CANDYMAN: LA RECENSIONE DEL FILM HORROR DI NIA DACOSTA

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CANDYMAN: LA RECENSIONE DEL FILM HORROR DI NIA DACOSTA
Candyman: la recensione del
film horror di Nia DaCosta

Anthony McCoy è un artista che vive a Chicago assieme alla sua
ragazza, Brianna Cartwright, che dirige una galleria d’arte
moderna. Il giovane uomo è in conclamata crisi creativa, e di
fatto viene mantenuto dalla compagna, ma gli giunge un aiuto
inaspettato.

Il fratello di Brianna, infatti, una sera si ferma a casa
della coppia assieme al proprio compagno, e racconta quella
che sembra essere una leggenda metropolitana: negli anni
novanta una giovane donna, Helen Lyle, giunge nel quartiere
per compiere delle ricerche sull’esistenza di Candyman, mitico
uomo nero della zona, presunto autore di innumerevoli delitti.
CANDYMAN: LA RECENSIONE DEL FILM HORROR DI NIA DACOSTA
Helen tuttavia perde il senno, rapisce un bambino che cerca di
uccidere gettandolo nel fuoco, ma il piccolo viene salvato in
extremis, mentre lei si getta tra le fiamme, muorendo in modo
atroce.

Anthony rimane turbato dal racconto, e comincia a fare delle
ricerche, indagando in ciò che rimane del vecchio quartiere di
Cabrini-Green, dove incontra William Burke, il proprietario di
una lavanderia che gli racconta ulteriori dettagli della
storia raccapricciante.

In particolare, secondo William, chiunque nomini per cinque
volte consecutive il nome “Candyman” di fatto evoca il suo
spirito, venendo da questi massacrato sul posto senza pietà.
Anthony e Brianna hanno poi la pessima idea di provare il
rituale, ma sul momento sembra non acacdere niente.

Il protagonista rimane comunque affascinato dal racconto, e
concepisce un’opera da esso ispirata, che viene esposta nella
galleria d’arte della compagna, dove tuttavia riceve critiche
per nulla lusinghiere.

Gli eventi cominciano subito a precipitare. I primi a morire
macellati sono un collega di Brianna e una sua fiamma del
momento, che evocano per gioco Candyman davanti all’opera di
Anthony. Nel frattempo il protagonista comincia a subire una
mutazione fisica, che comincia da una mano, punta da un’ape
mentre si aggira tra gli edifici fatiscenti di Cabrini-Green.

Candyman: un horror nel quale trionfa il mito del
doppio
In questo film si scontrano frontalmente forze contrapposte e
inconciliabili. Il primo contrasto che emerge con forza è
quello urbano. Da un lato ci sono i vetusti edifici fatiscenti
e polverosi della vecchia Cabrini-Green, pieni di graffiti,
murales e orrori dimenticati.

Dall’altra i moderni e luccicanti grattacieli costruiti
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sull’antico quartiere, che un rapido processo di
gentrificazione avrebbe dovuto riscattare, lanciandolo verso
un radioso futuro di prosperità e benessere. Aprendo quindi un
secondo contrasto: tra la povertà materiale del passato e la
ricchezza del presente.

C’è poi lo scontro frontale tra il mondo dei bianchi e quello
dei neri, all’inizio del film sottotraccia, ma che cresce
inesorabilmente durante il racconto, diventandone alla fine la
chiave di lettura principale.

Lo stesso protagonista comincia poi a sdoppiarsi, perché la
sua identità comincia a essere lentamente ma inesorabilmente
contaminata da quella di Candyman, cambiamento che verso la
fine del film traspare chiaramente anche a livello fisico,
dato che metà del suo corpo comincia a marcire.

Il fatto poi che Candyman possa essere evocato solo davanti a
uno specchio è emblematico della sua natura e gli stessi
titoli di testa sono “specchiati”…

Candyman: un film semplice e lineare che si lascia
guardare volentieri
Il tema centrale della pellicola è il rapporto conflittuale
tra bianchi e gente di colore. I protagonisti sono di colore,
i vecchi (e poveri) abitanti di Cabrini-Green sono di colore,
ma i moderni galleristi (quelli di successo) sono bianchi,
così come le forze dell’ordine, dominate dal suprematismo
bianco.

Anthony è in crisi di ispirazione, la sua compagna fatica a
trovare una posizione di successo e di fatto è subalterna al
suo socio bianco, ma è la comparsa di Candyman e rimescolare
le carte. Di fatto questo personaggio mitico (e di colore)
fornisce una nuova spinta creativa ad Anthony, avviandolo
verso il successo, grazie agli efferati omicidi che ben presto
avvengono attorno alle sue opere.
CANDYMAN: LA RECENSIONE DEL FILM HORROR DI NIA DACOSTA
La stessa Brianna, grazie a questi tragici fatti, ha la
possibilità di collaborare con espositori molto famosi. In
altre parole, il successo della gente di colore può avvenire
solo tramite la mattanza dei bianchi, che sono i cattivi di
turno.

Candyman stesso, alla fine, si rivela essere niente altro che
la personificazione di tutte i soprusi subiti dalla comunità
di colore per colpa dei bianchi. In esso vivono molti
personaggi del passato, ingiustamente massacrati dalla
comunità WASP, razzista, sadica e sfruttatrice. E vogliono
vendetta.

Il film è molto curato, anche dal punto di vista visivo. In
particolare, gli ambienti del nuovo quartiere sono ricercati
nei minimi dettagli, ma la loro perfezione formale non
impedisce all’orrore di abbattersi sui suoi abitanti.

La storia scorre accattivante, partendo da un punto di vista
neutro, dove tutto sembra essere perfetto, impeccabile: i
protagonisti sono una giovane coppia di artisti di colore
apparentemente lanciati verso il successo, il fratello di lei
è gay, il suo compagno è un bianco. Tutto perfettamente
politically-correct.

Ma sotto l’apparenza si nasconde l’orrore, che cresce piano
piano lungo tutta la storia, fino a esplodere nel finale. Che
forse è il punto debole del film, perché si cade nei luoghi
comuni più stucchevoli. Bianchi tutti cattivi contro uomini di
colore tutti vittime. E la vendetta, unica dimensione
esistenziale possibile per questi ultimi, trionfa. Vabbè.

Comunque il film nel suo complesso funziona bene. E di fatto è
una apprezzabile continuazione del primo Candyman, del 1992,
di Candy Rose, la cui storia è la base di partenza del film.

In attesa del prossimo sequel…
CANDYMAN: LA RECENSIONE DEL FILM HORROR DI NIA DACOSTA
Come un Gatto in Tangenziale
– Ritorno a Coccia di Morto:
la   recensione    del   film
commedia con Antonio Albanese
e Paola Cortellesi

Giovanni (Antonio Albanese) e Monica (Paola Cortellesi) sono
due persone agli antipodi.

Lui è un intellettuale immerso nell’ambiente della sinistra
CANDYMAN: LA RECENSIONE DEL FILM HORROR DI NIA DACOSTA
radical-chic, impegnato nella realizzazione di un ardito
quanto improbabile centro culturale in una periferia
degradata, che dovrebbe servire ad aggregare ed elevare
culturalmente il popolo, ma che in realtà per alcuni pare
essere una mera opportunità per fare soldi, sotto la copertura
dell’erudizione delle plebi.

