Amleto, ovvero le speranze infrante sul non-senso del mondo

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Rivista di estetica
                           70 | 2019
                           Philosophy and Literature

Amleto, ovvero le speranze infrante sul non-senso
del mondo
Giuseppe Di Giacomo

Edizione digitale
URL: http://journals.openedition.org/estetica/5102
DOI: 10.4000/estetica.5102
ISSN: 2421-5864

Editore
Rosenberg & Sellier

Edizione cartacea
Data di pubblicazione: 1 aprile 2019
Paginazione: 60-74
ISSN: 0035-6212

Notizia bibliografica digitale
Giuseppe Di Giacomo, « Amleto, ovvero le speranze infrante sul non-senso del mondo », Rivista di
estetica [Online], 70 | 2019, online dal 01 février 2020, consultato il 27 février 2020. URL : http://
journals.openedition.org/estetica/5102 ; DOI : 10.4000/estetica.5102

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Giuseppe Di Giacomo
AMLETO, OVVERO LE SPERANZE INFRANTE SUL NON-SENSO
DEL MONDO

Abstract
    The paper aims at highlighting what the author considers to be the most significant
philosophical articulations of Shakespeare’s Hamlet , whose power of attraction is largely
conditioned by his own obscure nature. Starting from the reading of some famous in-
terpreters such as Bonnefoy, Cavell, Girard, Schmitt and Vygotsky, through the themes
of revenge, silence, and the collapse of values, it is emphasized how, in the drama, the
acceptance of death becomes a sign of the indifference of the world and therefore of
the insufficiency of meaning. In particular Hamlet’s statement “I don’t know it seems”,
is explained by the fact that his world is completely different from that of others. This
expression should be seen, then, as a kind of preliminary description of his general way
of perceiving things. Starting from the famous scene of “theatre in theatre”, and in a
constant confrontation with Adorno’s aesthetics, the article aims at pointing out the
different ideas of theatre that face each other in the drama. The idea of theatre supported
by Hamlet, however, based on the size of the logos, is not at all the one adopted by
Shakespeare, since his style is based on the immoderation, the excess and the irruption
of the pathos. Hamlet is not even the place for that extreme act of faith that emerges
at the end of King Lear: here hopes are shattered over a world totally abandoned to
nonsense. For this reason, the only possibility of redemption is offered by “being ready”
rather than by “being mature” as professed by Edgar.

1.

   Nel riflettere sul rapporto tra la filosofia e l’opera shakespeariana è necessario
evitare l’ingenuità di applicare il pensiero di alcuni classici ai capolavori del
Bardo; allo stesso modo bisogna evitare di fare di Shakespeare “un filosofo”, dal
momento che la filosofia emerge nelle sue opere solo a partire dalla loro creazione
formale, senza mai venire esplicitata e verbalizzata in maniera argomentativa. Per
chiarire questo punto essenziale, possiamo sostenere che l’opera di Shakespeare

Rivista di estetica, n.s., n. 70 (1/2019), LIX, pp. 60-74 © Rosenberg & Sellier

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appartiene alla categoria che Theodor W. Adorno, nella Teoria estetica, definisce
“riflessione seconda”, di contro alla “riflessione prima”, caratteristica quest’ultima
di romanzieri come Proust e Musil, che tematizzano nell’opera le loro concezioni
estetiche. Come per Beckett – non a caso il grande erede novecentesco di Shake-
speare, come è stato messo in luce da numerosi interpreti tra cui Jan Kott1 – la
riflessione in Shakespeare è invece “montata” con la forma, con la conseguenza
di sostituire una concezione “epifanica” – propria della “riflessione prima” – con
una concezione “testimoniale”, tale da sconvolgere lo stesso contenuto: «con
l’aumentare della riflessione, e grazie alla sua forza accresciuta, il contenuto si
oscura in sé»2. Tutto questo emerge chiaramente dalla lettura dell’Amleto, dal
momento che la misteriosità e l’inintelligibilità costituiscono il nocciolo stesso
e il centro di interesse dell’opera.
    Proprio perché l’Amleto è simile a un labirinto, è indubbio che la forza d’attra-
zione dell’opera è in buona parte condizionata dalla sua stessa “oscurità”. Come
mette in evidenza Vygotskij3, l’Amleto ha inizio in quell’impalpabile limite tra
la notte e il giorno che è un momento, appena prima dell’alba, nel quale già
il mattino è arrivato, ma è ancora notte. L’Amleto è il dramma perfettamente
connotato da quest’ora: dramma quanto mai incomprensibile ed enigmatico,
inspiegabile e misterioso nella sua essenza, che rimarrà per sempre inafferrabile.
Accanto al dramma esteriore, che si sviluppa nelle parole, un altro se ne sviluppa
nel profondo e scorre nel silenzio: dietro al dialogo esteriore ascoltabile, se ne
percepisce uno interiore e silenzioso. L’azione procede contemporaneamente
in due mondi: qui, nel mondo temporale, visibile, e in un altro mondo, dove
vengono determinati e governati gli avvenimenti del nostro mondo, e il dramma
si svolge proprio lungo il limitare che divide quel mondo da questo. Insomma,
la misteriosità e l’inintelligibilità costituiscono il centro interiore del dramma:
è quanto viene espresso da Amleto stesso quando afferma che «Vi sono in cielo
e in terra, Orazio, assai più cose | di quante ne sogna la tua filosofia»4. Amleto,
al momento di morire, accenna ai due sensi che ha l’azione, o meglio l’inazione
drammatica: il primo è il racconto esteriore di essa, che Orazio dovrà riferire
narrandone la fabula, cioè gli avvenimenti che vi ineriscono e, in questo senso,
il dramma è come se non avesse affatto termine, dal momento che sul finire si
richiude nel suo circolo, facendo ritorno a quanto, fino a poc’anzi, si è svolto
dinanzi agli occhi dello spettatore. In quanto al suo secondo senso – quello che
il già morto Amleto sarebbe in grado di raccontare, giacché appunto nell’ani-
ma sua tutto s’era svolto – esso non è espresso nel dramma e viene portato via

  1
      Cfr. Kott 2006.
  2
      Adorno 2009: 38.
  3
      Cfr. Vygotskij 1972, 1973.
  4
      Shakespeare 1997: I, V, 167-168.

