Jodorowsky's Dune di Frank Pavic: un omaggio a un film mai fatto che ha cambiato l'immaginario visivo del cinema di fantascienza - Il ...

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Jodorowsky’s Dune di Frank
Pavic: un omaggio a un film
mai fatto che ha cambiato
l’immaginario   visivo  del
cinema di fantascienza

Diretto da Frank Pavic, questo piacevole documentario apre una
finestra su un film che Alejandro Jodorowsky avrebbe dovuto
girare negli anni settanta. Stiamo parlando di Dune, tratto
dall’omonimo lavoro di Frank Herbert.

La figura di Jodorowsky è avvolta nella leggenda, analogamente
a questo film da lui concepito e mai realizzato. Artista
eclettico, polimorfo e difficilmente etichettabile, nella sua
lunga vita ha fatto di tutto: il regista (cinematografico e
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teatrale), l’attore, il pittore, lo scultore, il filosofo, il
guru, il poeta, lo scrittore, lo sceneggiatore, il mimo, il
marionettista e chi più ne ha più ne metta.

Genio assoluto per alcuni, pazzo totale per altri (gli estremi
si toccano, e spesso distinguerli è un’operazione aleatoria),
senz’altro un creativo incredibile, capace di muoversi
disinvoltamente in molteplici discipline artistiche.

Buona parte del documentario di Pavic è occupato dai monologhi
di Alejandro, nei quali illustra il percorso creativo che lo
ha portato ad assemblare un team di lavoro eccezionale per
realizzare il suo Dune. Fino al fallimento finale, quando
tutto sembrava essere pronto.

Per Jodorowsky questa pellicola non doveva essere un semplice
film di intrattenimento, ma al contrario avrebbe dovuto essere
un opera destinata a modificare la coscienza di chi la
guardava, con    un   occhio   di   riguardo   per   le   giovani
generazioni.

Un’affermazione che oggi forse può fare sorridere qualcuno, ma
per raggiungere il suo obiettivo aveva raccolto la
disponibilità di personalità artistiche di altissimo livello:
H.R. Giger, Dan O’Bannon, Jean “Moebius” Giraud, i Pink Floyd,
i Magma, Mick Jagger, Orson Wells, Salvador Dalì, David
Carradine.

Dune, di Jodorowsky: un fallimento commerciale ma
un successo artistico
Jodorowsky negli anni settanta interpretò e diresse due
pellicole surrealiste (ammesso che sia possibile
categorizzarle in questo modo), che al tempo riscossero
notevole successo: il western El Topo, nel 1970, e La Montagna
Sacra, nel 1973.

L’anno successivo un consorzio francese diretto da Jean-Paul
Gibon acquistò i diritti del libro di fantascienza Dune, di
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Frank Herbert, chiedendo a Jodorowsky di dirigere la sua
versione cinematografica.

Alejandro accettò con entusiasmo, riuscendo a reclutare per la
sua realizzazione gli artisti che a suo modo di vedere le cose
avrebbero potuto fare del suo film un opera altamente
innovativa, che avrebbe dovuto veicolare contenuti spirituali,
capaci di cambiare la visione del mondo degli spettatori.

Una concezione del cinema diametralmente opposta a quella di
Alfred Hitchcock, per il quale un film deve semplicemente
“tenere lo spettatore incollato alla poltrona”. Elevazione
spirituale contro puro intrattenimento.

Per questo motivo il film avrebbe dovuto farsi portatore un
immaginario visivo rivoluzionario. E avere una lunghezza al
tempo (e anche oggi) inconcepibile: oltre dieci ore di
narrazione.

Un progetto rivoluzionario. Probabilmente anche troppo. Anche
se secondo Alejandro le sfide tecniche che le sue ardite
scelte artistiche imponevano sarebbero già state risolte,
nessuno studio si dimostrò disponibile a sostenere i rischi di
una produzione così innovativa e dai costi difficilmente
quantificabili, ma sicuramente stratosferici.

I diritti per la produzione del film vennero quindi venduti a
Dino de Laurentis, che affidò a David Linch la direzione del
film Dune, che vide la luce nel 1984. Un opera agli occhi di
Jodorowsky del tutto mediocre, come ci fa sapere nel
documentario di Pavic.

Tuttavia molte delle idee innovative nate dal lavoro di
Alejandro sopravvissero al suo fallimento, e vennero
utilizzate in numerose produzioni degli anni settanta e
ottanta.
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Jodorowsky’s Dune di Frank Pavic: un documentario
imperdibile per gli amanti della fantascienza, e
non solo
Lo storyboard disegnato da Moebius, del quale rimangono
pochissime copie in circolazione, continuò a girare nelle
major di Hollywood per anni, influenzando l’immaginario visivo
di innumerevoli film.

Parliamo di pellicole ormai cult, come Alien, Blade Runner,
Flash Gordon, Star Wars, tra le altre. Che a loro volta
ispirarono innumerevoli altri film.

In altre parole, il Dune di Jodorowsky, pur non essendo mai
stato girato, ha avuto un influenza notevole sul cinema di
fantascienza, e forse ne avrebbe avuta ancora di più se fosse
stato prodotto.

Jodorowsky’s Dune, di Frank Pavic, ha l’indubbio merito di
ricordarcelo, in modo peraltro molto godibile.

Incredibilmente, questo documentario è stato presentato a
Cannes nel 2013, ma è stato distribuito al pubblico in Italia
solo quest’anno. Meglio tardi che mai, comunque.

Un’ottima occasione per conoscere la storia di un film
importante nella storia del cinema di fantascienza (e non
solo), e per ascoltare Alejandro Jodorowsky, un incredibile
visionario purtroppo ancora sconosciuto al grande pubblico. E
anche a molti cinefili, probabilmente.

Aspettando il Dune di Denis Villeneuve, appena presentato al
Festival del Cinema di Venezia e in uscita il 16 settembre…
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King    Kong    del  1933,
un’applicazione da manuale
del viaggio dell’eroe di
Christofer Vogler

Premessa: Christofer Vogler e il Viaggio dell’Eroe

Christofer Vogler è l’autore statunitense del libro Il Viaggio
dell’Eroe (The Writer Journey: Mythic Structure for Writers),
testo nato come semplice quaderno degli appunti, e diventato
negli anni un bestseller, nonchè un punto di riferimento per
gli storytellers.

L’autore,   che   ha   anche   lavorato   come   sceneggiatore   a
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Hollywood, si è ispirato agli studi dello storico delle
religioni e saggista statunitense Joseph Campbell, in special
modo al libro L’Eroe dai Mille Volti.

In estrema sintesi, l’idea di base, che riattualizza il
concetto di archetipi di junghiana memoria, è che sia
possibile individuare in ogni racconto degli elementi
universali, che costituiscono i moduli costitutivi della
struttura di ogni storia. Al suo interno si muovono i vari
personaggi, ognuno dei quali può svolgere una o più funzioni
narrative.

In altre parole, comparando storie apparentemente
diversissime, è possibile individuare delle similitudini sia
nelle strutture narrative che nelle funzioni espletate dai
vari personaggi, se si analizzano i racconti in profondità.