Lei fa parte del popolo teoricamente bisognoso di essere
elevato, ma della cultura se ne sbatte, perché – a suo dire –
non dà da mangiare. Del resto ha ben altre gatte da pelare: si
ritrova incarcerata per colpa delle sue due sorelle gemelle,
Pamela e Sue Ellen (le incredibili Alessandra e Valentina
Giudicessa), cleptomani inveterate, che hanno nascosto la loro
refurtiva nella sua pizzeria.

Così chiede aiuto al suo ex amico, Giovanni, il quale diventa
suo tutore legale e ottiene, grazie ai suoi appoggi politici,
la conversione della pena detentiva di lei nella prestazione
di servizi sociali, da effettuarsi nella parrocchia di Don
Davide (Luca Argentero), centro che aiuta i disagiati,
adiacente al centro culturale in procinto di essere
inaugurato.

Entrambi sono poi in contatto con i rispettivi pargoli, che
vivono in terra straniera. Il figlio di Chiara, Alessio
(Simone de Bianchi) lavora come lavapiatti e cameriere in un
pub londinese, mentre la figlia di Giovanni, Agnese (Alice
Maselli), frequenta l’università, sempre nella capitale
britannica.

Insomma una storia nella quale si confrontano realtà opposte,
che forniscono mille opportunità per creare situazioni
grottesche.

Come un Gatto in Tangenziale – Ritorno a Coccia di
Morto: non solo una commedia
In questa pellicola l’aspetto comico coesiste con la volontà
di mostrare le problematiche sociali delle periferie urbane.
CANDYMAN: LA RECENSIONE DEL FILM HORROR DI NIA DACOSTA
Il problema della carenza di alloggi, la violenza sulle donne,
la mancanza di lavoro, la violenza endemica nei bassifondi,
sono tutti temi che fanno capolino nella narrazione, sia pure
in tono scanzonato e forse alle volte un po’ troppo
stereotipato.

Indubbiamente è presente una critica corrosiva nei confronti
dell’ambiente della sinistra radical chic, bene rappresentato
dall’ex di Giovanni, Luce (Sonia Bergamasco), persona
benestante che vive in una dimensione parallela, avulsa dal
mondo reale della povera gente, ma soprattutto dalla nuova
compagna del protagonista, Camilla (Sarah Felberbaum), il cui
impegno sociale è di facciata, in quanto di fatto è
interessata solo al denaro messo in circolazione dagli sponsor
per realizzare progetti a presunto scopo sociale.

Lo stesso Giovanni porta dentro di sé tutte le contraddizioni
connesse da una progettualità che dovrebbe usare la cultura
per creare occasioni di aggregazione e crescita civica per il
sottoproletariato urbano, ma che usa linguaggi distanti anni
luce dagli abitanti delle periferie.

Non per niente, Giovanni passa interi pomeriggi per cercare la
giusta sfumatura di colore per i muri del centro culturale, o
per trovare il nome corretto per le pietanze preparate per la
cerimonia di inaugurazione, sotto l’occhio vigile e pensoso di
intellettuali (o presunti tali) evidentemente alieni alla
realtà delle borgate di periferia.

Tuttavia queste attività muovono un sacco di soldi, e molti di
questi finiscono nelle tasche delle maestranze e degli
artisti, per cui in realtà la cultura dà da mangiare, come
Giovanni ricorda a Monica durante una delle loro accese
discussioni.

Con visioni del mondo a distanza siderale l’uno dall’altra, i
due protagonisti sono tuttavia fortemente attratti l’uno
dall’altra, e la passione alla fine travolge ogni resistenza
CANDYMAN: LA RECENSIONE DEL FILM HORROR DI NIA DACOSTA
intellettuale, trovando sfogo nell’inevitabile amplesso nel
dormitorio delle suore nella parrocchia di Don Davide.

Come un Gatto in Tangenziale – Ritorno a Coccia di
Morto: una commedia divertente, ottima per passare
un paio d’ore spensierate
Il film si fa vedere volentieri, e non si può non apprezzare
anche diverse citazioni cinematografiche veramente carine,
vere chicche per i cinefili capaci di vederle. Graditi omaggi
a Shining, Vacanze Romane e Il Settimo Sigillo.

Questo secondo capitolo di Come un Gatto in Tangenziale è più
impegnato del primo, sia pure sempre in modo leggero e
scanzonato, e forse per questo è ancora più apprezzabile,
riuscendo nell’impresa di realizzare un sequel all’altezza,
operazione per niente facile né scontata.

In definitiva il film ha un messaggio positivo: si può
convivere anche avendo visioni del mondo differenti, senza
bisogno di rinunciare alla propria identità o di dovere
cambiare per piacere all’altro.

La cultura può essere sia una mangiatoia per opportunisti, che
un’opportunità per riflettere, stare insieme e aiutarsi l’un
l’altro. E ognuno può scegliere da che parte stare.

Apprezzabile anche l’ampia gamma di improbabili personaggi
messi in scena, che riempiono di simpatia la pellicola.
Inevitabile qualche caduta di troppo negli stereotipi più
comuni, ma forse è impossibile riuscire a evitarlo, in una
commedia di questo tipo.

Speriamo che il probabile terzo capitolo della saga sia
all’altezza del secondo…
CANDYMAN: LA RECENSIONE DEL FILM HORROR DI NIA DACOSTA
Josep:   il  grande  cinema
d’animazione d’autore torna
al Visionario dal 30 agosto
al 1°settembre!

Josep è una celebrazione del potere espressivo del disegno e
di una vita straordinaria, quella dell’illustratore catalano
Josep Bartolí (Barcellona 1910 – New York 1995).

A firmarlo Aurel, pseudonimo di Aurélien Froment, vignettista
francese che tra gli altri ha lavorato per Le Monde.

Miglior film d’animazione ai Cesàr 2021 e agli European Film
Awards, JOSEP sarà in programma al Visionario dal 30 agosto al
1° settembre alle ore 19.15. La prevendita dei biglietti è
attiva online e presso la cassa del cinema.

Il film di animazione è ambientato nel Febbraio del 1939. I
repubblicani spagnoli si dirigono in Francia per fuggire dalla
dittatura di Franco. Il governo francese confina i rifugiati
in campi di concentramento, dove si riesce a malapena a
soddisfare il bisogno di igiene, acqua e cibo. È in uno di
questi campi che due uomini, separati dal filo spinato,
diventeranno amici. Uno è una guardia, e l’altro è Josep
Bartolí, un illustratore che combatte il regime franchista.

Un’affascinante lezione di storia, un film sulla memoria e sul
potere fondativo degli incontri capaci di alterare il corso di
una vita.

Per la programmazione completa e sempre aggiornata consultare
il        sito        www.visionario.movie            oppure
facebook.com/VisionarioUdine. Ricordiamo che per accedere al
Visionario, al cinema all’aperto presso il giardino Loris
Fortuna e alla Mediateca Mario Quargnolo è necessario mostrare
il Green Pass, la certificazione verde Covid-19. Per la
visione dei film rimane obbligatoria la mascherina (chirurgica
o ffp2).

