri sette capitoli dell’opera poteva scorgersi un qualche movimento centrifugo che accennasse un’apertura nella claustrofobia della Coscienza/coscienza di Zeno, in quest’ottavo la chiusura è totale, tanto ermetica da rivelarsi distruttiva per l’esterno. Ecco dunque la citazione: “Il dottore presta una fede troppo grande anche a quelle mie benedette confessioni che non vuole restituirmi perché le riveda. Dio mio! Egli non studiò che la medicina e perciò ignora che cosa significhi scrivere in italiano per noi che parliamo e non sappiamo scrivere il dialetto. Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo! Se egli sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle che ci obbligherebbero di ricorrere al vocabolario! È proprio così che scegliamo dalla nostra vita gli episodi da notarsi. Si capisce come la nostra vita avrebbe tutt’altro aspetto, se fosse detta nel nostro dialetto” 20 . (La coscienza di Zeno, ed. Bruno Maier, p. 445) 18 Non importa dunque sapere se le costruzioni, i termini, le locuzioni che si usano siano o meno dialettali, né importa stabilirne il grado di purezza, l’antichità, l’eventuale “barbaricità”. 19 Anzi Svevo è autore esclusivamente “scritto”, riguardo a cui non si può certo parlare di mimesi scritta dell’oralità. 20 La vicinanza fra queste parole di Zeno/Svevo sul rapporto lingua/dialetto e il passaggio del Proemio ascoliano in cui si parla dei danni del monolinguismo e del vantaggio di avere “figlioli bilingue”, ossia capaci di parlare sia il dialetto sia la lingua, è impressionante. Nelle pagine di Ascoli è spiegato, esemplificandolo sulla base della prosa media francese, come l’uso esclusivo della lingua potesse assumere una valenza stereotipa, dannosa alle capacità espressive; è quindi il dialetto che infonde vitalità nella lingua. Nel condensato sveviano qui citato, la lingua è, dice Zeno, usata proprio nella maniera paventata dall’Ascoli, mentre le si opporrebbe un dialetto che, se potesse essere scritto, rivelerebbe appieno una vivacità espressiva capace di dire il vero. Quest’ultima considerazione del testo sveviano ci riporta così a Michelstaedter, ed all’opposizione persuasione/retorica: il “dialetto” – un dialetto ben problematico, come si vedrà – è la lingua persuasiva. Proprio quest’ultimo passaggio però ci rivela che per nessuno dei tre – Ascoli, Svevo, Miechelstaedter – il vero punto del contendere è il dialetto propriamente inteso, piuttosto il centro problematico è rappresentato dalla creazione di una norma linguistica veramente capace di risolvere in sè libertà del “parlare” ed efficacia dello “scrivere”.
È facile fraintendere la portata del passo sveviano, tanto più sapendo (De Mauro 1970, sulla scorta di Sorrento 1925) come a Trieste la borghesia usasse, nella comunicazione quotidiana, il dialetto. Si tenga però presente quanto di questo dialetto osservava uno studioso coevo, Jacopo Cavalli, proprio sulle pagine dell’Archivio Glottologico Italiano (1890 – 92): il vecchio dialetto tergestino nell’ultimo decennio del secolo XIX si è ormai andato riducendo alle più antiche famiglie di Trieste (le “tredici casate”, cui certo non appartenevano gli Schmitz) a favore di una nuova norma veneta più marcatamente italianizzata rispetto al vecchio dialetto 21. La vita di Svevo, figlio di un padre di ascendenze tedesche stabilitosi a Trieste per commercio, è non solo coeva al processo di sostituzione dell’antica e conservativa norma tergestina con la nuova su base veneta fortemente interferita dall’italiano, ma, dato l’ambiente poliglotta, multiculturale e plurinazionale, in cui la vita degli Schmitz/Moravia 22 si muoveva, è ben più che probabile che lo stesso Svevo/Schmitz appartenesse a quell’ambiente che determinò la vittoria della nuova norma sulla vecchia. Date queste premesse, i contorni, all’apparenza tanto saldi, del “dialetto” si sfumano fino a rendere ineludibile una domanda: qual è questo dialetto, che si parla ma non si sa scrivere, di cui Zeno parla tanto accoratamente? È probabile che per rispondere si debba ricorrere a quell’idea di lingua che aveva ricevuto la sua codificazione teorica tredici anni prima nelle pagine della Persuasione e la rettorica di Michelstaedter, che si apre (Op. cit., p. 39 – 42) con l’immagine potente del peso che pende e non può che pendere fin tanto che la potenza stessa della sua