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nel sepolcro. Da questo punto di vista, secondo Vygotskij, il dramma viene a
dividersi chiaramente in due parti: la prima è il dramma stesso, le sue «parole,
parole, parole» – come dice Amleto a Polonio –, il suo “racconto”; la seconda è
il resto, quel silenzio che è l’ultima battuta di Amleto. È chiaro che solo questo
“resto”, quanto nel dramma vi è di non raccontato, costituisce il senso profondo
della narrazione di Orazio: insomma, se l’azione scenica è tutta costruita sulle
parole, cioè sulle narrazioni, ne segue allora quel carattere di inazione proprio
dell’Amleto.
    Quando il dramma ha inizio, già sono accaduti quegli avvenimenti che ne
determineranno il corso, la morte del padre di Amleto e le nozze della madre,
e noi veniamo a conoscerli solo perché ci sono raccontati. E se l’Amleto è saturo
di narrazioni di avvenimenti, è perché tutto ciò che nel dramma vi è di più
essenziale si svolge fuori della scena, a eccezione della catastrofe finale: come
scrive Adorno, «improvvisamente, come di colpo, lo sviluppo principale viene
ripreso e quasi precipitato, come se non si tollerasse un ulteriore indugio, e in
poche pagine […] si raggiunge il climax. […] Amleto […] dopo aver svolto
lunghissimi preparativi alla fine, all’ultimo momento, non liberamente e co-
stretto dalla situazione, alla cieca e a gesti porta a termine ciò che non si poteva
portare a termine come “svolgimento”»5. Così la catastrofe non è qualcosa che
dall’esterno scioglie questo dramma infinito (tale cioè da non avere fine di per
sé), bensì è un risultato intrinseco alla sua stessa struttura.
    Per quanto riguarda il ruolo che esercita nel dramma lo spettro del padre di
Amleto, c’è da sottolineare la realtà di questo Spettro, inesplicabilmente legato
con tutto ciò che accade qui, anche se è proiezione di qualcosa che attiene
all’aldilà; esso, che appare nell’imminenza del mattino, nell’ora in cui la notte
trapassa nel giorno e la realtà è immersa nel fantastico, rappresenta, in questo
senso, l’apertura del dramma, la sua radice trascendente: è attraverso lo Spettro
infatti che l’aldilà irrompe nell’aldiqua, rappresentando nella fabula ciò che vi
è di ultraterreno. Che il dramma cominci prima che si levi il sipario spiega il
fatto che Amleto entra nella rappresentazione già diverso, già segnato. I suoi
monologhi sono segni del dolore e presentano uno strano carattere: non hanno,
visibilmente, alcun nesso col corso dell’azione, né presentano un principio o una
fine, e tuttavia sono la cortina che, nel nascondere la sua intima vita spirituale,
la rivelano pure, giacché senza questa cortina tale vita resterebbe invisibile. Con
l’apparizione dello Spettro due mondi si incontrano, con la conseguenza che il
tempo è uscito dai cardini e spetta ad Amleto rimetterlo sulle rotaie: «Il mondo
è fuor di squadra: che maledetta noia, | esser nato per rimetterlo in sesto!»6.
Amleto vive in due mondi contemporaneamente e perciò si trova di continuo
sulla loro soglia, procedendo così sul ciglio dell’abisso, esattamente come sul

  5
      Adorno 1993: 97.
  6
      Shakespeare 1997: I, V, 188-189.

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limite tra il sonno e la veglia, tra la ragione e la follia, ed è per questo che i suoi
discorsi, a chiunque rivolti, sono sempre a doppio senso.
    Di fronte allo Spettro, Amleto sembra a prima vista aderire completamente ai
valori rappresentati dal padre, tanto da dirgli che lo vendicherà immediatamente.
A ben vedere però il rapporto di Amleto con suo padre è segnato dall’ambivalenza:
l’affetto che gli porta ha come controparte un giudizio severo che non riesce a
rimuovere. Ma, dal momento che non sembra che dubiti del valore morale del
padre, bisogna pensare che questo giudizio verta sulla sorte della società, della
quale Amleto mette in questione l’ordine interno e, in particolare, sulla sorte di
quell’Elsinor nella quale, come viene detto, «c’è qualcosa di marcio». Nel per-
cepire il fallimento e la decrepitezza della società del suo tempo, dei suoi ideali
e dei suoi valori, si potrebbe pensare che egli sia uno di quelli che si danno per
scopo la rifondazione di un ordine e non la negazione di tutto. Tuttavia non
è in questo modo che Shakespeare ci vuole fare comprendere Amleto, giacché
quello che il pensiero di quest’ultimo mette in questione è ben più che i principi
e i valori di una cultura o di un’altra.
    La volta superba del firmamento, le sue sfere, la loro musica, quanto il pen-
siero del tempo concepiva di più significativo, compreso il rapporto tra il tempo
umano e la sovratemporalità di Dio: è tutto questo che Amleto rifiuta, con la
conseguenza che il crollo di tale concezione del mondo non può che enunciare
la rovina di ogni rappresentazione e di ogni valore; insomma, una notte senza la
minima traccia di luce. E in questi pensieri, che egli esplicita nel primo incontro
con Rosencrantz e Guildenstern, Amleto affronta una questione fondamentale:
quella del “niente”, nel cui abisso è Dio stesso che affonda. Comunque, da questa
esperienza di una disperazione che appare assoluta, sembra che una via d’uscita
sia possibile: per chi vacilla sulla soglia del non-essere si tratta di aggrapparsi
a un “interesse” in grado di istituire un “nuovo cielo” e una “nuova terra”. Di
fatto, si può osservare che, a dispetto del suo disprezzo di tutto, Amleto ama
qualcuno, il che spinge a domandarsi se non sia proprio fondandosi su questo
che egli tenta di realizzare qualcosa di totalmente nuovo. L’interesse che Amleto
porta per la fragile Ofelia è forse quel “qualcosa” che lo potrebbe salvare; da
questo punto di vista è possibile intravedere al di sotto della trama di Amle-
to – il progetto di vendetta e gli strani ostacoli che incontra – una vicenda che
potrebbe essere essenziale nel divenire dell’opera e per comprenderne il senso.
Ofelia, che richiama l’attenzione di Amleto sul “promontorio sterile” del mon-
do, sarebbe per lui l’avvenire nel seno stesso del disastro, ed egli potrebbe in
sua compagnia farla finita con le sue contraddizioni e le sue inibizioni. Amare
Ofelia, ritrovando così il senso della vita, sarebbe per Amleto il modo migliore
per vendicare il padre, che è stato meno la vittima di una persona particolare che
della fatalità di un ordine del mondo falso e menzognero. Così, nell’alleanza
che fonderebbe la nuova terra e anche il nuovo cielo, la donna collaborerebbe
pienamente all’impresa comune, ed è dunque logico che in questo dramma sia la
donna – tanto Ofelia quanto, come vedremo, anche Gertrude – ad apparire nel