Becket: recensione del film
Netflix di Ferdinando Cito
Filomarino con John David
Washington

Becket (John David Washington) è un cittadino statunitense in
viaggio in Grecia con la compagna, April (Alicia Vikander). I
due decidono di lasciare Atene, scossa da violenti tumulti
popolari, per addentrarsi all’interno del paese.

Durante un viaggio notturno in macchina, Becket, causa un
improvviso colpo di sonno, perde il controllo del veicolo, che
si ribalta fuori strada e si schianta contro un’abitazione,
sfondandone un muro.

Pesto e sanguinante, riesce a trascinarsi fuori
dall’abitacolo, per scoprire che April è stata violentemente
sbalzata fuori dall’auto, rimanendo uccisa. Prima di perdere i
sensi, si accorge della presenza di una donna con un bambino,
che tuttavia, inspiegabilmente, scappano.

Ritorna successivamente a piedi sul luogo dell’incidente, ma
viene aggredito da una donna che gli spara, centrandolo a un
braccio.

Con suo grande sgomento, scopre ben presto che chi lo vuole
fare fuori è in combutta con la polizia. Comincia la sua fuga
nell’affascinante ma aspra campagna greca, ferito, tallonato
dai suoi inseguitori, che non guardano in faccia a nessuno pur
di fargli la pelle…

Becket: un uomo solo contro tutti
Questa pellicola è la quintessenza della situazione “l’uomo
sbagliato nel posto sbagliato al momento sbagliato”. Causa una
serie di fattori del tutto imprevedibili ed esterni alla sua
volontà, Beckett si trova a essere testimone di qualcosa che
non doveva vedere, e della quale all’inizio non si rende
neanche conto.

Solo, ossessionato dal senso di colpa per avere causato la
morte della sua compagna, si trova a cercare di sopravvivere
in un ambiente dove non sa di chi fidarsi, dove chiunque può
essere un suo nemico.

Non conosce la lingua dei nativi, non conosce le strade, non
ha idea di quello che sta succedendo. Ben presto la sua fuga
disperata lo porta nei centri urbani. Il passaggio dalla
campagna alla città non cambia molto nella sua situazione:
entrambi gli ambienti sono ostili e incomprensibili.

Lentamente, comunque, emergono elementi che gli permettono di
farsi un’idea di quello che sta succedendo. Il fatto di capire
di trovarsi all’interno di un complicato intrigo
internazionale non gli è tuttavia di molto aiuto, anzi.

Mentre la storia si dipana, Beckett deve lottare per
sopravvivere, combatte a mani nude contro sicari e forze
dell’ordine, viene più volte ferito, trovandosi sempre più
immerso in una situazione sempre più complicata e pericolosa.
Beckett: una storia coinvolgente che però fatica a
mettersi in moto
Il film comincia con un ritmo forse anche troppo lento,
mostrandoci la classica situazione in cui una coppia
attraversa dei temporanei momenti di difficoltà, mentre i
difficili eventi vissuti da una Grecia attanagliata dalla
crisi economica scorrono sullo sfondo.

I dialoghi minimalistici e il modo di fare un po’ impacciato
del protagonista non aiutano di certo, per cui all’inizio chi
si aspetta il classico action movie può rimanere disorientato,
anche perché accade poco o niente. Banali scaramucce e
riappacificazioni tra una coppia di cui poco o nulla ci è dato
di sapere, a parte i nomi dei protagonisti.

Le cose cominciano a cambiare dopo l’incidente in macchina, ma
il film nel suo complesso fatica a mettersi in moto. Certo,
quando cominciano a volare i proiettili e il mondo sembra
crollare addosso a Beckett è difficile non immedesimarsi nel
protagonista.

In questo film si parla poco, cosa può essere un punto di
forza, a patto che non si voglia comprendere razionalmente
tutti i dettagli di quanto sta accadendo. Perché le
informazioni vengono fornite con il contagocce, e solo alla
fine lo spettatore si può fare un quadro abbastanza chiaro di
quello che sta succedendo. Cosa che non tutti gradiscono. I
gusti son gusti, del resto.

Fatte queste premesse, bisogna dire che una volta che la
storia comincia agirare a pieno regime, è veramente difficile
non farsi trascinare le racconto.

Beckett: un John David Washington molto più
credibile di quello che abbiamo visto in Tenet
Tutto il film ruota attorno a Beckett, interpretato da un John
David Washington molto più convincente di quello che vestiva i
panni del protagonista senza nome di Tenet.

Certo, mentre Beckett è un film con una        storia lineare e
legata al nostro presente, Tenet è            un guazzabuglio
fantascientifico spazio-temporale senza       forma, nel quale
perdersi è facilissimo. Una differenza non    da poco.

I protagonisti delle due pellicole hanno dei tratti simili,
probabilmente dovuti alle peculiarità attoriali di Washington,
ma in Beckett il protagonista è molto più credibile e
appropriato all’assurda situazione che si trova a dover
affrontare.

Questo film ha anche dei tratti politici, che ripropongono lo
scontro frontale tra destra e sinistra nello stanco Occidente
di inizio millennio, con sullo sfondo il disastro sociale
provocato dall’austerità imposta dalle istituzioni europee,
che in Grecia ha fatto danni considerevoli.

E in questo dramma la classica contrapposizione tra città
evoluta e campagna arretrata, presente più o meno in
moltissime storie, perde forza fino a svanire. Ovunque scappi,
Beckett viene inseguito dai suoi persecutori. Ma è nella città
che viene trovato il bandolo della matassa.

Insomma questa pellicola è un interessante mix di elementi
coinvolgenti, e, a patto di perseverare nella visione, perché
la prima parte non è di certo entusiasmante, può regalare
forti emozioni allo spettatore.

Anche perché, diciamolo pure, è difficile non immedesimarsi
nel protagonista di questo tipo di storie, dove un un uomo si
trova a lottare da solo contro tutti.

Magie del cinema…
Pozzis,           Samarcanda:
recensione    del   film   di
Stefano Giacomuzzi con Alfeo
Carnelutti (Cocco)

Pozzis, Samarcanda è un film non categorizzabile in maniera precisa,
situandosi in una zona indefinita compresa tra il road movie, il film
autobiografico e il documentario di viaggio.

I due protagonisti sono Cocco e Stefano. Due personalità e due
esperienze di vita agli antipodi. Cocco è un biker settantenne, con un
passato da emigrante e corridore motociclistico. Negli anni ottanta
subisce un grave incidente di gara che lo costringe in ospedale per un
lungo periodo, e sviluppa il morbo di Chron. Si trasferisce a Pozzis,
un paesino disabitato sulle montagne friulane, in provincia di Udine.

Comincia ad organizzare i Cocco Meeting, motoraduno che ben presto
diventa popolarissimo e contribuisce a regalare una seconda vita allo
sperduto agglomerato di case.

Nel 1999 viene accusato di un omicidio, del quale si dichiara subito
colpevole. Una vicenda dai contorni molto controversi, tanto che Cocco
riceve una condanna mite, dieci anni di reclusione, dei quali ne
sconta otto. Nel 2018 parte per Samarcanda. Unici compagni di viaggio:
la sua amata motocicletta (il cui motore è più vecchio di lui di
cinque anni), Stefano e una striminzita troupe cinematografica. Il
film parte da qui.

