Ivan Schirmenti: l'ombra che abbaglia

Pagina creata da Mirko Orlando
 
CONTINUA A LEGGERE
Ivan Schirmenti: l’ombra che
abbaglia
di Olga Chieffi

Imponendo la stabilità delle sue forme riflesse in un mondo di
messaggi confusi, la fotografia dà il nome ad un insieme di
pratiche creative che la collocano al centro della sensibilità
del nostro tempo. Esaminare la contemporaneità della
fotografia significa, quindi, raccogliere l’eredità di un
ampliamento della questione fotografica, riconoscendo sì
all’arte il suo ruolo di riferimento fondamentale, ma anche
osservando, al di là di tale riferimento, la portata estetica
ed etica delle pratiche e delle produzioni fotografiche.
L’associazione Fotografi e Videografi Professionisti,
presieduta da Walter Gilardi ha scelto Salerno, le sue
bellezze e una location particolare, quale è il Museo
Diocesano, nel cuore del centro storico, per la due giorni di
workshop con il fotografo siciliano Ivan Schirmenti,
realizzata grazie a Cesare Giliberti fotografo in Salerno
vicepresidente del direttivo AFVP. “Salerno ci ha accolto
splendidamente – ha affermato entusiasta il presidente Gilardi
– sia umanamente si artisticamente coi suoi tesori conservati
nel Museo, sia fuori nel suo centro storico. Stiamo pensando
di come impiegare al meglio gli scatti di questa due giorni di
studio”. Oltre centoquaranta fotografi di cerimonia stanno
confrontandosi da ieri in due intense giornate, in cui si
stanno toccando diversi argomenti dall’ uso della luce, alla
gestione fotografica di un matrimonio, dal marketing
dell’azienda alla risoluzione delle difficoltà di realizzare
le immagini di gruppo, alla creatività e alle nuove derive
estetiche della fotografia di cerimonia. Dopo il tempo
trascorso in sala per la teoria, l’incontro con sponsor
tecnici, quali FotoEma, Fowa, D’Aponte e I Nobili, è proprio
Salerno ad offrirsi ai centoquaranta obiettivi dei fotografi
con uno shooting fotografico negli spazi del Museo di San
Matteo e in notturna nell’ intero centro storico della nostra
città. Ad introdurre i lavori ieri è stata Antonia Willburger,
membro del consiglio comunale, già assessore alla cultura
della città, che ha salutato questo workshop come una grande
occasione per Salerno, alle soglie di una primavera nel segno
del turismo. L’accoglienza è stata affidata ad un master della
fotografia Armando Cerzosimo, in un anno particolare, poiché
festeggerà a breve il quarantennale del suo studio, un
periodo, che può sembrare breve, ma che ha visto cambiare
mezzi, intenzioni, ragioni estetiche, non cessando mai
d’interrogarsi, lui che da dinosauro dell’analogico si è
trasformato in un falco del digitale, simbolo di una categoria
che ha resistito e forte di un percorso che viene da lontano
riesce a gestire una mole di lavoro digitale che pochi
riescono a sostenere. Consegna delle tessere AFPV a fotografi
d’eccellenza quali Damiano Errico, Ivan Schirmenti, Angelo
Marchese e ad Armando Cerzosimo, prima della presentazione del
docente della clinic, Ivan Schirmenti, palermitano, figlio
d’arte di papà Franco, la cui passione lo ha portato a
studiare all’estero psicologia e fotografia di moda. Nel 2008
ha ricevuto il titolo di “Best Wedding Photographer”, e da lì,
grazie anche alla sua esperienza, ha vinto diversi contest
fotografici, a livello nazionale e internazionale, diventando
nel 2016 Master of professional Photography, fino al 2019,
quando è entrato a far parte del Team Italy per i Campionati
del Mondo di fotografia. Ha fotografato cerimonie in tutto il
mondo, laureandosi miglior Fotografo d’Europa nella categoria
wedding, grazie ad uno stile personale che lo distingue dagli
altri le cui caratteristiche sono la creatività e l’armonia
delle immagini. Tre sono le pietre miliari della visione di
Ivan Schirmenti, l’osservazione, la creatività e l’emozionare.
La sua scrittura di luce, rispecchiando le sue radici
siciliane è un’ombra che abbaglia, alla ricerca della giusta
balance per penetrare l’essenza del significato di
un’immagine. D’altra parte per dirla con Bresson “Fotografare
è porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il
cuore”. “Il mio insegnamento inizia dall’imitazione – ha detto
Schirmenti – ma sono dell’idea di non essere autoritario come
maestro, e spiego immediatamente quale azione si va ad
intraprendere e il suo perché, in un confronto d’intenti.
L’importante è conquistare un proprio stile, che
innegabilmente dipende da chi siamo, dal nostro background
culturale, dal nostro vissuto, che va a completarsi con la
visione fotografica che farà di un’immagine tecnicamente
corretta, una fotografia unica, carica di emozione,
racchiudente un sentimento”. Un workshop, questo, che
attraverso i temi e le immagini prodotte, ci offre anche un
signifyng della rappresentazione della realtà, ridefinendo
l’identità della fotografia che, approdata oggi ad una
dimensione originale e autonoma, nel caotico universo delle
immagini globalizzate, potrebbe proporre e una nuova e vera
etica di questo mondo, in rapporto alle altre arti e alle
forme.