Naturalmente   la   funzione   narrativa   principale   è   quella
dell’eroe, che per definizione è colui che agisce di più nella
storia, che rischia la propria vita e che esce trasformato
dalle esperienze che attraversa, risultando alla fine non solo
maturato e migliorato come persona, ma anche come membro della
comunità a cui appartiene.

L’eroe viene chiamato all’avventura dal messaggero, anche se
in genere all’inizio si dimostra riluttante a gettarsi nella
mischia. Per questo riceve l’aiuto del mentore, che spesso è
una persona saggia o comunque più esperta, che lo mette in
grado di affrontare la sfida.

Il viaggio dell’eroe è costellato di ostacoli, ognuno dei
quali è presidiato dai guardiani della soglia, che possono
essere visti come una rappresentazione delle paure interiori
del protagonista. Spesso questi deve affrontare il proprio
antagonista, l’ombra, e rapportarsi con i mutaforma,
personaggi ambigui che frequentemente rappresentano l’altro
sesso. I trickster sono degli elementi che aggiungono colore
alla storia, introducendo ilarità e confusione creativa.
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Il viaggio dell’eroe nella sua forma canonica è articolato in
dodici tappe, che possono essere viste come moduli costitutivi
delle storie. Sintetizzando, il racconto classico è così
articolato:

   1. L’eroe e il contesto iniziale della storia vengono
      descritti nel suo mondo ordinario,
   2. nel quale tuttavia egli ha dei problemi da affrontare, e
      a un certo punto riceve la chiamata all’avventura da
      parte di un messaggero,
   3. ma in genere il protagonista non è ancora pronto a
      mettersi in gioco e rifiuta la chiamata.
   4. Tuttavia appare il mentore,
   5. che riesce a motivare l’eroe, che quindi accetta la
     sfida e attraversa la prima soglia, entrando nel mondo
     straordinario, dove vive delle avventure destinate a
      cambiarlo.
   6. L’eroe deve imparare le regole e conoscere i personaggi
     che popolano la nuova realtà, affrontando una serie di
     prove, alleati e nemici.
   7. Quindi deve attraversare una seconda soglia, per andare
      verso la caverna più profonda,
   8. all’interno della quale metterà in gioco la sua vita
      nella prova centrale.
   9. Dopo il duro scontro, riceve un premio,
  10. e imbocca la via del ritorno,
  11. ma deve superare una seconda prova mortale, la
      resurrezione.
  12. Dulcis in fundo, il nostro eroe, ormai trasformato dalle
      dure esperienze vissute, ritorna con l’elisir nel mondo
      ordinario.

Questa struttura deve essere vista come indicazione di
massima, in quanto non tutti gli elementi sono sempre presenti
e non è detto che l’ordine sia seguito esattamente. In alcune
pellicole di successo il viaggio dell’eroe è tuttavia
rispettato quasi pedissequamente. Un primo esempio è The
Matrix, dei fratelli Wachowski, del 1999. Un altro è il
leggendario King Kong del 1933, di Merian C.Cooper ed Ernest
B. Schoedsack.

King Kong del 1933: l’analisi del film dal punto
di vista del viaggio dell’eroe
Se in alcuni film è facilissimo identificare il personaggio
che incarna la funzione dell’eroe per tutta la durata del
racconto, come per esempio nel già citato The Matrix, in cui
l’eroe è Neo, in altre pellicole non è così semplice, specie
in quelle dove l’azione è corale.

La mia proposta è che nel King Kong del 1933 la scelta ricada
su Ann Darrow (Fay Wray), nonostante in effetti non sia quella
che agisce di più, almeno con gli occhi dello spettatore
contemporaneo.
Ma bisogna tenere conto che stiamo parlando di un film girato
ottanta anni fa, e nella pellicola Ann percorre il perfetto
arco narrativo femminile previsto per la donna del suo tempo:
da giovane single senza famiglia né lavoro, a donna sposata,
per di più con un uomo che ha dimostrato il suo valore sul
campo. Inoltre è a causa della sua bellezza che il mostro,
King Kong, in pratica si fa uccidere per salvarle la vita e
dimostrare il suo valore.

In altre parole Ann, sia pure con la passività richiesta alle
donne del suo tempo storico, è quella che mette in moto gli
eventi e rende possibile lo svilupparsi della storia, che può
anche essere vista come l’ennesima variante dell’archetipo
della Bella e la Bestia.

Il mondo ordinario del racconto è New York. La scene iniziali
ci presentano il contesto e i principali personaggi. L’agente
teatrale Weston sale a bordo di una nave, la Venture, dove lo
attendono il filmmaker Carl Denhan (Robert Armstrong), il
capitano della nave e il suo vice Jack Driscoll (Bruce
Cabote). Weston comunica a Carl che si rifiuta di procuragli
la protagonista femminile del suo prossimo film, vista la
pericolosità sottesa a realizzare una pellicola in ambienti
esotici, per di più non meglio precisati. Il filmmaker non si
perde d’animo e decide di trovarla da solo, nella New York
della Grande Depressione, della quale ci viene fornito uno
scorcio.

Dopo avere visto una coda di donne sconsolate, in attesa di
ricevere soccorso in un rifugio femminile per persone in
difficoltà, incontra casualmente Ann Darrow, mentre, divorata
dalla fame, ruba una mela. Salvatala dalla furia del
fruttivendolo, Carl la ristora in un bar, dove Ann riceve la
chiamata all’avventura.

Il filmmaker, incarnando temporaneamente la funzione di
messaggero, le offre di essere la star della sua prossima
pellicola, a patto che si imbarchi subito con lui e affronti
il viaggio verso la terra lontana dove la pellicola sarà
girata. Lei tentenna, inizialmente rifiuta la chiamata, ma
Carl insiste e, impersonando la funzione di mentore, dopo
averle fatto capire che non ha secondi fini e che la sua è una
semplice offerta di lavoro, riesce a fare in modo che Ann
accetta la chiamata all’avventura.

Ann si imbarca piena di entusiasmo e la Venture salpa
affrontando l’oceano, superando la prima soglia, che di fatto
è il porto di New York. In mare aperto, per la nostra eroina
comincia la fase delle prove, alleati e nemici.

Inizialmente Jack non le nasconde la sua ostilità, in quanto a
suo modo di vedere le cose una donna a bordo (cosa mai
accaduta prima) può essere solo una fonte di problemi, mentre
sembra riscuotere molta simpatia da parte del capitano e dei
marinai. Carl la sottopone a un provino sul ponte della nave,
mentre l’equipaggio la osserva, estasiato.

Nuove soglie devono essere superate affinché la storia possa
procedere: prima la nave incontra un fitto banco di nebbia,
poi deve trovare un varco nella scogliera, quindi una
scialuppa porta i nostri eroi sulla spiaggia dell’isola dove
avviene il grosso della narrazione.

Il primo incontro con i nativi, intenti a celebrare un rito
mai visto prima, non è dei più piacevoli. Il capo del
villaggio è molto seccato dalla venuta degli stranieri, che
secondo il suo stregone hanno rovinato la cerimonia. Quando
vede Ann, offre sei donne del suo villaggio per poterla avere.
Ovviamente, l’offerta viene declinata e nostri eroi ritornano
sulla nave.