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cuore dell’azione come uno dei suoi elementi necessari. Ma bisogna constatare
che questa possibilità non sarà ben presto che una grande occasione perduta,
come lui stesso mostra di rendersi conto quando scopre che Ofelia è morta.
    Per quanto riguarda l’assassino di suo padre, questi è per Amleto qualcuno da
detestare, ma non in modo così semplice come si potrebbe credere. È vero che
l’Amleto appartiene al genere del dramma della vendetta, e tuttavia fino al termine
del duello non c’è più in Amleto alcun pensiero di vendetta e, cosa strana, la
stessa catastrofe avviene in modo da apparirci agganciata a una linea di intreccio
completamente diversa. Per compiere una vendetta con convinzione, bisogna
credere nella giustizia della propria causa, ossia nell’innocenza della vittima che
si intende vendicare e nella colpevolezza della nuova vittima designata7. Ora, la
colpevolezza della vittima designata si fonda sull’innocenza della prima vittima,
ma se quest’ultima è già un assassino, allora colui che cerca di vendicarla, se
riflette un po’ troppo sulla circolarità della vendetta, finisce per non credere
più in essa. È esattamente quel che accade nell’Amleto, con la conseguenza che,
per quanto possa essere detestabile, Claudio non lo sarà mai abbastanza agli
occhi di Amleto, dal momento che l’assassinio da lui compiuto si inquadra nel
contesto di una serie di vendette precedenti. Il problema di Amleto è che non
può prescindere dal contesto: il crimine compiuto da Claudio gli appare infatti
come l’ultimo anello di una catena già lunga e la propria vendetta come un
anello ulteriore identico ai precedenti. Di fatto, tutti i personaggi sono presi
in una spirale di vendetta, compresi Amleto padre e suo fratello Claudio e, da
questo punto di vista, la somiglianza tra i due fratelli emerge chiaramente nella
scena in cui Amleto, tenendo in mano i due ritratti del padre e dello zio, cerca
di convincere la madre dell’enorme differenza che esiste tra i due.
    Non ci sarebbe nessun “dilemma” di Amleto, se l’eroe credesse sul serio alle
proprie parole; ma più ancora della madre, è se stesso che Amleto cerca di
convincere, dal momento che egli non è abbastanza indignato da uccidere il
traditore, con la conseguenza che proprio per questo si sente a disagio e se la
prende con la madre, che palesemente è ancora più indifferente di lui. Amleto
non dice che la madre è innamorata di Claudio, ma che, se lo fosse, ciò non
dovrebbe impedirle di cogliere una differenza tra i suoi due mariti; se non ne
percepisce alcuna, è perché ai suoi occhi non esiste, come è evidente non esi-
ste agli occhi dello stesso Amleto. Questa ipotesi è confermata dal silenzio di
Gertrude durante le sfuriate del figlio: lei non ha niente da dire, dal momento
che la sua vera opinione è identica a quella che il figlio si sforza di combattere,
poiché la condivide. Se ha potuto sposare i due fratelli, lasciando passare un
intervallo così breve, è a causa della loro straordinaria somiglianza, somiglianza
che lo stesso Amleto avverte, ed è questo che lo rende furioso. È necessario che
Amleto riceva da altri l’impulso che non trova in se stesso ed è quanto cerca,