Un flauto per la festa della
donna
Abbiamo incontrato la venticinquenne Ylenia Cimino,
concertista e docente presso il conservatorio G.Martucci di
Salerno.

Di Olga Chieffi

Nel Symposio, Platone, per bocca di Eurissimaco, dice di
mandare a spasso la flautista che all’improvviso è entrata nel
consesso: “….che vada a suonare altrove per suo conto o, se ne
ha voglia, rientri fra le donne, poiché di qui a poco
discuteremo argomenti importanti….”. Oggi per la giornata
della donna abbiamo incontrato la venticinquenne Ylenia
Cimino, flautista pollese, figlia d’arte di papà Antonio,
flautista anche lui, suo primo maestro. Di lì una carriera
brillante e fulminante che l’ha portato attraverso
l’ottenimento del diploma a soli sedici anni al Fesualdo da
Venosa di Potenza, il corso di perfezionamento presso
l’Accademia Musicale “L. Perosi” di Biella, il Master presso
la “Staatliche Hochschule für Musik und Darstellende Kunst” di
Stoccarda, attualmente iscritta al Master of Advanced Studies
in Music Performance and Interpretation presso il
Conservatorio della Svizzera Italiana, e le vittorie a mani
basse di concorsi nazionali ed internazionali tra cui il
Concorso Flautistico “Severino Gazzelloni”, il Concorso “E.
Krakamp”, il Concorso “Giuseppe Gariboldi” e il Premio
Flautistico “Angelo Persichilli”, ad avere già un’avviata
carriera concertistica, ad essere una musicista sostenuta dal
Comitato Nazionale Italiano Musica, nonché la docenza proprio
nel nostro conservatorio “G.Martucci”. E’ stato difficile per
lei essere donna musicista? “Personalmente no. Credo che la
musica sia qualcosa di assoluto che va oltre qualunque
cosa, compresa l’identità di genere”. La musica ha scelto lei
o lei la musica e in particolare il flauto? “Ci siamo scelte a
vicenda. La musica è sempre stata presente nella mia vita e ha
sempre occupato un posto importante. Mio padre è flautista,
quindi sono cresciuta ascoltando il suono di questo bellissimo
strumento. Così all’età di dieci anni, affascinata e spinta
ormai dalla forte curiosità, chiesi a mio padre di iniziare
con la prima lezione e da quel momento non l’ho più
lasciato”.E’ divenuta giovanissima docente di Conservatorio, e
al contempo prosegue la sua carriera di         concertista e
solista, quale strada percorre con più piacere? “Io le
considero due splendide strade che vanno verso un’unica
direzione. Credo che insegnare sia un’opportunità unica che ti
permette di approfondire aspetti tecnici, interpretativi e
musicali che vanno ad incidere in maniera determinante sulle
performance concertistiche. Mi ritengo davvero fortunata ad
aver avuto l’opportunità d’ insegnare, già da diversi anni,
prima al Conservatorio di Cosenza e attualmente al
Conservatorio di Salerno. Due esperienze che mi hanno dato
tanto dal punto di vista non solo professionale ma anche e
soprattutto umano”. Ha mai pensato di diventare prima parte in
una prestigiosa orchestra? “A dire il vero fino ad oggi non ho
mai dedicato molto tempo alle audizioni orchestrali,
ma sicuramente essere prima parte di un’orchestra importante
rientra nei sogni e nelle ambizioni di qualsiasi flautista.
Quindi la mia risposta alla domanda è senz’ombra di dubbio
affermativa”. Il suo sogno nel cassetto? “Credo di averlo già
realizzato: riuscire a vivere di musica”.