Stefano ha solo ventidue anni ed è fresco di studi cinematografici.
Dal loro incontro è nata l’idea di girare il film, una sorta di
racconto   di   viaggio   nel   quale   non   ha   neanche   importanza   la
destinazione, come ci viene fatto sapere nelle prime battute del film,
girate durante un Cocco Meeting a Pozzis, nel quale si vendono
magliette per finanziare la spedizione.

Pozzis, Samarcanda: un racconto dove convivono realtà apparentemente
inconciliabili

In effetti tra Stefano e Cocco c’è una differenza abissale di età,
esperienze vissute e visione del mondo. La principale motivazione di
Stefano nell’imbarcarsi nell’avventura è di girare un film, mentre per
Cocco si tratta di vincere una sfida con sé stesso, per vedere cosa è
in grado di fare alla sua età e con tutti i suoi problemi
(considerando anche che la sua moto è più vecchia di lui).

Anche tra Pozzis e Samarcanda la differenza è immane: il luogo di
partenza è un paesino disabitato disperso nelle montagne friulane,
Samarcanda è un luogo mitico e famosissimo, lontano oltre seimila
chilometri.

Un viaggio difficile, quindi, sotto molteplici punti di vista: una
coppia eterogenea che affronta un viaggio lunghissimo, in terre
lontane, sia in termini di distanza fisica che di differenza
culturale, su strade spesso al limite dell’inutilizzabilità, con una
motocicletta più vecchia del suo pilota settantenne, per altro in
condizioni fisiche non certo eccelse.

Ma nonostante tutto e nonostante tutti, l’incredibile impresa riesce.
Il film racconta tutte le tappe principali di questo viaggio, ma lo fa
in maniera minimalistica, e questo lo rende ancora più credibile e
coinvolgente.

Perché sia Cocco (Alfeo Carnelutti) che Stefano interpretano sé
stessi, senza maschere e senza filtri. E forse non potrebbe essere
diversamente, visto che non stiamo parlando di attori professionisti.

Niente dialoghi ricercati o fini citazioni, niente effetti speciali.
Solo fatti accaduti, ripresi in tempo reale, probabilmente senza il
tempo di costruire scene complesse. Probabilmente improvvisando,
adattandosi agli imprevisti e alle situazioni contingenti.

Pozzis, Samarcanda: il racconto di un’avventura e di una improbabile
amicizia capace di superare ogni difficoltà

Il viaggio tra Pozzis e Samarcanda mette a dura prova il rapporto tra
Stefano e Cocco. Ma alla fine il loro legame ne esce accresciuto e
cementato, perché entrambi, ognuno a modo loro, si rendono conto di
avere bisogno uno dell’altro.

Quella che all’inizio è una convivenza forzata, diventa un’occasione
di arricchimento reciproco, e permette ai due di portare a termine
l’impresa, superando anche il malore che costringe Cocco a letto per
diversi giorni.

Forse è proprio Cocco il vero protagonista del film. Una persona
semplice, dall’esperienza di vita ricchissima, dalla forza interiore
incredibile, che gli ha permesso di superare ostacoli impensabili.

Con tante piccole storie da raccontare, tratte dalle sue personali
esperienze, che descrive con il suo linguaggio semplice, ma efficace.

In particolare, durante tutta la pellicola, Stefano cerca di strappare
a Cocco la verità sui fatti oscuri che lo hanno portato a passare
tanti anni della sua vita in carcere. All’inizio il biker non vuole
parlarne, ma lentamente la sua resistenza si sgretola, e alla fine si
lascia sfuggire più di qualcosa, per la gioia degli spettatori. E di
Stefano.

Ma anche quest’ultimo si accorge che, volente o nolente, deve
rinunciare a qualcosa. L’ossatura del film non può derivare dal
viaggio fisico in sé: non c’è tempo per godersi gli incredibili
paesaggi, esplorare città tanto lontane e differenti dalle nostre,
indugiare sugli innumerevoli incontri con culture diverse.

Bisogna andare avanti, a testa bassa, nonostante la stanchezza, gli
imprevisti, le difficoltà.

Pozzis, Samarcanda: un film che fa della semplicità e immediatezza il
suo punto di forza

Insomma stiamo parlando di una pellicola molto semplice, quasi
improvvisata, donchisciottesca, realizzata con mezzi esigui. Ma fatta
con passione, capace di dare molto allo spettatore che si lasci
trasportare nel racconto. Che mette in scena la forza dell’amicizia e
della volontà, capaci di trasformare un sogno in realtà.

Un film nel quale il viaggio dalla sperduta Pozzis alla mitica
Samarcanda è – alla fine – solo un pretesto. Anche perché, come ci
viene fatto sapere, “a Samarcanda non c’è niente”.

Ma non importa. Perché ci sono le vite dei protagonisti alla base del
racconto. In particolare quella di Cocco, che nel film fa anche un
viaggio nella sua memoria, raccontandoci frammenti delta sua vita, di
certo non ordinaria.

Ed è proprio Cocco che nel film, grazie alla sua gestualità spontanea,
riesce a superare ogni barriera culturale e linguistica, nonostante di
certo non eccella in dialettica.

Il film indugia spesso sui paesaggi spesso esotici attraversati
(Bulgaria, Turchia, Georgia, Russia, Kazakistan, Uzbekistan, per
citarne qualcuno), ma questo non è l’aspetto prevalente.
Quella che emerge è la componente umana, nel senso più profondo del
termine, senza i filtri di complesse narrazioni o spesso inutili
effetti speciali.

Un film che mette in scena anche l’impresa incredibile portata a
termine da tre persone, con una motocicletta e un furgone d’appoggio.
Stefano Giacomuzzi (che è anche regista) e Alfeo Carnelutti (Cocco)
mettono in scena sé stessi, con l’aiuto di Matteo Sacher (addetto alle
riprese).

Il film è stato inizialmente autofinanziato, ottenendo poi il sostegno
della Friuli Venezia Giulia Film Commission, del Fondo Audiovisivo FVG
e dell’Agenzia Regionale per la Lingua Friulana (il film è in lingua
friulana, sottotitolato in italiano).

Pozzis-Samarcanda ha vinto il premio come migliore film all’Edera Film
Festival di Treviso.

Complimenti ragazzi!

La Casa in Fondo al Lago: la
recensione del film horror
subacqueo di Julien Maury e
Alexandre Bastillo
Ben (James Jagger) e Tina (Camille Rowe) gestiscono un canale YouTube
specializzato nell’esplorazione di edifici abbandonati, alla ricerca
di fenomeni paranormali. Dopo avere fatto delle riprese in un vecchio
orfanotrofio in Ucraina, i due giovani si spostano sulle sponde di un
lago nella Francia.

La località, lungi dall’essere un luogo sperduto e misterioso, si
rivela invece essere una località turistica affollatissima. Quando la
possibilità di girare un video interessante sembra essere ormai
sfumata, incontrano casualmente un abitante del posto, che li porta in
una remota estremità del lago, sotto la cui superficie si trova una
casa, a circa quaranta metri di profondità.