Ma i nativi non mollano e, dopo che Carl dichiara a Ann il suo
amore, rapiscono la bella eroina. Tutto l’equipaggio della
Venture, armato fino ai denti, si precipita in suo soccorso.
Quando arrivano nel villaggio, Ann è già stata legata
all’altare sacrificale al di là del muraglione difensivo che
protegge il villaggio. E, sgomenti, assistono al suo rapimento
da parte di King Kong, che fa la sua prima comparsa dopo 45
minuti, per poi lanciarsi all’inseguimento del bestione.

Questi tragici eventi coincidono con il superamento di
un’ulteriore soglia, il gigantesco muro difensivo costruito da
una antica civiltà dimenticata e manutenuto dagli indigeni, e
può essere visto come l’inizio del movimento verso la caverna
più profonda.

A questo punto la storia si divide in due racconti paralleli:
da una parte abbiamo King Kong, che si addentra nel suo
territorio tenendo in una sua mano l’urlante Ann, dall’altra
gli inseguitori, disposti a tutto pur di salvare la giovane
donna.

Il gruppo di marinai, capitanati dal valoroso Jack Driscoll,
affronta prima uno stegosauro, del quale riesce rapidamente ad
avere ragione, per poi addentrarsi in una palude nebbiosa,
nella quale subisce l’agguato di un brontosauro, che miete
molte vittime. Ma i nostri non mollano, e i superstiti
continuano l’inseguimento.

King Kong percepisce la loro presenza, e dopo avere piazzato
Ann su un vecchio albero morto, torna indietro per
affrontarli, mentre cercano di attraversare un burrone,
camminando su un albero abbattuto che funge da ponte tra le
due sponde dell’orrido.

Lo scimmione ha buon gioco nel fare precipitare la maggior
parte degli inseguitori nel burrone, ma mentre sta per
agguantare Jack, che è riuscito a rifugiarsi in un anfratto,
viene richiamato dalle urla disperate di Ann, che viene
assalita da un Tirannosuro.

King Kong combatte valorosamente contro il super-predatore,
riuscendo alla fine a ucciderlo. Riagguanta Ann e si dirige
verso il suo rifugio, una caverna nella montagna al centro
dell’idola, sempre tallonato dal valoroso Jack, unico
superstire del gruppo di inseguitori, a parte Carl, che è
tornato indietro per chiedere rinforzi.

King Kong raggiunge la sua tana, dove prima salva Ann
dall’attacco di un enorme serpente, poi porta la giovane donna
su uno sperone roccioso, dove comincia a spogliarla e ad
annusarla. Una scena dagli incedibili contenuti erotici, per
gli standard del tempo.

Ma lo scimmione viene distratto dal rumore di un macigno fatto
improvvidamente cadere da Jack nella caverna, e abbandona Ann
al suolo. Un enorme pterodattilo la rapisce, ma quando tutto
sembra essere perduto King Kong afferra l’enorme sauro
volante, salvando la giovane donna da una fine atroce.

Questa sequenza può essere vista come la prova centrale, in
cui Ann, chiusa nell’antro più profondo, sopravvive
consecutivamente a diversi attacchi nei quali rischia la
propria vita. Mentre King Kong fa a pezzi lo pterodattilo,
Jack afferra Ann e insieme si calano con una liana verso la
salvezza. Lo scimmione alla fine li vede e afferra la liana
tirandola verso di sé, ma i due fuggitivi si lanciano nel lago
sottostante.

A questo punto Ann si è riunita col suo amato (premio), e
comincia il rientro nel mondo ordinario, ma come spesso accade
quando l’eroe non riesce a disfarsi dell’ombra nella prova
centrale, King Kong li insegue, inferocito e pronto a seminare
morte e distruzione.

Tutte le soglie vengono percorse in senso inverso: prima i
nostri eroi riattraversano il muro costruito dalla civiltà
antidiluviana, la cui porta viene subito richiusa perché King
Kong li tallona a corta distanza.

Il bestione distrugge la porta senza troppe difficoltà, e
comincia e seminare morte e distruzione, annientando
rapidamente la debole reazione dei nativi. Ma gli invasori
bianchi lo aspettano sulla spiaggia, dove le bombe a gas hanno
rapidamente la meglio.

A questo punto la scena si sposta direttamente a New York,
ritornando quindi nel mondo ordinario, nel quale il povero
King Kong è al centro di uno spettacolo organizzato dal Carl.
Il mostro è in catene, ma viene fatto inferocire dalle luci
dei flash dei fotografi, e scatena la sua furia. Si libera
facilmente e comincia a cercare Ann, seminando morte e
distruzione.

Alla fine riesce ad agguantare l’eroina, e si rifugia
sull’Empire State Building, stringendo Ann nel suo pugno. In
cima al grattacielo, in quella che è una delle scene più
famose del cinema, l’eroine supera la seconda prova mortale,
la resurrezione.

Infatti una squadriglia di aerei viene inviata a mitragliare
King Kong e questi, per proteggere Ann, la depone su un
cornicione, prima di affrontare a mani nude gli aggressori.
Ovviamente ha la peggio, e viene ucciso, precipitando ai piedi
dell’edificio.

Nel frattempo Jack riesce a raggiungere la sua amata, che
abbraccia sul cornicione, preludio amoroso che sarà coronato
il giorno dopo, quando si sposeranno, fatto che sigilla
l’ultima tappa del viaggio dell’eroe: il ritorno con l’elisir.
King Kong del 1933: corrispondenza tra le soglie
che vengono passate nel film e i luoghi geografici
della storia
In questa pellicola c’è una perfetta corrispondenza tra le
soglie passate dall’eroina e i luoghi fisici dove si svolge
l’azione.

Il mondo ordinario è la New York ai tempi della Grande
Depressione, mentre il mondo straordinario è l’Isola del
Teschio, luogo immaginario posto in una zona imprecisata al
largo di Sumatra.

La prima soglia da superare è il normale oceano: il viaggio
comincia quando la Venture salpa, lasciando il tranquillo
porto di New York.

L’isola è protetta, oltre che dalla distanza, prima da un
impenetrabile banco di nebbia, poi da delle insidiose
scogliere, che tuttavia vengono superate agilmente.

L’accoglienza nel mondo straordinario da parte dei nativi non
è delle migliori, ma i veri pericoli si celano dietro la
misteriosa muraglia edificata in tempi antidiluviani da una
civiltà dimenticata. Al di là di questa sorge infatti l’altare
sacrificale, dove giovani donne vengono immolate per
esorcizzare la furia di King Kong, e solo al di là dell’enorme
porta fa la sua comparsa il bestione e tutti i mostri
preistorici che popolano il mondo straordinario dell’Isola del
Teschio.

Un’ulteriore soglia è costituita dall’enorme tronco d’albero
che funge da ponte tra le due rive di un orrendo precipizio,
dove troveano la morte morti marinai della spedizione di
salvataggio.

La caverna più profonda è costituita da un inaccessibile antro
posto sulla cima di una montagna, al centro dell’Isola del
Teschio.