POMPEI. INSULA OCCIDENTALIS
Domani al centro congressi federiciano di via Partenope si
presenta il volume POMPEI. INSULA OCCIDENTALIS. Conoscenza
Scavo Restauro e Valorizzazione a cura di Giovanna Greco,
Massimo Osanna e Renata Picone, edito dall’Erma di
Bretschneider, Roma. Il libro, di oltre 700 pagine, raccoglie
gli esiti di una ricerca interdisciplinare condotta sull’area
extraurbana della città antica di Pompei da cinquantaquattro
tra funzionari del Parco archeologico, docenti e giovani
studiosi di cinque Dipartimenti dell’Ateneo fridericiano di
Napoli; quelli di Architettura, di Strutture per l’ingegneria
e l’architettura, di Scienze umanistiche, di Scienze della
terra e di Agraria. Dopo i saluti del sindaco Gaetano
Manfredi, che da rettore ha voluto fortemente questa ricerca,
del Rettore Matteo Lorito e dei rappresentanti dei
dipartimenti, il volume verrà presentato da Alfonsina Russo,
direttrice del Parco archeologico del Colosseo, e da Paolo
Giordano, ordinario di Restauro architettonico dell’Università
Vanvitelli. Seguiranno le conclusioni di Gabriel Zuchtrieghel,
direttore del Parco archeologico di Pompei, e le brevi
repliche dei curatori e degli autori. La ricerca è stata
condotta all’interno della cornice istituzionale dell’Accordo
quadro siglato tra l’ Università degli Studi di Napoli
Federico II e il Parco Archeologico di Pompei, per lo
svolgimento di attività di ricerche e didattica finalizzata
alla valorizzazione, fruizione e divulgazione del sito di
Pompei, nel 2015, con la responsabilità scientifica di
Giovanna Greco e Vincenzo Morra, e rinnovato nel 2019 con la
responsabilità scientifica di Renata Picone e Vincenzo Morra.
Un accordo che ha favorito, dopo un periodo di minore
attenzione, il ritorno dell’Ateneo federiciano con le proprie
competenze multidisciplinari sul sito di Pompei e che ha visto
i curatori di questo volume coinvolti sin dal primo momento in
un’attività di coordinamento delle plurime ricerche svolte. Lo
studio multidisciplinare i cui esiti sono esposti all’interno
del volume, ha affrontato gli aspetti legati alla conoscenza,
messa in sicurezza, paleobotanica, archeologia e geofisica,
nonché al restauro, alla conservazione e al miglioramento
della fruizione dell’Insula Occidentalis di Pompei, alla scala
urbana e architettonica. Lo sguardo intrecciato dei diversi
saperi ha consentito di guardare al sito archeologico sotto
diverse angolazioni, concorrendo ad un significativo
avanzamento del quadro conoscitivo sull’area del Suburbio
occidentale pompeiano e ad una strategia per la sua
trasmissione al futuro e per una sua piena e consapevole
valorizzazione. L’Insula Occidentalis di Pompei rappresenta
oggi    un’area    strategica     per    il   miglioramento
dell’accessibilità e della fruizione al sito archeologico:
essa include alcuni dei principali ingressi attuali alla città
antica e costituisce la principale interfaccia tra l’area
archeologica e la città contemporanea, contenuta nella Buffer
zone perimetrata dall’UNESCO. A partire dall’analisi di queste
specificità, gli studiosi coinvolti nella ricerca hanno
previsto una fruizione diversificata del sito, alleggerendo
anche la pressione antropica sui percorsi più frequentati,
avviando una riflessione globale su questo comparto della
città antica, che dalle Terme Suburbane arriva fino alla Villa
dei Misteri. Il risultato, che possiamo vedere nelle pagine di
questo volume, è un progetto organico e coerente che sulla
base di analisi diagnostiche avanzate e ricerche
archeologiche, propone un piano strategico per il restauro, la
valorizzazione e l’accessibilità di una zona di Pompei a lungo
dimenticata, potenziandone le possibilità di comprensione
anche per il pubblico, nel rispetto dei suoi significati
storici. Il volume raccoglie i saggi dei seguenti autori:
Raffaele Amore, Consuelo Isabel Astrella, Aldo Aveta, Claudia
Aveta, Serena Borea, Domenico Caputo, Luigi Cicala, Anna G.
Cicchella, Chiara Comegna, Francesco Cona, Sabrina Coppola,
Francesca Coppolino, Alessia D’Auria, Pantaleone De Vita,
Bruna Di Palma, Gaetano Di Pasquale, Maurizio Fedi, Ersilia
Fiore, Giovanni Florio, Rosa Anna Genovese, Paolo Giardiello,
Giovanna Greco, Mauro La Manna, Gian Piero Lignola, Barbara
Liguori, Bianca Gioia Marino, Giovanni Menna, Pasquale Miano,
Vincenzo Morra, Iole Nocerino, Massimo Osanna, Andrea Pane,
Valeria Paoletti, Annamaria Perrotta, Renata Picone, Ivano
Pierri, Stefania Pollone, Andrea Prota, Giancarlo Ramaglia,
Lia Romano, Valentina Russo, Giovanna Russo Krauss, Viviana
Saitto, Claudio Scarpati, Domenico Sparice, Angela Spinelli,
Teresa Tescione, Maria Pia Testa, Luana Toniolo, Damiana
Treccozzi, Luigi Veronese, Mariarosaria Villani, Gian Paolo
Vitelli
“Le solite notti” al Circolo
Canottieri Irno
10 marzo, si presenta il romanzo “Le solite notti” di Elvira
Morena al Circolo Canottieri Irno di Salerno Flora, giovane e
senza risorse, recide le sue radici e finisce come emigrante
dal Sud Italia al Nord. Scenari imprevisti affollano il suo
orizzonte notturno, tra la realtà e il sogno di essere come
Audrey Hepburn. È la storia che anima il romanzo “Le solite
notti” di Elvira Morena, II edizione, Marlin editore. Giovedì
10 marzo, alle 19:00, al Circolo Canottieri Irno di Salerno
(in via Porto 41), che organizza l’iniziativa, si presenta il
libro. Dialoga con la scrittrice l’avvocato Giovanni Falci e
lo psichiatra e autore Walter Di Munzio. Ingresso libero con
obbligo di Super Green Pass. Il libro Un romanzo sospeso tra
l’icona immaginaria di Audrey Hepburn, con la quale
s’identifica la protagonista, e la dura realtà della strada
nel segno di una scrittura originale e profonda. “Le solite
notti” di Elvira Morena «nasce dalla voglia di viaggiare
nell’animo femminile; nasce dalla curiosità di testare mondi a
me sconosciuti, di riuscire a descriverli, seguendo il mio
stile narrativo. Flora, la protagonista del mio ultimo
romanzo, è stata una mia sfida. Ma Flora è solo un pretesto.
Attraverso la sua storia ho voluto soffermarmi sul potere: su
chi “lo gestisce e mai lo subisce”. Su quanto sia schiacciante
e, nello stesso tempo, effimero, questo potere. A dispetto di
ciò che si è indotti a credere, il potere è solitudine»,
sottolinea l’autrice. La storia Flora è una ragazza
meridionale che, perduti i genitori, emigra al Nord, in una
città che ricorda vagamente Bologna. Con l’aiuto di Peppe,
unico amico, lavora come commessa in un negozio periferico.
Ma, non sapendo arginare rapine e piccole truffe, viene
sbattuta fuori dalla titolare della rivendita e si ritrova
ancor più disperata e sola. Allora affida la sua sopravvivenza
nelle mani di Peppe, che a sua volta ha affidato la sua nelle
mani di Rosario, il potente boss locale, dedito allo spaccio
di droga e allo sfruttamento della prostituzione. Flora
accetta ogni compromesso ed entra a far parte del gruppo di
prostitute in servizio in una precisa area della periferia:
Pineta Grande. La lunga catena di disperati si allunga quando
Flora s’innamora di Marco, il giornalista delle ronde
notturne, a caccia di mondi sommersi perché affamato di scoop.
La delusione colpisce Flora e le offusca l’ultima casella
destinata ai sogni. Forse solo allora apre davvero gli occhi e
le si palesa davanti la precarietà di una vita consumata sulla
strada, in incontri occasionali e con uomini anonimi. Nel
frattempo, la donna sopravvive a un lungo interrogatorio della
polizia e scaccia con disprezzo Peppe che, invece, nutre da
tempo una sotterranea passione per lei. Ma il boss Rosario
decide di averla tutta per sé. Riuscirà a salvarsi? L’autrice
Elvira Morena vive e lavora a Salerno, dove svolge la
professione di medico cardio-anestesista. È autrice di poesie
inedite e racconti brevi pubblicati su blog e riviste
culturali. Come narratrice, ha esordito nel 2015 col romanzo
“Domani mi vesto uguale”.