I due si immergono assieme a un drone telecomandato, seguendo una
scalinata che li conduce davanti al vecchio edificio. Dopo avere
superato il cancello d’ingresso, ancora in piedi, i ragazzi si
accorgono che all’interno del perimetro della recinzione della casa
non ci sono pesci, presenti invece in gran numero al suo esterno.
Cosa ancora più strana, la porte e le finestre sono chiuse con imposte
metalliche, ma dopo attenta ricerca riescono a trovare un varco per
passare. Superato l’entusiasmo iniziale, i due si rendono conto che
inspiegabilmente     tutti   gli   oggetti   sono   ancora      perfettamente
conservati, nonostante siano stati immersi nelle acque del lago per
decenni.

Ma il vero orrore li attende nello scantinato del vecchio edificio…

La Casa in Fondo al Lago: l’idea originale che
rende apprezzabile la pellicola è anche un suo
limite
Il film si presenta nelle prime inquadrature come il classico found
footage, con i due protagonisti intenti a riprendersi vicendevolmente
con le loro GoPro, nel vetusto edificio perso nella campagna ucraina.
L’arrivo in terra francese cambia il punto di vista della telecamera,
che diventa anche esterno ai due protagonisti, cosa che può lasciare
inizialmente perplessi.

Di fatto, dopo l’immersione nelle acque del lago, ovverosia per due
terzi abbondanti del film, la storia narrata è sovrapponibile al tempo
reale vissuto dallo spettatore, visto anche che viene dichiarato che i
due ragazzi hanno solo un’ora d’aria nelle bombole, e assistiamo al
cont down verso il loro esaurimento.

L’idea di realizzare un film in cui il tempo narrato e quello vissuto
dallo spettatore sono coincidenti è già stata utilizzata, basti
pensare al recente Oxigène, di Alexandre Aja, del 2021, mentre quella
di ambientare un film horror in cui la casa stregata è sott’acqua è
originale (nella serie TV Curon il mondo subacqueo non viene mai
esplorato),     e   rende   la   lunga   sequenza   in    immersione   molto
interessante, almeno all’inizio.

Lasciando stare l’ambiguità del punto di vista della telecamera, le
scene   di   esplorazione    iniziale    della   casa    sono   indubbiamente
coinvolgenti e inquietanti. Lo spettatore sa che deve succedere
qualcosa – in definitiva è andato a vedere un film dell’orrore – e le
riprese subacquee sono ricche di punti oscuri, giochi di ombre e
dettagli interessanti: si rimane con il fiato sospeso a lungo.

Ma quando cominciano le sequenze più propriamente soprannaturali e
orrorifiche, le cose non funzionano altrettanto bene, probabilmente
anche proprio per l’impaccio creato dall’ambiente subacqueo, che
rallenta e rende meno credibili tutti i movimenti e, almeno in alcuni
passaggi, confonde lo spettatore, rendendo meno comprensibile quanto
accade sullo schermo.

La Casa in Fondo al Lago: tanto di cappello per il
coraggio di provare una formula nuova, ma il
risultato non è eccelso
Lasciando stare anche le problematiche legate all’ambiente subacqueo,
ve detto che la sceneggiatura di questo film non è strepitosa. I due
protagonisti sono poco caratterizzati, di loro si sa solo che
provengono da New York, lui è quello più appassionato al successo del
canale YouTube, mentre lei sembra essere molto più interessata alla
loro vita di coppia al di fuori del mondo di Internet.

Forse troppo poco per immedesimarsi nei due personaggi. Anche la
storia di quello che è successo nel passato per rendere la casa
maledetta viene spiegato poco e male, quasi didascalicamente. Forse
sarebbe stato meglio se dei trascorsi della casa maledetta non fosse
stato detto niente, lasciando tutto alla fantasia dello spettatore.

In definitiva stiamo parlando di un film molto semplice, originale dal
punto di vista tecnico, vista la sua ambientazione subacquea, molto
tradizionale    per     altri.   La   storia   ripropone   la   classica
contrapposizione tra città e campagna, facendoci vedere i soliti
giovani visitatori dell’alta borghesia metropolitana che subiscono le
nefaste conseguenze di un’improvvida visita nelle campagne arretrate e
neopagane.

Mettendo in scena l’ancora più classica riproposizione del male che si
nasconde nel buio sottosuolo, opposto alla luce celeste, scontro
manicheo – questo bisogna dirlo – riproposto in maniera ancora più
suggestiva grazie all’ambiente subacqueo, con la luce solare che
filtra verso l’oscuro fondale del lago.
Una pellicola che comincia bene, ma che perde forza e credibilità
quando comincia la parte più propriamente orrorifica, forse per un
eccesso di entusiasmo e troppa fretta e faciloneria nel raccontare la
storia. Peccato. Rimane comunque il plauso ai due registi per avere
almeno cercato di fare qualcosa di originale, affrontando indubbi
problemi tecnici, con un budget di certo non stratosferico. E
complimenti per il finale, per niente prevedibile.

The Suicide Squad – Missione
Suicida: la recensione del
film di super-antieroi di
James Gunn
Bloodsport (Idris Elba) guida una squadra di improbabili
super-eroi in una missione suicida nell’isola di Corto
Maltese, dove governano lo spietato dittatore Silvio Luna e il
suo braccio destro Mateo Suarez. Obiettivo: fare sparire ogni
traccia del misterioso progetto Starfish, comandato dal bieco
Thinker.

L’eterogeneo gruppo è formato dallo psicopatico vigilante
Peacemaker (John Cena), la giovane e romantica ammaestratrice
di topi Ratcatcher II (Daniela Melchior), il complessato
Polka-Dot Man, capace di lanciare ondate di mortali punti
luminosi, e infine l’ibrido uomo-squalo Nanaue, che sotto un
fisico indistruttibile e poderoso nasconde una mente
infantile.

Mentre un secondo team suicida attira i difensori dell’isola,
venendo rapidamente spazzato via, i nostri (anti)eroi riescono
a infiltrarsi nella giungla, riunirsi con la resistenza e
penetrare nella capitale dell’isola, dove si trova il
laboratorio fortificato nel quale si svolgono gli atroci
esperimenti legati al progetto Starfish.

Nel viaggio verso il loro obiettivo, il team si riunisce con i
superstiti del secondo gruppo suicida: Harley Quinn (Margot
Robbie) e il colonnello Rick Flag (Joel Kinnaman). Mentre i
nostri (anti)eroi si lanciano all’assalto del munitissimo
laboratorio, attirando il grosso delle truppe governative, i
ribelli assaltano la sede del governo, lasciata sguarnita.

Ma nessuno ha ancora fatto i conti con la creatura aliena
custodita nei sotterranei del laboratorio, che costituisce la
ragione d’essere del progetto Starfish…

The Suicide Squad – Missione Suicida: il trionfo
degli antieroi
Il titolo di questo secondo episodio di Suicide Squad
differisce dal primo (Suicide Squad, del 2016, di David Ayer)
solo per l’aggiunta dell’articolo “The”, ma i due film hanno
un’anima completamente differente.

The Suicide Squad forse costituisce una nuova tappa
nell’evoluzione dei film di supereroi, una fase nella quale
nessuno si prende troppo sul serio e l’autoironia è dominante.
A cominciare dagli improbabili super-poteri degli (anti)eroi.