  7
      Cfr. Girard 1998.

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inutilmente, di ottenere dalla madre ma senza riuscirci. Di fatto a spingere
Amleto all’azione sarà Laerte, e questo perché tocca Amleto da vicino: le due
situazioni sono simili, sì che l’irritazione che prova si accompagna a un senti-
mento di emulazione, che nel quinto atto lo trasforma in quel vendicatore che
fino ad allora non era riuscito a essere. Quando vede Laerte saltare nella tomba
di Ofelia, Amleto ne è sconvolto, tanto che il tono sereno che aveva nella sua
meditazione con Orazio lascia il posto a un’imitazione del dolore teatrale del
rivale, ed è a questo punto che Amleto sceglie di divenire un secondo Laerte,
preparandosi così alla catastrofe finale.
   Per quanto riguarda la figura di Claudio, l’usurpatore, il nuovo sovrano, c’è
da dire che questi ossessiona Amleto ancor prima delle rivelazioni dello Spettro,
e Shakespeare mette in qualche modo in evidenza che c’è una somiglianza tra
questi due uomini che dovrebbero essere avversari, cosa della quale Amleto non
può non essere cosciente. Come mette in rilievo Yves Bonnefoy8, anche prima di
apprendere che Claudio è l’assassino di suo padre – è vero che egli lo presentiva,
la sua anima era “profetica” – Amleto vedeva in lui una tale avidità cinica nel
prendere la corona e la regina, che egli deve concluderne che quest’uomo non
crede in nulla dell’ordine del mondo. E in questa Elsinor dove nessuno oserebbe
mettere quest’ordine in questione, Amleto non può non constatare che essi sono
almeno in questo vicini. Tuttavia in una tale parentela c’è, o almeno lui vuole
pensarlo, una differenza che dovrebbe essere essenziale, dal momento che l’uno
e l’altro sanno, o vogliono pensare, che quanto sembra essere la realtà stessa
non è che un insieme di illusioni e di apparenze; ma Amleto soffre di questo
crollo di valori: non a caso, egli resta attaccato al padre e, anche quando sembra
burlarsi di lui chiamandolo “vecchia talpa”, lo ascolta con attenzione parlare di
sua madre e del rispetto che deve provare per lei; e quando aggredisce Ofelia
con quei pensieri sulle donne che egli sa non essere altro che pregiudizi di una
società che egli stesso rifiuta, se ne sente colpevole.
   Invece Claudio si serve, e non ne soffre, di questi valori e giudizi illusori, tra-
endone profitto senza alcun rimorso. Così, con lo sguardo inquieto su Claudio,
Amleto cerca di persuadersi che tra essi, che pur non credono in nulla, ci sia una
differenza: Claudio è un profittatore, mentre lui, il figlio esitante, è una vittima.
Ma il problema è se ciò corrisponda alla verità e se il fascino che egli prova non
abbia una causa più profonda, che è la vera fonte del suo tormento; di fatto,
è vero che egli non trae profitto da quei pregiudizi, come invece fa Claudio, e
tuttavia egli li utilizza non soltanto per rovinare il suo rapporto con Ofelia, ma
anche per soddisfare la pigrizia di chi non cerca che di ripiegarsi sui suoi sogni:
re di uno spazio senza limiti nel guscio di una noce. Non cercando dunque che
di soddisfare i suoi interessi, esattamente come Claudio, egli non è differente
da lui: il bene al quale egli aspira è senza conforto, il contrario dei piaceri del

  8
      Cfr. Bonnefoy 2015.

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potere, ma è tuttavia egocentrico, quando invece il grande atto di rifondazione
necessario sarebbe stato uno slancio verso un essere altro da sé. Amleto si sente,
insomma, un altro Claudio, ed è questa la causa del fascino che egli prova nei
confronti di lui, e di qui quelle conseguenze che peseranno sui suoi atti e che
decideranno tutta l’azione – o meglio, l’inazione – del dramma. Dapprima si
tratta di ciò che impedisce il compimento della vendetta: come avere il coraggio
di uccidere un uomo che ha certamente commesso un grande crimine, ma che è
mosso da un egoismo che egli sente anche in se stesso? Inoltre Claudio sarebbe
lo specchio che Amleto ha interesse ad avere davanti per continuare a pensare
a se stesso in luogo di passare all’azione: la possibilità, insomma, che avrebbe
Amleto di differire la scelta tra “essere” e “non essere”.
   “Essere o non essere”: raggiungere la realtà e l’assolutezza dell’Essere o restare
nella contingenza del divenire, dove la nostra finitezza ha un’unica conclu-
sione, la morte. E tuttavia Amleto sente la necessità di togliere la maschera a
quest’uomo tanto corazzato quanto il padre che gli è apparso, ed è per questo
che vuole dare una rappresentazione teatrale davanti al re, alla regina e a tutta
la corte. Mostrando in lui un traditore che assassina il suo re e poi sposa la sua
regina, egli cerca di provocare una reazione che sarebbe una confessione che gli
permetterebbe la vendetta. A ben vedere però Amleto, anche quando vede il re
reagire come lui sperava, non cerca affatto di costringere Claudio a riconoscersi
colpevole. Non è questa colpevolezza che lo interessa: egli vuole che gli appaia
davanti questo interlocutore del quale non cessa di temere che sia la sua immagine
allo specchio, anche perché «Per Amleto, l’esortazione a vendicare l’omicidio del
padre con un nuovo omicidio, ripristinando quindi uno status quo ante ritenuto
sano […] rappresenta una ricaduta nel primitivo, nell’arcaico, nella barbarie»9.
   Per quanto riguarda Gertrude, c’è da dire che, pur essendo colpevole di
avere sposato Claudio, tuttavia lo spettro del padre chiede a suo figlio di non
giudicarla. Pensando agli insulti di Amleto alla ragazza che pure ama, c’è da
notare che la violenza delle parole dell’accusatore tradisce certamente il fatto
che egli sa di essere lui in colpa e non Ofelia e dimostra anche che il desiderio
di amare resta vivo in lui. Il che fa pensare che Amleto provi la stessa cosa nella
sua relazione con la madre che, se pure è colpita dal sospetto, dalla collera e
anche dalle accuse esplicitamente formulate, tuttavia genera in Amleto un forte
stato di sofferenza. Di fatto, già prima delle rivelazioni dello Spettro, Amleto
giudicava con grande riprovazione il comportamento di Gertrude, che sembrava
aver dimenticato suo marito appena morto per abbandonarsi a un uomo che
suo figlio ha sempre trovato sgradevole. Non a caso, è proprio a Gertrude che
Amleto volge fin dall’inizio del dramma le sue osservazioni amare relative alla
differenza tra ciò che sembra e ciò che è. A parere di Stanley Cavell, quando
Amleto afferma “io non conosco sembra”, vuol dire che il suo mondo è com-