La   battipagliese Denise
Avagliano è Miss Showgirl
Italia Talent
Ecco le prime foto della premiazione di Miss Showgirl Italia
2021 svoltasi sabato 5 marzo presso il l’Heaven Ristorante
pizzeria Costa sud Pontecagnano. Per la categoria bambini sono
stati premiati i piccoli Aurora, Aldo, Eros e Fatima Gioia che
si è aggiudicata il primo posto della classifica. La fascia
per la categoria Lady è stata meritatamente conquistata da
Valentina Esposito di Pontecagnano. Per la categoria standard
si è aggiudicata il terzo posto la bella 14enne residente a
Torre del Greco, in provincia di Napoli, Alessia Concetta
Coscia, mentre il secondo gradino del podio è stato
conquistato dalla bellissima 16enne Anna Bellosguardo di
Montecorvino Pugliano ed infine sul gradino più alto del podio
è salita la star della serata che si chiama Denise Avagliano,
originaria di Battipaglia e per tutto il 2022 toccherà a lei
essere “Miss Showgirl Italia Talent”.

Nicola Della Calce

Al Teatro Centro Sociale
Pagani “Io” di Antonio Rezza
Sabato 12 marzo 2022 ore 20,45 Teatro Centro Sociale Pagani
“İo” di Flavia Mastrella, Antonio Rezza con Antonio Rezza,
habitat e quadri di scena: Flavia Mastrella, (mai) scritto da
Antonio Rezza, Rezza/Mastrella – Leoni d’oro alla carriera La
Biennale di Venezia 2018. “İo” è un elettrocardiogramma di
impulsi. Il ritmo non è mai lo stesso: ossessivo, trascinato,
cantilenante, spasmodico, divertente fino alle lacrime. Le
situazioni si concludono per poi ritrovarsi, in una spirale
coinvolgente senza inizio né fine, visionaria, al limite
dell’onirico. Le certezze non esistono, tutto è labile e
precario. In una società come quella che ci propongono Rezza e
Mastrella è facile perdersi. Ecco che entrano in gioco i
numeri: boe a cui aggrapparsi quando tutto diventa liquido. Di
fatto i numeri occupano lo spazio scenico in modo del tutto
irrazionale, perdendo la loro logica intrinseca e diventando
confusi. Tutto questo è rappresentato con totale ironia.

Rizzo   e   le  indiavolate
geometrie di equivoci
Week-end champagne al teatro delle Arti con “Un figlio in
provetta” dominato dal talento e dall’esperienza di Caterina
De Santis