pesantezza non lo annulli. L’immagine stigmatizza il pericolo insito nel grande nodo linguistico italiano, ossia il blocco di uno sviluppo delle possibilità di espressione letteraria chiuse nel recinto di una rarefatta e sempre più compressa letterarietà di scuola. Ma la dicotomia micheslstaedteriana è importante anche per un altro motivo: se la persuasione è legata alla coscienza del vivere, ossia alla coscienza del dolore del vivere, allora ne consegue che vi sia un unico modo, per la lingua, di esprimere quel dolore descrivendolo senza “retorica”: l’adesione totale alla soggettività, che passa attraverso la dissoluzione della problematicità della lingua come oggetto autonomo di conoscenza, cultura, disputa. L’eliminazione radicale del problema linguistico in quanto tale, e la sua soluzione nell’ambito dell’uso, secondo quanto argomenta il teorico Michelstaedter ed attua l’a-teorico Svevo, mi persuade a credere che Svevo faccia dire a Zeno “dialetto” per poter dire lui stesso, attraverso il diario del suo protagonista, “idioletto”, l’ “idioletto” con cui è scritta la Coscienza, che non è “lingua”, perché non è né vuole essere “toscano”, ma appunto per questo non può mentire divenendo così tanto più lingua, quanto meno potrebbe esserlo la pseudo-lingua della norma ostinatamente purista. È questo rifiuto della “lingua” come marca ideologica di un’identità ed il conseguente accostarsi allo scrivere senza l’intermediazione di una tradizione di scuola che fissa, a monte di ogni opera possibile, i canoni della correttezza linguistica, che caratterizza il portato linguistico più vero ed importante di Svevo ma anche di intellettuali che provengono da quello stesso limes orientalis, come Ascoli e Michelstaedter. Tale “libertà linguistica”, che guarda a Firenze, ma senza pagare dazio a quell’ “archeologia” tutta italiana della “purezza toscana”, è il portato più prezioso, ma ancor oggi più difficile da accogliere, per la cultura italiana di quello straordinario confine 23. 21 Che Svevo avesse una certa coscienza di questa situazione lo rivelano le sensibili vibrisse del Brentani di Una vita, così attento a ritrovare in bocca ad Angiolina cadenze e parole del veneziano opposte ai rudi accenti triestini dell’amico Balli (Una vita, ed. Mondadori, p. 86 e p. 148). 22 Allegra Moravia era la madre dell’autore. 23 Forse anche questa è una delle ragioni della fama tarda di Svevo. La sua reimportazione da un “estero” che, grazie all’assenza di “marche di italianità”, aveva riconosciuto quei tratti che rendono Svevo classico nel senso eliottiano del termine: non è solo il caso di citare Joyce, ma anche i lettori francesi: Benjamin Crémieux, ed il più acuto di tutti, quel Valèry Larbaud che in quegli anni – 1922 (poi 44) - dava alle stampe il suo: A.O Barnabooth. Son joural intime, in cui fra l’altro notava come gli italiani non conoscessero la loro propria letteratura. Ma la “reimportazione” di Svevo sarà,
Bibliografia Ascoli G.I. 1873/1975 Proemio all’ “Archivio glottologico italiano”, ora in Scritti sulla questione della lingua, a cura di Corrado Grassi, Torino, Einaudi. Cavalli J Reliquie ladine raccolte in Muggia d’Istria, in “Archivio glottologico italiano” XII. Coletti V. 1993 Storia dell’italiano letterario. Dalle origini al Novecento, Torino, Einaudi. De Mauro T. 1958 Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni. Michelstaedter C. 1982 La persuasione e la rettorica, a cura di Sergio campailla, Milano, Adelphi. Migliorini B. 1970 Storia linguistica dell’Italia unita, Roma - Bari, Laterza. Sorrento S. 1925 I dialetti d’Italia e le tradizioni popolari, in “Educazione nazionale” – agosto/settembre ‘925. Svevo I. 1892/1991 Una vita, a cura di Giorgio Bárberi Squarotti, Bompiani, Milano 1897/1985 Senilità, con un’introduzione di cesare Pontiggia, Milano, Mondadori 1923/ 1976 La coscienza di Zeno, a cura di Bruno Maier con un’introduzione di Eugenio Montale, Milano, dall’Oglio Terracini B.A. 1927 I rapporti fra i dialetti e la lingua, in “Educazione nazionale”, fascicoli 8 - 9. Trifone P. 2010 Storia linguistica dell’Italia disunita, Bologna, il Mulino. non a caso, opera (col ben noto numero dell’ “Esame” del 1925) di quel movimento ermetico che era allora, e per lungo tempo ancora resterà, un “estero in patria”.
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