  9
      Krippendorff 2005: 237.

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pletamente diverso da quello degli altri, e quella espressione va vista come una
sorta di descrizione preliminare del suo modo generale di percepire le cose.
Di fatto, quello che Amleto rivendica per sé è una capacità che per lui come
per Cassandra si rivela una maledizione, ovvero vedere le persone per quel che
sono, scrutare la loro verità, senza fermarsi al “sembra”. È anche questo il senso
dell’episodio in cui lo vediamo fissare con attenzione il teschio di Yorick: non
è solo un momento di meditazione o di ricordo cui va associato un significato
particolare, come si pensa normalmente, ma è l’emblema di quella che per lui
è un’esperienza quotidiana, vale a dire il modo in cui egli vede gli esseri umani
che lo circondano, come tanti scheletri.

2.

    Nella scura Elsinor un passaggio resta aperto verso un ricordo di luce, una
possibilità di redenzione per questo principe preda di tutti i fantasmi. Poco
dopo che Amleto ha maltrattato Ofelia, una compagnia di commedianti arriva
a Elsinor; ha una grande rilevanza questa idea di Shakespeare di aggiungere il
teatro come un’altra dimensione rispetto al conflitto tra apparenza e realtà, tra
sembrare ed essere. E questo perché il teatro non offre soltanto allo spettatore
uno specchio di ciò che ha luogo nella società reale – come Amleto sostiene
davanti agli attori –, ma perché esso è anche l’occasione di scavare nella pro-
pria coscienza: non a caso, questi attori-commedianti hanno nel loro bagaglio
l’illusione e insieme la verità. È d’altronde fin da questo arrivo che un raggio di
luce penetra le tenebre e avrà su Amleto un effetto che rovescerà il suo rapporto
con se stesso e con il seguito delle sue azioni. Nel brano su Ecuba e la morte
di Priamo, che Amleto chiede al capocomico di recitare, quello che colpisce
il principe non è una riflessione astratta ma l’evidenza di una morte percepita
come tale: in altri termini, un’epifania della finitezza umana. E ciò che lo emo-
ziona di più è il dolore di Ecuba, una sposa, questa prova d’amore di un essere
per un altro essere, e noi dovremo comprendere questo brano che in un primo
momento stupisce per la sua differenza stilistica rispetto al resto dell’Amleto.
    In questa Morte di Priamo Shakespeare riconosce la poesia, le sue debolezze
ma anche i suoi poteri. Il capocomico, pregato di recitarlo, quando arriva al
grido di Ecuba davanti a Pirro che uccide Priamo, cambia di colore, i suoi occhi
si riempiono di lacrime e deve interrompersi: le parole del poeta suscitano la sua
compassione. La poesia genera emozioni, e ciò che essa rivela sembra qualcosa
che sale dal fondo della vita, quella solidarietà tra gli esseri umani che avrebbe
senso considerare come la sola realtà. E anche Amleto è emozionato, e se poi
vuole restare solo è per meditare su questa emozione dell’attore e riflettere su ciò
che in lui è represso. Questa emozione di Amleto si tradisce per il disordine delle
sue parole nel monologo che segue, fatto di esclamazioni, di parole di stupore e
di disperazione, e si comprende ciò che ha causato tutto questo. L’urlo di Ecuba

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non è per il commediante che “l’ombra di un dolore”, ma Amleto ha nei suoi
pensieri un’altra donna in presenza del corpo di suo marito, un essere questa
volta ben reale, sua madre Gertrude. È l’apparente insensibilità di Gertrude,
dimostrata dal fatto che si è risposata quasi subito dopo proprio con l’uomo
sospettato di aver ucciso il marito, che suscita il disgusto di suo figlio davanti
alla vita, ed è questo comportamento della madre a far sì che Amleto non giunga
mai a volere veramente la morte di Claudio, ai suoi occhi non più colpevole di
Gertrude stessa. Amleto aveva amato sua madre, ma ora egli la reputa colpevole,
e questo gli fa presumere malvagie tutte le donne; ma d’improvviso eccone una,
Ecuba, che è al contrario la prova dell’esistenza dell’amore e di ciò che l’amore
può avere di assoluto. Amleto si sente invaso, davanti a tanta disperazione, dal
pensiero che quel grido è vero, che l’amore esiste e anche che esso è provato in
particolare da una donna; di qui un affetto che si estende attraverso Ecuba a
tutte le donne e, in particolare, a quella a lui più vicina, sua madre.
   Il grido della regina di Troia è la resurrezione di Gertrude agli occhi del figlio,
che arriva a convincersi che lei non può essere così cattiva come lui ha creduto,
e della quale ora è pronto a cogliere le possibili lacerazioni; ed egli potrà anche
non dubitare più di Ofelia, la donna che ha amato prima di considerarla una
nuova Gertrude. Tutto questo lascia credere che la “trappola”, che egli immagina
in quel momento, sarà non tanto per sorprendere Claudio, che egli crede asso-
lutamente colpevole, quanto per ravvisare in Gertrude l’emozione, se non anche
l’amore che lei ha represso. Insomma, la trappola che è al centro dell’Amleto
non sarebbe per la cattura di Claudio, ma per liberare la regina dalla situazione
nella quale lei si è messa, e l’esitazione di Amleto tra l’ “essere” e il “non essere”
troverebbe la sua fine in questo apologo.
   Tuttavia, in questa trappola anche Amleto è chiuso, dal momento che essa
non farà cessare il suo confronto con un avversario con il quale egli ha bisogno
di paragonarsi più di quanto non desideri vincerlo. Non a caso è da sottoline-
are che Amleto, nel momento decisivo della rappresentazione, quando appare
l’assassino con la fiala del veleno, si precipita sulla scena gridando che si tratta
del “nipote del re”: così Amleto, che è il nipote di Claudio, indossa l’abito
dell’assassino, somigliando così più ancora all’assassino reale. Questo bisogno
che egli ha di Claudio, è ciò che Amleto comprende, di colpo, nel momento
in cui la rappresentazione è interrotta. Claudio, in effetti, fa riaccendere la luce
per uscire dopo che si è alzato, quando Luciano versa la pozione nell’orecchio
della sua vittima; a questo appunto Amleto, rivolgendosi a Orazio, si dichia-
ra vittorioso, perché l’usurpatore si è tradito. Tuttavia, invece di prendere la
decisione che la situazione gli dovrebbe imporre, il primo pensiero di Amleto
quando Claudio esce è di pensare a sé come a un commediante, il cui vero
posto sarebbe fra quelli che recitano la pièce. Del resto, lungi dal fare un passo
verso la vendetta che egli sa essere il suo compito, Amleto non fa che differire
l’uccisione di Claudio, come mostra quando lo vedrà, poco dopo, senza difesa,
perché in ginocchio a pregare; ma al di là delle ragioni addotte da Amleto di