di Olga Chieffi

Fine settimana all’insegna della leggerezza al teatro delle
Arti di Salerno, con la rappresentazione di “Un figlio in
provetta” una commedia brillante scritta a quattro mani da
Giacomo Rizzo e Germano Benincaso. La compagnia stabile del
Teatro Bracco, al completo ha incontrato in un parimenti
spumeggiante “prima della prima” gli allievi del liceo
classico Torquato Tasso e dello scientifico Francesco Severi,
che stanno avvicinandosi ai meccanismi del teatro e alla
scrittura giornalistica, grazie alla “visione” dei loro
docenti e dirigenti scolastici, i quali credono fortemente in
una formazione dentro e fuori l’istituto scolastico. Diverse
le domande rivolte all’intero cast e in particolare al
prim’attore Giacomo Rizzo, in una giornata particolare quale
era il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, che lo
ha visto interprete del Decameron e di Storie scellerate.
Tanti i consigli per quanti avessero il desiderio di calcare
le tavole del palcoscenico, la giusta formazione di interpreti
che hanno sposato il teatro in tutti i suoi generi, dalla
sceneggiata al vaudeville, alla pochade, sino allo spettacolo,
cosiddetto di “piazza”, sino alle collaborazioni eccellenti.
Una grande esperienza quella dell’intera compagnia del Bracco,
ottenuta dalla frequentazione continua delle tavole del
palcoscenico, “rubando” il mestiere al “nome” di turno. “Non
convengo con l’inarrivabile Eduardo De Filippo – ha concluso
l’incontro Giacomo Rizzo – il teatro non è gelo. E’ il
contrario, è calore, è una grande famiglia”. Quindi, il
sipario si è levato sulla commedia “Un figlio in provetta”,
concepita nel 2004 dallo stesso Rizzo, che ne è anche
interprete principale e regista, e ripresa coraggiosamente
durante gli “spiragli” post-covid. Rizzo con questo testo ha
badato in particolare a divertire il pubblico come sabato sera
ha dimostrato di amare la risata a gola spiegata, senza
soffermarsi poi tanto sulle ragioni del suo ridere, grazie
all’autore formidabile costruttore di meccanismi di
precisione, che sa portare alla perfezione con le sue
coincidenze, i qui pro quo, gli imbrogli, attraverso una
regola che è anche quella della pochade di Feydau, ovvero la
creazione di due personaggi che hanno il solo interesse di
sfuggirsi, ovvero Riccardo, interpretato da Rizzo e la suocera
Teresa, affidata alla prima donna, una effervescente Caterina
De Santis. Trovarsi faccia a faccia genera la sorpresa e
scatena gli avvenimenti. Ma Giacomo Rizzo ha nascosto nel
fondo della sua vis comica il tratto della sua osservazione
acuta, sulla abbiente borghesia. Riccardo uomo maturo è
sposato con la giovane Veronica, alla quale dà voce Emanuela
Giordano, ma non hanno il dono di un figlio necessario per
poter ereditare da un suo lontano parente. La suocera, Teresa,
si fa aiutare da una sua amica ginecologa Tiziana,
interpretata da Andreina Ranucci e con Veronica, all’insaputa
di Riccardo, ricorrono a questa fecondazione artificiale.
Riccardo intanto, ha pensato di andare in vacanza in una casa
in montagna insieme alla sua Veronica, per allontanarsi da
tutti e avere la tranquillità di concepire. Teresa raggiunge
la figlia in vacanza, invitando un avvocato suo amante,
Costantino Grande, affidato a Corrado Taranto. Inizia il
tourbillon di personaggi a partire dalla immancabile cameriera
impicciona e nullafacente, Carmencita (Carla Schiavone)
proposta e voluta dalla suocera la quale combina solo guai,
fidanzata a Totore un mafioso, il quale la chiama
continuamente sul telefono fisso di casa. Su questo tema la
commedia gioca, rinnovandosi sempre con vivace ingegnosità, ed
immettendo nell’azione, quasi a capofitto, personaggi
caratterizzati da particolari espressioni verbali, in
qualunque momento o stato d’animo si trovino, sicché c’è un
burlesco contrasto tra le loro parole e le travolgenti vicende
che intrecciano i personaggi in dialoghi esilaranti. La
matrice è la pochade, messa in tensione sul comico brillante
in due atti che corrono spediti, tra colpi di scena, molti
pasticci e inattesi colpi di scena, soprattutto per i due
protagonisti, i quali insieme a Enzo Varone, Marco Serra,
Mario Arienzo, con l’ assistente alla regia Alessia Sanchez,
le scene di Marco Comune, costumi di Anna Giordano, verso
l’atteso lieto fine. Applausi e il messaggio da un ideale e
universale palcoscenico che può e deve cambiare il mondo:
l’interpretazione di Giacomo Rizzo de’ “La ninna nanna della
guerra” che Trilussa compose nel 1914, mentre stava per
deflagrare la Prima guerra mondiale, oggi tornata tristemente
attuale, alle soglie di un ipotetico terzo conflitto mondiale.