Da notare che a mano che ci si avvicina alla caverna più
profonda, i nostri eroi devono affrontare prove sempre più
impegnative.

E il luogo dove la nostra eroina deve superare l’ultima prova
è una sorta di riedizione in chiave tecnologica della montagna
posta al centro dell’Isola del Teschio: l’Empire State
Building.

Il film King Kong del 1933 non è solo una perfetta
applicazione del viaggio dell’eroe, ma costituisce un esempio
paradigmatico del mito della Bella e della Bestia, del
conflitto tra Natura e Cultura, ed è uno dei primi esempi di
film strutturalmente metacinematografici, visto che in
definita vien messo in scena il tentativo di girare un film.

Non per niente, questa pellicola è uno dei capolavori assoluti
del cinema…

Malignant: recensione del
nuovo film horror di James
Wan

Dopo due aborti spontanei, Madison (Annabelle Wallis) è di
nuovo incinta. Derek, il suo compagno, è un uomo violento con
problemi di etilismo, dal carattere instabile, che la
colpevolizza per avere perso i loro figli.

Durante una lite per futili motivi, lui la malmena
violentemente. Madison, che rimane ferita nella colluttazione,
si chiude in camera, mentre lui si rassegna a dormire sul
divano, nel salotto a piano terra. Ma qualcosa di maligno è
pronto a scatenarsi nella loro villetta.

Lui si sveglia nel cuore della notte. Strani rumori lo portano
a controllare la cucina. Gli elettrodomestici sembrano dotati
di vita propria, come le luci della casa. Improvvisamente, una
figura oscura si scaglia contro di lui, uccidendolo.

Madison, richiamata dal trambusto, scende a controllare, ma
viene a sua volta aggredita dalla misteriosa figura. Torna a
chiudersi in camera, ma viene inseguita dall’entità, che
sfonda la porta, sbattendola a terra. Lei si sveglia in
ospedale, confortata da sua sorella Sidney (Maddie Hasson).
Madison purtroppo ha perso il suo bambino per la terza volta.

Ben presto le cose peggiorano. Madison comincia a vivere
terribili incubi a occhi aperti, dove è costretta ad assistere
a efferati omicidi, senza potere muovere un dito. Scopre ben
presto che i delitti dei quali è suo malgrado testimone
accadono non solo nella sua mente, ma anche nel mondo reale.

Il detective Shaw (George Young) all’inizio accoglie con
scetticismo la storia raccontata da Madison. Ma quando si
trova faccia a faccia con l’entità assassina, che scopre in un
appartamento subito dopo che ha commesso un omicidio, su
indicazione della stessa Madison, deve cambiare idea.

Ma niente è quello che sembra, e la strada per arrivare
all’incredibile verità è ancora lunga…

Malignant: tutto e di più, ma non un semplice
horror soprannaturale
Specie per lo spettatore che avesse guardato il trailer di
questa pellicola, nella prima parte del film si ha
l’impressione di essere immerso nel classico horror
soprannaturale, nel quale un entità metafisica semina terrore,
morte e distruzione.
In realtà il film prende ben presto un’altra piega, perché
quanto accade nella storia ha ben poco di soprannaturale ed è
legato alla nostra dimensione, sia pure (ovviamente) in
versione arricchita con elementi paranormali. Niente
possessioni demoniache o orrorifiche visite dall’oltretomba,
per capirci. Ma questo non lo si comprende subito.

Uno degli aspetti più accattivanti di Malignant è proprio che
si tratta di un film horror che racchiude in sé molti
sottogeneri, ed è impossibile categorizzarlo in maniera
precisa.

In Malignant c’è di tutto: dramma familiare, action movie,
detective story, body horror, splatter e chi più ne ha più ne
metta, tanto che descriverlo è una operazione complicatissima,
se si vuole scendere nel dettaglio.

Di fatto può essere visto come un contenitore di citazioni
cinematografiche e di sottogeneri, una vera chicca per gli
amanti dell’horror. Perché non stiamo parlando di uno
spezzatino di elementi eterogenei messi insieme alla rinfusa,
ma di un film che gira benissimo, curato nei minimi dettagli e
che sorprende costantemente lo spettatore più smaliziato.

Malignant: James Wan ha regalati ai cultori del
genere una chicca imperdibile
Difficile elencare tutti gli elementi e le citazioni presenti
nel film, molto più facile dire cosa non c’è. Non si trova
traccia di denuncia o critica sociale (presente invece nei
primi film di Romero, tanto per fare un esempio), perché
questo lavoro è un omaggio di James Wan al cinema horror,
concepito per intrattenere e non per veicolare messaggi.

E ci riesce benissimo. La storia è veramente originale e
intrigante, pur essendo alla fin fine un assemblaggio di cose
già viste.

Ma è un assemblaggio fatto con passione e mestiere, che ha
creato un prodotto che colpisce per la sua creatività e
imprevedibilità. James Wan, che ha diretto film ormai cult
come Saw, Insidious, e The Conjuring, con questa sua pellicola
a basso budget dichiara tutto il suo amore per il genere
horror e ha forse realizzato il suo film più creativo e
autoriale.

Una pellicola sorprendente, che risucchia lo spettatore nella
storia, facendogli vivere mille emozioni e lasciandolo alla
fine della visione quasi divertito, più che spaventato o
angosciato.

Assolutamente consigliato, specie per gli amanti del genere.

Candyman: la recensione del
film horror di Nia DaCosta
Anthony McCoy è un artista che vive a Chicago assieme alla sua
ragazza, Brianna Cartwright, che dirige una galleria d’arte
moderna. Il giovane uomo è in conclamata crisi creativa, e di
fatto viene mantenuto dalla compagna, ma gli giunge un aiuto
inaspettato.

Il fratello di Brianna, infatti, una sera si ferma a casa
della coppia assieme al proprio compagno, e racconta quella
che sembra essere una leggenda metropolitana: negli anni
novanta una giovane donna, Helen Lyle, giunge nel quartiere
per compiere delle ricerche sull’esistenza di Candyman, mitico
uomo nero della zona, presunto autore di innumerevoli delitti.

Helen tuttavia perde il senno, rapisce un bambino che cerca di
uccidere gettandolo nel fuoco, ma il piccolo viene salvato in
extremis, mentre lei si getta tra le fiamme, muorendo in modo
atroce.
Anthony rimane turbato dal racconto, e comincia a fare delle
ricerche, indagando in ciò che rimane del vecchio quartiere di
Cabrini-Green, dove incontra William Burke, il proprietario di
una lavanderia che gli racconta ulteriori dettagli della
storia raccapricciante.

In particolare, secondo William, chiunque nomini per cinque
volte consecutive il nome “Candyman” di fatto evoca il suo
spirito, venendo da questi massacrato sul posto senza pietà.
Anthony e Brianna hanno poi la pessima idea di provare il
rituale, ma sul momento sembra non acacdere niente.

Il protagonista rimane comunque affascinato dal racconto, e
concepisce un’opera da esso ispirata, che viene esposta nella
galleria d’arte della compagna, dove tuttavia riceve critiche
per nulla lusinghiere.