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non uccidere il re in quel momento, resta il fatto che egli non vuole perdere
questo specchio sul quale si china per contemplarsi.
   Dalla rappresentazione della pièce Amleto attende anche che essa gli mostri
come sua madre reagirà; ma questa reazione di Gertrude, se ve ne è stata una,
è stata mascherata nel momento cruciale dalla collera del re e dalla sua brusca
partenza. C’è comunque ancora una possibilità: è quanto Amleto spera quando
entra nella camera della madre nella quale è stato convocato. Dopo discussioni
anche violente, tutto sembra pronto per un grande momento di riconoscimento
reciproco e, per parte sua, Gertrude è veramente sul punto di abbandonarsi
ai rimorsi. Ma non è ciò che Amleto crede, dal momento che non può fare a
meno di immaginare una Gertrude lubrica, capace di gesti che lo disgustano;
e se nella sua collera egli ha compassione per una evidente sofferenza, tuttavia
questa compassione non gli fa sentire in quella sofferenza il grido di Ecuba: è
come se le parole che si sono scambiati restassero solo parole, senza realtà, come
se l’essere fosse sempre nascosto dall’apparire, e a lui non restasse che la dimen-
sione del non essere dalla quale non riesce a uscire. E non a caso si è colpiti dal
vedere che quando uccide Polonio, Amleto, in luogo di passare all’azione, si
lascia fermare nella condizione del colpevole, accettando di essere giudicato e
punito con l’esilio. Quando ritornerà a Elsinor, sarà un Amleto senza progetto
d’azione, chiuso in meditazioni che comunicherà soltanto a Orazio, e l’unico
grido che sentirà sarà il suo quando, nella scena del cimitero si getterà nella
tomba di Ofelia per gridare davanti a tutti il suo amore per lei. È vero che qui
c’è uno scontro fisico tra Amleto e Laerte, ma la ragione della loro opposizione
è più profonda del fatto che il primo sia accusato dal secondo di avergli ucciso
il padre e fatto morire la sorella.
   Il punto è che Laerte risponde diversamente da Amleto alle ragioni poste
dall’ordine del mondo: a differenza di Amleto, per Laerte non c’è un mondo
altro da questo. Se Laerte può agire liberamente perché non dubita dei princi-
pi della sua azione, Amleto invece ha visto svanire la sua fede nell’ordine che
Laerte non pensa che a mantenere. Quando Amleto accusava Ofelia è se stesso
che voleva distruggere, giacché egli sapeva, al fondo di sé, di avere torto, non
facendo altro che conformarsi agli schemi di un ordine al quale non credeva
più. “Io amavo Ofelia”, grida Amleto davanti alla tomba della sua amata, ma
egli ha preso coscienza di questo amore “troppo tardi”. È dopo questa presa
di coscienza della grande occasione mancata che Shakespeare, verso la fine del
dramma, farà pronunciare ad Amleto quell’ “essere pronti” che è l’accettazione
del non-senso di tutto e insieme la rassegnazione di fronte alle azioni alle quali
non si è più in grado di dare un qualche senso che valga. È proprio questa
rinuncia che trionfa quando Amleto accetta con un’indifferenza non simulata
l’offerta di un duello che chiaramente è una trappola, nella quale la sua stessa
vita è in gioco. Nel “che importa” che dice a Orazio c’è l’abbandono di sé al
non-essere: è vero, il “troppo tardi” è un’asserzione di non-senso, disperata
perché senza speranza di senso.