Perdersi sul palcoscenico con
due      sorelle      gemelle
eterozigote    molto,   molto
diverse
di Francesca Quaranta
Manola racconta di due sorelle gemelle eterozigote molto
diverse, una solare, allegra, bella e positiva e l’altra
introversa, profonda, pesante, non particolarmente bella e
intelligente, si detestano da sempre, da prima della loro
nascita, nella pancia della mamma. Lo spettacolo è fatto
soprattutto di monologhi, la realtà raccontata da una e la
realtà raccontata dall’altra, spesso interrotti, poiché una
dice la sua e immediatamente l’altra esprime il suo pensiero
smentendo quello che è stato affermato precedentemente.
Chiamano sempre in causa Manola, che non c’è in scena, ed è
qualcuno a cui si rivolgono che in realtà è il pubblico, ciò è
fatto per richiamare l’attenzione di quest’ultimo travolto
dalla valanga di parole che arrivano e coinvolgerlo, in
maniera si comica che drammatica. Dopo aver raccontato della
loro infanzia, del Natale, la scuola e tanto altro, accade che
una delle due si innamora di un “essere terribile”, la storia
si dipana intorno all’incontro di quest’essere e di come è
vissuto dall’una e dall’altra, tanto da sconvolgere
l’esistenza di entrambe. Questo è quello che ci raccontano le
due grandissime attrici Nancy Brilli e Chiara Nochese, sullo
spettacolo teatrale “Manola” tenutosi sabato scorso al Teatro
delle Arti a Salerno, dove, prima della loro esibizione le due
attrici si sono sottoposte ad un’intervista tenutasi da alcune
classi di diverse scuole del salernitano, alle quali con molta
disponibilità hanno partecipato, e con molta disinvoltura si
sono spinte a raccontare anche molto di sé, e del loro legame,
di stima e grande sostegno reciproco. Invogliando anche i
ragazzi a mettersi in gioco, a cimentarsi nell’arte del teatro
e nell’ambito della recitazione, per farla diventare anche per
loro una passione. Come nasce questo spettacolo teatrale
Nancy? “Questo spettacolo nasce 25 anni fa con Margaret
Mazzantini, me e Sergio Castellitto, Margaret scrisse lo
spettacolo per entrambe, essendoci noi in scena con la regia
di Castellitto, ebbe molto successo per svariati anni, fin
quando fu poi bloccato. Da questa prima rappresentazione
teatrale è stato poi tratto un romanzo. C’è poi dietro un
importante studio della Mazzantini sulla psicologia, inoltre
il pubblico è fondamentale per questo spettacolo. Quest’anno
ho chiesto a Margaret di riscriverlo in chiave moderna e
modificarlo stando al passo con i tempi, aggiungendo elementi
contemporanei come internet. Lo stesso episodio vissuto da
personalità completamente diverse sembra un’altra cosa.”
“Perché avete scelto di fare teatro?” “Io sono figlia di un
attore, che era una star tantissimi anni fa – ha affermato
Chiara Noschese -volevo fare la scuola di Gigi Proietti e sono
riuscita a farla appena raggiunta la maggiore età e diplomata.
L’ho scelto perché fare questo lavoro è fuggire, è come
prendersi una vacanza dentro qualcun’altro, fondamentalmente
l’ho fatto non tanto per esibirmi ma per la voglia di perdermi
dentro qualcun’altro e poi mi è piaciuto molto, sono diventata
anche una regista e dirigo una scuola di giovani ragazzi”. “Io
ho fatto l’attrice ha continuato Nancy Brilli – perché in
realtà mi è capitato, a 19 anni mi hanno proposto di fare un
film, io ho accettato e così è nata la mia carriera. Sempre
per caso sono stata scelta per fare una commedia musicale al
Sistina a Roma con Enrico Montesano, totalmente inconsapevole
ho fatto dei provini a cui sono stata scelta e da lì non ho
mai più smesso. Ho scoperto che stando in scena mi sentivo
perfettamente a mio agio, cosa che non mi sentivo fuori, dove
mi giudicavo moltissimo e mi sentivo tutta sbagliata e non
amata. In scena invece stavo e mi sentivo benissimo, a casa e
ho capito che nessuno avrebbe potuto smuovermi da qui,
dedicando così tutta la mia vita alla recitazione” Come vi
siete ritrovate a lavorare insieme? Come vi siete conosciute?
“Ci siamo conosciute – ha rivelato Chiara Noschese – grazie ad
un’amica in comune. Stavo facendo la regista di uno spettacolo
per Luca Barbareschi, e lei è venuta a vederlo, da lì ci siamo
iniziate a stimare molto, dopo esserci incontrate svariate
volte ci siamo “scelte” per lavorare insieme”. “Si, ci siamo
scelte ha continuato la Brilli – e meno male perché lavorare
con qualcuno che stimi è in primis stimolante e poi divertente
e ti protegge, perché nonostante gli alti bassi che ci sono
stati noi abbiamo scelto di esserci sempre l’una per
l’altra…Mi sembra di conoscerla da sempre”. Nancy Brilli
rivolgendosi poi, alle ragazze ha lanciato loro un forte
messaggio “Ognuna deve imparare ad essere la forza di sé
stessa, l’obiettivo non è quello di trovarsi un uomo e
sposarsi ma fare qualcosa di cui essere fiere e da portare
avanti. Noi non dobbiamo essere bisognose nei confronti dei
maschi, noi dobbiamo essere contente di stare con uomini
contenti di stare con noi” Cosa preferite tra la televisione e
il teatro? “In realtà – ha cominciato la Brilli – sono due
cose completamente diverse, in teatro, sei responsabile deve
essere tutto grande, forte, raccontato, bisogna fare cose che
colpiscono. Sono due modi di recitare complementari ma
diversi. In cinema e in tv non si sa mai quello che succederà
alla fine, perché tu reciti, fai una cosa che pensi sarà in un
modo mai poi il montaggio può stravolgere la tua
interpretazione.”. “In teatro – ha detto la Noschese – c’è un
evento che avviene solo tra quelle persone, solo quella sera,
unico e irripetibile. Tra teatro e televisione io preferisco
di più il teatro perché è per quei pochi intimi, non morirà
mai perché uno racconta una storia e tu l’ascolti, tutto il
resto si annulla e tu sei dietro a quel susseguirsi di parole,
entrando in un altro mondo”. Tra tutti i personaggi che avete
interpretato durante la vostra lunga carriera in quale avete
rivisto voi stesse maggiormente e come li avete interpretati,
è facile entrare in un personaggio? “Non è che entri – ha
esordito Chiara Noschese – nel personaggio, sei sempre tu, ti
perdi dentro la storia, la cosa figa è che tu diventi
qualcun’altro, è un grande gioco, questo è quello che mi sento
io. Il nostro lavoro è come mettersi una maschera legittimata,
perché noi tutti indossiamo delle maschere, il nostro è
mettersi una maschera, per essere qualcun’altro e quindi è
come se fossimo autorizzati a farlo.” “C’è poi un patto ha
ribattuto Nancy – tra il pubblico e il palcoscenico, il
pubblico decide che è vero che sta vedendo Nancy e Chiara ma
accetta che siano altro, se non ci fosse questo non
funzionerebbe. Non mi è mai successo di rispecchiarmi in un
personaggio, ci ritrovi qualcosa della tua esperienza
personale sicuramente ma non mi ci sono mai rispecchiata
totalmente perché ho sempre trovato quel qualcosa di diverso
dalla mia persona.” Come descrivereste l’emozione che provate
mentre siete in scena? “Con un’unica parola: goduria!” – ha
risposto Nancy Brilli. “Quando ti piglia male è una tragedia –
ha confessato la Noschese – perché essere costretti a stare là
e arrivare fino in fondo e non lasciarti andare e non
divertirti è duplice. Però quando viene bene siamo molto
contenti e soddisfatti” Vi sarebbe piaciuto avere una gemella?
Se si perché? “A me no, non credo – ha detto Nancy – mi
sarebbe piaciuto avere una gemella, specialmente se come le
protagoniste della rappresentazione”. “No, una gemella no, ma
una sorella si, ha rivelato Chiara Noschese -io ho un fratello
e forse una sorella l’avrei voluta. Poi credo che la vita dei
gemelli non sia sempre facile, perché è come se uno
schiacciasse l’altra senza volerlo” Interpretare sempre
diversi personaggi, come avete fatto voi nella vostra lunga
carriera, secondo voi e la vostra esperienza aiuta a cercare
meglio se stessi o a perdere sé stessi? Per Chiara Noschese
“Per me la seconda, ovvero a perdersi…mentre, Nancy brilli ha
risposto: “Per me, invece, è stato fondamentale per trovare me
stessa, mi ha guarita questo mestiere, io ero molto spaventata
dalla vita e in scena ho trovato la sicurezza di cui avevo
bisogno.”