Gli eventi cominciano subito a precipitare. I primi a morire
macellati sono un collega di Brianna e una sua fiamma del
momento, che evocano per gioco Candyman davanti all’opera di
Anthony. Nel frattempo il protagonista comincia a subire una
mutazione fisica, che comincia da una mano, punta da un’ape
mentre si aggira tra gli edifici fatiscenti di Cabrini-Green.

Candyman: un horror nel quale trionfa il mito del
doppio
In questo film si scontrano frontalmente forze contrapposte e
inconciliabili. Il primo contrasto che emerge con forza è
quello urbano. Da un lato ci sono i vetusti edifici fatiscenti
e polverosi della vecchia Cabrini-Green, pieni di graffiti,
murales e orrori dimenticati.

Dall’altra i moderni e luccicanti grattacieli costruiti
sull’antico quartiere, che un rapido processo di
gentrificazione avrebbe dovuto riscattare, lanciandolo verso
un radioso futuro di prosperità e benessere. Aprendo quindi un
secondo contrasto: tra la povertà materiale del passato e la
ricchezza del presente.
C’è poi lo scontro frontale tra il mondo dei bianchi e quello
dei neri, all’inizio del film sottotraccia, ma che cresce
inesorabilmente durante il racconto, diventandone alla fine la
chiave di lettura principale.

Lo stesso protagonista comincia poi a sdoppiarsi, perché la
sua identità comincia a essere lentamente ma inesorabilmente
contaminata da quella di Candyman, cambiamento che verso la
fine del film traspare chiaramente anche a livello fisico,
dato che metà del suo corpo comincia a marcire.

Il fatto poi che Candyman possa essere evocato solo davanti a
uno specchio è emblematico della sua natura e gli stessi
titoli di testa sono “specchiati”…

Candyman: un film semplice e lineare che si lascia
guardare volentieri
Il tema centrale della pellicola è il rapporto conflittuale
tra bianchi e gente di colore. I protagonisti sono di colore,
i vecchi (e poveri) abitanti di Cabrini-Green sono di colore,
ma i moderni galleristi (quelli di successo) sono bianchi,
così come le forze dell’ordine, dominate dal suprematismo
bianco.

Anthony è in crisi di ispirazione, la sua compagna fatica a
trovare una posizione di successo e di fatto è subalterna al
suo socio bianco, ma è la comparsa di Candyman e rimescolare
le carte. Di fatto questo personaggio mitico (e di colore)
fornisce una nuova spinta creativa ad Anthony, avviandolo
verso il successo, grazie agli efferati omicidi che ben presto
avvengono attorno alle sue opere.

La stessa Brianna, grazie a questi tragici fatti, ha la
possibilità di collaborare con espositori molto famosi. In
altre parole, il successo della gente di colore può avvenire
solo tramite la mattanza dei bianchi, che sono i cattivi di
turno.
Candyman stesso, alla fine, si rivela essere niente altro che
la personificazione di tutte i soprusi subiti dalla comunità
di colore per colpa dei bianchi. In esso vivono molti
personaggi del passato, ingiustamente massacrati dalla
comunità WASP, razzista, sadica e sfruttatrice. E vogliono
vendetta.

Il film è molto curato, anche dal punto di vista visivo. In
particolare, gli ambienti del nuovo quartiere sono ricercati
nei minimi dettagli, ma la loro perfezione formale non
impedisce all’orrore di abbattersi sui suoi abitanti.

La storia scorre accattivante, partendo da un punto di vista
neutro, dove tutto sembra essere perfetto, impeccabile: i
protagonisti sono una giovane coppia di artisti di colore
apparentemente lanciati verso il successo, il fratello di lei
è gay, il suo compagno è un bianco. Tutto perfettamente
politically-correct.

Ma sotto l’apparenza si nasconde l’orrore, che cresce piano
piano lungo tutta la storia, fino a esplodere nel finale. Che
forse è il punto debole del film, perché si cade nei luoghi
comuni più stucchevoli. Bianchi tutti cattivi contro uomini di
colore tutti vittime. E la vendetta, unica dimensione
esistenziale possibile per questi ultimi, trionfa. Vabbè.

Comunque il film nel suo complesso funziona bene. E di fatto è
una apprezzabile continuazione del primo Candyman, del 1992,
di Candy Rose, la cui storia è la base di partenza del film.

In attesa del prossimo sequel…
Come un Gatto in Tangenziale
– Ritorno a Coccia di Morto:
la   recensione    del   film
commedia con Antonio Albanese
e Paola Cortellesi

Giovanni (Antonio Albanese) e Monica (Paola Cortellesi) sono
due persone agli antipodi.

Lui è un intellettuale immerso nell’ambiente della sinistra
radical-chic, impegnato nella realizzazione di un ardito
quanto improbabile centro culturale in una periferia
degradata, che dovrebbe servire ad aggregare ed elevare
culturalmente il popolo, ma che in realtà per alcuni pare
essere una mera opportunità per fare soldi, sotto la copertura
dell’erudizione delle plebi.

Lei fa parte del popolo teoricamente bisognoso di essere
elevato, ma della cultura se ne sbatte, perché – a suo dire –
non dà da mangiare. Del resto ha ben altre gatte da pelare: si
ritrova incarcerata per colpa delle sue due sorelle gemelle,
Pamela e Sue Ellen (le incredibili Alessandra e Valentina
Giudicessa), cleptomani inveterate, che hanno nascosto la loro
refurtiva nella sua pizzeria.

Così chiede aiuto al suo ex amico, Giovanni, il quale diventa
suo tutore legale e ottiene, grazie ai suoi appoggi politici,
la conversione della pena detentiva di lei nella prestazione
di servizi sociali, da effettuarsi nella parrocchia di Don
Davide (Luca Argentero), centro che aiuta i disagiati,
adiacente al   centro   culturale   in   procinto   di   essere
inaugurato.

Entrambi sono poi in contatto con i rispettivi pargoli, che
vivono in terra straniera. Il figlio di Chiara, Alessio
(Simone de Bianchi) lavora come lavapiatti e cameriere in un
pub londinese, mentre la figlia di Giovanni, Agnese (Alice
Maselli), frequenta   l’università,   sempre   nella   capitale
britannica.

Insomma una storia nella quale si confrontano realtà opposte,
che forniscono mille opportunità per creare situazioni
grottesche.

Come un Gatto in Tangenziale – Ritorno a Coccia di
Morto: non solo una commedia
In questa pellicola l’aspetto comico coesiste con la volontà
di mostrare le problematiche sociali delle periferie urbane.
Il problema della carenza di alloggi, la violenza sulle donne,
la mancanza di lavoro, la violenza endemica nei bassifondi,
sono tutti temi che fanno capolino nella narrazione, sia pure
in tono scanzonato     e   forse   alle   volte   un   po’   troppo
stereotipato.

Indubbiamente è presente una critica corrosiva nei confronti
dell’ambiente della sinistra radical chic, bene rappresentato
dall’ex di Giovanni, Luce (Sonia Bergamasco), persona
benestante che vive in una dimensione parallela, avulsa dal
mondo reale della povera gente, ma soprattutto dalla nuova
compagna del protagonista, Camilla (Sarah Felberbaum), il cui
impegno sociale è di facciata, in quanto di fatto è
interessata solo al denaro messo in circolazione dagli sponsor
per realizzare progetti a presunto scopo sociale.