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A proposito del “teatro nel teatro” che Amleto utilizza per smascherare la
colpevolezza di Claudio ma soprattutto l’eventuale coinvolgimento della madre,
come mette in evidenza Carl Schmitt10, che Shakespeare non abbia potuto o
voluto trattare il tema della colpevolezza o dell’innocenza di Gertrude è un
dato di fatto che nasconde e insieme rivela il nesso fra la madre di Amleto e la
regina di Scozia Maria Stuarda, madre di Giacomo I. Così nell’autonomia del
dramma e dei suoi personaggi fa irruzione una problematica umana e politica che
scaturisce da una storia contemporanea trascendente rispetto al dramma stesso
e alla sua logica interna. Il concetto di “irruzione”, implicando la trascendenza
della realtà rispetto all’arte, manifesta anche la sfiducia nell’afferrabilità della
realtà da parte della parola. Il fatto è che per Schmitt la rappresentazione sha-
kespeariana è la metafora di un mondo che a sua volta si concepisce solo come
teatro: così il “teatro nel teatro” (la rappresentazione del cosiddetto Assassinio
di Gonzaga) è il punto in cui massimamente Shakespeare aderisce alla vita. La
teatralizzazione del mondo, enfatizzata nel “dramma nel dramma”, che Schmitt
assume nel titolo di questo saggio col nome di “Ecuba” (riferendosi alla recita
del lamento di Priamo, nel II atto), non “comprende” la realtà contemporanea
extradrammatica, alla quale Schmitt dà il nome di “Amleto”. Amleto o Ecuba
evidenzia, dunque, lo scarto fra realtà e rappresentazione: il “teatro nel teatro”
non solo non è uno sguardo dietro le quinte ma, al contrario, è lo spettacolo
stesso, per una volta “davanti” alle quinte, e ciò presuppone la presenza di un
fortissimo nucleo di realtà e di attualità. È così di estrema importanza sapere
che l’Amleto non si risolve in un gioco senza residui, dal momento che esso con-
tiene altro, oltre agli elementi del gioco drammatico che resta, di conseguenza,
non-compiuto: l’ineluttabile realtà effettuale è la muta roccia contro la quale si
infrange il gioco del dramma.

3.

   Ritorniamo ancora una volta alla trappola per topi o assassinio di Gonzaga
che è uno dei fuochi dell’Amleto. Come sostiene Bonnefoy, ciò che colpisce in
questo testo è il prevalere della forma fissa sulle parole, ovvero di un’idea che
precede il testo stesso11. Quest’ultimo è differente da quello di Ecuba, recitato
dal capocomico, dove invece a prevalere è la parola, e dunque la vita, sulla fissità
della forma. Comunque questi due testi sono a loro volta differenti da quello
dell’Amleto, e più in generale dalla scrittura di Shakespeare, e questo anche se la
loro successione nel pensiero di Amleto dovrebbe significare che vi è un passaggio
dall’uno all’altro; passaggio che dovrebbe chiarirsi con le riflessioni che Amleto

     10
          Cfr. Schmitt 1983.
     11
          Cfr. Bonnefoy 2015.

                                        70
comunica agli attori che devono mettere in scena la pièce che lui ha scelto per
realizzare la sua “trappola”. Tuttavia in queste riflessioni, che sono tanto lunghe
quanto precisamente formulate, non c’è niente che giustifichi come il racconto
dell’uccisione di Priamo abbia potuto spingere Amleto a ricordarsi di un’opera
così statica come quella che egli decide di far rappresentare. Di fatto, il pensiero
di cui Amleto rende partecipi i commedianti sembra del tutto estraneo sia all’uno
che all’altro modo di concepire il teatro: «anche nel turbine, nella tempesta, o,
per così dire, nel vortice della passione, dovete procurarvi una certa dolcezza e
misura»12 e ancora: «Accordate il gesto alle parole, la parola al gesto, avendo cura
di non superare la modestia della natura; qualsiasi cosa in tal misura gonfiata
è ben distante dalla recitazione, il cui fine – ora come ai suoi primordi – è di
reggere lo specchio alla natura»13.
   Si potrebbe pensare che sia lo stesso Shakespeare a sostenere una tale idea
di teatro, ma sarebbe un errore: certamente il drammaturgo pensava che gli
eccessi nella recita degli attori non dovevano occultare quello che con grande
serietà esponevano le sue tragedie e anche le sue commedie, ma avrebbe po-
tuto fare sua l’idea di questa “misura” alla quale si deve sottomettere l’uragano
della passioni? Se si pensa alla disperazione di Lear, o all’angoscia di Macbeth,
o alle urla di Otello, o ancora alla follia di Ofelia, la risposta non può essere
che negativa. Né con questa nozione di “misura” Shakespeare avrebbe potuto
scrivere gli stessi monologhi di Amleto, nei quali c’è un pensiero che non è
sottoposto alle leggi del logos. Totalmente riducibile a parole concettualizzate,
la cui vocazione è analitica, la misura ha a che fare con l’intelletto e non con il
pathos: la misura è cieca nei confronti di ciò che scuote l’edificio della ragione,
ma è proprio di questo eccesso della realtà sulla ragione che noi siamo creditori
a Shakespeare. Nell’esporre quelle sue riflessioni ai commedianti, Amleto non
è dunque il portavoce di Shakespeare, e dobbiamo allora chiederci il perché
di questa esposizione di una poetica che non potrebbe né concepire l’Amleto
né rendere conto delle opere successive. In particolare, i valori esaltati da un
Amleto teorico del teatro non spiegano la differenza tra “Ecuba” e “Gonzaga”.
A questo punto dell’azione nell’Amleto bisogna dunque constatare ciò che sem-
bra uno iatus nella catena dei significati del dramma: la presenza, simultanea e
contraddittoria, di tre concezioni del teatro. La possibilità di superare una tale
contraddizione presuppone che ci sia nel dramma un livello di senso che non
è ancora affiorato.
   Mettiamo da parte per il momento La morte di Priamo (o Ecuba) e ripren-
diamo le altre due concezioni del teatro su cui l’Amleto ci fa meditare: da una
parte la “misura” che il principe richiede agli attori, una fedeltà a un pensiero
che cerca di restituire ciò che ritiene vero, e dall’altra il primato della forma nel