Nancy, Chiara e il gioco del
teatro
di Stefano De Domenico

Le attrici Nancy Brilli e Chiara Noschese si sono esibite al
teatro delle arti di Salerno, mettendo in scena “Manola”,
opera teatrale di Margaret Mazzantini. Prima dello spettacolo
le due attrici sono state intervistate dai “critici in erba”
del Liceo Scientifico Francesco Severi e del Liceo Classico
Torquato Tasso. Nancy Brilli, come nasce la pièce “Manola”?
“Nel 1997, questa opera ebbe molto successo, lo scorso anno
volevamo riprenderla ma, a causa del covid, non ci è stato
dato il permesso di farla. Quest’ anno, durante una lunga
pausa io e Chiara abbiamo chiesto a Margaret di riscrivere
alcune parti, perché, essendo un’opera di nata lo scorso
secolo, andava letta in maniera diversa e con l’aggiunta di
elementi moderni. Molte persone pensano che questo spettacolo
sia stato tratto dal romanzo ma, in realtà, è il contrario. Le
due gemelle, nell’ opera, hanno personalità opposte, che hanno
influenzato le loro vite, il loro aspetto psicologico è molto
importante e in questo la Mazzantini ha lavorato molto. Ciò
rende molto comico lo spettacolo, ma il pubblico deve essere
molto attento nel capire il messaggio morale e le stesse
battute che hanno un significato profondo.” Come Chiara
Noschese ha deciso di fare l’attrice? “Io ho sin da piccola
avuto il desiderio di diventare attrice infatti, dopo il liceo
sono entrata nell’ Accademia di Gigi Proietti dove mi sono
formata. Ho scelto di fare l’attrice perché fare questo lavoro
significa fuggire dentro un altro mondo e in quel momento
difficile della mia vita, avevo il bisogno di impersonificare
un personaggio. Poi, con il passare del tempo sono diventata
regista, dirigo una scuola di giovani ragazzi.” Per Nancy,
invece, come è avvenuta la scelta del palcoscenico? “In realtà
è stato un caso, a 19 anni mi chiesero se volessi fare un film
ed io accettai. Questo film era una commedia musicale al
teatro Sestina a Roma con Enrico Montesano, che si chiamava
“Se il tempo fosse un gambero”. Come vi siete conosciute? “Ci
siamo conosciute grazie a un’amica in comune, mentre io
(Chiara n.d.r.) stavo facendo uno spettacolo per Luca
Barbareschi, Nancy è venuta a vedere lo spettacolo assieme a
questa nostra amica. Poi lla grande stima reciproca ci ha
portato a lavorare.” Nancy, le piace più il teatro, il cinema
o la TV? “Nel teatro deve essere tutto più forte e diretto per
arrivare al pubblico, non si può essere poco chiari. Inoltre,
lo spettacolo teatrale è unico e irripetibile ogni sera in cui
dovrai seguire attentamente tutte le parole che ti porteranno
in un altro “mondo”. Invece, il cinema e la Tv sono mondi
complementari ma diversi, perché per noi attrici non si sa mai
cosa succederà alla fine a causa delle scene separate.
Ovviamente, nel cinema non c’è bisogno di tanta
concentrazione. In conclusione entrambe preferiamo il teatro.”
Chiara, è facile impersonificare un personaggio? “No, il
Maestro Proietti diceva sempre “Entra e esci dal personaggio
come “certi correnti d’aria”, in realtà non è che entri, sei
sempre te stesso ma c’è uno momento in cui ti perdi dentro la
storia. Io sono contro la sacralità di questa cosa, poiché è
un lavoro come un altro in cui tu diventi un personaggio ed è
proprio questo il bello del nostro lavoro. Infatti, per me è
una fortuna essere pagata per qualcosa che mi diverte e mi
libera dal peso della vita. Infine, penso che il nostro lavoro
sia come mettersi una “maschera legittimata”, perché siamo
autorizzati dal pubblico, tutti noi indossiamo tante maschere
a seconda delle situazioni e quasi mai siamo noi stessi.”