Lo stesso Giovanni porta dentro di sé tutte le contraddizioni
connesse da una progettualità che dovrebbe usare la cultura
per creare occasioni di aggregazione e crescita civica per il
sottoproletariato urbano, ma che usa linguaggi distanti anni
luce dagli abitanti delle periferie.

Non per niente, Giovanni passa interi pomeriggi per cercare la
giusta sfumatura di colore per i muri del centro culturale, o
per trovare il nome corretto per le pietanze preparate per la
cerimonia di inaugurazione, sotto l’occhio vigile e pensoso di
intellettuali (o presunti tali) evidentemente alieni alla
realtà delle borgate di periferia.

Tuttavia queste attività muovono un sacco di soldi, e molti di
questi finiscono nelle tasche delle maestranze e degli
artisti, per cui in realtà la cultura dà da mangiare, come
Giovanni ricorda a Monica durante una delle loro accese
discussioni.

Con visioni del mondo a distanza siderale l’uno dall’altra, i
due protagonisti sono tuttavia fortemente attratti l’uno
dall’altra, e la passione alla fine travolge ogni resistenza
intellettuale, trovando sfogo nell’inevitabile amplesso nel
dormitorio delle suore nella parrocchia di Don Davide.
Come un Gatto in Tangenziale – Ritorno a Coccia di
Morto: una commedia divertente, ottima per passare
un paio d’ore spensierate
Il film si fa vedere volentieri, e non si può non apprezzare
anche diverse citazioni cinematografiche veramente carine,
vere chicche per i cinefili capaci di vederle. Graditi omaggi
a Shining, Vacanze Romane e Il Settimo Sigillo.

Questo secondo capitolo di Come un Gatto in Tangenziale è più
impegnato del primo, sia pure sempre in modo leggero e
scanzonato, e forse per questo è ancora più apprezzabile,
riuscendo nell’impresa di realizzare un sequel all’altezza,
operazione per niente facile né scontata.

In definitiva il film ha un messaggio positivo: si può
convivere anche avendo visioni del mondo differenti, senza
bisogno di rinunciare alla propria identità o di dovere
cambiare per piacere all’altro.

La cultura può essere sia una mangiatoia per opportunisti, che
un’opportunità per riflettere, stare insieme e aiutarsi l’un
l’altro. E ognuno può scegliere da che parte stare.

Apprezzabile anche l’ampia gamma di improbabili personaggi
messi in scena, che riempiono di simpatia la pellicola.
Inevitabile qualche caduta di troppo negli stereotipi più
comuni, ma forse è impossibile riuscire a evitarlo, in una
commedia di questo tipo.

Speriamo che il probabile terzo capitolo della saga sia
all’altezza del secondo…
Josep:   il  grande  cinema
d’animazione d’autore torna
al Visionario dal 30 agosto
al 1°settembre!

Josep è una celebrazione del potere espressivo del disegno e
di una vita straordinaria, quella dell’illustratore catalano
Josep Bartolí (Barcellona 1910 – New York 1995).

A firmarlo Aurel, pseudonimo di Aurélien Froment, vignettista
francese che tra gli altri ha lavorato per Le Monde.

Miglior film d’animazione ai Cesàr 2021 e agli European Film
Awards, JOSEP sarà in programma al Visionario dal 30 agosto al
1° settembre alle ore 19.15. La prevendita dei biglietti è
attiva online e presso la cassa del cinema.

Il film di animazione è ambientato nel Febbraio del 1939. I
repubblicani spagnoli si dirigono in Francia per fuggire dalla
dittatura di Franco. Il governo francese confina i rifugiati
in campi di concentramento, dove si riesce a malapena a
soddisfare il bisogno di igiene, acqua e cibo. È in uno di
questi campi che due uomini, separati dal filo spinato,
diventeranno amici. Uno è una guardia, e l’altro è Josep
Bartolí, un illustratore che combatte il regime franchista.

Un’affascinante lezione di storia, un film sulla memoria e sul
potere fondativo degli incontri capaci di alterare il corso di
una vita.

Per la programmazione completa e sempre aggiornata consultare
il        sito        www.visionario.movie            oppure
facebook.com/VisionarioUdine. Ricordiamo che per accedere al
Visionario, al cinema all’aperto presso il giardino Loris
Fortuna e alla Mediateca Mario Quargnolo è necessario mostrare
il Green Pass, la certificazione verde Covid-19. Per la
visione dei film rimane obbligatoria la mascherina (chirurgica
o ffp2).

Becket: recensione del film
Netflix di Ferdinando Cito
Filomarino con John David
Washington

Becket (John David Washington) è un cittadino statunitense in
viaggio in Grecia con la compagna, April (Alicia Vikander). I
due decidono di lasciare Atene, scossa da violenti tumulti
popolari, per addentrarsi all’interno del paese.

Durante un viaggio notturno in macchina, Becket, causa un
improvviso colpo di sonno, perde il controllo del veicolo, che
si ribalta fuori strada e si schianta contro un’abitazione,
sfondandone un muro.

Pesto e sanguinante, riesce a trascinarsi fuori
dall’abitacolo, per scoprire che April è stata violentemente
sbalzata fuori dall’auto, rimanendo uccisa. Prima di perdere i
sensi, si accorge della presenza di una donna con un bambino,
che tuttavia, inspiegabilmente, scappano.

Ritorna successivamente a piedi sul luogo dell’incidente, ma
viene aggredito da una donna che gli spara, centrandolo a un
braccio.

Con suo grande sgomento, scopre ben presto che chi lo vuole
fare fuori è in combutta con la polizia. Comincia la sua fuga
nell’affascinante ma aspra campagna greca, ferito, tallonato
dai suoi inseguitori, che non guardano in faccia a nessuno pur
di fargli la pelle…

Becket: un uomo solo contro tutti
Questa pellicola è la quintessenza della situazione “l’uomo
sbagliato nel posto sbagliato al momento sbagliato”. Causa una
serie di fattori del tutto imprevedibili ed esterni alla sua
volontà, Beckett si trova a essere testimone di qualcosa che
non doveva vedere, e della quale all’inizio non si rende
neanche conto.

Solo, ossessionato dal senso di colpa per avere causato la
morte della sua compagna, si trova a cercare di sopravvivere
in un ambiente dove non sa di chi fidarsi, dove chiunque può
essere un suo nemico.

Non conosce la lingua dei nativi, non conosce le strade, non
ha idea di quello che sta succedendo. Ben presto la sua fuga
disperata lo porta nei centri urbani. Il passaggio dalla
campagna alla città non cambia molto nella sua situazione:
entrambi gli ambienti sono ostili e incomprensibili.

Lentamente, comunque, emergono elementi che gli permettono di
farsi un’idea di quello che sta succedendo. Il fatto di capire
di trovarsi all’interno di un complicato intrigo
internazionale non gli è tuttavia di molto aiuto, anzi.