Questo è particolarmente evidente nella squadra suicida
inviata come esca per attirare i difensori di Corto Maltese.

Oltre al colonnello Rick Flag e a Harley Quinn, essa comprende
una barcollante donnola antropomorfa di nome Weasel (la prima
a lasciarci le penne ancora prima che comincino gli spari), il
ridicolo TDK, che può fare il solletico ai suoi nemici grazie
agli arti removibili e volanti, l’aliena Mongal, che
nonostante la buona volontà finisce per fare più danni ai suoi
compagni che al nemico, Capitan Boomerang, che riuscirà a
lanciare ben poche delle sue armi volanti, il bieco Savant,
che dietro la scorza di duro combattente si dimostra essere un
avvilente vigliacco, il buon Javelin, la cui unica funzione
sembra essere quella di morire per dare a Harley Quinn la sua
arma, dopo avere bofonchiato qualche frase con marcato accento
teutonico, e il goffo Blackguard, che si rivela essere un
emerito pagliaccio.

Anche nella squadra principale non si scherza in fatto di
cialtronaggine. Polka-Dot Man è super-complessato, riesce a
combattere solo quando vede nei suoi nemici l’immagine di sua
madre, scienziata malata di mente che voleva fare a tutti
costi dei suoi figli dei super-eroi, l’uomo-squalo Nanaue ha
una mente infantile e non disdegna cibarsi dei suoi compagni
di squadra, Ratcatcher II più che una prode combattente è la
lacrimosa assistente psicologica degli altri membri del
gruppo, mentre Peacemaker si rivela essere uno psicopatico, in
perenne competizione con Bloodsport per accaparrarsi il titolo
di migliore assassino.
Quanto a Harley Quinn, conosciamo già il personaggio, ormai
pienamente padroneggiato dalla bravissima Margot Robbie, che
ha avuto modo di perfezionarlo sia nel precedente Suicide
Squad che in Birds of Prey e la Fantasmagorica Rinascita di
Harley Quinn, di Cathy Yan, del 2020.

Insomma un’ammucchiata di personaggi diversissimi, accomunati
da una sola cosa: nessuno di loro incarna il classico eroe
senza macchia e senza paura. Un’ammucchiata di super-
(anti)eroi.

The Suicide Squad – Missione Suicida: un film
bizzarro e violento che sa far divertire
fregandosene delle regole
L’eterogeneità dei personaggi non scade mai nel caos o nella
citazione didascalica, ma è perfettamente amalgamata in una
storia corale, nella quale è difficile individuare il
personaggio principale.

The Suicide Squad è un film che rende palese l’amore per il
cinema del suo regista e sceneggiatore, James Gunn, che si è
divertito a realizzare una pellicola che prende per i fondelli
gli stereotipi del genere, ricca di situazioni e dialoghi
divertenti, spesso imprevedibile, con un ritmo serrato e che
racconta una storia nella quale è bello farsi trasportare.

Un film che non si prende sul serio, tutt’altro, ma che riesce
a intrattenere lo spettatore, tanto che le oltre due ore di
racconto volano via e ci si trova ai titoli di coda senza
neanche rendersene conto.

Un film che, alla fine, celebra gli ultimi, i reietti, gli
abbandonati da tutti, perché è questo che in fondo sono i
nostri (anti)eroi, molti dei quali però nascondono sotto le
loro mostruosità e imperfezioni un cuore d’oro. Ed è questo
cuore d’oro che alla fin fine tiene unita la loro squadra,
alla faccia delle istituzioni che vorrebbero farne delle
macchine da combattimento asservite al potere.

Ed è un bel messaggio, specie in questo scorcio di inizio
millennio che ci vede sempre alle prese con la pandemia da
COVID-19, che rischia di renderci sempre più impauriti,
isolati e timorosi dei nostri simili.

Viva il cinema!

The Matrix, il film cult dei
fratelli          Wachowski:
un’applicazione da manuale
del Viaggio dell’Eroe di
Christofer Vogler
Christopher Vogler e il Viaggio dell’Eroe
Christofer Vogler ha lavorato come sceneggiatore a Hollywood,
ed è diventato famoso (anche) perché ha pubblicato Il Viaggio
dell’Eroe (The Writer’s Journey: Mythic Structure for
Writers), lavoro nato come come quaderno di appunti e
diventato nel tempo un punto di riferimento per tutti gli
storytellers.

Vogler si è ispirato agli scritti del saggista e storico delle
religioni Joseph Campbell, in modo particolare da L’Eroe dai
Mille Volti.

L’idea di fondo, che riprende il concetto degli archetipi
dell’inconscio collettivo, di Jung, è che in ogni racconto
siano individuabili degli elementi universali, per cui ogni
storia può essere vista come una serie di moduli consecutivi,
all’interno dei quali si muovono i vari personaggi, ognuno dei
quali svolge una o più funzioni narrative.
La funzione principale è ovviamente quella dell’eroe, colui
che agisce di più nel corso della storia, affrontando un
viaggio nel quale rischia la vita, ma dal quale esce cambiato,
e grazie al quale può aiutare la sua comunità.

Il messaggero è colui – o qualcosa – che effettua la chiamata
all’avventura dell’eroe, che tuttavia in genere è riluttante
ad accettarla ed ha bisogno dell’aiuto di un mentore per
mettersi in gioco, accettando la sfida.

Nel suo viaggio l’eroe deve superare diversi ostacoli,
custoditi dai guardiani della soglia, metafora delle nostre
paure interiori. Inoltre deve vedersela con l’ombra, il suo
antagonista, e avere a che fare con i mutaforma, elementi
ambigui che spesso rappresentano l’altro sesso, mentre il
trickster dona del movimento alla storia, rimescolando i
conflitti o regalando sani momenti di ilarità al racconto.

Il viaggio dell’eroe si articola in dodici tappe, che possono
essere così sinteticamente descritte:

   1. L’eroe e l’ambiente nel quale vive viene descritto nel
      suo mondo ordinario,
   2. nel quale riceve una chiamata per l’avventura da parte
      di un messaggero.
   3. L’eroe all’inizio è riluttante, e rifiuta la chiamata.
   4. Compare il mentore,
   5. grazie al quale l’eroe alla fine accetta la chiamata e
      attraversa la prima soglia , entrando nel mondo
      straordinario.
   6. L’eroe familiarizza con le regole e i personaggi della
      nuova realtà, nella quale avrà a che fare con prove,
      alleati e nemici.
   7. Successivamente attraversa una seconda soglia,
      muovendosi verso la caverna più profonda,
   8. nella quale subisce la prova centrale, dove rischia la
      sua vita.
   9. Sopravvissuto all’ordalia, riceve un premio.
10. Imbocca la via del ritorno,
  11. ma deve superare una seconda prova mortale, la
      resurrezione.
  12. Finalmente, per il nostro eroe c’è il ritorno con
      l’elisir nel mondo ordinario.

Non in tutte le storie si possono trovare tutte le tappe, che
peraltro non sempre seguono l’ordine canonico. Tuttavia non si
può non notare che questa struttura è seguita quasi
pedissequamente in molte pellicole di successo, e una di
queste è indubbiamente The Matrix, film cult del 1999 scritto
e diretto dai fratelli Wachowski.