Pillole per una Nuova Storia
Letteraria 053

   Cultura nel momento del pericolo

Di Federico Sanguineti

Da quando nel 1827 Goethe annuncia l’esistenza di una
“letteratura mondiale” (Weltliteratur), diventa anacronistico
isolare ogni singola letteratura nazionale. Ne sono
consapevoli Marx ed Engels quando pubblicano, nel 1848, il
Manifesto del Partito Comunista (Manifest der Kommunistischen
Partei), ormai disponibile a chiunque in Internet nella prima
traduzione italiana del 1893 a cura di Pompeo Bettini (costava
25 centesimi), dove si legge: “Ciò che produce il pensiero
[geistigen Erzeugnisse] delle singole nazioni diventa
patrimonio comune [Gemeingut]. La unilateralità e la
ristrettezza nazionale diventano sempre più impossibili, e
dalle molte letterature nazionali e locali nasce una
letteratura mondiale [Weltliteratur]”. Ma sia questa versione
che quella riveduta nel 1948 da Togliatti tradiscono il
significato del testo originale in un punto decisivo:
“Gemeingut” non vuol dire ‘patrimonio comune’, bensì “bene
comune”. I prodotti spirituali, “die geistigen Erzeugnisse”,
non sono affatto da considerarsi in quanto ‘patrimonio’, bensì
come un “bene”, essendo Marx ed Engels agli antipodi
dell’ideologia del patriarcato borghese. La parola
“patrimonio”, derivando da “pater” (‘padre’) e “munus”
(‘compito’), ha infatti il significato di “compito paterno”,
assumendo di conseguenza quello di “cose appartenenti al
padre”. Occorre insomma superare da parte del proletariato
rivoluzionario la considerazione della letteratura e, più in
generale, della cultura, come ‘patrimonio’. L’equivoco
purtroppo si ripete altrove, per esempio nella sesta tesi Sul
concetto di storia (Über den Begriff der Geschichte) di Walter
Benjamin, dove si legge, nella traduzione di Solmi: “Per il
materialismo storico si tratta di fissare l’immagine del
passato come essa si presenta improvvisamente al soggetto
storico nel momento del pericolo. Il pericolo sovrasta tanto
il patrimonio della tradizione [Bestand der Tradition] quanto
coloro che lo ricevono. Esso è lo stesso per entrambi: di
ridursi a strumento della classe dominante. In ogni epoca
bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che
è in procinto di sopraffarla”. Nessun ‘patrimonio’ neppure
qui: “Bestand der Tradition” vale piuttosto ‘consistenza della
tradizione’, la quale, intesa come ‘patrimonio’, si riduce
appunto a strumento della classe dominante, correndo così quel
“pericolo” che l’autore si propone invece di evitare. Una
volta intesa come ‘patrimonio,’ la tradizione è sopraffatta
dal conformismo (Konformismus), per cui, analogamente, nella
tesi successiva, è questione di “beni culturali”
(Kulturgütern), tradotti purtroppo, ancora una volta, come
‘patrimonio culturale’. Oggi, in un momento di pericolo, la
morale della favola è data da Rada Iveković, nel capolavoro
intitolato Autopsia dei Balcani, dove si ricorda che la
questione dell’identità nazionale è “un godimento
sostitutivo”: “si tratta”, in effetti, “a dispetto del tempo,
di godere a credito di una nazione bell’e fatta”. Denunciando
finalmente il nazionalismo come “esclusione del femminile”,
come “autismo storico-sociale” e come “regressione, in senso
psicologico, alla condizione infantile”, scrive: “La
responsabilità del socialismo e, a livello di storia delle
idee, la responsabilità di tutte le sinistre, al potere e non,
è incalcolabile. È di non aver capito che la diseguaglianza e
l’ingiustizia patite dalle donne, in tutte le società
conosciute, non è una discriminazione fra le tante, ma è alla
base di tutte le altre discriminazioni ed è costitutiva del
sistema”, per cui “denunciarla significa operare per sradicare
anche tutte le altre discriminazioni”.
Puoi anche leggere