Mentre la storia si dipana, Beckett deve lottare per
sopravvivere, combatte a mani nude contro sicari e forze
dell’ordine, viene più volte ferito, trovandosi sempre più
immerso in una situazione sempre più complicata e pericolosa.
Beckett: una storia coinvolgente che però fatica a
mettersi in moto
Il film comincia con un ritmo forse anche troppo lento,
mostrandoci la classica situazione in cui una coppia
attraversa dei temporanei momenti di difficoltà, mentre i
difficili eventi vissuti da una Grecia attanagliata dalla
crisi economica scorrono sullo sfondo.

I dialoghi minimalistici e il modo di fare un po’ impacciato
del protagonista non aiutano di certo, per cui all’inizio chi
si aspetta il classico action movie può rimanere disorientato,
anche perché accade poco o niente. Banali scaramucce e
riappacificazioni tra una coppia di cui poco o nulla ci è dato
di sapere, a parte i nomi dei protagonisti.

Le cose cominciano a cambiare dopo l’incidente in macchina, ma
il film nel suo complesso fatica a mettersi in moto. Certo,
quando cominciano a volare i proiettili e il mondo sembra
crollare addosso a Beckett è difficile non immedesimarsi nel
protagonista.

In questo film si parla poco, cosa può essere un punto di
forza, a patto che non si voglia comprendere razionalmente
tutti i dettagli di quanto sta accadendo. Perché le
informazioni vengono fornite con il contagocce, e solo alla
fine lo spettatore si può fare un quadro abbastanza chiaro di
quello che sta succedendo. Cosa che non tutti gradiscono. I
gusti son gusti, del resto.

Fatte queste premesse, bisogna dire che una volta che la
storia comincia agirare a pieno regime, è veramente difficile
non farsi trascinare le racconto.

Beckett: un John David Washington molto più
credibile di quello che abbiamo visto in Tenet
Tutto il film ruota attorno a Beckett, interpretato da un John
David Washington molto più convincente di quello che vestiva i
panni del protagonista senza nome di Tenet.

Certo, mentre Beckett è un film con una        storia lineare e
legata al nostro presente, Tenet è            un guazzabuglio
fantascientifico spazio-temporale senza       forma, nel quale
perdersi è facilissimo. Una differenza non    da poco.

I protagonisti delle due pellicole hanno dei tratti simili,
probabilmente dovuti alle peculiarità attoriali di Washington,
ma in Beckett il protagonista è molto più credibile e
appropriato all’assurda situazione che si trova a dover
affrontare.

Questo film ha anche dei tratti politici, che ripropongono lo
scontro frontale tra destra e sinistra nello stanco Occidente
di inizio millennio, con sullo sfondo il disastro sociale
provocato dall’austerità imposta dalle istituzioni europee,
che in Grecia ha fatto danni considerevoli.

E in questo dramma la classica contrapposizione tra città
evoluta e campagna arretrata, presente più o meno in
moltissime storie, perde forza fino a svanire. Ovunque scappi,
Beckett viene inseguito dai suoi persecutori. Ma è nella città
che viene trovato il bandolo della matassa.

Insomma questa pellicola è un interessante mix di elementi
coinvolgenti, e, a patto di perseverare nella visione, perché
la prima parte non è di certo entusiasmante, può regalare
forti emozioni allo spettatore.

Anche perché, diciamolo pure, è difficile non immedesimarsi
nel protagonista di questo tipo di storie, dove un un uomo si
trova a lottare da solo contro tutti.

Magie del cinema…
Pozzis,           Samarcanda:
recensione    del   film   di
Stefano Giacomuzzi con Alfeo
Carnelutti (Cocco)

Pozzis, Samarcanda è un film non categorizzabile in maniera precisa,
situandosi in una zona indefinita compresa tra il road movie, il film
autobiografico e il documentario di viaggio.

I due protagonisti sono Cocco e Stefano. Due personalità e due
esperienze di vita agli antipodi. Cocco è un biker settantenne, con un
passato da emigrante e corridore motociclistico. Negli anni ottanta
subisce un grave incidente di gara che lo costringe in ospedale per un
lungo periodo, e sviluppa il morbo di Chron. Si trasferisce a Pozzis,
un paesino disabitato sulle montagne friulane, in provincia di Udine.

Comincia ad organizzare i Cocco Meeting, motoraduno che ben presto
diventa popolarissimo e contribuisce a regalare una seconda vita allo
sperduto agglomerato di case.

Nel 1999 viene accusato di un omicidio, del quale si dichiara subito
colpevole. Una vicenda dai contorni molto controversi, tanto che Cocco
riceve una condanna mite, dieci anni di reclusione, dei quali ne
sconta otto. Nel 2018 parte per Samarcanda. Unici compagni di viaggio:
la sua amata motocicletta (il cui motore è più vecchio di lui di
cinque anni), Stefano e una striminzita troupe cinematografica. Il
film parte da qui.

Stefano ha solo ventidue anni ed è fresco di studi cinematografici.
Dal loro incontro è nata l’idea di girare il film, una sorta di
racconto   di   viaggio   nel   quale   non   ha   neanche   importanza   la
destinazione, come ci viene fatto sapere nelle prime battute del film,
girate durante un Cocco Meeting a Pozzis, nel quale si vendono
magliette per finanziare la spedizione.

Pozzis, Samarcanda: un racconto dove convivono realtà apparentemente
inconciliabili

In effetti tra Stefano e Cocco c’è una differenza abissale di età,
esperienze vissute e visione del mondo. La principale motivazione di
Stefano nell’imbarcarsi nell’avventura è di girare un film, mentre per
Cocco si tratta di vincere una sfida con sé stesso, per vedere cosa è
in grado di fare alla sua età e con tutti i suoi problemi
(considerando anche che la sua moto è più vecchia di lui).

Anche tra Pozzis e Samarcanda la differenza è immane: il luogo di
partenza è un paesino disabitato disperso nelle montagne friulane,
Samarcanda è un luogo mitico e famosissimo, lontano oltre seimila
chilometri.

Un viaggio difficile, quindi, sotto molteplici punti di vista: una
coppia eterogenea che affronta un viaggio lunghissimo, in terre
lontane, sia in termini di distanza fisica che di differenza
culturale, su strade spesso al limite dell’inutilizzabilità, con una
motocicletta più vecchia del suo pilota settantenne, per altro in
condizioni fisiche non certo eccelse.

Ma nonostante tutto e nonostante tutti, l’incredibile impresa riesce.
Il film racconta tutte le tappe principali di questo viaggio, ma lo fa
in maniera minimalistica, e questo lo rende ancora più credibile e
coinvolgente.

Perché sia Cocco (Alfeo Carnelutti) che Stefano interpretano sé
stessi, senza maschere e senza filtri. E forse non potrebbe essere
diversamente, visto che non stiamo parlando di attori professionisti.

Niente dialoghi ricercati o fini citazioni, niente effetti speciali.
Solo fatti accaduti, ripresi in tempo reale, probabilmente senza il
tempo di costruire scene complesse. Probabilmente improvvisando,
adattandosi agli imprevisti e alle situazioni contingenti.