  12
       Shakespeare 1997: III, II, 6-8.
  13
       Ivi: III, II, 18-23.

                                         71
Gonzaga. A un primo sguardo queste concezioni possono sembrare totalmente
opposte, ma si tratta di in un fraintendimento; a ben vedere, infatti, non c’è
tra queste due poetiche una reale contrapposizione: c’è da tenere presente che
la verità, per chi parla di misura, è la constatazione che ci sono nell’esistenza
sociale situazioni nelle quali sono dette alcune parole in luogo di altre, per il
bisogno di illudere e di ingannare, e il teatro, che è sicuramente un buon mezzo
per osservare queste possibilità, lo può fare in quanto è considerato lo “specchio”
della società. Ciò presuppone che gli eventi descritti siano stati percepiti dall’au-
tore nel modo in cui la società sottomette la realtà ai suoi fini. Così gli schemi
dell’astrazione si sostituiscono alla percezione empatica dell’esistenza, al livello
della quale soltanto si stabiliscono quei rapporti con altri esseri che sono la sola
realtà che abbia senso. Di conseguenza, la poetica della misura, nel fare tutt’uno
con uno “sguardo” esterno sulla società, non può che dar luogo a un profondo
misconoscimento di quest’ultima. Il teatro nel teatro non sarà che la messa in
evidenza del rischio che la poetica della misura fa correre a una comprensione
dell’uomo in quanto essere finito e, sotto questo profilo, a dispetto delle loro
apparenze contraddittorie, la concezione del teatro che espone Amleto e la pièce
che egli mette in scena davanti al re e alla corte, sono coincidenti.
   Se ora ritorniamo alla Morte di Priamo, non possiamo non cogliere la dif-
ferenza tra questa poetica e le altre due. Nessuna misura in questa narrazione
che lascia che l’incendio entri nelle sue parole, e nessuna preoccupazione delle
convenzioni della retorica cara al Gonzaga; la Morte di Priamo non soddisfa le
raccomandazioni che Amleto fa agli attori: è come se questo frammento fosse
sfuggito al rischio di sclerosi dell’esistenza che è proprio del pensiero concettuale.
Non c’è in esso più nulla, insomma, di quell’astrazione che, nella poetica della
misura, porta alla rovina i suoi tentativi più seri di dire la finitezza. E invece
un effetto che L’assassinio di Gonzaga non ha avuto, a dispetto di quel che si
augurava Amleto, è stato quello di toccare il cuore di Gertrude e quindi di
suscitare un sentimento attinente alla profondità dell’umano. Al contrario, nel
Priamo, l’urlo di Ecuba commuove Amleto e rianima le emozioni più sopite,
tanto da aprire alla speranza della possibilità di “cambiare la vita”. Insomma,
nel Gonzaga la forma ha fatto un deserto nelle parole ed è, di conseguenza, per
la società che si vuole umana qualcosa di fortemente pericoloso, tanto che è
proprio questa forma a soffocare il grido di Ecuba. E se la forma è generatrice
di morte, attraverso le parole costrette appunto in forme fisse, allora spetterà
dire la verità non alla forma, bensì a quelle parole che sono cariche di vita. Così
nel Priamo, seppure per un istante, si stabilirà un sapere della finitezza: questo
istante è anche la ripresa della speranza e l’alba di un’autentica dimensione
umana che emerge nel mondo, ma nello stesso tempo è proprio questo istante
che ha il compito primario di fare intendere un silenzio interrotto da un “trop-
po tardi!”. Noi arriviamo a comprendere alla fine dell’Amleto un “troppo tardi”
che sembra valere per tutta la modernità, all’interno della quale si trova solo

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un’asserzione di non-senso: è di fronte a questo non-senso che Amleto afferma
la necessità di “essere pronti”.
   A questo punto, mi sembra importante riprendere l’affermazione di Edgar
nel finale del Re Lear: “Essere maturi è tutto” – “Ripeness is all” (V, II, 11) –,
differenziandola da quella di Amleto: “Essere pronti è tutto” – “Readiness is
all” (V, II, 214); di fatto queste frasi parlano di tensioni che sono al centro
della poetica di Shakespeare. Se Edgar comprende istintivamente che non potrà
trovare la sua salvezza che nel lavorare per quella degli altri, affinché riprenda
quello scambio che, solo, rende gli uomini autentici, nell’Amleto troviamo
invece l’accettazione della morte, perché essa sarebbe il segno per eccellenza
dell’indifferenza del mondo e quindi dell’insufficienza del senso. L’“essere
maturi” appare nel Re Lear come quella possibilità di esistenza a partire dalla
quale i protagonisti di questa tragedia delle apparenze menzognere cessano
di non essere che un’ombra. Nulla di questo genere appare nell’Amleto che
contiene solo tenebre, a differenza dell’universo del Re Lear che esprime un
estremo atto di fede. L’“essere pronti” e l’“essere maturi” si presentano, di
conseguenza, come due attitudini irriducibili: l’una, la quintessenza dell’or-
dine di un mondo che sembra indifferente all’uomo, l’altra, il contrario di
quest’ordine, quando la trama che sembrava incomprensibile lascia uno spazio,
seppur minimo, all’azione degli uomini di “buona volontà”. E la questione
più importante di tutto il teatro di Shakespeare è il significato che ha potuto
prendere, in termini di possibilità effettive, questa opposizione fondamentale.
Dopo che il Medioevo cristiano aveva costruito un edificio con il cielo e la
terra attorno all’uomo, Shakespeare pensa che resti nella natura e in noi ancora
un ordine universale e profondo, quello della vita che, riconosciuta nelle sue
forme semplici, amata e accettata, può fare rifiorire – come l’erba che cresce
nelle rovine – la nostra condizione di esiliati dal mondo della Promessa. È
questo il percorso, a me pare, che va dall’Amleto al Re Lear e continua con La
Tempesta. Non c’è, come si diceva, una “filosofia” di Shakespeare e, da questo
punto di vista, il grande drammaturgo inglese è vicino a Dostoevskij, a Kafka
e a Beckett: l’opera di Shakespeare è, allora, non un’epifania dell’Assoluto ma,
come quella degli altri grandi scrittori sopracitati, una testimonianza di quella
connessione di senso e non-senso che caratterizza la grande arte “moderna”
come la definisce Adorno.

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