The Matrix: l’analisi del film dal punto
di vista del Viaggio dell’Eroe
In questa storia l’eroe è indubbiamente Thomas A. Anderson,
interpretato da Keanu Reeves, che nel suo mondo ordinario di
giorno è un programmatore di software per una grande azienda,
la Metacortex, mentre di notte è un famoso hacker, e assume il
nome di Neo.

Riceve una chiamata all’avventura articolata in due fasi,
prima tramite un messaggio sul monitor del suo PC (“Wake up,
Neo… The Matrix has you… Follow the White Rabbit”), che lo
spinge a seguire degli sbandati in un locale notturno dove
conosce Trinity (Carrie-Ann Moss), e poi tramite una chiamata
telefonica da parte di Morpheus (Laurence Fishburne), hacker
la cui figura è avvolta nella leggenda. Questi gli dà
istruzioni in tempo reale per sfuggire all’agente Smith (Hugo
Weaving), che lo sta cercando per arrestarlo nell’azienda dove
lavora.

Ma Anderson non è ancora pronto ad affrontare tutte le prove
che lo attendono, e quando Morpheus gli chiede di arrampicarsi
su una precaria impalcatura, penzolante ad altezza
impressionante dal grattacielo dove lavora il nostro eroe,
rifiuta la chiamata e si consegna a Smith e ai suoi tirapiedi.
Questi loschi figuri gli impiantano una cimice per tracciarne
i movimenti e lo rispediscono a casa, dove viene nuovamente
contattato telefonicamente da Morpheus. Seguendo le istruzioni
del leggendario hacker, Anderson raggiunge Trinity e altri due
personaggi in un’auto.

Qui gli viene levata la cimice e viene poi portato a conoscere
Morpheus, che in questa sequenza non è più un semplice
messaggero, ma acquisisce la funzione di mentore, in quanto
stimola la curiosità di Anderson, che vuole sapere cosa è
Matrix, guidando intelligentemente il nostro eroe nella scelta
tra le due pillole: “Pillola azzurra, fine della storia:
domani ti sveglierai in camera tua e crederai in quello che
vorrai. Pillola rossa, resti nel paese della meraviglie, e
vedrai quanto è profonda la tana del bianconiglio”.

A questo punto il nostro eroe attraversa la prima soglia,
svegliandosi nella realtà distopica di Matrix, il mondo
straordinario di questa storia. Scopre così di avere sempre
vissuto in una sorta di incubatore ipertecnologico. Matrix è
infatti una neuro-simulazione interattiva, che mima la realtà
del 1999, per mantenere gli umani immobilizzati nei loro
bozzoli, ridotti alla funzione di batterie biologiche per
alimentare il mondo delle macchine.

Morpheus è il comandante di un hovercraft, il Nabucodonosor,
che naviga nelle rovine delle antiche città umane, distrutte
nel corso di una violenta battaglia contro le macchine dotate
di intelligenza artificiale. Il nostro mentore ha una
incrollabile fiducia nel fatto che Anderson-Neo è l’Eletto,
colui che guiderà l’umanità alla riscossa, liberandola dal
giogo di Matrix.

Il nostro eroe impara quindi a conoscere la nuova realtà in
dettaglio, affrontando prove, alleati e nemici.

Nel nuovo mondo, i suoi compagni d’avventura lo chiamano
sempre con il suo nome da hacker, Neo (anche se l’agente Smith
– l’ombra per antonomasia – continua a chiamarlo Anderson). In
una realtà simulata che riproduce Matrix, viene addestrato al
combattimento, e nel suo training si scontra con lo stesso
Morpheus, fallendo però il primo tentativo di saltare da un
grattacielo all’altro, conosce gli altri personaggi, tra cui
il traditore Cypher (Joe Pantoliano), e in generale impara
(spesso a sue spese) tutte le insidie presenti nella nuova
realtà, a cominciare dagli agenti, programmi-sentinella che
custodiscono la struttura di Matrix.

Tra l’altro, nel suo training incontra Mouse (Matt Doran),
l’inventore della donna con il vestito rosso nel programma di
simulazione, che impersona il classico trickster, capace di
dare un po’ ilarità a una situazione molto pesante.

Rientrato nella neuro-simulazione interattiva assieme ai suoi
compagni d’avventura, viene portato a conoscere l’Oracolo
(Gloria Foster), ma si trova intrappolato in un edificio, a
causa del vile tradimento di Cypher, che comunica la loro
posizione agli agenti.

Morpheus si sacrifica per salvare gli altri (acquisendo
temporaneamente la funzione dell’eroe), affrontando da solo
l’agente Smith in un combattimento senza speranza. Viene
catturato e portato in un edificio presidiato da truppe armate
fino ai denti e dallo stesso Smith e due altri agenti.

Ma adesso Anderson-Neo è più consapevole del suo ruolo di
eroe, e decide di superare la seconda soglia, muovendosi
aiutato da Trinity verso la caverna più profonda: il
munitissimo grattacielo dove Morpheus è torturato dagli
agenti, che vogliono avere i codici di accesso alla città di
Zion, ultimo centro di resistenza umano.

La seconda soglia è sorvegliata da numerosi guardiani: nella
prova centrale Trinity e Neo devono affrontare e battere, in
sequenza e in ordine crescente di difficoltà, prima i
poliziotti all’ingresso, poi un gruppo di militari accorsi in
aiuto nell’atrio dell’edificio, poi altre truppe sul tetto del
grattacielo, infine gli stessi agenti.

Neo ormai dimostra qualità eccezionali, riesce nell’impresa
impossibile di salvare Morpheus, che costituisce il suo
premio, cosa che lo qualifica definitamente come eroe, in
quanto è riuscito in una impresa difficilissima e mai riuscita
prima: affrontare gli agenti e uscirne vivo.

Ma non è finita. Mentre Morpheus e Trinity si risvegliano a
bordo della Nabucodonosor, Neo si trova da solo a cercare una
via di fuga, tallonato da Smith e dagli altri agenti lungo la
via del ritorno, come spesso accade nelle storie quando l’eroe
non riesce a sconfiggere definitivamente il nemico nella prova
centrale.

Neo deve quindi affrontare l’agente Smith in due sequenze
successive: prima in una stazione sotterranea, dove sembra
soccombere, ma all’ultimo momento riesce a ribaltare la
situazione, spingendo l’agente sotto la metropolitana in
arrivo; poi in un edificio, dove si ha la vera e propria (e
letterale) resurrezione, in quanto viene prima ucciso da
Smith, che gli spara diversi colpi di pistola nel petto, ma
poi, grazie un appassionato bacio di Trinity, che gli confessa
il suo amore, ritorna in vita e annienta Smith e mette in fuga
gli altri agenti.