Pozzis, Samarcanda: il racconto di un’avventura e di una improbabile
amicizia capace di superare ogni difficoltà

Il viaggio tra Pozzis e Samarcanda mette a dura prova il rapporto tra
Stefano e Cocco. Ma alla fine il loro legame ne esce accresciuto e
cementato, perché entrambi, ognuno a modo loro, si rendono conto di
avere bisogno uno dell’altro.

Quella che all’inizio è una convivenza forzata, diventa un’occasione
di arricchimento reciproco, e permette ai due di portare a termine
l’impresa, superando anche il malore che costringe Cocco a letto per
diversi giorni.

Forse è proprio Cocco il vero protagonista del film. Una persona
semplice, dall’esperienza di vita ricchissima, dalla forza interiore
incredibile, che gli ha permesso di superare ostacoli impensabili.

Con tante piccole storie da raccontare, tratte dalle sue personali
esperienze, che descrive con il suo linguaggio semplice, ma efficace.

In particolare, durante tutta la pellicola, Stefano cerca di strappare
a Cocco la verità sui fatti oscuri che lo hanno portato a passare
tanti anni della sua vita in carcere. All’inizio il biker non vuole
parlarne, ma lentamente la sua resistenza si sgretola, e alla fine si
lascia sfuggire più di qualcosa, per la gioia degli spettatori. E di
Stefano.

Ma anche quest’ultimo si accorge che, volente o nolente, deve
rinunciare a qualcosa. L’ossatura del film non può derivare dal
viaggio fisico in sé: non c’è tempo per godersi gli incredibili
paesaggi, esplorare città tanto lontane e differenti dalle nostre,
indugiare sugli innumerevoli incontri con culture diverse.

Bisogna andare avanti, a testa bassa, nonostante la stanchezza, gli
imprevisti, le difficoltà.

Pozzis, Samarcanda: un film che fa della semplicità e immediatezza il
suo punto di forza

Insomma stiamo parlando di una pellicola molto semplice, quasi
improvvisata, donchisciottesca, realizzata con mezzi esigui. Ma fatta
con passione, capace di dare molto allo spettatore che si lasci
trasportare nel racconto. Che mette in scena la forza dell’amicizia e
della volontà, capaci di trasformare un sogno in realtà.

Un film nel quale il viaggio dalla sperduta Pozzis alla mitica
Samarcanda è – alla fine – solo un pretesto. Anche perché, come ci
viene fatto sapere, “a Samarcanda non c’è niente”.

Ma non importa. Perché ci sono le vite dei protagonisti alla base del
racconto. In particolare quella di Cocco, che nel film fa anche un
viaggio nella sua memoria, raccontandoci frammenti delta sua vita, di
certo non ordinaria.

Ed è proprio Cocco che nel film, grazie alla sua gestualità spontanea,
riesce a superare ogni barriera culturale e linguistica, nonostante di
certo non eccella in dialettica.

Il film indugia spesso sui paesaggi spesso esotici attraversati
(Bulgaria, Turchia, Georgia, Russia, Kazakistan, Uzbekistan, per
citarne qualcuno), ma questo non è l’aspetto prevalente.
Quella che emerge è la componente umana, nel senso più profondo del
termine, senza i filtri di complesse narrazioni o spesso inutili
effetti speciali.

Un film che mette in scena anche l’impresa incredibile portata a
termine da tre persone, con una motocicletta e un furgone d’appoggio.
Stefano Giacomuzzi (che è anche regista) e Alfeo Carnelutti (Cocco)
mettono in scena sé stessi, con l’aiuto di Matteo Sacher (addetto alle
riprese).

Il film è stato inizialmente autofinanziato, ottenendo poi il sostegno
della Friuli Venezia Giulia Film Commission, del Fondo Audiovisivo FVG
e dell’Agenzia Regionale per la Lingua Friulana (il film è in lingua
friulana, sottotitolato in italiano).

Pozzis-Samarcanda ha vinto il premio come migliore film all’Edera Film
Festival di Treviso.

Complimenti ragazzi!

La Casa in Fondo al Lago: la
recensione del film horror
subacqueo di Julien Maury e
Alexandre Bastillo
Ben (James Jagger) e Tina (Camille Rowe) gestiscono un canale YouTube
specializzato nell’esplorazione di edifici abbandonati, alla ricerca
di fenomeni paranormali. Dopo avere fatto delle riprese in un vecchio
orfanotrofio in Ucraina, i due giovani si spostano sulle sponde di un
lago nella Francia.

La località, lungi dall’essere un luogo sperduto e misterioso, si
rivela invece essere una località turistica affollatissima. Quando la
possibilità di girare un video interessante sembra essere ormai
sfumata, incontrano casualmente un abitante del posto, che li porta in
una remota estremità del lago, sotto la cui superficie si trova una
casa, a circa quaranta metri di profondità.

I due si immergono assieme a un drone telecomandato, seguendo una
scalinata che li conduce davanti al vecchio edificio. Dopo avere
superato il cancello d’ingresso, ancora in piedi, i ragazzi si
accorgono che all’interno del perimetro della recinzione della casa
non ci sono pesci, presenti invece in gran numero al suo esterno.
Cosa ancora più strana, la porte e le finestre sono chiuse con imposte
metalliche, ma dopo attenta ricerca riescono a trovare un varco per
passare. Superato l’entusiasmo iniziale, i due si rendono conto che
inspiegabilmente     tutti   gli   oggetti   sono   ancora      perfettamente
conservati, nonostante siano stati immersi nelle acque del lago per
decenni.

Ma il vero orrore li attende nello scantinato del vecchio edificio…

La Casa in Fondo al Lago: l’idea originale che
rende apprezzabile la pellicola è anche un suo
limite
Il film si presenta nelle prime inquadrature come il classico found
footage, con i due protagonisti intenti a riprendersi vicendevolmente
con le loro GoPro, nel vetusto edificio perso nella campagna ucraina.
L’arrivo in terra francese cambia il punto di vista della telecamera,
che diventa anche esterno ai due protagonisti, cosa che può lasciare
inizialmente perplessi.

Di fatto, dopo l’immersione nelle acque del lago, ovverosia per due
terzi abbondanti del film, la storia narrata è sovrapponibile al tempo
reale vissuto dallo spettatore, visto anche che viene dichiarato che i
due ragazzi hanno solo un’ora d’aria nelle bombole, e assistiamo al
cont down verso il loro esaurimento.

L’idea di realizzare un film in cui il tempo narrato e quello vissuto
dallo spettatore sono coincidenti è già stata utilizzata, basti
pensare al recente Oxigène, di Alexandre Aja, del 2021, mentre quella
di ambientare un film horror in cui la casa stregata è sott’acqua è
originale (nella serie TV Curon il mondo subacqueo non viene mai
esplorato),     e   rende   la   lunga   sequenza   in    immersione   molto
interessante, almeno all’inizio.

Lasciando stare l’ambiguità del punto di vista della telecamera, le
scene   di   esplorazione    iniziale    della   casa    sono   indubbiamente
coinvolgenti e inquietanti. Lo spettatore sa che deve succedere
qualcosa – in definitiva è andato a vedere un film dell’orrore – e le
riprese subacquee sono ricche di punti oscuri, giochi di ombre e
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