Neo quindi ritorna con l’Elisir, che ha un duplice aspetto:
dal punto di vista umano è appena sbocciata la sua storia
d’amore con Trinity, mentre, dal punto di vista della sua
funzione di eroe mitico, in pratica ha acquisito la capacità
di modificare Matrix dal suo interno, candidandosi come
salvatore dell’umanità (e protagonista dei vari, meno
riusciti, sequel), soddisfando appieno le aspettative di
Morpheus.
The Matrix: una perfetta applicazione
pratica   della teoria  del   Viaggio
dell’Eroe
Nella storia raccontata da The Matrix si possono
immediatamente riconoscere il mondo ordinario e quello
straordinario: il primo è rappresentato dalla vita vissuta
inconsapevolmente da quanti sono immersi nella neuro-
simulazione interattiva di Matrix (che poi è il mondo reale
percepito dallo spettatore), il secondo costituisce il mondo
reale nella finzione cinematografica, cioè la realtà distopica
del nostro pianeta, ridotto a cumulo di rovine sotto il
controllo delle macchine.

Peraltro i vari personaggi spesso alludono al mondo
straordinario utilizzando riferimenti ad Alice nel Mondo delle
Meraviglie e a Il Meraviglioso Mago di Oz, storie per ragazzi
universalmente conosciute, anche per le innumerevoli versioni
cinematografiche e televisive che ne sono state fatte.

Neo ci viene presentato nel mondo ordinario, quando accetta la
chiamata all’avventura ingurgitando la pillola rossa affronta
il viaggio, veramente allucinante, verso il mondo
straordinario, dove acquisisce tutte le competenze per
diventare un vero eroe, e alla fine della storia ritorna nel
suo mondo ordinario, portando con sé poteri enormi che però
mette al servizio della collettività.

In questo film l’arco narrativo dell’eroe è completo: il
giovane hacker Anderson all’inizio è ego-riferito e non crede
in sé stesso, ma alla fine della storia è diventato Neo, eroe
che non ha esitato a rischiare la propria vita per salvare gli
altri, trascendendo sé stesso.

Se all’inizio, nel mondo ordinario, fa l’hacker per ingrassare
il proprio portafogli, alla fine del suo percorso mette
l’elisir, acquisito a caro prezzo, a disposizione di tutta
l’umanità, per    affrancarla   da   una   realtà   distopica   e
allucinante.

Bisogna ricordare che la funzione dell’eroe è – appunto – una
funzione, e non è detto che debba essere esercitata da un solo
personaggio. In The Matrix questa funzione viene impersonata
anche da Morpheus, da Trinity e da vari personaggi minori. Ma
non c’è dubbio che è Anderson-Neo il vero protagonista della
storia, colui che agisce di più e che, soprattutto, evolve
maggiormente, percorrendo un perfetto arco narrativo che alla
fine lo rende un eroe a tutti gli effetti, dal momento che in
definitiva si appresta a salvare l’umanità intera.

Il viaggio dell’eroe può essere anche visto come una struttura
circolare, nel senso che l’eroe può percorrere più volte lo
stesso ciclo, vivendo una crescita continua, nella quale la
fine di ogni ciclo può essere visto come l’inizio di quello
successivo.

E The Matrix ha avuto diversi sequel…

Possession – L’Appartamento
del Diavolo: la recensione
La prima scena di questa pellicola ci regala uno primo sguardo
su quanto accade al quarto piano al civico 32 del Calle de
Manuela Malasaña, nel centro di Madrid, nel 1972.

Due bambini si stanno contendendo il possesso di una biglia,
che malauguratamente cade rotolando sul pianerottolo davanti
alla porta d’ingresso di un appartamento, occupato da una
vecchia signora da cui gli abitanti dello stabile amano
tenersi alla larga.

La porta si apre. Uno dei bambini entra, per prendere la
biglia. L’incontro con la vecchia è alquanto traumatico.

La sequenza successiva avviene nello stesso luogo, ma nel
1976. La famiglia Olmedo si trasferisce nello stabile, nello
stesso piano dove si sono svolti i fatti del 1972. Il nucleo
familiare è costituito da Manolo, Candela, il vecchio nonno e
tre figli.
Una famiglia che scappa dalla campagna, cercando nuove
opportunità nella capitale. Le cose non sono facili, ma Manolo
e Candela hanno già un lavoro che li aspetta e ce la mettono
tutta. Hanno tagliato i ponti con il loro passato, avendo
venduto la fattoria del nonno, e devono pagare il mutuo per il
nuovo appartamento, comprato a un prezzo insolitamente basso.

Ben presto si accorgono che c’è qualcosa che non va. Non sono
soli nell’appartamento: una oscura presenza minaccia i nuovi
venuti. Le cose precipitano quando il figlio minore, Rafael,
scompare nel nulla…

Possession – L’Appartamento del Diavolo: molto più del solito
film dell’orrore

Questo film è molto più del solito film dell’orrore ambientato
nella solita casa infestata. Tanto per cominciare, la famiglia
Olmedo non è nelle paradisiache condizioni che inizialmente
gli occupanti delle case infestate spesso sembrano avere.

Ben presto si viene a scoprire che Manolo (Ivan Marcos) e
Candela (Bea Segura) non sono sposati, né possono unirsi in
matrimonio. I loro figli provengono da letti diversi. Una cosa
alquanto strana e atipica per la Spagna degli anni settanta,
in faticosa transizione dal regime franchista a quello
democratico.

Il film comincia nel 1972, ma il grosso dell’azione si svolge
nel 1976, l’anno successivo alla morte del Generale Franco. La
Costituzione spagnola viene approvata nel 1978. Date
importanti per inquadrare questo film, che usando la metafora
della storia horror in realtà è anche un film di denuncia
sociale.

Pian piano dalla storia emergono elementi che permettono non
solo di inquadrare bene l’atipicità della famiglia Olmedo, ma
anche il profondo bigottismo di matrice cattolica e il
disturbante perbenismo che attanagliava la società del tempo.
La fuga dei protagonisti dalla campagna alla capitale non ha
solo motivazioni di natura economica, ma anche e soprattutto
di riscatto sociale e ricerca della libertà.

Gli Olmedo non devono lottare solo contro le forze oscure che
infestano il loro appartamento, acquistato con tanti
sacrifici, ma anche contro l’ostilità delle persone presunte
normali, che invece li stigmatizzano per la loro diversità.

Ma è proprio nell’oscurantismo sociale della Spagna franchista
che alla fine vengono trovate le origini terrene del male
metafisico che attanaglia Malasaña 32, che non per niente è il
titolo originale del film.

Possession – L’Appartamento del Diavolo: un film da vedere,
non solo per gli amanti del genere

Anche ignorando l’interessante aspetto di denuncia sociale (e
implicitamente di ricostruzione storica) della Spagna nella
sua difficile fase di transizione verso la democrazia, stiamo
parlando di un ottimo film dell’orrore, costruito con
mestiere, con un ottimo ritmo e ben recitato.

All’inizio sembra essere costituito da una serie di citazioni
ben confezionate, ma lentamente si rivela essere molto di più,
un film con aspetti originali e assolutamente godibile, per
gli appassionati del genere ma non solo.

Difficile non rimanere trasportati nella storia e non saltare
sulla poltrona quando lo si guarda. Perché, anche senza un uso
eccessivo di effetti speciali, le emozioni forti sono
assicurate.

Il regista Albert Pintò ha fatto un gran bel lavoro,
confezionando una pellicola che, pur non essendo un
capolavoro, probabilmente rimarrà impressa nella mente di
molti spettatori. Da vedere.
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